Così il governo Meloni risolve le presunte emergenze: più carcere per tutti di Andrea Oleandri* L’Unità, 21 settembre 2023 II filo conduttore dei due provvedimenti, devianza giovanile e immigrazione, è lo stesso: limitazione della libertà personale e di movimento. Un campo troppo delicato per intervenire con la decretazione d’urgenza. A distanza di dieci giorni il governo interviene con due decreti legge per rispondere a due “emergenze” (le virgolette sono d’obbligo): la prima, quella della devianza giovanile; la seconda, quella dell’immigrazione. Due atti governativi differenti tra loro ma con un filo conduttore comune: la limitazione della libertà personale e di movimento. A lasciare dubbi non è solo il contenuto di questi due decreti, quanto lo strumento in sé. L’uso e l’abuso dello strumento della decretazione d’urgenza, di fatto, concentra nelle mani del governo anche buona parte del potere legislativo, esautorando un Parlamento che sempre più si sta trasformando in organo ratificante. Come spiega Openpolis, il governo Meloni sta spingendo questa tendenza generale ancor più in avanti e, fino a oggi, riporta il valore più alto di leggi di conversione sul totale di quelle approvate, ben il 78,3%. Nel caso delle recenti norme sull’immigrazione, poi, le stesse sono state inserite in un decreto Sud, lasciando anche dubbi di costituzionalità, per la possibile mancata interconnessione dei temi, così come avvenne per la legge Fini-Giovanardi sulle droghe, inserita in un decreto per le Olimpiadi invernali di Torino e per questo dichiarata incostituzionale dalla Consulta alcuni anni dopo. Il tema dell’utilizzo ingente dei decreti legge è tutt’altro che secondario. L’approvazione di norme ordinarie offre, infatti, la possibilità di discuterne anche a lungo laddove necessario, di analizzare tutti gli aspetti del tema su cui si vuole intervenire e le possibili modalità di intervento. I decreti, con i loro limiti di 60 giorni per la conversione in legge, non lasciano spazio a grandi discussioni. Che invece servirebbero quando si interviene in campi delicati, come quelli che riguardano la privazione delle libertà personali. Anche perché, a ben vedere, queste emergenze non sembrano sussistere. Se guardiamo ai minori, scopriamo che quelli fermati o arrestati nel 2022, anche in assenza di dati ufficiali definitivi, sono in linea con quelli fermati o arrestati nel 2016 (circa 34.000 persone). Dunque non si intravede un’emergenza criminalità e non si intravedono numeri molto problematici rispetto al passato. Nonostante questo, la strada scelta dal governo è stata quella di un’ampia risposta penale e in alcuni casi limitativa della libertà personale e di movimento. Una strada che, peraltro, non sembra tenere in considerazione l’inefficacia degli approcci penalistici come strumenti di prevenzione dei reati. Guardando ai migranti, invece, i numeri fino a oggi ci parlano di circa 160.000 persone arrivate in Italia da inizio anno. Sicuramente un dato più elevato di quello fatto registrare negli ultimi anni, ma in linea con quanto accadde nel 2015, quando ad arrivare via mare furono oltre 150.000 persone e ancor di più nel 2016, quando ne arrivarono 181mila. La risposta del governo, finora, è stata anche in questo caso una risposta penale e securitaria. Dapprima con il decreto legge Piantedosi, approvato all’indomani del drammatico naufragio di Cutro. Lunedì con un nuovo decreto che punta a utilizzare la detenzione amministrativa delle persone migranti come strumento di governo del complesso fenomeno migratorio, aumentando il numero dei Centri di Permanenza per il Rimpatrio (Cpr) e il tempo di trattenimento, con l’obiettivo di aumentare anche il numero dei rimpatri. Poco importa che la detenzione senza reato lasci profondi dubbi di carattere legale. Poco importa che si tratti di un sistema costoso, dove i privati che gestiscono i centri si sono buttati a capofitto scorgendo possibilità di grandi profitti. Poco importano le costanti denunce di violazioni di alcuni dei più basilari diritti riscontrati nel tempo. Poco importa, anche e soprattutto, che il tempo di trattenimento fino a 18 mesi sia stato in vigore fino al novembre del 2014 e il numero dei rimpatri fosse, anche allora, attorno al 50% del totale di chi per questi centri transita. La stessa percentuale registrata con tempi di permanenza a 90 giorni prima e 180 giorni poi. Perché, e ce lo raccontano i 25 anni di storia di questi luoghi, le persone o si riescono a rimpatriare subito o non è il tempo a rappresentare un alleato verso questo obiettivo. Questi appena riportati sono solo alcuni elementi che andrebbero presi in considerazione e discussi, ma che non ci sarà tempo di approfondire in nome di un utilizzo ideologico di uno strumento legislativo, il decreto legge, che guarda molto più alla propaganda del momento che alla più complessa gestione dei fenomeni. *Associazione Antigone Abuso d’ufficio, il pasticcio di Nordio e il durissimo uno due di Coppi e Lattanzi di Donatella Stasio La Stampa, 21 settembre 2023 Onu e Ue ci impongono di punire l’arricchimento illecito e il danno causato da un pubblico ufficiale. La riforma Cartabia sgonfia la presunta necessità del “colpo di spugna” a tutela dei colletti bianchi. Pesanti come pietre, ecco che (altre) due voci di autorevoli giuristi piovono sulla proposta Nordio di cancellare il delitto di abuso d’ufficio. Franco Coppi, avvocato di fama e di grande esperienza, e Giorgio Lattanzi, presidente di Cassazione, poi della Consulta e ora della Scuola della magistratura, disintegrano quello che per il Guardasigilli è un punto fermo della riforma della giustizia, necessario a liberare i sindaci dalla “paura della firma” e quindi a restituire slancio alle opere pubbliche. Riforma prioritaria, insiste Nordio. Ma quando mai, ribatte Coppi, fosse per me, l’avrei messa in fondo alle riforme; altri sono i problemi della giustizia che, come un rosario, l’avvocato comincia a sgranare e che non saranno risolti, aggiunge dando un ulteriore dispiacere al ministro, neanche dalla separazione delle carriere. Nelle stesse ore, al Senato, Lattanzi viene ascoltato dalla commissione Giustizia e trasecola di fronte all’argomento forte - si fa per dire - usato dal governo per giustificare il colpo di spugna sull’abuso d’ufficio. Ma come, osserva il presidente: nella relazione al Ddl si parla solo dello squilibrio tra le poche condanne definitive, 18 nel 2021, e le tante, 4.745, iscrizioni nel registro degli indagati avvenute nello stesso anno, e non si dice una parola sulla gravità del reato, sul suo effetto deterrente. Eppure parliamo di condotte che consistono in un arricchimento illecito o in un danno provocato ad altri da un pubblico ufficiale. Condotte che sia l’Europa che l’Onu ci impongono di punire nell’ambito della lotta alla corruzione, e gli obblighi internazionali si rispettano, è un dovere costituzionale, dovrebbero saperlo governi e parlamenti nazionali. L’uno-due di Coppi e di Lattanzi (raccontato ieri solo su due quotidiani, La Stampa e Il Dubbio) è micidiale per il governo. Si tratta di due voci molto autorevoli, che peraltro si aggiungono a molte altre e che spingono ancora di più nell’angolo una maggioranza obiettivamente in difficoltà, anche alla luce dei dati ministeriali più recenti, sia pure parziali. Per la verità, la cancellazione dell’abuso d’ufficio imporrebbe, prima di diventare legge, un monitoraggio quotidiano della situazione, tanto più che negli ultimi tre anni sono intervenute due riforme cruciali: quella del 2020, che ha scarnificato il reato, e quella Cartabia, che ha introdotto importanti novità sui criteri di iscrizione delle notizie di reato. Insomma, il detto einaudiano “conoscere per deliberare” dovrebbe essere, per il governo, un imperativo categorico di fronte al Parlamento. Ma tant’è: interpellato, il ministero dice di disporre solo di numeri parziali e ancora limitati al 2022. Forse la prossima settimana, chissà, arriverà qualcos’altro. Intanto, però, anche i dati del 2022 sulle iscrizioni confermano il trend in diminuzione degli ultimi anni: se nel 2021 i procedimenti aperti sono stati 4.745, nel 2022 sono scesi a 3.938; se l’azione penale è iniziata in 452 casi nel 2021, nel 2022 i casi sono diventati 360. Se poi dal ministero ci spostiamo in Cassazione, vediamo che quella progressiva riduzione dei procedimenti aperti e di quelli andati al dibattimento ha un riscontro anche nel numero di sentenze riguardanti l’abuso, talora contestato insieme ad altri reati. Dalle 313 sentenze del 2017 siamo scesi alle 179 del 2022 (erano 191 nel 2021), e fino a ieri si contavano 103 pronunce. Insomma, i primi dati degli ultimi due anni sdrammatizzano paure e allarmismi rispetto a un reato che continua ad avere, eccome, una funzione nella “palude infetta” - così la chiama un altro grande giurista, Tullio Padovani - del disordine del nostro sistema amministrativo, dove i controlli interni purtroppo fanno acqua da tutte le parti (e questo governo non se ne preoccupa, anzi). Ma c’è anche un altro dato, stavolta non numerico, che dovrebbe indurre a maggiore cautela prima di passare il colpo di spugna sull’abuso d’ufficio. L’11 settembre, il Procuratore della Repubblica di Perugia Raffaele Cantone ha emanato una direttiva che, alla luce della riforma Cartabia diventata operativa solo dicembre 2022, mette fine agli automatismi (residui) nelle iscrizioni delle notizie di reato non corroborate da significativi elementi di fatto. Non basterà più una qualunque denuncia, un esposto, presentati spesso anche per ragioni politiche contro questo o quell’amministratore, per aprire a suo carico un procedimento, ma sarà necessaria “la rappresentazione di un fatto caratterizzato da determinatezza e non inverosimiglianza, riconducibile a una fattispecie incriminatrice”. Dunque non bastano più illazioni o ipotesi, ma servono fatti specifici, descritti in modo da capire bene quale sia la condotta incriminata e che non appaiano improbabili. Occorrono poi indizi a carico della persona denunciata e non semplici sospetti. Lo stesso Cantone scrive che la riforma Cartabia ha una “portata selettiva” rispetto alle situazioni borderline, ovvero ai casi di esposti/denunce/comunicazioni di notizie di reato in cui sono indicati fatti effettivamente verificatisi ma le conclusioni si fondano su mere ipotesi. Cantone fa l’esempio della denuncia di un comportamento illegittimo di un funzionario pubblico, che viene qualificato, senza fornire alcun elemento di supporto, come finalizzato a danneggiare o favorire qualcuno. In casi come questi, in passato, le Procure andavano ciascuna per conto proprio, alcune iscrivevano, altre no. La riforma Cartabia, dice Cantone, ha offerto “una più sicura base giuridica” e conferma che per iscrivere una persona nel registro degli indagati occorrono specifici fatti indizianti e non semplici sospetti. Quella del Procuratore di Perugia non è un’iniziativa isolata. A monte c’è un’ampia circolare della Procura generale della Cassazione, emanata a gennaio, sull’attuazione della riforma Cartabia, e rivolta a tutti gli uffici del Pm. In sostanza, il combinato disposto della riforma del 2020 che ha ridotto all’osso l’abuso d’ufficio e della riforma Cartabia sui criteri più stringenti per l’iscrizione delle notizie di reato sgonfia la presunta urgenza e necessità del colpo di spugna che il governo vuole passare su questo delitto, tutelando così solo i colletti bianchi e non i diritti delle persone più deboli. Per di più, violando gli obblighi internazionali e le direttive che l’Europa - la stessa alla quale la premier Meloni si è appena rivolta per chiedere il rispetto degli impegni presi sui migranti - ci chiede di rispettare nella lotta alla corruzione e che sono un vincolo di rilievo costituzionale sul quale non si può passare un colpo di spugna. Limiti all’uso dei trojan, sì a Forza Italia in Senato. L’ira di Pd e M5S di Simona Musco Il Dubbio, 21 settembre 2023 Zanettin “impone” una riflessione sui virus-spia nel testo di Palazzo Madama sugli ascolti e dà un assist ai forzisti della Camera, decisi ad andare allo scontro. Sono ancora le intercettazioni a far fibrillare il Parlamento. In Senato, dove le opposizioni si sono lanciate contro il forzista Pierantonio Zanettin, intenzionato a cancellare il trojan dai reati contro la Pa, e alla Camera, dove invece lo scontro che si consuma è tutto interno alla maggioranza, con Forza Italia pronta a difendere i propri emendamenti per rendere più garantista il