L’assemblea annuale del “Movimento No Prison” Ristretti Orizzonti, 20 settembre 2023 Nelle carceri si muore ma non ci sono responsabili. Il “Movimento No Prison” si ritrova per l’assemblea annuale sabato 23 settembre dalle 10 alle 13 a Roma, presso la Fondazione Basso. I temi e le criticità che saranno oggetto del confronto, purtroppo, sono sempre tante in quanto ciò che continua ad avvenire nelle carceri italiane: suicidi, morti, violenze, atti di autolesionismo, etc., non è stato ancora sufficiente a produrre delle modificazioni legislative per ridurre il sovraffollamento e ridare fiato ai diritti dei reclusi. Il Movimento si interrogherà anche sul fatto che nonostante la presenza di tante organizzazioni ed associazioni nelle patrie galere, per cercare di portare dei segni concreti di speranza, questo non è stato bastevole per smuovere l’immobilismo politico. “In tutte le azioni umane c’è una responsabilità da parte di chi le compie, nel bene e nel male - afferma il portavoce del Movimento Livio Ferrari - le guerre stesse hanno dei precisi responsabili rispetto alle conseguenze che ne derivano, solo nelle carceri sembra non esistano responsabilità. Nonostante annualmente muoiano per suicidio e mala-sanità tante persone (lo scorso anno ha visto il tragico numero di 84 suicidi), non si può addurre alcunché nei confronti di chi ha responsabilità politiche e istituzionali, se non una mera responsabilità politica appunto che però non sposta la questione, mentre ritengo che adottare o/e mantenere leggi che alimentano queste morti dovrebbe portare ad una responsabilità precisa nei confronti dei vertici dello Stato in quanto l’onestà intellettuale e la sensibilità umana dovrebbero essere volani per modificare norme e leggi che creano morte (anche fra il personale della polizia penitenziaria), lascia sgomenti vedere uno Stato che si vendica nei confronti di chi ha fatto del male diventando uguale, così calpestando diritti che dovrebbero essere garantiti ad ogni cittadino”. Il “Movimento No Prison” intende condividere e confrontarsi sui temi in questo momento sul tappeto rispetto alla giustizia e all’esecuzione penale per riuscire, insieme ad altri soggetti impegnati, ad essere finalmente efficaci e produrre un urgente cambiamento. Lattanzi difende l’abuso d’ufficio. Ora parli la politica di Errico Novi Il Dubbio, 20 settembre 2023 Audito sul ddl Nordio in Commissione al Senato, persino il presidente emerito della Consulta che è stato tra i primi giuristi a schierarsi contro il “fine pena mai”, ha bocciato la soppressione del 323. Ma sul piatto c’è lo stop al Pnrr. Ecco una bella occasione che governo e maggioranza hanno di compiere una scelta politica. Non tecnica ma politica. Sulla giustizia, of course, la materia che più di tutte soggiace al parere dei tecnici, o per meglio dire dei magistrati. L’argomento in questione è, in particolare, l’abuso d’ufficio. Che, anche un po’ a sorpresa, continua a suscitare non solo la perplessità ma addirittura la netta critica di autorevolissimi giuristi, anche di ispirazione garantista. Se un riferimento indiscutibile per le battaglie sulle garanzie nel diritto penale è infatti quel Vittorio Manes che una settimana fa ha illustrato più di un caveat, ai senatori della commissione Giustizia, sulla soppressione dell’articolo 323, ieri nello stesso organismo di Palazzo Madama presieduto da Giulia Buongiorno dove sono in corso le audizioni sul ddl Nordio, è arrivata la ancora più drastica contrarietà di Giorgio Lattanzi. Cioè di un presidente emerito della Consulta che non solo è stato, con Giovanni Maria Flick, tra i primi a battersi per il “diritto alla speranza”, e ha aperto così la strada alla storica pronuncia di incostituzionalità sull’ergastolo ostativo del 2021: Lattanzi è anche il “padre” della mai troppo evocata “Relazione sulla riforma penale” che conteneva le proposte, consegnate a Marta Cartabia, in cui c’era di tutto, e molto di quanto non è ancora stato fatto, dal ripristino della prescrizione sostanziale all’inappellabilità delle assoluzioni (ora rilanciata da Nordio). Ebbene, pure lui, il maestro del diritto penale a cui la stessa Cartabia si rivolge come al “suo” Presidente, ieri si è detto “sorpreso” per l’abrogazione dell’abuso d’ufficio. “È un illecito penale direi tradizionale, che preserva l’imparzialità della pubblica amministrazione”, ha esordito Lattanzi nel proprio intervento in commissione Giustizia. Ha confutato le tesi sostenute da via Arenula con un’ampia “controdeduzione”, esposta dopo aver citato la relazione con cui Carlo Nordio e i suoi tecnici hanno motivato la misura. Ma prima ancora di entrare nel merito e nel dettaglio delle obiezioni di Lattanzi, si può considerare chiara a questo punto una cosa: sopprimere il reato che suscita la “paura della firma” è, nella migliore delle ipotesi, un salto nel buio, rispetto alla tenuta formale dell’ordinamento, forse addirittura uno spericolato azzardo. Eppure le ragioni ultime che spingono Esecutivo e maggioranza a insistere perché quel reato sparisca sono sistemiche e allo stesso tempo contingenti. Lo ha chiarito il segretario della commissione Giustizia del Senato Sergio Rastrelli, autorevole esponente di Fratelli d’Italia, in un’intervista al Dubbio: il partito della premier “vuole una pubblica amministrazione efficiente e non paralizzata dalla paura”. Vuol dire che Giorgia Meloni, il suo partito e il suo guardasigilli considerano il triennio scarso che si concluderà a metà 2026, cioè la fase cruciale per l’attuazione del Pnrr, come una contingenza irripetibile che richiede, appunto, un intervento di sistema: liberare gli amministratori, i sindaci innanzitutto, dal freno a mano invisibile costituito dall’abuso d’ufficio, che rischia di rallentare il Piano, ingolfare la realizzazione delle opere e far andare in malora risorse impossibili da riottenere. Non sarebbe male se, in linea con quanto sostenuto da Rastrelli, si compisse almeno per una volta, sulla giustizia, una forzatura in senso garantista. Non sarebbe male considerato che di forzature in senso manettaro se ne sono contate parecchie. Da ultima, quella che si consuma in queste ore alla Camera, dov’è in fase di conversione la norma del Dl Intercettazioni che rende retroattiva la nuova “stretta” sugli ascolti. Ipotesi bocciata dalla quasi totalità dei costituzionalisti eppure difesa contro ogni logica giuridica dal governo, pur di esaudire l’appello dei pm antimafia. Sull’abuso d’ufficio, lo “stato d’eccezione” sarebbe una volta tanto proclamato in base a una logica liberale anziché da guerra permanente. Non poteva essere Lattanzi, d’altra parte, a suggerire tanta realpolitik in materia penale. E infatti ieri il presidente emerito della Consulta si è comportato da interprete rigoroso della scienza giuridica, come lo era stato anche quando scardinò il paradosso della liberazione condizionale concessa agli ergastolani di mafia solo se collaborano. “Mi ha sorpreso che nella relazione si faccia riferimento solo allo squilibrio fra le poche condanne definitive, 18 nel 2021, a fronte delle 4745 iscrizioni a registro avvenute nello stresso anno. Si parla solo di questo. Senza considerare la gravità del fatto. Di condotte attualmente considerate violative di legge, consistenti in un arricchimento illecito o in un danno arrecato ad altri. Non si fa parola”, ha insistito Lattanzi, “dei diversi gradi di offensività di tali condotte. Nonostante si tratti di fattispecie che la Convenzione Onu del 2005 sulla corruzione impegna a prevedere”. Qui Lattanzi non si “inoltra” nel dettaglio della Convenzione, come invece aveva fatto una settimana fa Manes, il quale aveva ricordato che se per i reati di corruzione il testo inglese sottoscritto dall’Italia all’Onu è assertivo (i Paesi aderenti “shall adopt”), nel caso dell’abuso d’ufficio e altre categorie di illecito è al più esortativo (i Paesi “shall consider adopting”). Lattanzi ha rafforzato però la propria critica con un altro riferimento internazionale, la citazione della proposta di direttiva Ue anticorruzione in cui pure l’abuso d’ufficio è richiamato (proposta su cui il Parlamento italiano ha espresso parere critico proprio per l’indicazione sull’abuso d’ufficio, più stringente rispetto alla Convenzione Onu). In realtà le audizioni di ieri sono state arricchite da diversi altri preziosi spunti, offerti sia da Lattanzi che dagli altri auditi, vale a dire il procuratore aggiunto di Santa Maria Capua Vetere Pier Paolo Bruni e il professor Giorgio Spangher (ne daremo conto in modo specifico nei prossimi giorni, ndr). Resta l’impressione che l’addio, almeno temporaneo, all’abuso d’ufficio sarebbe un bel segnale di rottura con la cultura della delazione, in nome della quale vengono partoriti, e protocollati in Procura, le migliaia di esposti dai quali i pm sono “obbligati” a indagare (e rovinare) il sindaco o l’assessore di turno. Dietro quella velenosa cultura della delazione c’è l’antipolitica. E cominciare a sbarazzarsi di un così pernicioso simulacro con una provvidenziale forzatura sull’abuso d’ufficio, ecco, davvero non sarebbe male. “Gli emendamenti non si toccano!”. Forza Italia pronta alla guerra sulle intercettazioni di Simona Musco Il Dubbio, 20 settembre 2023 Dl intercettazioni, gli azzurri non cedono alle richieste del governo: “Lo dobbiamo agli elettori”. Non una pace e nemmeno una tregua, mentre tutti si impegnano (senza convincere nessuno) a negare la faida. È guerra fredda nella maggioranza di governo, divisa ormai in maniera palese su tutti i temi che riguardano la giustizia. E a peggiorare il clima ci si è messo il ministro della Giustizia Carlo Nordio, che oggi ha disertato il tanto atteso appuntamento con i deputati di Forza Italia. Ufficialmente, le ragioni si rintracciano in “impegni concomitanti” del Guardasigilli, che ieri pomeriggio ha arringato la folla ribadendo la necessità di attuare il processo accusatorio al convegno “Le buone leggi. Semplificare, per far ripartire l’Italia”. Ma gli azzurri, che erano arrivati fiduciosi a via Arenula con la speranza di difendere i propri emendamenti sul dl che vuole allargare l’uso degli strumenti antimafia in tema di intercettazioni, avrebbero fatto dietrofront “innervositi” e stremati dai continui tira e molla sul garantismo. Il clima che si respira, dunque, non è di certo dei migliori. L’appuntamento con il ministro, spiegano i berlusconiani, verrà riprogrammato. Ma di tempo, ormai, non ce n’è più, dato che il voto in Commissioni riunite Affari costituzionali e Giustizia dovrebbe iniziare oggi, 48 ore prima di portare il testo in aula a Montecitorio, dove la discussione è calendarizzata venerdì 22. Il decreto va convertito entro il 9 ottobre e il governo ha già chiesto ai forzisti di evitare di arrivare divisi all’appuntamento. Ma tra gli azzurri c’è chi, già da tempo, dice di averne “le scatole piene”, mentre chi tempo fa prendeva atto delle “spinte giustizialiste”, da mandare giù senza darlo troppo a vedere per questioni di opportunità, comincia a mal sopportare il silenzio. Le voci che provengono dall’inner circle berlusconiano sono chiare: gli emendamenti non si toccano. E il più agguerrito in tal senso, stando ai ben informati, sarebbe Tommaso Calderone, capogruppo in Commissione Giustizia, che ne ha messi sul piatto nove. “Non ha la minima intenzione di cedere”, fanno sapere i suoi colleghi, mentre lui si trincera dietro un secco “no comment”. Ma la linea sembra chiara: l’elettorato di Forza Italia - questa la sintesi del ragionamento - è quello delle garanzie, non quello del giustizialismo che trova sponda a destra con Fratelli d’Italia e a sinistra con il M5S e la prudenza, finora, ha portato a perdere solo 4 punti nei sondaggi. “Non abbiamo intenzione di andare al traino di nessuno”, continua un deputato pronto al muro contro muro. Il rinvio dell’incontro con Nordio, chiesto per trovare quantomeno un compromesso - il ritiro di alcuni emendamenti in cambio dell’approvazione di altri - sembra dunque tutt’altro che casuale e appare più come un tentativo di sottrarsi al confronto, forse difficile per chi, come il ministro, si è sempre dichiarato garantista, senza però riuscire a dimostrarlo dallo scranno di via Arenula. Sarà per i diktat di Giorgia Meloni, che non ha mai messo in agenda l’ipotesi di scontentare la magistratura. E infatti alle toghe è bastato chiedere per ottenere il decreto che disinnesca la bomba piazzata da una sentenza della Cassazione del 2022, stando alla quale è illegittimo l’uso degli strumenti antimafia in assenza di una contestazione per associazione mafiosa. Una sentenza che “preoccupa”, aveva spiegato in audizione Giovanni Melillo, capo della Direzione nazionale antimafia, in quanto andrebbe a innovare “il quadro di diritto vivente definito dalla sentenza Scurato”, che riconosceva l’applicabilità della disciplina speciale anche ai reati commessi con metodo mafioso o al fine di agevolare gli scopi di un’organizzazione mafiosa. Tutte d’accordo con lui le toghe, mentre i costituzionalisti sentiti in commissione stanno, di fatto, con Forza Italia: la disposizione transitoria che rende il decreto retroattivo è incostituzionale e forse lo è anche la scelta della decretazione d’urgenza. E a sottolineare le storture ci si è messo anche l’Ufficio studi della Camera, secondo cui il decreto sembra rispondere a “10 diverse finalità” facendo venir meno il requisito dell’omogeneità, tanto da richiamare alla memoria le bocciature della Consulta in tal senso, in particolare la sentenza 247/2019, che stroncava la “materia finanziaria” come ratio per accorpare di tutto e di più. Inoltre, per quanto riguarda la retroattività, l’Ufficio studi ha sottolineato la necessità “di chiarire l’ambito di applicazione della normativa in questione” in relazione ai processi in corso, dal momento che “alla disciplina di carattere processuale si applica di norma il principio generale del tempus regit actum”. Insomma, gli ingredienti per lo psicodramma ci sono tutti. E mentre dalla maggioranza si prova a smentire qualsiasi malumore - ma senza troppa convinzione -, nelle Commissioni riunite si procede spediti per chiudere i lavori. Ieri sono stati resi noti gli emendamenti ritenuti inammissibili in quanto non strettamente attinenti alle materie oggetto del decreto. E tra questi non ci sono quelli che mirano a ridurre la portata dell’intervento antimafia. “Gli emendamenti sulle intercettazioni sono stati ammessi e sono molto chiari - ha commentato il deputato di Azione Enrico Costa -. Se verranno approvati i nostri e quelli di Forza Italia si volterà finalmente pagina: si dirà basta alle “intercettazioni a strascico” ed al trojan applicato indiscriminatamente. Sono proposte in linea con gli indirizzi di Nordio: sarebbe un’enorme contraddizione se il Governo esprimesse parere negativo. Significherebbe che tante belle parole cedono alla parte giustizialista della maggioranza”. Un chiaro messaggio al ministro, invitato alla coerenza, mentre lui, in piazza, prometteva di “rifare il processo penale”, enfatizzando “l’accelerazione dei processi” e “la figura dell’avvocato”. Ma non solo: Nordio ha rilanciato l’abolizione dell’abuso d’ufficio e la separazione delle carriere, “non negoziabile” in quanto presente “nel programma di governo” e diretta conseguenza “del processo accusatorio”. La riforma, ha sottolineato, “non ha come conseguenza che il pm venga portato sotto l’esecutivo: se l’è inventato chi non vuole la separazione delle carriere. Il nostro è l’unico Paese al mondo in cui vi è questa interazione tra pm e giudice, lasciando fuori la figura dell’avvocato. Se avremo la possibilità, come spero e penso, di durare l’intera legislatura, la faremo”. Infine a novembre, con la nuova riforma in cantiere, “interverremo sulla prescrizione”, ha assicurato. Interventi che, sulla carta, sembrano andare nel senso sperato da Forza Italia. Chissà se, anche questa volta, ci penserà Meloni a spegnere gli entusiasmi. L’inadeguata giustizia moraleggiante e i bisognosi lasciati a loro stessi di Iuri Maria Prado linkiesta.it, 20 settembre 2023 Una madre con una capacità mentale equivalente a un bambino di sette anni è stata accusata di aver lasciato sola in casa sua figlia di diciotto mesi, causandone la morte per negligenza. Il sistema giudiziario ha posto più enfasi sulla indignazione piuttosto che sul bisogno di cura per la persona che ha sbagliato. Tempo fa una perizia aveva indicato che quella persona ha un quoziente di intelligenza di un bambino di sette anni, dunque è tecnicamente un’insufficiente mentale. Parliamo della madre che l’anno scorso lasciò la figlia sola in casa, per giorni, lasciando che vi morisse senza curarsene e che ieri ha dato la sua versione davanti ai giudici milanesi che la stanno processando. Se quella perizia fosse fondata (e l’impassibilità dell’imputata nelle sue dichiarazioni di ieri lo lascia almeno ipotizzare) ci sarebbe da riflettere. Perché tutti ricorderanno lo strepito che quel caso suscitò, con l’Italia benpensante adunata in requisitoria contro la madre assassina e con la giustizia italiana mobilitata per dare soddisfazione a quella turba linciatrice. È un discorso molto difficile da fare, quando di mezzo c’è la morte orribile di una bambina di diciotto mesi. Abbandonata, lasciata a languire nel letto, nel caldo atroce di luglio, con poco o nulla da bere e da mangiare, col biberon probabilmente instillato di droga per intorpidirle i sensi, e dunque morta così, di stenti, disidratata, con lo stomaco ripieno di lacerti di pannolino, la cosa di cui ha provato ad alimentarsi, presa dal terrore o impazzita di fame. È perfino