decreto 105, che allarga anche ai reati senza vincolo associativo gli strumenti antimafia. Il decreto in questione sarebbe dovuto arrivare in Aula a Montecitorio il 22 settembre, ma tutto è slittato a martedì 26, su richiesta dei presidenti delle commissioni Affari costituzionali e Giustizia, che stanno esaminando il testo. Il tutto mentre si attendono i pareri del governo sugli emendamenti, previsti per questa mattina. Dalle due commissioni arrivano smentite sulla possibilità di un voto di fiducia, ma i tempi sono strettissimi, essendo necessario convertire il Dl entro il 9 ottobre, pena la decadenza. E questo potrebbe essere l’asso nella manica di Giorgia Meloni, dato il tentativo andato a vuoto di convincere Forza Italia a ritirare le proprie proposte di modifica. Come rivelato ieri dal Dubbio, infatti, gli azzurri non vogliono cedere di un millimetro, non solo sulla retroattività della norma che riguarda le intercettazioni, ritenuta incostituzionale dagli azzurri, ma anche sulla riduzione del ricorso all’uso dei trojan per i reati di minore gravità, compresi alcuni contro la pubblica amministrazione. Un’idea che non piace a Fratelli d’Italia, che sta tentando di convincere gli alleati a fare un passo indietro, senza riuscirci. Così una mano è arrivata da un altro forzista, Zanettin appunto, che nell’altro ramo del Parlamento ha messo a segno il colpo nell’ambito dell’indagine conoscitiva sulle intercettazioni: la commissione Giustizia ha infatti approvato la relazione finale (di cui il Dubbio ha già dato conto), con l’integrazione voluta dal senatore forzista, in base alla quale si chiede “un supplemento di riflessione su modalità e condizioni di utilizzo del trojan per reati di minore gravità”, consentito dalla legge Spazzacorrotti. Un’aggiunta non gradita da Pd, M5S e Avs, che hanno votato no al documento di Zanettin. A schierarsi con la maggioranza, invece, è stato Ivan Scalfarotto di Italia Viva. “Con un vero e proprio colpo di mano, la maggioranza ha cambiato il testo finale della relazione sull’indagine conoscitiva sulle intercettazioni, introducendo un inedito paragrafo in materia di trojan”, hanno commentato i dem Alfredo Bazoli, Franco Mirabelli, Anna Rossomando e Walter Verini. “È una forzatura, del tutto contraria a quanto sentito nelle audizioni, con la chiara finalità politica di contribuire a indebolire la lotta alla corruzione, infaticabilmente perseguita da questa maggioranza. Le audizioni - hanno aggiunto - avevano chiaramente portato a conclusioni opposte: che non c’è oggi un abuso delle intercettazioni, che non c’è un uso smodato dei trojan, che non c’è una emergenza su pubblicazioni illegittime. Se non avessero prevalso nella maggioranza logiche di scambio politico, avremmo concordato su molte delle indicazioni pervenute invece dagli auditi, e in particolare su ulteriori miglioramenti della disciplina e delle garanzie nell’utilizzo di strumenti di ricerca della prova così delicati, compreso il captatore informatico, situati al crocevia di interessi e diritti di natura costituzionale”. Ma Zanettin non ci sta: nessun colpo di mano all’ultimo minuto, ha replicato a stretto giro, “l’integrazione si è resa necessaria perché la sentenza della Corte di Giustizia in tema di intercettazioni è recentissima, addirittura del 7 settembre scorso, e come osservato dai commentatori più attenti impone al legislatore del nostro paese un “supplemento di riflessione”“. La Corte ha infatti stabilito che solo la lotta contro reati gravi può giustificare ingerenze nei diritti fondamentali, come previsto dagli articoli 7 e 9 della Carta dei diritti dell’Ue. Da qui la necessità di affrontare la questione in relazione ai reati contro la Pa. Insomma, il clima è caldo. E ad esultare è soprattutto Giulia Buongiorno, presidente della commissione Giustizia al Senato, che ha preteso di incardinare la riforma Nordio a “casa sua” e di indirizzare il governo anche sul tema delle intercettazioni, con la relazione approvata ieri. “Siamo soddisfatti - ha commentato -. Dopo un lavoro approfondito, abbiamo indicato i percorsi da seguire. Un importante punto di partenza che ha cercato di sintetizzare le posizioni di tutti i gruppi, compresi quelli di opposizione. È evidente che si trattava di un lavoro difficile, sia dal punto di vista tecnico sia politico, ma crediamo di aver raggiunto un primo traguardo”. Dalle opposizioni, però, arriva la replica furente, in primis da parte del M5S, che parla di giustizia classista. “Ecco allora qual era il vero obiettivo di questa indagine - afferma in una nota Roberto Scarpinato -, la maggioranza ha svelato le carte: continua la loro marcia per instaurare una giustizia classista in cui si prevedono misure iper-repressive per i cittadini comuni, tanto per fare propaganda, e il semaforo verde per i reati dei colletti bianchi. Dalle audizioni tenute nel corso dell’indagine conoscitiva è emerso con chiarezza come le intercettazioni siano uno strumento investigativo indispensabile, lo ha scritto la stessa presidente Buongiorno nella relazione. In particolare, il trojan è l’unica arma con cui bucare il muro di omertà che protegge i comitati d’affari. Dopo la norma che ha restituito i benefici penitenziari ai condannati per associazione a delinquere finalizzata alla corruzione, dopo il ddl che abolisce il reato di abuso di potere, ora questo nuovo tassello dell’impunità dei colletti bianchi mentre c’è l’assalto alla diligenza del Pnrr e il Codice degli Appalti ha spianato la strada della discrezionalità”. Forza Italia e FdI litigano sulle intercettazioni. Poi arriva la tregua (armata) di Mario Di Vito Il Manifesto, 21 settembre 2023 Al Senato bagarre sulla relazione conoscitiva, Pd e M5s votano contro. Alla Camera gli azzurri ritirano i loro emendamenti, ma non mollano il punto. Un copione già messo in scena più volte: tensioni che sfociano in litigi, litigi che poi diventano tregue armate. Questa volta ad agitare le acque in maggioranza è la questione delle intercettazioni, con Forza Italia e FdI su fronti opposti a darsi battaglia per tutto il giorno, fino all’accordo serale arrivato dopo una lunga opera, per così dire, di moral suasion da parte del governo. Due i fronti: uno nelle commissioni Affari costituzionali e Giustizia della Camera, un altro al Senato, dove alla bagarre partecipa anche l’opposizione. In Commissione si discuteva il decreto intitolato “Disposizioni urgenti in materia di processo penale, di processo civile, di contrasto agli incendi boschivi, di recupero dalle tossicodipendenze, di salute e di cultura, nonché in materia di personale della magistratura e della pubblica amministrazione”. Qui Forza Italia ha presentato diversi emendamenti (in totale sono 130, escludendo quelli inammissibili) che puntano a non consentire il ricorso ai trojan nei telefoni per i reati di minore gravità, tra cui alcuni di quelli contro la pubblica amministrazione. FdI invece è sul fronte diametralmente opposto e vorrebbe evitare storie. Alla fine, dopo un lungo trattare, l’accordo è stato trovato sul ritiro degli emendamenti più duri di FI in cambio di tre modifiche condivise: una sulla non trascrizione delle intercettazioni non rilevanti ai fini delle indagini, una sulla non utilizzabilità in un processo di intercettazioni relative a un altro processo e una sul fatto che per richiedere le intercettazioni non basterà la semplice richiesta del pm ma sarà necessario specificare l’eventuale sussistenza di gravi indizi di reato. Ok - previa riformulazione da parte del governo - anche a un emendamento di Enrico Costa (Azione) che prevede l’indicazione del costo delle intercettazioni al termine del procedimento. L’esecutivo, in ogni caso, darà il proprio parere su tutti gli emendamenti solo nella giornata di oggi, poi la settimana prossima il pacchetto completo dovrebbe arrivare in aula. Intanto, al Senato, la commissione Giustizia ha approvato la relazione finale sull’indagine conoscitiva sulle intercettazioni. Pd e M5s parlano di “colpo di mano” della maggioranza proprio sui trojan, con lo zampino che sarebbe proprio di Forza Italia, che avrebbe tolto la possibilità di usare questo strumento per indagare su alcuni reati contro la pubblica amministrazione, così come era stato stabilito dalla legge cosiddetta Spazzacorrotti del 2019. “È stato cambiato il testo finale della relazione - spiegano dal Pd - introducendo un inedito paragrafo in materia di trojan. È una forzatura con la chiara finalità politica di contribuire a indebolire la lotta alla corruzione, infaticabilmente perseguita da questa maggioranza”. Il controcanto è del M5s: “Ecco qual era il vero obiettivo di questa indagine, la maggioranza ha svelato le carte: continua la loro marcia per instaurare una giustizia classista in cui si prevedono misure iper repressive per i cittadini comuni, tanto per fare propaganda, e il semaforo verde per i reati dei colletti bianchi”. Il capogruppo di FI in commissione, Pierantonio Zanettin, però, nega completamente questa ricostruzione della vicenda: “Nessun colpo di mano dell’ultimo minuto. L’integrazione della Relazione si è resa necessaria perché la sentenza della Corte di Giustizia in tema di intercettazioni è recentissima, addirittura del 7 settembre scorso. E tale sentenza, come osservato dai commentatori più attenti sul piano giuridico, impone al legislatore del nostro paese un supplemento di riflessione”. Così, al momento del voto, Pd e 5s hanno votato contro, mentre Ivan Scalfarotto di Italia Viva si è schierato con la maggioranza. Sulla questione dei trojan, il procuratore aggiunto di Reggio Calabria e segretario di Magistratura Democratica Stefano Musolino aveva espresso più volte riserve, anche davanti alla commissione. Intervistato dall’Unità, ieri, ha ribadito il punto: “A me pare che solo sul tema dell’utilizzo del trojan per reati diversi da quelli di criminalità organizzata, si possa perfezionare un migliore equilibrio che tenga conto dell’invadente capacità dello strumento di acquisire informazioni personali che devono restare riservate, insieme alle specifiche difficoltà nell’accertamento di alcuni perniciosi reati”. Giustizia, le imbarazzanti bugie raccontate dagli avversari della separazione delle carriere di Gian Domenico Caiazza Il Riformista, 21 settembre 2023 Girano imbarazzanti bugie, raccontate dagli avversari della separazione delle carriere. Quella che il PM sarebbe dipendente dall’esecutivo è una grossolana mistificazione. Ora, però, va di moda l’opinione del Prof. Coppi. Vediamo qual è. Come abbiamo già avuto modo di spiegare la scorsa settimana, le imbarazzanti bugie raccontate dagli avversari della separazione delle carriere sono ormai sotto gli occhi di tutti. Le proposte di legge in discussione, tutte mutuate dalla legge di iniziativa popolare delle Camere Penali, hanno scelto e blindato nel nuovo art 104 della Costituzione il modello portoghese: carriere separate, PM indipendente dall’esecutivo. Dunque l’argomento principe (“vogliono il PM alle dipendenze dell’esecutivo”) è una grossolana mistificazione, ormai davvero improponibile in un dibattito serio. Né più né meno di quella che raccontano circa il fatto che tutto il mondo guarderebbe con invidia al nostro modello ordinamentale a carriera unica: siamo infatti nella mesta compagnia di Turchia, Bulgaria e Romania, nonché della Francia, coerente però con il suo vetusto (ed ormai quasi unico in Europa) modello processuale inquisitorio. Ovunque vi sia un processo accusatorio, vi è separazione delle carriere: Portogallo, Spagna, Germania, Svezia, Inghilterra, Stati Uniti, Canada, Australia, Giappone, India, e spero vi basti. Quindi, il nuovo argomento ora in voga è l’opinione dissenziente del prof. Franco Coppi, avvocato insigne. Il quale non crede nella utilità di questa riforma, e ci mancherebbe pure che un avvocato non possa pensarla in questo modo. Ma non ci si avvede, ancora una volta, del clamoroso autogoal. Perché Franco Coppi, che è una persona seria e coerente, non nasconde un secondo suo pensiero, utile a comprendere con chiarezza il primo. Egli infatti non fa mistero di rimpiangere con nostalgia il processo inquisitorio, che invece noi (per fortuna, aggiungo io) ci siamo lasciati alle spalle grazie a Giuliano Vassalli dal 1988, e che la Costituzione ha definitivamente posto fuori dai propri confini nel 2000 grazie alla riforma dell’art. 111 sul giusto processo. Quindi l’opinione del prof. Coppi conferma una ovvia evidenza: le carriere unificate sono coerenti con il processo inquisitorio, ma incompatibili con il sistema accusatorio. Che è esattamente ciò che sosteneva, su opposta sponda, Giovanni Falcone, secondo il quale in un sistema accusatorio il PM “non deve avere nessun tipo di parentela con il giudice e non essere, come invece oggi è, una sorta di para-giudice. Contraddice tutto ciò il fatto che, avendo formazioni e carriere unificate, giudici e PM siano in realtà indistinguibili gli uni dagli altri. Chi come me richiede che siano due figure strutturalmente differenziate nelle competenze e nelle carriere, viene bollato come un nemico dell’indipendenza del magistrato”. Parole e pensieri puntualmente censurati dai crociati anti-separazione. Come vedete, tutto quadra: processo inquisitorio, carriere unite; processo accusatorio, carriere separate. Una equazione implacabile, perfettamente illustrata da due autorevolissimi personaggi quali Franco Coppi e Giovanni Falcone. Chiaro? La giustizia riparativa indebolisce la difesa? di Oliviero Mazza* Il Dubbio, 21 settembre 2023 Il recente protocollo operativo sulla giustizia riparativa, elaborato con “il contributo concorde” degli Uffici giudiziari milanesi, dell’Ordine degli Avvocati e della Camera Penale di Milano, riporta l’attenzione su un tema rimasto finora ai margini delle critiche rivolte alla riforma Cartabia. L’accordo si inscrive nella consolidata tradizione di una procedura penale circondariale fondata su strumenti di soft law di dubbio valore precettivo. Il metodo seguito pone di per sé alcuni interrogativi: il localismo normativo è compatibile con il giusto processo regolato dalla legge (art. 111 comma 1 Cost.)