difficile leggere una storia simile, figurarsi dirne qualcosa. Ma c’è qualcosa da dirne pensando a quel che lo Stato, con la sua giustizia, immediatamente aveva preso a organizzare a carico della responsabile di quel folle delitto. Il potere pubblico che evidentemente non si accorgeva che quella donna era senza dubbio bisognosa di cure (e può essere che sia scusabile, questa disavvertenza: ma c’è stata), con ben poco diritto avrebbe potuto esercitarsi nella morale che invece faceva ornamento ai provvedimenti di giustizia nei confronti di questa malata. I magistrati scrissero che questa disgraziata è “incline alla mistificazione e alla strumentalizzazione degli affetti”, e che non ha “rispetto per la vita umana”. Ma per quale motivo, a quale fine e in virtù di quale titolo un magistrato (il quale deve applicare una legge che non prevede il reato di “mistificazione e strumentalizzazione degli affetti”) ritiene di lasciarsi andare a quelle divagazioni moraleggianti? E se quest’altro deve essere dunque il criterio, cioè l’indugio sulla dotazione morale e affettiva di quella persona chiaramente disturbata, allora perché non soffermarsi sulla responsabilità dello Stato etico che non si predispone adeguatamente per aiutare e assistere i bisognosi di cure, e dunque per prevenire gli inevitabili spropositi che essi possono commettere? Perché non c’era posto, in quella requisitoria, per la disattenzione pubblica che ha consentito a quella madre di fare quel che ha fatto? E ancora (questa è la parte anche più difficile, ma anche più importante, del discorso): quel fare moraleggiante della giustizia a che cosa serviva? A restituire quella donna alla società, se e quando sarà possibile, e nella misura in cui sarà possibile, o invece a giustificare che la società la seppellisca per sempre? Quella bambina è morta per sempre ed era persino troppo piccola per capire il significato del male che la madre le stava facendo. Troppo piccola per capire che la fame e la sete che l’hanno tormentata fino a ucciderla erano l’effetto della noncuranza della mamma. Ma a quelli che reclamano giustizia in difesa delle vittime, io domando: se quella bambina fosse sopravvissuta, e se avesse raggiunto un’età sufficiente a capire che la madre era così malata da non poterla amare, da non poter prendersi cura di lei, che cosa avrebbe preferito? Sapere che quella sua mamma, un giorno, chissà, avrebbe potuto fare un po’ di bene magari non a lei, ma a qualcuno, o sapere che lo Stato e la società che la giudicano gliel’hanno impedito per sempre? Vedremo quale giustizia sarà fatta su questo caso. Se ripeterà certi toni inquirenti, sarà inadeguata. In carcere da 32 anni: per la Procura è “innocente”, ma da tre anni gli rinviano l’udienza di Valentina Errante Il Messaggero, 20 settembre 2023 Il pg di Cagliari crede alla sua difesa, ma a Roma da tre anni non discutono il caso. Il sospetto, fondato, è che Beniamino Zuncheddu sia innocente e che abbia trascorso gli ultimi 32 anni della sua vita in carcere ingiustamente dopo la condanna per un triplice omicidio. La certezza invece riguarda i soliti tempi della giustizia, perché a tre anni dalla richiesta di revisione del processo, la Corte d’Appello di Roma, investita del caso, non è si è ancora pronunciata. Nonostante la richiesta sia arrivata dallo stesso procuratore generale della Capitale Francesco Piantoni. Ieri è arrivato l’ennesimo rinvio: la Corte ha deciso di sentire il testimone chiave della vicenda e sua moglie, figlia di una delle vittime. Ma anche il poliziotto che ha condotto le indagini. Se ne riparla il 13 ottobre, quando si deciderà sull’eventuale sospensione della pena. La vicenda - Tutto comincia l’8 gennaio del 1991, quando in un ovile di Sinnai vengono uccisi tre uomini: Gesuino Fadda, proprietario dell’allevamento, il figlio Giuseppe e il pastore Ignazio Pusceddu. Luigi Pinna, marito di una delle figlie di Fadda, viene ferito e si salva. Ma l’uomo, interrogato, dice che l’assassino aveva un collant sul volto e di non essere in grado di identificarlo. A distanza di settimane, Pinna cambia versione e accusa Zuncheddu che riconosce in una foto. Così il pastore di Burcei (altro paese del Cagliaritano) viene arrestato. A giugno ‘92 la sentenza è definitiva. L’uomo, oggi 59enne, protesta inutilmente la sua innocenza e si dispera, ma non viene creduto. L’ipotesi della difesa è che il teste chiave sia stato condizionato dal poliziotto che evve l’indicazione da un confidente. I dubbi sul testimone - Nel 2017 l’avvocato Mauro Trogu, che difende Zuncheddu avvia le indagini difensive. Due anni dopo, presenta i riassunti in una bozza di richiesta di revisione, al Procuratore generale presso la Corte d’Appello di Cagliari e al Comando provinciale dei carabinieri di Cagliari, chiedendo l’avvio di nuove indagini per accertare se si potessero individuare altri responsabili degli omicidi per cui era stato condannato Beniamino Zuncheddu. È il 2019 quando le verifiche ripartono e la pg Francesca Nanni decide di risentire Pinna che conferma al magistrato le accuse nei confronti di Zuncheddu. Ma quando poi, quando torna in macchina l’uomo, che non sa di essere intercettato, dice, in sardo, alla moglie: “Mi volevano far dire che Marieddu (il poliziotto) mi ha fatto vedere la fotografia prima. Loro hanno capito che è veramente così, ed è la verità”. A questo punto la pg Nanni si convince dell’innocenza di Beniamino Zuncheddu e inoltra alla Corte d’Appello di Roma un’articolata richiesta di revisione così il caso finisce a Roma. Viene concesso un nuovo dibattimento. Il pg romano Francesco Piantoni chiede alla Corte revisione. Ma il tempo trascorre invano, la Corte ordina una perizia sulle intercettazioni in sardo, in tutto sei. Trascorrono sei mesi, ma il lavoro del perito viene ritenuto insufficiente. Si decide intanto che le intercettazioni da esaminare sono 30. E viene incaricato un tecnico per la traduzione delle conversazioni intercettate che scagionerebbero Zuncheddu. Il deposito avviene nel novembre del 2022. Intanto la Corte respinge la richiesta di sospensione della pena avanzata dal legale. E per liberare Beniamino Zuncheddu è stata anche presentata la richiesta di grazia al Capo dello Stato. Ieri davanti a piazzale Clodio è andata in scena una manifestazione organizzata dal partito Radicale. Presenti Irene Testa, garante dei detenuti in Sardegna, l’avvocato Mauro Trogu, il sindaco di Burcei, Simone Monni, e Gaia Tortora, la figlia di Enzo, simbolo delle vittime della giustizia che sbaglia. “Siamo fiduciosi - ha commentato Irene Testa - la prossima udienza sarà cruciale e siamo sicuri che tutto si svolgerà in tempi rapidi”. “Sono già quattro anni che siamo in attesa che la Corte si pronunci sulla scarcerazione di una persona, Beniamino, che è in carcere da oltre 30 anni. Tutti a Burcei sono convinti della sua innocenza. Aspettiamo che anche la giustizia italiana lo riconosca” ha commentato Monni. Caso Regeni, è il giorno della Consulta: ecco la posta in gioco di Valentina Stella Il Dubbio, 20 settembre 2023 Sono due le strade percorribili per processare i presunti assassini. La Corte può rigettare la questione, dichiarare incostituzionale la norma o emettere una sentenza manipolativa additiva. Oggi arriva in Corte costituzionale il caso di Giulio Regeni, il ricercatore italiano sequestrato, torturato e ucciso in Egitto nel 2016. Accogliendo la richiesta del procuratore capo Francesco Lo Voi e dell’aggiunto Sergio Colaiocco, mercoledì 31 maggio 2023 il gup di Roma ha deciso di inviare gli atti alla Consulta. Una richiesta finalizzata a sbloccare lo stallo in cui si trova il procedimento. E oggi i giudici, riuniti in Camera di Consiglio (relatore della causa sarà Stefano Petitti), dovranno valutare la questione. La decisione è attesa nei prossimi giorni. Imputati sono quattro 007 egiziani: il generale Sabir Tariq, i colonnelli Usham Helmi e Athar Kamel Mohamed Ibrahim, e Magdi Ibrahim Abdelal Sharif, accusati a vario titolo di sequestro di persona pluriaggravato, lesioni aggravate e concorso in omicidio aggravato. Secondo quanto ricostruito gli imputati avrebbero, tra l’altro, usato “strumenti dotati di margine affilato e tagliente ed azioni con meccanismo urente, con cui gli cagionavano numerose lesioni traumatiche a livello della testa, del volto, del tratto cervico-dorsale e degli arti inferiori”. I militari non hanno mai comunicato i loro indirizzi, necessari a inviare la notifica del procedimento in corso. La procura di Roma aveva sollevato la questione di costituzionalità rispetto agli articoli 2, 3, 24, 111, 112, 117 della Costituzione in riferimento all’articolo “420 bis, commi 2 e 3, cpp nella parte in cui non prevedono, rispettivamente, che il giudice procede in assenza dell’imputato, anche quando ritiene altrimenti provato che l’assenza