? Si può rinunciare al principio di legalità processuale, unica vera garanzia riconosciuta agli imputati in ogni ordinamento democratico, in nome di una cooperazione rafforzata fra magistratura e avvocatura? Quale sarebbe, soprattutto, la ragione che imporrebbe di codificare prassi applicative praeter legem in materie già disciplinate dalla legge? Il protocollo milanese dimostra, inoltre, come la giustizia riparativa sia stata accolta acriticamente da una larga parte dell’avvocatura, che forse non ne ha colto appieno il carattere potenzialmente esiziale per un sistema penale di impronta liberale. L’abbandono del principio di laicità del diritto penale in favore di un sistema punitivo declinato su parametri di carattere etico apre scenari preoccupanti, primo fra tutti l’azzeramento delle garanzie processuali quale corollario pressoché indefettibile della confusione fra diritto penale e morale. A questa regola non fa purtroppo eccezione il decreto legislativo 150 del 2022. A cadere sotto i colpi della riparazione etica è la presunzione d’innocenza, calpestata dal potere ufficioso del giudice di inviare l’imputato, anche contro la sua volontà, al centro per la giustizia riparativa. La componente consensuale non riguarda, infatti, l’accesso, ma solo la prosecuzione del programma, ed è proprio l’invio iussu iudicis - nel lessico legislativo - postale l’imputato è considerato alla stregua di un pacco che viene inviato - a segnare lo strappo con la presunzione d’innocenza. Se il giudice considerasse non colpevole l’imputato, come gli imporrebbe l’articolo 27 comma 2 Cost., non potrebbe mai inviarlo al cospetto della persona offesa per tentare la riparazione di un torto non commesso. La giustizia riparativa presuppone ruoli ben definiti, colpevole e vittima, che sono esattamente all’opposto di quelli delineati dalla presunzione d’innocenza che governa il processo di cognizione. Basterebbe questa elementare considerazione per cogliere la palese illegittimità di qualsiasi intersezione fra cognizione e mediazione. Per rispettare la presunzione d’innocenza, la giustizia riparativa dovrebbe rimanere un fiume carsico pronto a emergere solo in caso di esito positivo e gestito direttamente dagli interessati al di fuori del processo penale. Al contrario, la legge, e ora anche i protocolli, prevedono che sia proprio l’autorità procedente, compreso il pubblico ministero nel corso delle indagini, a sovrapporre la mediazione, che presuppone ruoli e responsabilità definiti, con la fase dell’accertamento. Nel caso del pubblico ministero si aggiunge l’ulteriore violazione della regola basilare di un processo di parti per cui l’accusa non può imporre alla difesa una scelta processuale come quella di presentarsi dinanzi al mediatore. Ancora più sconcertante è la previsione che non consente la presenza del difensore al tavolo della giustizia riparativa, al quale invece sono invitati addirittura i rappresentanti della comunità in cui si sarebbe compiuto il reato. È ammissibile escludere l’assistenza difensiva nel momento stesso in cui l’imputato è chiamato a rendere confessione dinanzi a un funzionario pubblico (il mediatore), nel corso di un procedimento incidentale rispetto a quello penale? Il difensore può essere considerato un elemento di disturbo per la composizione del conflitto interindividuale? La tutela della dignità della professione forense e dei fondamenti del giusto processo sono questioni pregiudiziali che vanno affrontate prima di procedere a qualunque forma di sperimentazione, e che mi auguro siano fra i temi del prossimo Congresso Ucpi di Firenze. Occorre una seria riflessione per arginare la pericolosa cultura del processo penale penitenziale. *Ordinario di Diritto processuale penale Università degli Studi di Milano- Bicocca L’Omicidio nautico è legge. La Camera ha approvato definitivamente il testo Il Sole 24 Ore, 21 settembre 2023 Sono stati modificati il codice penale e di procedura penale mutuando la disciplina vigente per le medesime fattispecie riguardanti la circolazione stradale. L’Aula della Camera con 268 sì e un solo no ha approvato il progetto di legge che introduce nell’ ordinamento il reato di omicidio nautico. Il testo aveva ricevuto il via libera dal Senato lo scorso febbraio, diventerà così legge subito dopo la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. Il testo prevede la reclusione da due a sette anni in caso di morte della vittima, da otto a dodici anni con l’aggravante dello guida in stato di ebbrezza alcolica o di alterazione psicofisica. Presenti in Aula i familiari di Umberto Garzarella, una delle due vittime dell’incidente nautico avvenuto il 19 giugno 2021 sul Lago di Garda. L’articolo 1 modifica gli articoli del codice penale che riguardano le fattispecie di omicidio colposo stradale e di lesioni gravi o gravissime conseguenti a violazioni delle norme sulla circolazione stradale, estendendone la disciplina anche alle ipotesi di omicidio (comma 1) e di lesioni gravi o gravissime (comma 2) conseguenti a violazioni delle norme sulla navigazione marittima o interna. Più nel dettaglio il comma 1 modifica l’articolo 589-bis c.p. introducendo la nuova fattispecie penale dell’omicidio colposo nautico volta a punire, con la reclusione da 2 a 7 anni, chiunque, ponendosi alla guida di una unità da diporto, cagioni per colpa la morte di una persona avendo agito in violazione delle norme sulla disciplina della navigazione marittima o interna. Oltre alla fattispecie base, sono previste alcune aggravanti (le stesse dell’omicidio stradale) per l’aver commesso il fatto: in stato di ebbrezza superiore a 1,5 g/l o sotto l’effetto di sostanze stupefacenti o psicotrope (reclusione da 8 a 12 anni); in stato di ebbrezza compreso tra 0,8 g/l e 1,5 g/l se il conducente dell’imbarcazione esercita attività di trasporto di cose o persone (reclusione da 8 a 12 anni); in stato di ebbrezza compreso tra 0,8 g/l e 1,5 g/l (reclusione da 5 a 10 anni); senza possedere la patente, ovvero se la patente è stata sospesa o revocata (nei casi in cui questa è richiesta) oppure con una unità da diporto di proprietà dell’autore del fatto sprovvista di assicurazione obbligatoria. La pena è invece diminuita fino alla metà se l’evento non è esclusiva conseguenza dell’azione o dell’omissione del colpevole. Nel caso in cui dall’evento derivi la morte di più persone, ovvero la morte di una o più persone e lesioni a una o più persone, si applica la pena che dovrebbe infliggersi per la più grave delle violazioni aumentata fino al triplo, ma comunque senza superare i 18 anni di reclusione. Il comma 2 emenda l’articolo 589-ter c.p., che stabilisce un aumento della pena da un terzo a due terzi e una pena comunque non inferiore a 5 anni in caso di fuga del conducente successiva all’omicidio, inserendo alla rubrica il riferimento all’omicidio nautico. Il comma 3 interviene sull’art. 590-bis c.p. estendendo la disciplina delle lesioni personali stradali gravi o gravissime anche a quelle derivanti dalla violazione delle norme sulla disciplina della navigazione marittima interna. La fattispecie base punisce chiunque procuri per colpa ad altri lesioni gravi o gravissime, rispettivamente con la reclusione da 3 mesi a 1 anno o da 1 a 3 anni, avendo agito in violazione delle norme sulla disciplina della navigazione marittima o interna. Anche in questo caso sono previste aggravanti (le stesse delle lesioni stradali) per l’aver commesso il fatto in stato di ebbrezza. L’articolo 2 interviene sul codice di procedura penale dettando norme in materia di arresto in flagranza. In particolare viene esteso l’arresto obbligatorio in flagranza (articolo 380, comma 2, lettera m-quater), già previsto per l’omicidio stradale aggravato dallo stato di alterazione del conducente (dovuto ad uso di sostanze stupefacenti o ad ebbrezza con tasso alcolemico superiore a 1,5 g/l o compreso tra 0,8 g/l e 1,5 g/l se il conducente dell’imbarcazione esercita attività di trasporto di cose o persone), all’omicidio nautico commesso con le medesime aggravanti e l’arresto facoltativo in flagranza (articolo 381, comma 2, lettera m-quinquies), già previsto per il delitto di lesioni colpose stradali gravi o gravissime aggravato dallo stato di alterazione (dovuto ad uso di sostanze stupefacenti o ad ebbrezza con tasso alcolemico superiore a 0,8 g/l), al delitto di lesioni nautiche gravi o gravissime. Un’ulteriore modifica in materia di arresto obbligatorio in flagranza, riguardante in questo caso anche l’omicidio stradale, prevede che non si proceda all’arresto obbligatorio in flagranza se il conducente si sia immediatamente fermato, adoperandosi per prestare o attivare i soccorsi, e si sia messo immediatamente a disposizione degli organi di polizia giudiziaria. Beniamino Zuncheddu, da 33 anni è in carcere: ennesimo orrore giudiziario? di Gaia Tortora Il Riformista, 21 settembre 2023 Condannato per un reato che non ha commesso, Beniamino è accusato di essere coinvolto in una strage avvenuta nelle montagne di Sinnai nel 1991. Da 33 anni è in carcere da innocente. A breve si terrà la revisione del processo. 33 anni. 33 anni di carcere da innocente. Un caso senza precedenti quello di Beniamino Zuncheddu 58 anni, condannato per un reato che non ha commesso. Beniamino è accusato di essere coinvolto in una strage avvenuta nelle montagne di Sinnai nel 1991 quando in località Cuili is Coccus, furono uccisi tre pastori e una quarta persona rimase gravemente ferita. Ma la condanna all’ergastolo si basa su elementi inconsistenti. A far condannare all’ergastolo in via definitiva Beniamino Zuncheddu furono le dichiarazioni dell’unico superstite della strage. Una sola dubbia prova, una, e l’ergastolo. Una testimonianza definita dubbia dalla difesa, arrivata dopo presunte pressioni da parte di uno degli agenti che indagava sul triplice omicidio. Il poliziotto avrebbe fatto vedere al testimone, che inizialmente aveva detto di non ricordare il volto dell’assassino perché coperto, una foto di Zuncheddu spingendolo a fornire una dettagliata descrizione dell’omicida che combaciava con quella del pastore. Da qui la condanna. Tutta la comunità di Burcei paese natale di Beniamino combatte al suo fianco, tutta. Il sindaco, il sacerdote e tutti gli abitanti. Senza mai far venire meno il supporto ad un uomo che non si sa come ha resistito 33 anni ma che ora, dovete saperlo, sta per crollare. La revisione del processo in corso presso la Corte di appello di Roma è basata su prove schiaccianti con i giudici chiamati a decidere sull’ammissione dei testimoni nel procedimento di revisione del processo sfociato nella condanna e anche sulla richiesta di sospensione della pena. L’udienza avrebbe dovuto essere riservata all’audizione del perito incaricato di trascrivere alcune ultime intercettazioni di comunicazioni ambientali e telefoniche, ma visto che i file audio gli sono stati trasmessi in ritardo il tecnico ha chiesto e ottenuto una proroga fino al 4 ottobre. Il processo è stato rinviato al 13 ottobre e in quella data saranno esaminati anche i due testimoni indicati dal pubblico ministero: il carabiniere al quale il testimone rese le prime dichiarazioni (in cui non accusava Beniamino Zuncheddu) e un amico della famiglia delle vittime. 