dell’udienza sia dovuta alla mancata assistenza giudiziaria o al rifiuto di cooperazione da parte dello Stato di appartenenza o di residenza dell’imputato e che il giudice procede in assenza dell’imputato anche fuori dei casi di cui ai commi 1 e 2, quando ritiene provato che la mancata conoscenza della pendenza del procedimento dipende dalla mancata assistenza o dal rifiuto di cooperazione da parte dello Stato di appartenenza o di residenza dell’imputato”. Tra i passaggi più critici dell’ordinanza del gup leggiamo il riferimento all’articolo 3 della Costituzione, in cui si censura la situazione di sostanziale immunità imposta all’Italia dallo Stato estero: “La scelta delle Autorità egiziane di sottrarre i propri cittadini alla Giurisdizione italiana per l’accertamento delle responsabilità in ordine a delitti che ledono i diritti inviolabili dell’uomo, è una scelta anti- democratica, autoritaria, che di fatto crea in Italia, Paese che si ispira ai principi democratici e di eguaglianza, una disparità di trattamento rispetto ai cittadini, italiani e ai cittadini stranieri di altri Paesi, che in casi analoghi verrebbero processati”. Scrive ancora il dottor Roberto Ranazzi nell’ordinanza: “Di fatto lo Stato egiziano, rifiutando di cooperare con le Autorità italiane, sottrae i propri funzionari alla giurisdizione del giudice italiano, creando una situazione di immunità non riconosciuta da alcuna norma dell’ordinamento internazionale, peraltro con riguardo a delitti che violano i diritti fondamentali dell’uomo universalmente riconosciuti. Tale situazione di immunità determina una inammissibile “zona franca” di impunità per i cittadini- funzionari egiziani nei confronti dei cittadini italiani che abbiano subito in quel Paese dei delitti per i quali è riconosciuta la giurisdizione del giudice italiano in base alle convenzioni internazionali”. Nell’ordinanza si invoca poi il principio di obbligatorietà dell’azione penale: “Anche in questo caso l’immunità degli stranieri (segnatamente dei cittadini egiziani) rispetto all’esercizio dell’azione penale del pubblico ministero italiano appare inaccettabile, perché contrasta con i principi di democrazia ed uguaglianza propri del nostro ordinamento costituzionale. Di fatto, l’azione penale, quando vi è il rifiuto delle Autorità straniere di far processare in Italia i propri cittadini, è subordinata al potere esecutivo dello Stato straniero”. Quanto agli obblighi internazionali ed alla Convenzione sulla tortura si legge che “tale ultima disposizione della Convenzione non solo è stata ignorata dalle Autorità di Governo e dalle Autorità giudiziarie egiziane, ma è stata “osteggiata” in modo palese. La violazione della Convenzione internazionale sulla tortura da parte dello Stato egiziano (che ha ratificato il trattato) impedisce allo Stato italiano, a sua volta, di osservare la medesima Convenzione, e cioè di processare i presunti autori del delitto di tortura commesso nei confronti di Giulio Regeni”. Riguardo infine all’articolo 111 della Costituzione si stigmatizza in modo molto chiaro che “non vi è processo più “ingiusto” di quello che non si può instaurare per volontà di una Autorità di Governo”. Le strade che si aprono potrebbero essere tre: la Consulta rigetta la questione, la accoglie e dichiara l’incostituzionalità della norma, emette una sentenza manipolativa additiva colpendo la disposizione “nella parte in cui non prevede che”, con la quale rivede (“manipola”) il contenuto della legge, per evitare di dichiararla incostituzionale ed impedire così la formazione di un vuoto normativo nel sistema. Nel primo caso il processo Regeni non si potrebbe celebrare, negli altri due casi si potrebbe procedere immediatamente. Ma come sottolineato sulla rivista Sistema Penale dalla professoressa Serena Quattrocolo, ordinario di diritto processuale penale nell’Università del Piemonte Orientale, “solo l’eventuale accoglimento della formulata questione di legittimità potrebbe deviare il corso del procedimento dalla pronuncia di non doversi procedere per mancata conoscenza della pendenza del processo”. Giardini terapeutici di Padova, una cura per l’Alzheimer da un Terzo Settore innovativo di Nicola Boscoletto* Corriere della Sera, 20 settembre 2023 Cara Elisabetta, in occasione della giornata dell’Alzheimer, il 21 settembre prossimo, vorrei affrontare il tema con una provocazione che in realtà è una sfida da continuare. Spesso si pensa che per chi ha una perdita di memoria sia impossibile condurre una vita dignitosa; invece questa possibilità esiste tramite percorsi mirati. Ne erano già convinti i responsabili di Opsa (Opera della Provvidenza S. Antonio di Rubano, Padova) quando agli inizi del 2000 realizzarono il Centro Servizi per malati di demenza, prevedendo per loro una struttura adeguata all’accompagnamento nel percorso di vita, tra cui le aree verdi. Come cooperativa Giotto accettammo la sfida progettando tre Giardini Terapeutici con le poche conoscenze di allora. Cinque anni fa abbiamo deciso di riprendere la sfida con due progetti, spinti dai progressi degli studi in materia. Il progetto Esperide ha rilevato caratteristiche, metodi e strumenti per la fattibilità e sostenibilità dei Gt, mentre il progetto Verbena, nato dalla sinergia tra Giotto, Università di Padova e Centro Servizi, ha indagato in due anni di sperimentazione i contenuti terapeutici, in particolare i criteri per la progettazione. Verbena ha messo in luce che i Gt producono benefici significativi: i pazienti tendono a ricordare di più il passato, a riconoscere di più le persone, ma anche a essere meno ansiosi, meno depressi e meno agitati e con meno farmaci. Ora crediamo sia importante proseguire con nuovi studi, ma soprattutto avviando un iter formale per giungere a un riconoscimento reale dei percorsi di cura non farmacologici. Si tratta di un intervento di politica sociale pubblica, necessario per dare risposte concrete per il miglioramento della vita di chi affronta un problema come l’Alzheimer che coinvolge anche familiari e operatori. Sarebbe utile un indirizzo nazionale concordato con le regioni per orientare in modo corretto l’affronto di una malattia che deve uscire dal silenzio che la circonda. *Giotto Cooperativa Sociale, Padova Risponde Elisabetta Soglio Caro Nicola, volentieri ospitiamo questa importante testimonianza nell’approssimarsi della Giornata sull’Alzheimer. Anzitutto perché voi siete la conferma (ennesima) che il Terzo settore in Italia, anche su temi così complessi e delicati, sta dando continua prova di capacità sperimentale e innovativa, maturando competenze riconosciute anche a livello scientifico e internazionale. Siete la prova di un saper fare che toglie al Terzo settore l’immagine dei “buoni” regalandoci invece quella dei “capaci”: di quelli cioè che mettono al centro del loro agire l’attenzione alla persona preservandone sempre la dignità e rincorrendo soluzioni che valorizzino le capacità di ciascuno. Questa è l’autentica ricerca di bene comune, capace, per citare il professor Stefano Zamagni, di generare bene condiviso. Sassari. Giallo a Bancali: segni sul corpo del giovane Erik, il medico legale svelerà il mistero di Gianni Bazzoni La Nuova Sardegna, 20 settembre 2023 Il legale della famiglia: “Deve essere fatta chiarezza, non credo che si sia tolto la vita”. Quei segni sul corpo li hanno appena visti durante le operazioni di riconoscimento, poi sono usciti, il cadavere è sotto sequestro su disposizione della magistratura. E si attende il pronunciamento del medico legale per capire se la morte in cella, a Bancali, di Erik Masala, 26enne di Cagliari, si porta dietro anche qualcuno dei misteri che fioriscono sempre dentro le carceri. O se sarà solo un altro numero iscritto nel totale dei 50 suicidi che ci sono già stati negli istituti di pena italiani. Il penultimo a Terni, appena 24 ore prima. L’avvocato Riccardo Floris, che ha seguito Erik Masala nel suo percorso giudiziario, rappresenta anche i familiari che chiedono l’accertamento della verità sulla morte di un padre-ragazzo, con due figli piccoli. “Ho reiterato la richiesta al sostituto procuratore della Repubblica di Sassari Angelo Beccu - ha detto il legale - affinché si faccia piena chiarezza sulle circostanze della morte di Erik. Il suicidio continua a sembrare molto strano”. Oggi il magistrato che si occupa dell’inchiesta - al momento senza indagati - dovrebbe affidare l’incarico per l’esame del medico legale. E si tratta di un passaggio cruciale nella ricerca di quei chiarimenti che chiedono i familiari della giovane vittima. Erik Masala era tra quei detenuti censiti come “problematici”, che in carcere vuol dire tutto e niente. Perché una buona parte della popolazione carceraria è costituita da persone con problemi di alcol e droga, ma anche psichiatrici. E sono