33 anni. 33 anni in carcere da innocente a pregare e sperare. Beniamino è una persona semplice, un ex pastore, un ragazzo facile da mettere in mezzo, da incastrare. Uno che tanto non avrebbe avuto i mezzi ne la voce per difendersi. A Beniamino è rimasta solo la fede, incrollabile quella sì, ma oggi non basta più neanche quella. Beniamino da tre settimane sta male, si è lasciato andare, non reagisce, e di certo non può più aspettare i tempi di una giustizia di cui sì oggi mi vergogno. Lo stato sta tenendo in carcere un uomo innocente. Tre anni dalla revisione del processo e forse solo oggi si è fatto un piccolo passo avanti con il giudice che ha mostrato tutta l’intenzione di velocizzare l’iter. Perché probabilmente il o i colpevoli di quel reato forse sono ancora fuori, ma di certo sappiamo che un innocente è in carcere per qualcosa che non ha commesso. Stringo forte la mano ad Augusta, la sorella di Beniamino che è arrivata fin qui con alcuni compaesani per manifestare davanti alla Corte di appello e poi presenziare all’udienza. Augusta è stremata quando le passano il microfono la stringo ancora di più e ascolto. Questa donna dolce e forte come solo una sorella certa dell’innocenza di un fratello sa essere, dice con un filo di voce, tremando “la giustizia deve fare il suo corso…” volendo dire che la giustizia in quanto giusta deve riconsegnare suo fratello alla libertà. Ecco ho un sussulto e mi dico “no diamine non deve fare il suo corso altrimenti Beniamino non vedrà riconosciuta la sua innocenza, non con questi tempi, la giustizia deve sbrigarsi a riconsegnare Beniamino alla sua vita da uomo innocente”. 33 anni. 33 anni. Provate a pensare quante cose avete fatto voi in 33 anni. I concittadini di Beniamino, chi ha potuto è arrivato fino a Roma per manifestare ancora una volta la solidarietà. Io voglio ricordare le parole di una giovane ragazza presente davanti alla Corte di appello, Paola: “Chiedo alle istituzioni che venga ridata fiducia, molte volte si dice che noi giovani non rispettiamo le leggi, non abbiamo fiducia nelle istituzioni, non è vero. Noi chiediamo però che oggi venga dato un segnale molto forte ovvero di fiducia affinché gli italiani e i giovani continuino ad avere fiducia nelle istituzioni e nella giustizia, perché’ oggi un cittadino sta pagando ingiustamente mentre l’autore del reato è ancora fuori. Chiedo ad ognuno di noi di mettersi per un istante nei panni di Beniamino ed essere privati della libertà. Basta un secondo per capire”. Ecco provateci anche voi che leggete queste righe. 33 anni sono una vita. Per un crimine orrendo mai commesso. Beniamino Zuncheddu non deve aspettare oltre. E io di questa giustizia mi vergogno. “Mimmo Lucano condannato per una frase mai pronunciata” di Simona Musco Il Dubbio, 21 settembre 2023 Processo all’accoglienza, sentenza attesa per l’11 ottobre. I legali: “Dal Tribunale errore macroscopico”. E lui scrive alla Corte d’appello: “Ho aiutato i più deboli”. “L’idea del carcere non mi spaventa. Quello che ho fatto interessa me personalmente per questo processo, ma ha un valore molto più grande: Riace ha trasmesso un messaggio al mondo, quello della speranza”. L’ex sindaco di Riace Domenico Lucano sa di rischiare tanto: dopo la condanna in primo grado a 13 anni e due mesi per un sistema d’accoglienza prima lodato poi demonizzato, la procura generale di Reggio Calabria ha confermato di credere nella bontà dell’impianto accusatorio della procura di Locri, chiedendo una condanna a 10 anni e cinque mesi. La vera posta in gioco è quella “utopia della normalità” immaginata in un luogo prima marginale, poi diventato all’improvviso centro del mondo, tanto da diventare modello. Un modello spazzato via da una politica migratoria che dà importanza più ai numeri che alle persone, trasformate in “pacchi” da spostare da un posto all’altro e pericoloso, proprio perché faceva a pezzi quel concetto di emergenza che serviva a giustificare politiche di repressione prive di risultati. Lucano ne parla al Dubbio nel giorno in cui i suoi avvocati - Giuliano Pisapia e Andrea Daqua - hanno concluso le arringhe, restituendo la palla alla Corte. Il suo destino si deciderà l’11 ottobre, quando i giudici si chiuderanno in camera di consiglio. Ma intanto l’ex sindaco di Riace, condannato per truffa aggravata e associazione a delinquere e a processo assieme ad altre 17 persone, ha consegnato alla Corte una lettera accorata, per spiegare, ancora una volta, le sue ragioni. Ripercorre gli ultimi anni, dall’arresto per una “accusa infamante”, ovvero quella “di svolgere la mia attività di accoglienza e integrazione dei migranti per finalità di carriera politica e di lucro”, passando per la condanna e la nuova richiesta della procura generale. E ribadendo la fiducia nei suoi avvocati, ha sottolineato di aver “vissuto anni di grande amarezza e di sfiducia nella giustizia, non solo e non tanto per la limitazione della libertà personale, quanto per l’ingiusta campagna di denigrazione che si è abbattuta sull’esperienza di ripopolamento del borgo vecchio di Riace aperto all’accoglienza dei migranti. Come tutti gli esseri umani posso aver commesso degli errori - ha sottolineato - ma ho sempre agito con l’obiettivo e la volontà di aiutare i più deboli e di contribuire all’accoglienza e all’integrazione di bambini, donne e uomini che fuggivano dalla fame, dalla guerra, dalle torture”. Tant’è che non ha mai smesso, continuando a dedicarsi ai migranti nel “Villaggio globale di Riace”, la “missione della mia vita” che prescinde da incarichi pubblici e finanziamenti statali. “Altro che associazione a delinquere - ha concluso -. Al termine di questo processo vi invito a visitare il Villaggio globale di Riace, sarete i benvenuti”. Ma è la difesa tecnica quella che ha messo in luce le contraddizioni della sentenza di primo grado. Una sentenza che forza la mano, soprattutto laddove il tribunale ha deciso di bypassare la sentenza Cavallo e dichiarare utilizzabili intercettazioni che, secondo le Sezioni Unite, andrebbero cestinate. Ma non solo, dal momento che il cuore della sentenza è rappresentato da una frase mai pronunciata. Il Tribunale, infatti, ha utilizzato una frase mai pronunciata per motivare la super condanna, una trascrizione fatta dalla polizia giudiziaria e smentita poi dal perito nominato dallo stesso Tribunale. Una frase importante per l’accusa di peculato, la più grave. Lucano, ha affermato Pisapia, “in tutta la sua vita ha sempre fatto quello che serviva agli altri e non quello che serviva a se stesso”. Tant’è che l’ex primo cittadino ha anche rifiutato la candidatura alle elezioni nazionali e alle europee, cosa che smentisce l’assunto dell’accusa: il tentativo di ottenere un tornaconto politico, che avrebbe sfruttato solo per fare il sindaco di un paesino di poche anime nel sud del sud. “Manca il dolo e manca la consapevolezza e la volontà di un vantaggio economico. Risulta dalla lettura di tutti gli atti processuali che Lucano non aveva un soldo sul proprio conto corrente”, ha evidenziato l’ex sindaco di Milano. Che ha citato Giovanni Falcone, il cui “consiglio” era quello di “seguire i soldi”: nel caso di Lucano, come ammesso anche dai giudici, non ci sono. “La vostra sentenza sarà importante - ha aggiunto Pisapia - perché specialmente in questo periodo in cui la situazione dei migranti è particolarmente difficile e complicata, avere tante Riace aiuterebbe a risolvere tanti problemi”. Per Daqua ci sarebbe “il legittimo sospetto che il processo contro Lucano sia stato viziato sin dall’inizio - ha aggiunto. Il Tribunale di Locri si lascia andare in un linguaggio denigratorio nei confronti di Lucano, commette il gravissimo errore di perdere la sua terzietà, si appiattisce in maniera quasi servile a questo preconfezionato costrutto accusatorio, finisce per smentire se stesso - ha sottolineato, con riferimento all’intercettazione che di fatto sconfessa lo stesso Tribunale -, ignora la corposa documentazione che noi abbiamo prodotto e le minuziose consulenze di parte. È una sentenza ingiusta ed errata per tutti i capi di imputazione. Voi avete la possibilità di correggere un macroscopico errore”. Regeni, la Consulta rinvia la decisione sul processo agli 007 egiziani “assenti” di Eleonora Martini Il Manifesto, 21 settembre 2023 La legge italiana non prevede il caso in cui uno Stato estero non collabora. Sit in del “popolo giallo” in molte città italiane. La questione è davvero molto delicata, per questo i giudici della Corte costituzionale riuniti ieri in camera di consiglio - per decidere di fatto le sorti del processo (interrotto per “assenza” degli imputati) ai quattro funzionari della National Security Agency egiziana accusati di aver torturato e ucciso nel 2016 Giulio Regeni - hanno scelto di prendersi più tempo e aggiornare ai prossimi giorni l’esame delle eccezioni sollevate dal Gip del Tribunale di Roma, Roberto Ranazzi. Una decisione che la famiglia del ricercatore friulano attende con ansia. Ieri infatti in molte città italiane - anche a Roma, ma volutamente non nei pressi del palazzo della Consulta - sono stati organizzati sit-in del cosiddetto “popolo in giallo” che si è voluto fare testimone di “una comunità numerosa, responsabile e inarrestabile” nel chiedere “verità a giustizia per Giulio”. All’analisi dei giudici costituzionali - che si sono riuniti in camera di consiglio, senza udienza pubblica, perché né lo Stato né la famiglia si sono costituiti parti del procedimento, né a favore né contro - c’è l’art. 420-bis, comma 2 del Codice di procedura penale così come è stato riformulato dalla riforma Cartabia (10 ottobre 2022) “nella parte in cui non prevede che il giudice procede in assenza dell’imputato, anche quando ritiene altrimenti provato che l’assenza dall’udienza sia dovuta alla mancata assistenza giudiziaria o al rifiuto di cooperazione da parte dello Stato di appartenenza o di residenza dell’imputato”. In sostanza, la legge attuale in materia di “assenza dell’imputato” (da non confondere con la contumacia, situazione in cui l’accusato non è presente in udienza malgrado ritualmente avvisato) non prevede casi come quello che da anni impedisce alle autorità giudiziarie italiane di proseguire nell’accertamento della verità e nel perseguimento della giustizia nei confronti degli aguzzini e degli assassini di Giulio Regeni, ritrovato cadavere orrendamente mutilato sulla strada tra Il Cairo e Alessandria il 3 febbraio 2016. Le autorità egiziane, infatti, a partire dalla procura generale del Cairo, non hanno mai collaborato con i magistrati italiani e hanno invece opposto un muro alle loro richieste, mentre nel Paese di Al Sisi fin dalle prime ore si è messa in moto una micidiale macchina di depistaggi che nel tempo ha mietuto anche vittime innocenti. Malgrado rogatorie internazionali e richieste anche per via diplomatica, i magistrati cairoti si sono sempre rifiutati di dare agli inquirenti italiani gli indirizzi dei quattro imputati, necessari per poter procedere alla notifica degli atti processuali. Secondo il tribunale di Roma, sezione Gip/Gup, la norma attuale che di fatto impone uno stallo al processo potrebbe non essere in linea con gli articoli 2, 3, 24, 111, 112, 117 della Costituzione, con la Convenzione Onu contro la tortura (ratificata dall’Egitto nell’86) e con la direttiva Ue in materia di tutela delle vittime di reato. La questione di costituzionalità è stata sollevata all’udienza del 3 aprile 2023 quando, scrive il giudice Ranazzi nell’ordinanza con cui si è rivolto alla Consulta, il quadro probatorio “riguarda la volontà dello Stato egiziano di sottrarre i 4 imputati al nostro processo, ma non è tale da far ritenere provata la volontà dei 4 imputati di sottrarsi al processo. In ipotesi, gli stessi o anche solo uno di loro, potrebbero voler partecipare al processo in Italia, magari per dimostrare di essere innocenti, e la loro partecipazione essere invece impedita dalle Autorità egiziane”. Motivo per il quale il Tribunale di Roma non ha potuto accogliere le argomentazioni dello Stato e della famiglia Regeni secondo le quali, a parte l’”ampia risonanza mediatica” della vicenda anche in