parecchi quelli con la cosiddetta “doppia diagnosi”. La difficoltà denunciata più volte, anche dal garante dei diritti delle persone private della libertà personale Gianfranco Favini è che manca il personale sanitario, non ci sono strutture adeguate per l’assistenza continua e anche che detenuti con determinate patologie specifiche e con dipendenze non dovrebbero stare in cella. Erik Masala aveva cambiato: da una sezione all’altra, da una cella all’altra. Un viaggio attraverso problemi, difficoltà, contrapposizioni pesanti. A Ferragosto - secondo quanto evidenziato dal Sappe - lo scontro violento con un altro recluso. Rapporti disciplinari e querele. Fino al trasferimento alla terza sezione, cella 9, da solo. E lì il 26enne avrebbe messo in atto quello che forse doveva essere un gesto dimostrativo, poi degenerato in suicidio. Secondo le indiscrezioni, pare che un agente lo avesse visto poco prima a colloquio con gli infermieri che gli avevano somministrato un antidolorifico su sua richiesta. E al passaggio successivo per i controlli, Erik Masala era già morto. L’inchiesta va avanti, il pm ha acquisito il rapporto della polizia penitenziaria, la documentazione compilata dal medico del carcere. Del fascicolo fanno parte anche le immagini registrate dalle telecamere del corridoio davanti alla cella dove si trovava Erik Masala. Alla procura della Repubblica si è rivolto il garante Gianfranco Favini per denunciare che “il ministero della Giustizia opera in totale assenza di programmi e investimenti per evitare le vessazioni che devono sopportare i detenuti nelle lunghe e interminabili giornate chiusi nelle celle”. E il leader del Sappe Donato Capece ha affermato: “Quanto accaduto a Bancali testimonia ancora una volta di più l’ingovernabilità delle carceri italiane”. E di “fallimento della politica giudiziaria e penitenziaria” ha parlato la garante regionale Irene Testa che sulle gravi condizioni di vivibilità a Bancali aveva scritto una lettera al presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Infine Maria Grazia Caligaris, esponente di Socialismo diritti riforme: “Lo sgomento e il dispiacere non sono più sufficienti, la gestione del disagio deve essere affrontata in modo da non farla ricadere su un luogo e su persone che devono soltanto organizzare e rendere utile il tempo da trascorrere dietro le sbarre. Allo Stato non può mancare questa consapevolezza, altrimenti si rende complice di ogni vita senza speranza che si spegne”. Salerno. “Io, quattro anni in trincea. Lascio un carcere migliore” di Gaetano de Stefano La Città di Salerno, 20 settembre 2023 La direttrice dal 22 settembre ad Avellino: “Il momento più difficile? Il Covid”. Ripercorre i suoi quattro anni alla guida della Casa circondariale di Salerno, parlando di tutto, anche delle rivolte e della criticità della struttura. Perché la direttrice dell’istituto penitenziario di via del Tonnazzo, Rita Romano - che dal prossimo 22 settembre sarà destinata a dirigere il carcere irpino “Antimo Graziano” - non si nasconde dietro un dito. Ieri con molte probabilità il suo ultimo incontro pubblico in occasione dell’arrivo a Fuorni della reliquia del braccio di San Matteo. E così ripercorre la sua esperienza in un istituto che ha cercato di governare nel migliore dei modi, nonostante le carenze d’organico e il sovraffollamento dei detenuti. “Ringrazio - esordisce - tutti i collaboratori leali. E anche chi non lo è stato”. Qual è lo stato di salute del carcere di Salerno? Sicuramente non è al top ma chi prenderà il mio posto non dovrà ricominciare da zero ma, mutuando il titolo di un celebre film di Massimo Troisi, da tre. Questo vuol dire che lascio una struttura che è migliorata da quando ho assunto la direzione, sia dal punto di vista strutturale che di tutte le attività. Sicuramente restano insoluti i problemi della carenza del personale e del sovraffollamento che, in realtà, sono mali comuni che riguardano un po’ tutti gli istituti campani e italiani. In definitiva, però, credo che non si possa lamentare nessuno, né il personale e neppure i detenuti. A quest’ultimi è stata data la possibilità di usufruire di un’ampissima scelta d’offerta trattamentale. Non a caso proprio oggi (ieri per chi legge ndr) si conclude il progetto “Vediamoci chiaro” in collaborazione con i Lions di Salerno che hanno eseguito delle visite oculistiche e regaleranno ai detenuti indigenti gli occhiali da vista. Il penitenziario cittadino è balzato spesso agli onori della cronaca per il rinvenimento di smartphone e sostanze stupefacenti. E la stessa Procura ha definito il carcere una piazza di spaccio. Com’è possibile? Anche in questo caso si tratta di una condizione comune a tutti gli istituti di pena italiani. Nel caso di Salerno la preponderanza numerica dei detenuti e la carenza di personale sono elementi che ovviamente incidono su questo fenomeno. A questo vanno aggiunti gli intessi in gioco, che sono alti tant’è che sono stati accertati dalla stessa Procura. Vi siete fatti un’idea di come possano entrare cellulari e droga nelle celle? Attraverso i pacchi destinati ai detenuti, nonostante la nostra dotazione preveda una strumentazione per il controllo abbastanza sofisticata. E, poi, con i droni. Cosa servirebbe per elevare ulteriormente gli standard di sicurezza? Esclusivamente che ci fosse tutto il personale previsto in organico. Nient’altro. In questi quattro anni che sono stata a Salerno, a parte la parentesi del Covid che ha bloccato tutte le attività, ho potuto contare su un’ottima squadra. Senza il contributo e il supporto del personale, tenuto conto delle tante criticità, non saremmo riusciti a portare a termine diversi progetti. Può confidarci il momento più difficile? Sicuramente il periodo del Covid, al di là della rivolta del 7 marzo del 2020, per tutto quello che è scaturito dalla pandemia, a partire dalla gestione dell’emergenza sanitaria fino ad arrivare alla creazione di percorsi ad hoc per evitare i contagi. E anche in questo caso siano stati virtuosi, tant’è che nella prima fase della pandemia abbiamo registrato al massimo due contagi, facendo della resilienza il nostro motto, tant’è che l’istituto salernitano è diventato sito di produzione delle mascherine. Riavvolgiamo il nastro e torniamo alla rivolta del 7 marzo: com’è riuscita a calmare gli animi? La prima volta che ho dovuto affrontare un evento critico è stato appena arrivata, il 5 aprile 2019. È stato il mio battesimo del fuoco: mi sono frapposta tra i due gruppi di detenuti - uno formato da napoletani, l’altro da salernitani, che erano pronti a scontrarsi - che non hanno concretizzato i loro intenti bellicosi proprio per la mia presenza. Mi ricordo che qualcuno ha urlato “Se continuiamo facciamo male la direttrice”. In quell’occasione ho riportato una slogatura al polso. Per quanto riguarda la rivolta del 7 marzo, ringrazio adesso pubblicamente il prefetto e le altre forze dell’ordine per il loro tempestivo intervento che probabilmente è stato risolutivo ed è servito a far desistere i detenuti che erano riusciti a salire sui tetti. Lei ha ricordato la rivalità tra detenuti napoletani e salernitani. C’è ancora? In questo periodo sembra che si siano calmati gli animi. Evidentemente sono stati trovati degli equilibri interni. Se potesse tornare indietro, rifarebbe tutto? Per mio carattere rifarei tutto, anche gli stessi errori, visto che sono caparbia. Probabilmente metterei meno cuore nella gestione. Dalla nuova sfida professionale cosa s’aspetta? Spero di non deludere chi ha puntato su di me e il personale del carcere di Avellino, che già mi sta inviando segnali positivi. Quale consiglio dà alla nuova direttrice del carcere di Fuorni? Nessuno. Per mia natura non mi piace darli, perché non amo riceverli. Come dico spesso voglio sbagliare ma da sola. Vicenza. Sistema carcerario in difficoltà, l’analisi del cappellano spinge a fare di più vicenzatoday.it, 20 settembre 2023 Luisetto (Pd): “Serve una classe politica sensibile alla questione”. Carenza di figure educative, il bisogno di formazione degli agenti di polizia penitenziaria e la necessità di professionalizzare i detenuti. Sono queste le criticità avanzate da don Luigi Maistrello e del Garante dei diritti dei detenuti, Mirko Maule relativamente al sistema carcerario di Vicenza. Chiara Luisetto, consigliera regionale del PD Veneto, presente alla seduta della quarta commissione consiliare del Comune di Vicenza nella quale è intervenuto don Luigi Maistrello ha sottolineato come: “L’analisi che, con puntualità e chiarezza, il cappellano della casa circondariale di Vicenza, don Luigi Maistrello, ha esposto nel corso dell’audizione, tocca i nodi di un disagio che riguarda i detenuti ma anche chi quotidianamente se ne prende cura. E richiama anche la Regione a fare la propria parte e ad intervenire in sinergia con il Ministero, il Comune e la struttura”. “In questo senso serve anche una classe politica sensibile alla questione, certamente lontana da quell’approccio mostrato recentemente dall’assessore Donazzan, che svilisce una umanità nel cui recupero si deve invece credere. La Regione - conclude Luisetto - può fare molto perché ha competenze che includono l’assistenza medica dei detenuti, quella farmaceutica, l’intervento sulle tossicodipendenze e la prevenzione. Dei 350 detenuti nella casa circondariale di Vicenza, 40 soffrono di disturbi psichiatrici e necessitano di ancora maggiori attenzioni e interventi dedicati: numeri che impongono, tanto a Vicenza quanto negli altri istituti penitenziari del Veneto, un’attenzione concreta”. Piacenza. “Per una giustizia riparativa”. Cresce la rete a favore della “messa alla prova” Libertà, 20 settembre 2023 Ogni anno, in provincia di Piacenza, le realtà associative aderenti al Centro servizi per il volontariato accolgono in media 150 persone alle quali, attraverso l’istituto della “messa alla prova”, viene accordata la sospensione del processo a fronte della partecipazione a lavori di pubblica utilità. La “messa alla prova” è prevista solo nei procedimenti per reati puniti con pena pecuniaria oppure con una pena detentiva non superiore a quattro anni. In questi casi l’imputato può chiedere la sospensione del processo accettando di affrontare una prestazione di lavoro di pubblica utilità. Nel salone degli affreschi della curia, questa mattina, la vicepresidente di Csv Emilia Laura Bocciarelli e il vescovo Adriano Cevolotto hanno sottoscritto un documento con il quale promuovere e diffondere nel territorio un modello di giustizia che focalizza l’attenzione sull’aspetto riparativo, di ricocitura dello strappo provocato dal reato. “Csv Emilia, dal 2014, è impegnato sul tema della giustizia di comunità, promuovendo e sostenendo il coinvolgimento della comunità locale, non solo sul piano tecnico, ma anche su quello culturale - ha spiegato Bocciarelli. Quello di oggi rappresenta un passo significativo rispetto al coinvolgimento della comunità; fra i diversi enti che in questi anni hanno collaborato con noi per accogliere le persone in messa alla prova, ci sono già circa venti parrocchie, che hanno dimostrato di essere delle realtà accoglienti e significative per le persone inserite”. Con la firma del protocollo, la Diocesi nel suo insieme sarà coinvolta integralmente. “Noi tendiamo sempre a identificare la giustizia con la pena in termini punitivi - il commento del vescovo -, invece tramite questo progetto si promuove un’idea differente, basata sul rispetto della dignità trascendente dell’uomo. Si può infatti colmare l’atto commesso con opere di bene che possono contribuire ad aumentare il benessere di tutta la comunità”. “L’aspetto rieducativo è fondamentale - ha evidenziato Bocciarelli -. Grazie alla collaborazione delle realtà associative, delle cooperative e delle parrocchie diamo la possibilità di svolgere mansioni di piccola segreteria, attività di manutenzione, pulizia e iniziative educative, promuovendo una giustizia sociale connessa al bene comune”. Catanzaro. Nessuno Tocchi Caino e Camere penali: “Viaggio della Speranza. Visitare i carcerati” lametino.it, 20 settembre 2023 “Riflettori ancora puntati sulle condizioni di vita dei detenuti ristretti nelle carceri italiane. L’associazione Nessuno Tocchi Caino, con la collaborazione delle diverse Camere Penali d’Italia, ha organizzato in tutto il territorio nazionale momenti di incontro e dibattito sullo stato di salute degli istituti di pena e delle varie case circondariali italiane. Venerdì 22 settembre prossimo l’iniziativa, denominata significativamente ‘Viaggio della Speranza. Visitare i Carcerati’, farà tappa a Catanzaro” è quanto si legge in una nota. “In mattinata, infatti, una delegazione di avvocati e di magistrati della provincia - fanno sapere - si recherà nella casa circondariale “Ugo Caridi” per incontrare i detenuti e constatare, personalmente, la quotidianità in cui gli stessi vivono. La manifestazione proseguirà, poi, nel pomeriggio presso la sala del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati con un convegno dal titolo “Una giustizia che ripara e non separa”, nell’ambito del quale si susseguiranno interventi incentrati sul delicato tema della giustizia riparativa e sulla effettività della funzione risocializzante della pena detentiva, così come oggi concepita e attuata”. “La tematica - proseguono - verrà affrontata sotto diverse angolature, dal momento che, a prendere la parola non saranno solo avvocati, ma anche magistrati e addetti ai lavori i quali, a vario titolo, sono impegnati nel complesso mondo della realtà carceraria. L’evento, al quale parteciperà anche il garante regionale dei detenuti, è stato organizzato con la collaborazione della Camera Penale “A. Cantàfora” di Catanzaro e della Camera Penale “Avv. Felice Manfredi” di Lamezia Terme e con la partecipazione del Consiglio Distrettuale dell’Ordine degli Avvocati di Catanzaro. Sarà un momento costruttivo di confronto e di riflessione e, pertanto, si auspica la più ampia partecipazione”. Firenze. “Seconda Chance”, il protocollo per avviare i detenuti al lavoro Corriere Fiorentino, 20 settembre 2023 Una seconda opportunità per i detenuti: è stato firmato un protocollo di collaborazione tra Uiepe, l’Ufficio interdistrettuale del ministero della Giustizia per l’esecuzione penale esterna di Toscana e Umbria, e l’associazione Seconda Chance, impegnata ad avviare al lavoro detenuti giunti nella fase conclusiva della loro pena. In Toscana sono 5.800 i condannati che in questo momento stanno scontando il fine pena fuori dal carcere, oltre 1.700 solo nell’area fiorentina. L’accordo vuole creare percorsi di formazione al lavoro e di inserimento professionale per queste persone, costruendo una rete tra imprese e associazioni. “Questa collaborazione con Uiepe - spiega la presidente di Seconda Chance, Flavia Filippi - sarà fondamentale per dare corpo su tutto il territorio a quel delicato processo che è l’avvio al lavoro di detenuti che cominciano, gradualmente, a scommettere sulla loro seconda possibilità di vita, che è una seconda possibilità per tutta la società”. Sondrio. Progetto “Porte aperte”, percorsi fuori e dentro il carcere valtellinanews.it, 20 settembre 2023 Il Comune di Sondrio partner della Cooperativa Forme per offrire nuove opportunità a persone condannate. Decine di persone seguite, 24 percorsi di orientamento, 14 tirocini, sette assunzioni, attività formative e di rigenerazione: è il riassunto di quasi tre anni di lavoro del progetto “Porte aperte”, promosso nei territori di Sondrio e di Lecco, con il finanziamento della Regione Lombardia, coordinato dalla Cooperativa Forme, che vede tra i partner il Comune di Sondrio. Le persone coinvolte sono adulti sottoposti a provvedimenti dell’autorità giudiziaria che stanno scontando una pena dentro o fuori dal carcere. Dall’analisi dei loro bisogni, lavorativo, formativo, relazionale, sono scaturite le attività promosse negli ultimi tre anni. I più importanti, sui quali si è concentrata l’attenzione in fase di progettazione, sono l’inserimento lavorativo e la riqualificazione delle competenze. I risultati ottenuti dal progetto e le prospettive future sono stati illustrati stamane in Sala Consiglio da Alberto Fabiani e Laura Pizzatti Sertorelli della Cooperativa Forme, alla presenza dell’assessore ai Servizi sociali Maurizio Piasini. È stato il sindaco Marco Scaramellini a introdurre gli interventi evidenziando la rilevanza sociale di un’iniziativa coordinata, che unisce pubblico e privato, strutturata per offrire una nuova opportunità alle persone con fragilità mediante percorsi di formazione e di accompagnamento. Il confronto con realtà del territorio, come la Fondazione Fojanini, e con alcune aziende agricole ha consentito di sviluppare percorsi di inclusione socio-lavorativa, partendo dalla formazione per arrivare alla sperimentazione sul campo. Le storie raccontate in un video dagli stessi protagonisti sono emblematiche di chi, attraverso il lavoro, ha trovato nuovi stimoli. I percorsi personalizzati rivolti a persone detenute, in misura esterna o ex detenuti hanno previsto la presa in carico e l’accompagnamento socio-educativo per arrivare al tirocinio attraverso il coinvolgimento di imprenditori che sono stati affiancati lungo l’intero percorso. Altri hanno svolto attività di rigenerazione del territorio grazie alla collaborazione con l’Ufficio tecnico del Comune di Sondrio che ha individuato una serie di piccoli lavori di manutenzione da svolgere in città. Le persone coinvolte hanno avuto la possibilità di riscattarsi, di riscoprirsi capaci, fornendo il loro contributo al contesto lavorativo che li ha ospitati. Le