Egitto, gli imputati, in quanto funzionari della National Security Agency, non solo “hanno preso attivamente parte alle indagini condotte in loco sul caso”, ma “sono nelle condizioni di essere informati, per la loro qualifica e funzione, di qualsiasi notizia riguardante il suddetto procedimento”. Per i giudici della Consulta si tratta ora di considerare il bilanciamento dei diritti della famiglia Regeni ad un giusto processo, l’obbligatorietà dell’azione penale, e la tutela degli imputati. In ogni caso, il bug della norma attuale “di fatto crea in Italia, Paese che si ispira ai principi democratici e di eguaglianza - scrive Ranazzi - una disparità di trattamento rispetto ai cittadini italiani e ai cittadini stranieri di altri Paesi, che in casi analoghi verrebbero processati”. Spetta ora alla Consulta stabilire se uno Stato estero - per di più non democratico - possa deliberatamente porre un limite insormontabile alla giustizia italiana. Genova. Omicidio in cella: “Quei due detenuti andavano separati ma non c’erano altri spazi” di Marco Fagandini e Matteo Indice Il Secolo XIX, 21 settembre 2023 Le carte sul delitto compiuto da Luca Gervasio a danno di Roberto Molinari svelano il collasso del sistema: “Il giorno dell’omicidio, dopo che due sere prima il killer aveva picchiato la futura vittima senza ucciderla, era previsto l’interrogatorio di entrambi. Ma non c’è stato tempo”. Luca Gervasio, 48 anni, e Roberto Molinari, 58, non potevano stare nella stessa cella, ma furono tenuti lì perché all’interno del carcere di Marassi non c’erano spazi alternativi. E dopo settimane di scontri fisici e verbali sui quali erano in corso accertamenti della polizia penitenziaria, la mattina del 13 settembre Gervasio ha ucciso Molinari, massacrandolo con uno sgabello e le gambe di un tavolo. Non solo: i segnali di incompatibilità erano così chiari che la stessa Penitenziaria aveva fissato un interrogatorio di entrambi proprio per il 13 settembre, ma non vi è stato tempo poiché il delitto è stato compiuto all’alba. I dettagli sono contenuti nell’ordinanza con cui il giudice dell’indagine preliminare Matteo Buffoni, su richiesta del pubblico ministero Gabriella Marino, ha disposto che Gervasio resti detenuto e isolato: nell’incartamento del magistrato sono presenti numerosi passaggi che certificano di fatto il fallimento di un sistema e descrivono quella dei giorni scorsi come una tragedia della quale si erano avute chiare avvisaglie. Ma gli operatori del carcere, gravati da sovraffollamento e assoluta penuria di risorse, non avevano mezzi per intervenire in modo realmente preventivo. Gli inquirenti: “Dovevano stare altrove” - “Il 15 settembre 2023 - si legge quindi nelle carte - è stata depositata un’annotazione a firma del comandante di reparto (s’intende sempre della Penitenziaria, ndr), Lucrezia Nicolò, ove si dà atto che il primo piano della VI sezione detentiva della casa circondariale è classificato come “porzione di istituto dedicato all’esecuzione di provvedimenti di separazione dalla rimanente popolazione detenuta”. Sia Gervasio sia Molinari, pur non essendo sottoposti a provvedimenti d’isolamento, erano stati allocati in quella sezione per carenza di posti letto presso le aree riservate ai detenuti appartenenti al circuito della media sicurezza (del quale facevano parte, ndr), in attesa di esservi riassociati”. L’assassino, in particolare, viene descritto come “soggetto insofferente alla coabitazione per picchi d’instabilità caratteriale, manifestatasi in scontri verbali e fisici con i diversi ristretti con i quali era stato ubicato successivamente all’ingresso in istituto, venendo coinvolto in altrettanti episodi di colluttazione nel corso dei quali aveva riportato lesioni”. Non solo: sempre dagli incartamenti ora al vaglio delle toghe si scopre che Gervasio, oltre a essere già stato dichiarato aggressivo e seminfermo di mente a valle d’un processo subito negli anni scorsi, era stato sottoposto a visita psichiatrica dentro il penitenziario il 12 luglio, quindi due mesi prima dell’omicidio. E in quel frangente il medico aveva certificato come avesse enormi difficoltà a “trattenere l’impulsività”. L’ultimo pestaggio e l’audizione mancata - La sera dell’11 settembre, hanno svelato le indagini, Molinari era stato ferito in cella. Erano intervenuti gli agenti e un medico e l’uomo aveva “negato responsabilità di terzi”, parlando di un infortunio accidentale mentre “saliva sul letto”. “Nel referto - è ribadito nell’ordinanza - si dava atto dell’apparente incompatibilità delle ferite riscontrate rispetto alla caduta accidentale descritta dal detenuto… i poliziotti tentavano di fare luce sulla vicenda, chiedendo ulteriori spiegazioni a Molinari: quest’ultimo però ribadiva la propria versione, negando qualsivoglia responsabilità di terzi. Viste le anomalie riscontrate, il fascicolo veniva passato al vaglio del comandante, il quale il giorno dopo (la polizia penitenziaria nelle sue annotazioni tiene a rimarcare “tempestivamente”, ndr) disponeva che Molinari e Gervasio venissero sentiti in merito all’incidente occorso. L’audizione era calendarizzata per il 13 settembre. Essa, ovviamente, non poteva avere luogo a causa del decesso di Molinari (ucciso nel frattempo da Gervasio, ndr)”. Milano. Detenuto evade dell’ospedale San Paolo: agente lo insegue e batte la testa, è in coma di Cesare Giuzzi Corriere della Sera, 21 settembre 2023 Il fuggitivo era stato ricoverato dopo una lite a San Vittore. Alle 5.25 la fuga dalla finestra: il poliziotto che lo aveva in custodia ha tentato di seguirlo ma si è ferito gravemente. Un detenuto è evaso nelle prime ore di giovedì mattina lanciandosi da una finestra, al secondo piano, dell’ospedale San Paolo di Milano. Un poliziotto si è lanciato dietro di lui nel tentativo di fermarlo, ma è caduto malamente battendo la testa e si trova ora ricoverato in condizioni gravissime. Secondo una prima ricostruzione il detenuto, un palestinese di 32 anni in carcere da agosto per concorso nella rapina di un Rolex, era stato portato in ospedale mercoledì sera dopo esser rimasto ferito in una lite con altri carcerati a San Vittore. Era stato portato d’urgenza al Pronto soccorso in un reparto ordinario, non quello destinato ai carcerati. Alle 5.25 di giovedì mattina ha deciso di evadere, saltando dalla finestra di un bagno al secondo piano. Stando a quanto ricostruito dagli inquirenti sembra che l’agente 28enne, che stava sorvegliando il detenuto insieme a un collega, si sia lanciato all’inseguimento del recluso fuggito dalla finestra. Sembra che il 32enne sia riuscito a saltare prima su un muretto e da lì poi a raggiungere la strada, mentre l’agente sarebbe caduto rovinosamente al suolo dal secondo piano, battendo la testa. Sembra che inizialmente dopo la caduta l’agente 28enne, benché ferito in modo grave, si sia rialzato e sia tornato a piedi da solo verso il pronto soccorso dove poi ha perso i sensi. Le sue condizioni sono al momento molto gravi: in coma, è stato sottoposto a un intervento chirurgico all’ospedale San Carlo. Ha riportato un grave trauma cranico e frattura delle vertebre cervicali. È caccia all’evaso: sulle sue tracce ci sono la polizia penitenziaria, gli agenti della questura e la squadra Mobile. Aldo Di Giacomo, segretario generale del sindacato Spp, sottolinea come questa evasione arrivi dopo altri quattro tentativi di fuggire azzardati compiuti da detenuti ricoverati negli ospedali italiani. “Tanta la preoccupazione per il collega - dice -. Qui si rischia la vita e l’emergenza carceri è ormai drammatica”. Non solo: “C’è un fuggi fuggi dei medici penitenziari” perché sarebbero oggetto sempre più di minacce da parte dei detenuti, proprio per ottenere un ricovero. “La situazione è gravissima - dice Di Giacomo -, la questione carceri va messa all’ordine del giorno del governo”. Il segretario regionale Uspp, Gian Luigi Madonia, pur non cercando responsabilità nell’accaduto, sottolinea come il sindacato ha sempre mostrato “forti perplessità per la tenuta del sistema sanitario penitenziario”, chiedendo un rafforzamento all’interno degli istituti Novara. Carcere, “Mancano educatori e un garante dei detenuti” primanovara.it, 21 settembre 2023 È emerso nel corso della visita alla Casa circondariale novarese promossa dai Radicali: un’iniziativa per portare comuni cittadini nei penitenziari. Il carcere di Novara è tra i migliori in Piemonte ma deve far fronte a due problematiche che vanno risolte prima possibile: l’incarico di nuovo garante dei detenuti e il potenziamento del numero di educatori, in questo momento fermo a uno quando in pianta organica ne sono previsti quattro. Le due priorità sono state rese note ai media sabato mattina, 16 settembre 2023, quando una delegazione del Partito radicale è venuta a Novara per una visita al complesso penitenziario di via Sforzesca. Visita che si inserisce in un’iniziativa carattere nazionale di attenzione verso l’universo carcere dal titolo “Devi vedere”. Una campagna di sensibilizzazione che prevede l’ingresso di semplici cittadini nelle carceri, come ha spiegato Igor Boni, presidente di Radicali Italiani: “Questa è l’unica iniziativa porta la gente normale all’interno delle carceri. Non più solo parlamentari, consiglieri regionali, ma gente comune che per la prima volta ha la possibilità di conoscere una realtà ignota, che la società tende a nascondere”. Tra i comuni cittadini che hanno vissuto per la prima volta l’esperienza di una visita in carcere, Luca Oddo ha raccontato di essere stato colpito “da come la comunità dei detenuti sia viva. Ci hanno offerto caffè, torte, bibite, qualcuno ha anche cantato la canzone di De Andrè “Don Raffaè” scherzando sul caffè che “pure in carcere lo sanno fa”. Per me era la prima volta e ho conosciuto qualcosa d’inaspettato”. L’attivista novarese Nathalie Pisano ha volto evidenziare le criticità riscontrate: “La prossima partenza dell’attuale direttrice, che ha ben lavorato in questi anni, può essere un problema. Altro aspetto critico la presenza di un solo educatore invece dei quattro previsti. Altro problema da risolvere urgentemente è la mancanza del garante dei detenuti. Purtroppo dopo l’ennesima proroga don Dino Campiotti non se la sente più di ricoprire l’incarico. L’aspetto più grave però è che finora l’amministrazione comunale di Novara non si è ancora mossa per risolvere il problema. Non è stato ancora stato preparato il bando per ricoprire la carica. Lanciamo un appello al sindaco per accelerare i tempi. Bisogna che il Consiglio comunale si attivi al più presto”. Giovanni Oteri, altro attivista ha fatto il bilancio della visita: “Novara rispetto ad altre carceri piemontesi vive una situazione migliore ma vi sono anche qui problemi da risolvere. La difficoltà di dialogare tra il detenuto e la propria famiglia, la mancanza del contatto con il personale di sorveglianza, la carenza di educatori. Il detenuto che si sente completamente isolato e che sa che il proprio futuro è bloccato proprio per la mancanza di un percorso riabilitativo interno. Oggi abbiamo parlato con responsabile della sorveglianza che ci ha accompagnato per tutto il carcere. Il giro che abbiamo fatto è stato la classica visita nelle parti comuni, in cucina, nella biblioteca. Abbiamo parlato con il comandante della Polizia penitenziaria e ci è parso molto attivo e propositivo. Abbiamo parlato on una buona parte dei detenuti, riscontrando una forte componente emotiva. Un argomento importante è quello del lavoro in carcere che non c’è per tutti e va a rotazione. Non possiamo dire che la cosa sia ottimale. Abbiamo riscontrato buona volontà da parte del personale carcerario, questo bisogna ammetterlo che sembra molto attivo ma i detenuti sono tanti e il lavoro è poco”. Andrea Turi dell’Associazione “Adelaide Aglietta” ha invece evidenziato un altro aspetto critico: “Su 180 detenuti ve ne sono 51 in cura al Sert, con problemi legati all’uso di stupefacenti. Sono persone per cui la prigione non è una struttura ottimale per guarire da problemi di tossicodipendenza”. Firenze. Icam, una novella dello stento. Dal 2010 tante parole, zero fatti di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 21 settembre 2023 L’ultimo annuncio un anno fa: “Pronti coi lavori”. Nulla è stato fatto, ora nuove date. “Entro settembre 2022 partiranno i lavori”. E invece, a distanza di un anno esatto da quell’annuncio che arrivava da più parti, i lavori per la casa famiglia delle detenute madri (Icam) non sono mai partiti. E la palazzina che dovrebbe