aziende hanno favorito il recupero di persone con voglia di rimettersi in gioco, potendo contare sulle agevolazioni economiche previste per l’assunzione e la formazione dei detenuti. In questo percorso, si situa il lavoro di sensibilizzazione svolto in partenariato da enti pubblici e del terzo settore, coordinato dalla Cooperativa Forme, grazie al quale si sono create le condizioni per offrire a detenuti ed ex detenuti l’occasione di sentirsi parte di una comunità, al di là dei propri errori. A dieci anni dal suo esordio, completati tre, intensi anni, il progetto è pronto a una nuova fase che partirà a breve con le attività di rigenerazione svolte in collaborazione con il Comune di Sondrio. Napoli. Nell’ex cappella di Santa Caterina nasce una pizzeria per il recupero dei detenuti napolitoday.it, 20 settembre 2023 Il progetto sociale “Brigata Caterina”. Dopo l’annuncio dato a febbraio scorso va avanti il progetto per il recupero della struttura abbandonata di Piazza San Domenico Maggiore. Nell’ambito del progetto dell’arcivescovo don Mimmo Battaglia di destinare beni della chiesa di Napoli alla valorizzazione di progetti che da un lato possano rigenerare e recuperare siti in decadenza, e dall’altro creino opportunità di riscatto sociale e lavorativo a soggetti svantaggiati, la cappella di Santa Caterina al Pallonetto di Santa Chiara, ridotta allo stato profano nel 1968 dall’allora Cardinale Ursi - e allo stato completamente devastata - diventerà una scuola/laboratorio di pizzeria per favorire il reinserimento lavorativo dei detenuti. L’iniziativa, promossa dall’Ufficio per i problemi Sociali e il Lavoro della diocesi, prevede - con la collaborazione sinergica delle associazioni dei pizzaioli, del Comune di Napoli, dell’Università Federico II, e di altri attori istituzionale e non - la realizzazione del progetto sociale “Brigata Caterina” che ha, appunto, la mission di favorire il recupero sociale e la promozione lavorativa di detenuti in esecuzione penale, oltre che di ex detenuti. Nella cappella, in stato di abbandono, verrà realizzata una pizzeria dove, con un meccanismo di rotazione finalizzato ad ampliare il numero dei destinatari ed a promuoverne l’inserimento lavorativo anche in aziende del settore, saranno promossi percorsi professionalizzanti, con particolare attenzione a chi, nelle carceri della Campania, abbia acquisito la qualifica di pizzaiolo o svolgeva questo mestiere prima del periodo di reclusione. Il progetto è stato affidato dalla diocesi alla Impresa sociale Consul Service Soc. Coop, a cui è stato concesso il comodato d’uso gratuito, impegnata a promuovere un nuovo soggetto di scopo che possa assicurare sostenibilità nella realizzazione del progetto sociale ma senza trascurare il recupero e la valorizzazione architettonica e storico culturale dell’immobile, con l’integrazione dell’impianto produttivo di pizzeria in un contesto di attività, iniziative ed eventi di promozione turistica e della tradizione artistico culturale ed enogastronomica della città. E nella struttura oggi visita del sindaco di Napoli Gaetano Manfredi, accolto dal vescovo ausiliare don Gaetano Castello delegato dell’arcivescovo e dal direttore dell’Ufficio di Pastorale Sociale e del Lavoro Antonio Mattone. Presenti anche il vicesindaco Laura Lieto, la professoressa Caterina Arcidiacono della Federico II che collabora con la diocesi alla realizzazione del progetto e il dottor Claudio Esposito, responsabile della Consul Service Soc. Coop. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Libera-Mente in scena, il carcere diventa teatro di Maria Paola Oliva casertanews.it, 20 settembre 2023 Dal 7 ottobre al 2 dicembre ogni sabato mattina gli spettacoli delle compagnie che si esibiscono al Garibaldi. Rieducazione, socialità e teatro. Sono le parole d’ordine del nuovo percorso intrapreso dall’amministrazione comunale di Santa Maria Capua Vetere e dalla direzione della casa circondariale. Nella sala giunta di Palazzo Lucarelli, questa mattina - martedì 19 settembre - è stato presentato il nuovo progetto che vede coinvolte le due istituzioni: “Libera-Mente in scena”. Una rassegna teatrale che vede coinvolte le compagnie amatoriali che si esibiscono al teatro Garibaldi e che dal 7 ottobre al 2 dicembre ogni sabato mattina saliranno su un palco d’eccezione, quello della casa circondariale, per offrire due ore di sorrisi a chi ormai ha una routine completamente diversa. Al tavolo presenti alcuni rappresentanti delle associazioni impegnate nel progetto ovvero le compagnie “30 all’ora”, “Nuova Compagnia di Teatro Popolare”, “Immacolata Concezione”, “Così per ridere”, “Scena e controscena”, “Quartieri Seplasia”, “Il Sipario” e “ASD Moviamoce” e tra gli altri il sindaco di Santa Maria Capua Vetere Antonio Mirra, l’assessore alla Cultura Anna Maria Ferriero, il consulente Gerardo Di Vilio e la direttrice della casa circondariale Donatella Rotundo. “Quello che abbiamo attivato con il carcere è un percorso di valenza sociale. Sono già diversi i progetti alla cui base c’è la collaborazione tra le istituzioni poiché abbiamo da sempre ritenuto importante tenere la struttura interna alla città e non come un corpo a se stante. E convinti di poterci inserire ancora una volta in un progetto di rieducazione abbiamo deciso di dar vita a questo nuovo protocollo di intesa che coinvolge chi sta già dando tanto alla nostra città facendo registrare i sold out al teatro Garibaldi”, ha dichiarato il sindaco Mirra. “Vogliamo inserirci in un percorso di recupero comunicando attraverso la cultura - ribadisce l’assessore Ferriero - e anche in ambiti dove non è facile entrare vogliamo portare avanti il nostro obiettivo”. “Ci piace immaginare un futuro di bellezza - hanno dichiarato il sindaco Mirra e l’assessore Ferriero - in cui l’arte e la cultura siano strumenti di trasformazione e riscatto per tutti e in questo percorso il Teatro non può assolutamente mancare; un luogo in cui la magia dell’arte prende vita, in cui attori, scenografie e storie si fondono in un’esperienza unica regalando speranza e viaggi emozionanti. ‘Libera-Mente in scena’ è una finestra, dalla quale far entrare la luce della speranza anche nei luoghi più bui”. Entusiasta del progetto anche la direttrice del Carcere Rotundo che si è insediata circa due anni fa e che ha sottolineato come il suo obiettivo fosse quello di “dare un nuovo volto alla casa circondariale, dare un senso alla detenzione con il reinserimento sociale dei detenuti. Il tutto in collaborazione con le altre istituzioni presenti sul territorio, come il Comune”. Una sinergia, quella tra i due Enti, che in questi anni ha già prodotto importanti risultati, come ad esempio il protocollo di intesa per la realizzazione del canile e la collaborazione con l’Asl e i veterinari: alcuni detenuti avranno accesso a dei corsi al termine dei quali saranno rilasciati attestati per la Pet Therapy e addestratori cinofili. Partirà presumibilmente a ottobre la raccolta differenziata all’interno della casa circondariale che vedrà coinvolti tutti i detenuti. Con il progetto del teatro, già veicolo di cultura, si consentirà ai detenuti di viaggiare con la mente per allontanarsi dal mondo del carcere vivendo sensazioni di vita reale. Si allontaneranno da una quotidianità distante dalla realtà che c’è fuori”. E le compagnie teatrali sono tutte pronte a regalare ai detenuti della struttura penitenziaria “Uccella” due ore di sorrisi e spensieratezza e chissà che in futuro, come riferito dal sindaco e dalla direttrice, non si possano creare dei laboratori teatrali che potrebbero veder coinvolti gli stessi detenuti. In passato un’esperienza simile c’è già stata. La Rotundo dunque lavora con la sua squadra per dare nuove opportunità ai detenuti e ha ricordato che è nel carcere di Santa Maria Capua Vetere che vengono prodotte circa 33mila camicie bianche ogni anno, destinate agli operatori del Ministero della Giustizia con il marchio Isaia; che saranno prodotte anche tute operative e che si è raggiunti con il marchio Marinella un accordo per le cravatte blu. All’interno del carcere inoltre la pasticceria Mungiguerra allestirà un nuovo laboratorio che vedrà coinvolti 5 detenuti che saranno assunti e lavoreranno per la produzione della polacca aversana. Inoltre altri detenuti saranno assunti da un birrificio. Insomma una seconda possibilità quella che viene data a chi ha capito di aver sbagliato. A tutti con il progetto del teatro due ore di spensieratezza e un viaggio con la fantasia. Napoli. Liberato a Poggioreale, live-flash per i detenuti: “Qui nessuno s’è scordato di voi” di Giuliano Delli Paoli Corriere del Mezzogiorno, 20 settembre 2023 Concerto di circa mezzora nel carcere. Il direttore Berdini: la città entra da noi, c’è speranza. “Ccà nisciun se scord ‘e vuje”. Le parole di Liberato, pronunciate