essere destinata al progetto, in via Fanfani a Rifredi, affonda nel degrado. Erbacce sempre più alte, muffa, sporcizia. Una storia vecchia e mai risolta, quella dell’istituto a custodia attenuata per le recluse che vivono in carcere con i loro figli piccoli. Quando nel 2010 a Sollicciano c’erano diversi minori, Firenze si era candidata a fare da apripista su questo progetto, con un protocollo firmato a gennaio 2010 da ministero della Giustizia, Regione (che stanziò 400 mila euro), tribunale di Sorveglianza, Istituto degli Innocenti e Madonnina del Grappa, che aveva messo a disposizione la palazzina di via Fanfani con un comodato gratuito. Tredici anni dopo, però, del progetto nemmeno l’ombra. O meglio, ci sarebbe l’intenzione politica di realizzarlo, come disse l’anno scorso l’allora dirigente del Provveditorato all’amministrazione penitenziaria Angela Venezia: “Dobbiamo verificare solo le condizioni della struttura, partire da quanto esiste per migliorarla il più possibile con l’obiettivo di far dimenticare ai bambini figli di detenute che quella non è una struttura detentiva”. Parole simili, a inizio giugno 2022, dall’assessora al sociale Sara Funaro, che riveste anche il ruolo del presidente della società della salute, a cui la Regione aveva originariamente affidato il progetto: “Entro giugno sarà fatta la progettazione esecutiva della ristrutturazione, durante l’estate verrà fatta la gara d’appalto ed entro settembre partiranno i lavori”. La Società della salute, dopo una gara d’appalto problematica che non aveva portato risultati positivi, aveva affidato i lavori all’azienda sanitaria, a cui spetterebbe tecnicamente la ristrutturazione. E invece siamo fermi al palo, con rammarico del Provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria Pierpaolo d’Andria: “È un progetto interessante. A fine maggio i nostri tecnici hanno fatto un sopralluogo per rendere operativo l’Icam una volta che la struttura sarà pronta, siamo in attesa degli sviluppi”. Dalla Asl spiegano che il progetto “è stato sottoposto ad una attenta verifica progettuale, in accordo con gli enti preposti ed in particolare con il Provveditorato Regionale all’Edilizia Penitenziaria al fine di trovare la migliore sintesi fra le esigenze di custodia detentiva e l’umanizzazione degli spazi”. E quindi, “la fase di progettazione definitiva è stata conclusa ed in attesa dei pareri degli Enti preposti: la progettazione esecutiva verrà conclusa per l’indizione della gara di appalto entro novembre e l’avvio/conclusione dei lavori entro il primo semestre 2024”. Date, scaricabarile, ma l’Icam ancora non c’è. Lecce. Emergenza suicidi nelle carceri, Antigone convoca una riunione Corriere Salentino, 21 settembre 2023 Si è tenuto questa settimana nella Casa circondariale Borgo San Nicola l’incontro tra l’area giuridico pedagogica e l’associazione Antigone Puglia sulla scorta dei numerosi suicidi avvenuti durante l’anno. L’emergenza carceri continua inesorabilmente con 53 suicidi dall’inizio dell’anno. Molte di queste morti interessano persone giovanissime che si tolgono la vita - questo ci dice l’Osservatorio suicidi in carcere - ben prima del processo cioè nelle prime fasi del procedimento. Siamo dinnanzi ad un mondo che chiede ascolto e attenzione servono perciò interventi e misure strutturali tra queste Antigone chiede la necessità di uscire dall’isolamento attraverso un maggior numero di telefonate e contatti con i propri cari. Nell’Istituto leccese è attivo uno Sportello dei diritti di Antigone che settimanalmente offre un servizio di informazione legale gratuita. Ed è proprio attraverso lo staff legale di Antigone che sono emerse problematiche riguardanti il trattamento dei detenuti (scuola, lavoro, misure alternative e tutela della salute. Quest’ultima in particolare di stretta competenza regionale. Presenti all’incontro la Presidente di Antigone Maria Pia Scarciglia e la dottoressa Elisa Cascione che riferiscono: “l’incontro è stato possibile grazie alla disponibilità della Direttrice dottoressa Susca, della dottoressa Cinzia Conte, capo dell’area giuridico pedagogica, e al suo staff. Durante l’incontro sono emerse da parte degli educatori le difficoltà di lavorare in un carcere sovraffollato, con detenuti affetti da patologie fisiche, psichiatriche e da una povertà sempre più dilagante. Il lavoro dell’educatore è centrale nel percorso di vita di ogni detenuto senza il quale non può avvenire alcuna forma di reinserimento sociale.” Nelle prossime settimane si terrà un altro incontro che coinvolgerà la polizia penitenziaria e l’area sanitaria del carcere. L’Onu: “Cooperative cruciali, ma vanno sostenute di più” di Paolo M. Alfieri Avvenire, 21 settembre 2023 L’Assemblea generale riconosce il ruolo dei 3 milioni di enti: “Promuovono lo sviluppo sociale, economico e di protezione dell’ambiente”. Le cooperative “hanno dimostrato di promuovere lo sviluppo economico e sociale di tutti i popoli, inclusi donne, giovani, anziani, persone con disabilità e popolazioni indigene. Contribuiscono all’inclusione sociale e all’eradicazione della povertà e della fame”. E ancora: molte cooperative “si sono dimostrate resilienti, specialmente in tempi di crisi economica e sociale. Promuovono lo sviluppo sostenibile nelle sue tre dimensioni di sviluppo sociale, economico e di protezione dell’ambiente”. Il riconoscimento al ruolo importante delle cooperative è contenuto in un rapporto dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, in cui si evidenzia che, “nonostante molti Stati membri abbiano riconosciuto le cooperative come partner chiave dello sviluppo sostenibile”, esse “continuano a ricoprire una parte relativamente piccola nelle politiche e nelle pratiche economiche e sociali, se paragonate con il loro enorme contributo potenziale”. Insomma, “sostenere e rafforzare le cooperative anche come imprese di successo, aumenterà la loro capacità di supportare lo sviluppo sostenibile e di incrementare il benessere economico e sociale”. In alcuni Paesi il ruolo delle cooperative ha un maggior riconoscimento, in altri meno. A livello globale, sottolinea il rapporto, ci sono circa 3 milioni di cooperative, che danno lavoro a circa il 10 per cento della forza lavoro totale. Le 300 cooperative più grandi del pianeta generano oltre 2,1mila miliardi di dollari, producendo beni e servizi essenziali. Sono tanti gli Stati, evidenziano le Nazioni Unite, in cui le cooperative offrono un rilevante contributo all’economia nazionale in settori trascurati dal mercato, offrendo opportunità agli emarginati, creando lavoro e supportando lo sviluppo sostenibile. Lavoratori e membri delle cooperative, fa notare ancora lo studio, spesso ottengono di più, a livello economico e sociale, rispetto alla media nazionale, come dimostrato da studi realizzati in Kenya, Perù, Filippine e Polonia. Anche “la situazione delle donne tende a migliorare in maniera significativa con l’appartenenza a una cooperativa”, sia da un punto di vista finanziario che di formazione. Il rapporto esorta dunque i governi a sostenere le cooperative e il loro ruolo, attraverso tra l’altro la loro integrazione nei piani di sviluppo nazionali e includendole nelle consultazioni sulle politiche economico-sociali, in modo da esaltare il loro prezioso contributo. L’Alto commissario per i rifugiati: limitare il periodo di “reclusione” dei migranti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 21 settembre 2023 L’Ufficio dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr) ha recentemente emesso una nota tecnica contenente commenti e raccomandazioni relative alle disposizioni in materia di asilo contenute nella Legge 5 maggio 2023, n. 50. Questa legge rappresenta la conversione con modifiche del decreto- legge 10 marzo 2023, n. 20, ed è incentrata su questioni urgenti riguardanti l’ingresso legale dei lavoratori stranieri e la prevenzione e il contrasto all’immigrazione irregolare. Ed è proprio in questa nota, che non riguarda il decreto attuale, ma quello di qualche mese fa, pone l’accento sulla tematica del trattenimento dei migranti, che ritorna di attualità in relazione all’aumento a 18 mesi come tempo massimo per la detenzione dei migranti ritenuti irregolari presso i Centri di Permanenza per il Rimpatrio. L’organismo dell’Onu evidenzia la necessita di usare la “reclusione” - finalizzata alla verifica dello status dei migranti, per poi eventualmente rimpatriarli- solo come estrema ratio. E non oltre le 4 settimane. Che si tratti di Hotspot o Cpr, cambia poco. L’attenzione è volta proprio al discorso della privazione della libertà. Va ricordato che l’Unhcr, nell’adempiere il proprio mandato conferito dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, è focalizzato sulla protezione internazionale dei rifugiati e delle altre persone sotto la sua responsabilità, nonché sull’assistenza ai governi nella ricerca di soluzioni sostenibili. In tale contesto, l’Unhcr promuove la firma e la ratifica delle convenzioni internazionali per la protezione dei rifugiati, sovrintendendo alla loro applicazione e proponendo eventuali modifiche. L’Unhcr condivide l’importanza di sviluppare procedure di frontiera efficienti e conformi ai principi delle garanzie procedurali. In particolare, ritiene che le domande di protezione internazionale che appaiano manifestamente infondate possano essere esaminate in tempi più brevi in frontiera, con la possibilità di trattenimento limitato, non superiore a quattro settimane, garantendo nel contempo le opportune garanzie legali e procedurali. Tuttavia, l’Unhcr sottolinea che le procedure accelerate relative ai richiedenti asilo provenienti da Paesi di origine sicuri dovrebbero essere applicate solo ai casi in cui non siano stati avanzati gravi motivi per ritenere che il Paese non sia sicuro per la persona in questione. In caso di affermazioni di rischi individuali, l’esame della domanda deve proseguire al di fuori delle procedure accelerate. Il trattenimento dei richiedenti asilo dovrebbe essere evitato, salvo in casi eccezionali, come il trattenimento di quattro settimane per concludere l’esame della domanda di protezione internazionale in procedura di frontiera. L’Unhcr sottolinea che il mancato possesso di documenti di identità, da solo e in assenza di altri segni di non cooperazione con le autorità, non è un indicatore definitivo di rischio di fuga. La nuova legge italiana ha introdotto anche disposizioni sul trattenimento degli stranieri in attesa del trasferimento in un altro Stato membro in base al Regolamento di Dublino. Questa misura - sempre secondo l’Onu è giustificata solo se esiste un notevole rischio di fuga, valutato caso per caso. Inoltre, il trattenimento deve essere limitato e i criteri per la sua applicazione devono essere attentamente considerati. L’Unhcr ribadisce l’importanza di lavorare su misure alternative al trattenimento e sottolinea che il trattenimento deve essere giustificato da uno scopo legittimo, come l’esecuzione di una decisione definitiva di rimpatrio per chi non necessita di protezione. In conclusione, l’Unhcr offre raccomandazioni dettagliate per garantire che le nuove disposizioni sulla protezione internazionale in Italia rispettino i diritti fondamentali dei richiedenti asilo, ma anche di chi non lo è, evitando per quest’ultimi una lunga reclusione. Il Governo scavalca le Regioni, arrivano i Cpr militarizzati di Francesco Grignetti La Stampa, 21 settembre 2023 Giorgia Meloni aveva detto fin da subito che i nuovi Cpr, i Centri per la permanenza e il rimpatrio degli stranieri clandestini, sarebbero stati realizzati dalla Difesa. La premier aveva detto anche che verranno realizzati in aree poco abitate e facilmente “perimetrabili”. Ed eccoci ai passi concreti. In Gazzetta ufficiale è stato pubblicato un emendamento governativo al decreto Sud che svela le reali intenzioni di palazzo Chigi: i Cpr sono dichiarati “opere destinate alla difesa e sicurezza nazionale”. Ciò significa che tutta la materia dei Centri viene tolta alla concertazione tra Stato e Regioni, queste ultime, come anche i Comuni, sono escluse da ogni processo decisionale; sarà il tavolo interministeriale tra Interno e Difesa a scegliere dove e come farli. Alla fine, sarà il Viminale a decidere, attraverso il commissario straordinario, il prefetto Valerio Valenti, come è ovvio che sia. E infatti è filtrata la voce che il ministro Matteo Piantedosi abbia già sentito il governatore Arno Kompatscher, annunciandogli che nell’area di Bolzano sorgerà un centro da 50 posti. Un Cpr analogo sarà realizzato vicino Trento. E un altro ancora a Ventimiglia. “Resistenze ci saranno, ma noi dialogheremo con tutti. Lo faremo però cercando di imporre la linea del governo”, ha annunciato Piantedosi, parlando a “Cinque minuti” su Raiuno. Quanto sia importante per il governo questa accelerazione sui nuovi Cpr è reso evidente anche da uno stanziamento straordinario di 20 milioni di euro a beneficio della Difesa, che quanto prima metterà al lavoro il Genio militare per risistemare vecchie caserme o aree dismesse. In questo senso, però, le forze armate saranno soltanto il braccio operativo che permetterà di tagliare sulle procedure, sui tempi e sui costi. Lo precisa anche il ministro della Difesa, Guido Crosetto: “La sorveglianza e la collocazione dei Cpr sul territorio nazionale non competono alla Difesa”. Tantomeno spetterà ai soldati la vigilanza dei Cpr, pur con l’etichetta di “opere destinate alla difesa e alla sicurezza nazionale, che resterà in capo alle forze di polizia. “La Difesa - dice ancora Crosetto - è uno strumento. Non è tra le parti che decidono dove fare, o coordinano, o trattano. Aspettiamo un piano. E la Difesa non è in gioco fin quando non c’è un piano”. La “rivolta” dei Governatori, sia di centrosinistra che di centrodestra, insomma, è travolta sul nascere. Obiettivo di Giorgia Meloni è avere davvero almeno 21 Cpr, uno per Regione, dove rinchiudere gli espellendi fino a 18 mesi. Sulla Gazzetta ufficiale è scritto anche che i migranti irregolari potranno essere trattenuti fino a un massimo di 18 mesi, con proroghe di 3 mesi in 3 mesi, convalidate dal giudice su richiesta del questore, “qualora l’accertamento dell’identità e della nazionalità” o “l’acquisizione di documenti per il viaggio presenti gravi difficoltà”. La durata massima del trattenimento in regime di detenzione amministrativa vi sarà nel caso di “mancata cooperazione da parte dello straniero” o “ritardi nell’ottenimento della necessaria documentazione dai Paesi terzi”. Spiegazione informale del governo: troppo spesso il clandestino non coopera, nascondendo le sue generalità e la nazione di origine, perché conta che al termine dei 3 mesi, come era fino a qualche tempo fa, tutto finisca nel nulla; se la prospettiva è di restare rinchiusi 18 mesi, si ritiene a palazzo Chigi, probabilmente faranno meno resistenze. Il no bipartisan ai Cpr dei governatori italiani di Mauro Rosin Il Dubbio, 21 settembre 2023 Il Governo vuole costruire una struttura in ogni Regione. Destra e sinistra unite nella lotta. Almeno in quella contro i Cpr, che il governo vorrebbe costruire in ogni Regione, che trova schierati sulla linea del “no” i governatori italiani di ogni colore politico. Tranne ovviamente quelli che già ospitano sul loro territorio strutture per il trattenimento dei migranti e il presidente della Calabria Roberto Occhiuto (Forza Italia) e quello ligure Giovanni Toti. Attualmente i Centri attivi sono nove: a Bari, Brindisi, Caltanissetta, Potenza, Roma, Trapani, Gorizia, Macomer (Nuoro) e Milano. Chiuso per ristrutturazione, dopo i danneggiamenti causati dagli ospiti il Cpr di Torino. All’appello manca dunque più della metà delle Regioni italiane, come prescritto dal dl Sud, pubblicato ieri in Gazzetta Ufficiale, che definisce i Cpr “opere destinate alla difesa e sicurezza nazionale”. L’articolo 21 del decreto prevede un fondo da 20 milioni di euro per il 2023 destinati alla realizzazione delle strutture per il trattenimento e rimpatrio dei migranti irregolari. A essere incaricato della realizzazione dei Cpr che prevede la “progettazione” e “realizzazione delle strutture individuate dal piano, dislocate sul territorio nazionale” sarà “il Ministero della difesa - si legge nel decreto - mediante le proprie competenti articolazioni del Genio militare, l’impiego delle Forze armate e avvalendosi di Difesa Servizi spa”. “Non siamo disponibili a nulla se parliamo di parole al vento. Io sono abituato a discutere di cosa si vuol fare”, dice il presidente dell’Emilia- Romagna Stefano Bonaccini a Radio24 a proposito della disponibilità della Regione a ospitare un Centro di permanenza e rimpatrio per i migranti, aggiungendo la sua voce al coro già animato dal dem toscano Eugenio Giani e dal leghista veneto Luca Zaia. “Questo è il governo che parla di autonomia e che sta invece centralizzando tutte le decisioni a Roma senza confronto con gli enti locali”, argomenta Bonaccini. Quelle sui Cpr “al momento sono parole al vento. Per me di Cpr non se ne parla assolutamente”. Del resto, secondo il governatore emiliano, “il governo ha pienamente fallito la gestione degli arrivi e loro redistribuzione”, e anche “molti sindaci di centrodestra stanno dicendo che così non può funzionare. Ho chiesto un incontro al ministro Piantedosi, ancora senza risposta”. E sul tema ritorna pure Giani che, dopo le prese di posizione del giorno prima, precisa: “Io non impedisco la realizzazione di un Cpr in Toscana. Se arriva il ministero degli Interni e vuole fare un Cpr gli dirò che sono assolutamente contrario sul territorio regionale, il Comune che loro sceglieranno vedremo cosa gli dirà, se ne prenderanno tutte le responsabilità”, mette in chiaro il presidente toscano. Secondo il governatore, Cpr “è una risposta illogica, qualunque persona se ne rende conto, perché il problema non è quello di rimandarli nei loro paesi, non ci andranno mai e per mandarceli ci vogliono 18 mesi. Questo enfatizzare il Cpr da realizzare nelle Regioni è un rispondere in modo demagogico ad un problema a cui non si dà risposte”. Zaia: “I nuovi centri non risolvono. C’è una tempesta perfetta, rischiamo una crisi sociale” di Marco Cremonesi Corriere della Sera, 21 settembre 2023 Il governatore del Veneto è perplesso sui progetti del governo: “Il problema? Non siamo in grado di rimpatriare”. I Cpr? “Aiutano, ma non bastano”. Luca Zaia lo ha detto e lo ribadisce: la situazione è “preoccupante se non allarmante”. Il governatore veneto definisce quella in corso riguardo all’immigrazione una “tempesta perfetta” che può rendere necessario il rivedere “i nostri servizi sanitari, sociali ed educativi. Che rischiano di aprire una questione sociale vera”. Le strategie nazionali e internazionali del governo vengono criticate sia in Italia che all’estero. Vorrebbe un cambio di passo? “La colpa, me lo faccia dire con la massima chiarezza, non è del governo. Se parlo di tempesta perfetta è perché le attuali ondate migratorie dipendono da parecchie cause, non ultima la guerra in Ucraina. Da noi, ci lamentiamo comprensibilmente delle bollette che si impennano. In Africa, la difficoltà di non potersi pagare il cibo riduce alla fame”. Eppure, molti suoi colleghi governatori negli ultimi giorni non hanno fatto mancare le critiche. A tenere banco è la collocazione dei Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr). Che, per dirla in breve, nessuno vuole… “I Cpr sono indubbiamente un anello della catena di gestione, uno strumento che completa la filiera. Ma nel contempo è doveroso dire che non risolveranno il problema”. Perché è così scettico? “Perché guardo i numeri. Perché tutta l’Africa in Italia non ci sta e ovviamente non è questione di razzismo e nemmeno di casacca politica: la realtà è molto chiara. Questi flussi non ci possono essere. Non riusciamo a sostenerli. Non c’è dubbio che noi dobbiamo aiutare chi scappa dalla morte o dalla fame. Ma quest’anno, il bilancio non può che far arrabbiare”. Ci può aiutare a capire? “I dati degli ultimi anni ci dicono che soltanto l’8% avrà lo status di rifugiato. Se è vero come sembra che quest’anno gli arrivi saranno 200 mila, significa che solo 16 mila persone avranno il riconoscimento di essere scappate da morte e fame. Arrotondiamo pure i numeri, arriviamo con i diversi istituti di protezione al 30%, ma la verità è che almeno un 70% dovrebbe avere come unica destinazione il rimpatrio. Significa che alla fine dell’anno avremo 140 mila persone da rimpatriare. Lei sa quanti sono stati negli ultimi anni?”. Mi aiuti… “Quest’anno i rimpatri forzati sono stati 2.270. Nel 2022, sono stati 3.200. La verità è che non siamo in grado di fare rimpatri significativi. Una procedura complicata che prevede passaggi di carte, organizzazione logistica e anche una scorta, a volte in aereo si vedono quattro o cinque agenti per accompagnare un solo migrante. Insomma: è un’utopia pensare di rimpatriare una parte significativa di coloro che sono arrivati senza titolo. È come cercare di svuotare il mare con un secchio”. Gli imprenditori veneti dicono di aver bisogno di manodopera. Le Regioni non potrebbero avere un ruolo nel “guardare dentro” chi arriva in vista di un avviamento al lavoro? “Se non si vuole essere il solito “ufficio complicazione affari semplici” avrebbe un senso. È certamente un tema da affrontare, nel rispetto dell’occupazione dei residenti. Sapendo che non potremo dare 200 mila posti di lavoro e consapevoli che se nel mercato del lavoro ci fossero riduzioni di posti, non è che potranno essere i residenti con famiglia e figli a rimanere disoccupati. Il tema del lavoro è delicato, anzi sacro: non possiamo rischiare conflitti sociali”. Le Regioni, però, chiedono un ruolo e non solo gli oneri. Lei non si associa alla richiesta? “Io sono il primo ad aver proposto un governo del sistema basato su un’accoglienza diffusa e concordata. E mi sono preso una valanga di critiche. Oggi la filiera prevede che chi fa il controllo dei confini si occupi anche della distribuzione dei migranti. E credo sia giusto così: se si separassero le due questioni, rischieremmo che la mano destra non sappia che cosa fa la sinistra”. La premier si è affidata al dialogo con il presidente tunisino Saïed, ma la comunità internazionale non sembra apprezzare. Lei cosa ne pensa? “La Tunisia in questo momento rappresenta una parte fondamentale del problema immigrazione. Ma a me pare che in quel Paese in questo momento non ci sia un governo affidabile. Sono però molto d’accordo con la premier che ha portato la questione immigrazione di fronte all’Onu e che continua insistere con l’Unione, la grande assente che giorno dopo giorno ci accredita il ruolo di campo profughi”. Che cosa dovrebbe fare l’Unione? “Io le rispondo con una domanda: che cosa sta facendo Mari Juritsch? Che cosa fa la referente per i rimpatri, la return coordinator? I collocamenti europei si possono contare sulle dita delle mani e per giunta ci sono paesi come l’Austria e la Francia che stanno sospendendo il trattato di Schengen. Lo chiede un europeista convinto: l’Unione può occuparsi soltanto della carne sintetica?”. Piantedosi, video enfatici sui social e toni polemici. Il nuovo stile comunicativo del ministro di Roberto Gressi Corriere della Sera, 21 settembre 2023 In questo modo si differenzia e allontana da Salvini (anche su Instagram): “Da leader politico può dire quel che vuole, io nel mio ruolo devo avere prove concrete”. Che poi uno si domanda: che ci fa su Instagram questo austero signore, nato a Napoli sessanta anni fa sotto il segno di terra del Toro e originario dell’avellinese Pietrastornina, laurea in giurisprudenza a Bologna, una carriera al ministero dell’Interno, del quale è poi giunto alla guida, come tecnico in quota Lega, nel governo Meloni? Immagini rapide, la premier e Ursula von der Leyen che si stampano un bacio per guancia in quel di Lampedusa, e lui, Matteo Piantedosi, che cammina e parla. La voce non si sente, che è sovrastata da una musica enfatica (Berlin, di Mario Sebastian, giura Shazam), chiusa con il logo del ministero, 1.129 le visualizzazioni. Appuntamento istituzionale, quello di Lampedusa, niente da dire se lo ha doverosamente preferito al raduno generale della grande festa nazionale di Pontida, dove Matteo Salvini, il suo mentore, accompagnato da Marine Le Pen ha dato il la alla infinita campagna elettorale che lo porterà alle europee. Ma che abbia inaugurato una sorta di seconda vita, pare difficile non vederlo. Che di fare il vaso di coccio, con il governo dell’immigrazione che vacilla, sbanda e sbraca e con il leader leghista che, seppur di rimbalzo, lo usa come sacco dei pugni, sembra averne abbastanza. Un avvertimento esplicito lo ha dato nell’intervista a Fiorenza Sarzanini, sul Corriere: “Basta miopi calcoli politici, sia nella maggioranza sia nell’opposizione”. La critica all’opposizione ci sta, è il minimo sindacale, ma il segnale, è ovvio, è tutto per la maggioranza, o per lo meno per una sua parte. Le parole di Roberto Calderoli, poi, gli hanno fatto capire che non ce n’era per nessuno. La frase “con Salvini ministro tutto ciò non succedeva”, era senz’altro un attacco alla principale competitor elettorale, Giorgia Meloni, ma lo schiaffo al ministro era fin troppo evidente per lasciar correre. E infatti Piantedosi è subito uscito dal bunker e ha scelto Ping Pong, la trasmissione di Rai Radio 1, per restituire il colpo e negare che ci sia una regia europea complottarda dietro gli sbarchi: “Io non ho prove, se Matteo Salvini lo ha detto, le sue supposizioni avranno sicuramente qualche fondamento. Lui da leader politico può dirlo, io da ministro dell’Interno devo avere prove concrete”. E poi ancora sul blocco navale: “Può realizzarsi solo se si completa la missione Sophia”, ipotesi al momento appartenente al periodo ipotetico dell’irrealtà. Non che le espressioni d’esordio del ministro non avessero fatto rizzare i capelli in capo anche a Palazzo Chigi. Disse dopo la tragedia di Cutro: “La disperazione non può mai giustificare condizioni di viaggio che mettono in pericolo la vita dei propri figli”. Come anche la definizione dei migranti ai quali si impediva lo sbarco come “carico residuale”. Sarà anche per questo che ha deciso di stringere i bulloni sul piano della comunicazione, e di affidarsi a qualcuno che lo aiutasse a uscire dalle sabbie mobili. Ecco allora, lo ha raccontato Simone Canettieri sul Foglio, l’arrivo dalla Puglia in zona Viminale di Giuseppe Inchingolo, fondatore della società Artsmedia, in un recente passato collaboratore stretto di Luca Morisi, il creatore della “Bestia” dei tempi d’oro di Salvini. Primo risultato: oltre cinquantacinquemila amici nel profilo Facebook del Viminale. Insomma, alla fine della fiera, un rafforzamento della propria posizione personale, almeno dal punto di vista mediatico (e ieri sera era da Bruno Vespa dopo il Tg1), che completamente disarmati non si va alla guerra. E poi un avvicinamento istituzionale e politico alla presidente del Consiglio, perché ballare da soli va bene, ma fino a un certo punto. Infine una garbata quanto decisa differenziazione dal cambio di passo salviniano, troppo preso dalla sua battaglia per pensare alle sorti del suo (o quasi ex suo) ministro dell’Interno. La garante Garlatti: “La presunzione di minore età va tutelata” di Giansandro Merli Il Manifesto, 21 settembre 2023 Il report della Garante nazionale infanzia e adolescenza Carla Garlatti: in Italia 21mila migranti under 18 senza genitori. “A ogni ragazzo devono essere assicurati tre diritti: la presunzione di minore età, la collocazione in una struttura riservata esclusivamente ai minori e un tutore volontario”, dichiara la garante per l’infanzia e l’adolescenza Carla Garlatti. E lo fa proprio alla vigilia del provvedimento che il governo ha annunciato per la prossima settimana allo scopo di intervenire sul presunto problema dei “falsi migranti under 18”. In queste settimane esponenti della maggioranza hanno più volte attaccato la legge Zampa che dal 2017 tutela la presunzione di minore età, in accordo con il diritto internazionale, e ne disciplina la procedura di accertamento attraverso analisi polispecialistiche. Metodo che però non piace a Meloni & co. perché, sostengono, permetterebbe di imbrogliare facendo passare per minore alcune persone con più di 18 anni. Ieri l’autorità garante ha comunicato che i minori stranieri non accompagnati presenti in Italia sono oltre 21mila. “Non c’è più tempo da attendere per completare l’attuazione della legge 47/2017. Il sistema di prima accoglienza deve essere realizzato in maniera strutturale e non più come risposta alle emergenze che di volta in volta si presentano”, dice Garlatti che ieri ha presentato un report scritto a valle di un ciclo di visite nei progetti del Sistema di accoglienza e integrazione (Sai) dei comuni di Amelia (Terni), Aradeo (Lecce), Bologna, Cremona, Pescara e Rieti. Dallo studio e dalle voci dei ragazzi incontrati vengono fuori le esigenze più diffuse di questa componente della popolazione migrante: velocizzare le procedure amministrative per ottenere il permesso di soggiorno; evitare attese che fanno crescere timori e frustrazioni; uniformare le prassi a livello nazionale; garantire la presenza di un mediatore culturale in ogni passaggio; nominare tempestivamente i tutori; creare occasioni di socializzazione e aggregazione con il resto della comunità. “Ho incontrato giovani che sognano di lavorare e di farsi una famiglia nel nostro Paese, ma che non smettono di chiamare casa. Perché, come hanno confessato, sentono la mancanza della madre”, ha detto ancora Garlatti. Che ha ribadito l’importanza dell’istituto dell’affidamento familiare per supportare questi ragazzi nel loro difficile percorso di inserimento. Patto su migrazione e asilo: negoziati in stallo, caos Ue di Anna Maria Merlo Il Manifesto, 21 settembre 2023 La Commissione vorrebbe chiudere prima delle elezioni di giugno, ma gli stati membri si blindano. Austria e Francia sul piede di guerra, aumentano i controlli alle frontiere con l’Italia. La commissione “libertà civili” dell’Europarlamento cerca di salvare la libera circolazione dagli attacchi ripetuti. Confusione a tutti i livelli sulla questione dei migranti in Europa: tensioni al Parlamento europeo sull’iter del Patto Asilo-Migrazione, che la Commissione vorrebbe far passare prima delle elezioni di giugno, reazioni di chiusura che si generalizzano in vari stati membri, controlli in aumento alle frontiere italiane con Francia e Austria, accuse nervose alle Ue da parte di Tunisi. Mentre per cercare di limitare i danni la commissione “Libertà civili” del Parlamento europeo ha adottato ieri una riforma del codice delle frontiere di Schengen per chiarire le regole e rafforzare la libera circolazione, limitando le restrizioni temporanee, sostituendole con la cooperazione delle polizie: gli eurodeputati sono favorevoli all’apertura di negoziati con il Consiglio per attuare questi cambiamenti. Giornate difficili sul fronte delle regole e della solidarietà sui migranti. L’Europarlamento, con una decisione dal carattere simbolico, per fare pressione sugli stati sempre più recalcitranti, ha bloccato le discussioni con il Consiglio su due capitoli del pacchetto asilo-migrazione, che riguardano la regolazione delle crisi, come nel caso attuale (Eurodac - impronte digitali - e Screening). Ci sono stati, Polonia e Ungheria, che stanno bloccando qualsiasi regolamento in caso di crisi. Altri, come Germania e Olanda, che hanno bloccato l’ipotesi di una “pausa” sulle verifiche di identità in caso di crisi di afflussi nei paesi di frontiera esterna. L’Europarlamento vorrebbe uscire dall’impasse e spingere per una conclusione dei negoziati, con l’obiettivo di rispettare i tempi della Commissione e approvare il Patto Asilo-Immigrazione prima delle elezioni europee di giugno. Il prossimo parlamento potrebbe essere molto più a destra di quello attuale. Ma intanto Austria e Francia sono sul piede di guerra, aumentano i controlli per evitare i movimenti secondari degli esiliati di Lampedusa. La Francia ha mosso anche i servizi anti-terrorismo della Dgsi a Mentone. Il ministro degli Interni, Gérald Darmanin, ha vinto lo scontro con la ministra degli Esteri, Catherine Colonna, che allo scoppio della crisi di Lampedusa aveva assicurato che la Francia avrebbe fatto “la sua parte”. Darmanin insiste: nessuno entra degli esuli di Lampedusa. In Germania, la sorpresa di un irrigidimento viene dalla co-presidente dei Grünen, Ricarda Lang, che invita ad aumentare i rimpatri dei richiedenti asilo che risultano di non averne diritto. La vigilia, il ministro delle Finanze, il liberale Christian Lindner, ha proposto tagli al welfare per i richiedenti asilo, e di includere Marocco, Tunisia e Algeria nella lista dei “paesi sicuri”. Anche il presidente tedesco Franz-Walter Steinmeier considera che la Germania stia arrivando a un “punto di rottura”, con 162mila richieste d’asilo nei primi sei mesi di quest’anno, più di un terzo di tutte quelle presentate nella Ue. I sondaggi rilevano un’avanzata spettacolare dell’Afp, il partito di estrema destra, già in testa nelle intenzioni di voto nei Länder dell’est. La ministra degli Interni Nancy Faeser (Spd) è candidata alle elezioni regionale della Hesse. Anche il Memorandum firmato a luglio con la Tunisia da Ursula von der Leyen, assieme a Giorgia Melon e all’olandese Marc Rutte (oggi dimissionario, a novembre ci sono le elezioni e il partito agrario di estrema destra Bbb è in testa nei sondaggi), è in alto mare. Lunedì è previsto un incontro tra la Commissione, i rappresentanti dei 27 e la presidenza spagnola del Consiglio, per fare il punto su un accordo che molti paesi dicono di aver scoperto a cose fatte, senza essere stati informati. La questione dei migranti è ormai nell’agenda del Consiglio di dicembre della Ue. La Tunisia continua a esprimere malcontento: ha impedito l’entrata della delegazione Affari esteri del Parlamento europeo, accusando la Ue di “trattare il paese come se fosse una colonia, sotto tutela”. La Ue prevede un versamento di 675 milioni quest’anno a Tunisi e di fare dell’accordo con Saied un “modello”, come prossimo partner l’Egitto. In questo clima, la commissione “libertà civili” dell’Europarlamento cerca di salvare la libera circolazione dagli attacchi ripetuti. Per la commissione, anche i migranti minorenni e i richiedenti asilo, oltre ai cittadini europei residenti in un altro paese, dovrebbero essere esentati dalle restrizioni di circolazione, anche in caso di gravi crisi sanitarie. In alternativa ai controlli alle frontiere, propongono una maggiore collaborazione delle polizie e l’impegno dei paesi di primo sbarco a riprendersi i migranti senza permesso. Così crescono gli arsenali nucleari di Danilo Taino Corriere della Sera, 21 settembre 2023 Secondo Sipri (Stockholm International Peace Research Institute), a inizio gennaio 2023, delle 12.512 testate in inventario globalmente, 9.576 erano a disposizione dei militari per un potenziale utilizzo: 86 in più rispetto a un anno prima, 60 delle quali cinesi. Se il mondo sta diventando sempre più pericoloso, dall’Ucraina allo Stretto di Taiwan, e se il confronto tra potenze si accende, non sorprende che gli arsenali nucleari crescano e si modernizzino. Un conflitto combattuto con armi nucleari non è alle viste. Ciò nonostante, alcuni dei nove Paesi che le possiedono hanno smesso di pensare a ridurle e anzi le mettono in posizione per essere usate. Secondo Sipri (Stockholm International Peace Research Institute), a inizio gennaio 2023, delle 12.512 testate in inventario globalmente, 9.576 erano a disposizione dei militari per un potenziale utilizzo: 86 in più rispetto a un anno prima, 60 delle quali cinesi. Di queste, 3.844 erano montate su missili e aerei e circa duemila, quasi tutte appartenenti a Russia e Stati Uniti, erano mantenute in alto allarme operativo sui missili stessi o nelle basi dei bombardieri. Sipri dice che russi e americani non dovrebbero avere cambiato di molto la dimensione del loro arsenale (un po’ ridotti) ma avverte che dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina in entrambi i casi la trasparenza informativa è diminuita. Secondo la stima di Sipri, la Cina (nel suo caso la trasparenza è ancora meno garantita) è il Paese che ha aumentato maggiormente il numero di testate: da 350 a 410, tutte pronte per un potenziale uso. “A seconda di come decide di strutturare le sue forze - nota l’analisi dell’istituto svedese - la Cina potrebbe potenzialmente avere entro la fine del decennio almeno tanti missili balistici (Icbm) quanti la Russia o gli Usa”. Missili su cui montare testate nucleari. Sipri nota che è difficile fare quadrare il notevole rafforzamento dell’arsenale cinese con l’obiettivo dichiarato da Pechino di volere solo il minimo di forze nucleari necessario per la sicurezza nazionale. Questo per dire che il rifiuto di Pechino di concordare con altri una riduzione del suo arsenale, in quanto sarebbe solo difensivo, è meno sostenibile di un tempo. Gli altri Paesi che hanno aumentato il numero delle loro testate, sono il Pakistan da 165 a 179, l’India da 160 a 164 e la Corea del Nord da 25 a 30 anche se in questo caso numeri ufficiali e verificati non ci sono. Stati Uniti e Russia hanno un po’ ridotto gli inventari mentre Regno Unito, Francia e Israele li hanno mantenuti costanti durante il 2022. Ma tutti modernizzano le testate e i mezzi per lanciarle. La deterrenza nucleare sta tornando tra noi.