sul palchetto allestito nel cortile esterno della chiesa grande del penitenziario di Poggioreale, hanno riscaldato i cuori dei circa sessanta detenuti presenti allo speciale concerto che l’artista mascherato ha tenuto ieri mattina nell’ambito dell’iniziativa “Degni di nota”. Un evento speciale organizzato appositamente nel giorno di San Gennaro con l’associazione “IV Piano” che opera nel padiglione Roma del carcere napoletano per accogliere detenuti tossicodipendenti, persone affette da Hiv, sex offender e transessuali. Liberato, reduce dall’ultimo dei tre concerti da tutto esaurito al Plebiscito, spunta insieme ai tre componenti della sua band alle 11 da un ingresso laterale della chiesa, vestito alla stregua di un samurai in blue jeans: volto ben nascosto da un grosso cappuccio nero che gli copre anche la bocca e occhiali da sole rigorosamente specchiati. Alle sue spalle c’è il muro di cinta di Poggioreale, mentre in alto, a oltre 100 metri, svettano da un palazzone del Centro direzionale gli sguardi fieri dei cinque atleti campani disegnati da Jorit nella sua opera Dipinto. È la suggestiva cornice di un’esibizione particolarmente sentita da Liberato e in primis dai detenuti, divisi in tre gruppi da venti, ciascuno per padiglione: Roma, Firenze e Genova. Entrano calmi e sorridenti mezz’ora prima del concerto. Tra le mani un dolcino e una bottiglietta d’acqua. Alcuni indossano per l’occasione una t-shirt con sopra stampato l’iconico prisma dell’album The dark side of the moon dei Pink Floyd. Altri optano invece per una frase carica di significati: “Fight for your right” (combatti per il tuo diritto, ndr), emblematica di una hit del gruppo rap statunitense Beastie Boys. C’è perfino chi sfoggia un vestito elegante. “La tossicità nell’assurda scala delle criticità delle carceri è all’ultimo posto - spiega la psichiatra Marinella Salvia, responsabile di “IV Piano” - e un evento simile può accendere una luce sulla tematica delle tossicodipendenze e sui programmi di recupero, di cui discuteremo nei dettagli domani con un seminario qui a Poggioreale”. Altrettanto ottimista anche il direttore del carcere Carlo Berdini: “Riuscire a mettere in piedi un’iniziativa così bella conferma che a Poggioreale c’è una bella squadra. E che la città entra da noi e suona con noi. Tutto questo dà gioia e speranza a chi è recluso”. Sono infatti i sorrisi dei detenuti a restituire per tutto il concerto, durato poco più di mezz’ora, un clima di festa insolito per un carcere. C’è anche una troupe guidata dal cineasta napoletano Francesco Lettieri, che gira per il cortile e filma tutto l’evento, immortalando gli sguardi allegri poliziotti penitenziari e detenuti. Si canta soprattutto sulle note dei tormentoni di Liberato, Nove Maggio e Tu t’e scurdat’ ‘e me, inseriti in una scaletta che comprende otto canzoni e anche parti strumentali più spinte, sulle quali i detenuti chiedono e ottengono di potersi alzare e muoversi così quel poco che serve per ballare con il loro beniamino. A metà concerto gli fa eco anche Liberato che scherza con gli agenti: “Tutt ‘a post, stann ballan”. E ancora: “Stat pariann o no? Sit tropp bell, vo giur”. Addirittura un gruppo replica in coro “Libero, liberaci”, chiamando in causa l’artista, che ringrazia sul finale invitando tutti i presenti, tra cui anche magistrati e operatori sociali del Serd, una ola che emuli il movimento delle onde del mare, simbolo assoluto di libertà. È il momento clou di una mattina diversa dalle altre. Dal pan-penalismo a una sorta di “post-penalismo” di Francesco D’errico* Stefano Leanza** Il Dubbio, 20 settembre 2023 In una società lacerata che non può (e non deve) essere salvata da alcun tribunale. La recente assoluzione di Kevin Spacey, e ancor di più l’intera vicenda mediatica dipanatasi nell’arco degli ultimi sei anni, offrono l’occasione di riflettere sulla percezione della giustizia penale. La narrazione dei fatti e le reazioni alla sentenza hanno infatti conosciuto una portata mondiale, o quantomeno transatlantica, fenomeno che molto di rado avrebbe potuto prendere forma in un’epoca pre-globalizzata. Gli scandali, il dibattito e anche gli oggettivi eccessi scatenati dal movimento #Me-Too interrogano allo stesso modo gli osservatori europei e americani, e certamente rappresentano nuovi punti di tensione tra garantismo penale e populismo punitivo. Oltre alla classica dinamica del circo mediatico- giudiziario, già tristemente nota per la sua ciclica ripetizione, dinanzi a un caso come quello della star hollywoodiana può essere utile riflettere su un altro aspetto: la sovrapposizione tra il giudizio etico-morale e quello penale. Non solo nel senso di una errata e sempre più diffusa tensione illiberale che porta a confondere, per dirla con Lysander Spooner, i vizi con i crimini, ma anche nella prospettiva di una evidente incapacità dell’opinione pubblica di scindere laicamente i due piani. In un sistema liberal-democratico, l’unico diritto penale possibile, secondo il principio dell’extrema ratio, dovrebbe essere un diritto penale ‘ minimo’, che si occupi di un perimetro limitato delle condotte umane e lo faccia attraverso una fitta rete di limiti e contrappesi. Proprio in virtù di tale concezione, il processo penale, in particolare se costruito secondo l’architettura del modello accusatorio, non può essere interpretato come strumento epistemologico “supremo” - in quanto la sua funzione non è tanto e non solo quella di giungere a una verità assoluta, o alla soddisfazione delle pretese delle vittime, ma quella di dare vita, nel bilanciamento tra cognizione e diritti individuali, a un percorso garantito a chi è imputato. L’incapacità di distinguere il piano etico-morale da quello penale, inevitabilmente, finisce per scaricare sul processo aspettative e risultati che esso stesso, per sua natura, non può e non deve offrire, appiattendo, tra l’altro, il dibattito esclusivamente sul dualismo colpevolezza-innocenza. Un antagonismo che è vitale preservare e difendere, in tutte le sue conseguenze, nella dimensione del procedimento penale, ma che, evidentemente, non può che costituire, sul piano politico e più ampiamente sociale, uno strumento inadatto a una più generale comprensione e valutazione delle condotte umane, che si prestano a interpretazioni che si affacciano ben al di là e ben al di fuori dell’auspicato diritto penale minimo. Non a caso, Luigi Manconi e Federica Graziani nel loro “Per il tuo bene ti mozzerò la testa. Contro il giustizialismo morale” hanno sottolineato che in questo modo “si trasforma l’errore in reato e il peccato in crimine, confondendo l’uno nell’altro, come confonde la politica con la morale, la morale con la giustizia, la giustizia con la politica”. In tale contesto, in cui è in atto una evidente “contaminazione teleologica” del processo penale (come più volte ricordato, tra gli altri, da Oliviero Mazza), oltre all’erosione sempre più marcata del sistema liberalgarantista, il giusto processo, che nasce per difendere l’individuo dalla pretesa punitiva dello Stato, rimane - nel caso della assoluzione - l’unico strumento per provare a mettere a tacere l’incultura della cancellazione. Tutto ciò, rende difficile un dibattito più ampio, in grado di affrontare questo movimento non solo e soltanto da un punto di vista giudiziario, ma più in generale attraverso una critica sociale, antropologica, filosofica e letteraria. D’altra parte, la cancel culture, arbitraria, distruttiva ed essenzialmente disumana quale può esserlo una folla impazzita, tralascia deliberatamente una serie di interrogativi fondamentali. Qual è la soglia oltre la quale una condotta si sposta dalla maleducazione o dall’immoralità e approda all’illecito penale? Quale è il grado di certezza al quale bisogna giungere per valutare integrata la penale responsabilità di un individuo? Le ragioni di un tale travisamento del ruolo del processo penale possono legarsi a derive mediatiche della contemporaneità o a ben più risalenti radici culturali. Risulta facile, almeno in via speculativa, rintracciarvi il paradossale risvolto di una concezione panpenalistica che negli Usa non ha prodotto meno danni che in Italia, e che anche Oltreoceano si accompagna sempre più a una profonda sfiducia nelle istituzioni della democrazia rappresentativa. In questo senso restano meritevoli di attenzione le considerazioni di Paolo Ferrua recentemente apparse sulle colonne di questo giornale: “in epoca di pan- penalizzazione la politica avverte come inutile fissare regole di comportamento etico, sanzionabili, ad esempio, con le dimissioni: all’espansione del penale corrisponde puntualmente la riduzione dell’eticamente riprovevole. Può così accadere che un deputato assolto, ma carico di gravi responsabilità politiche, sia ‘ celebrato’ in Parlamento come martire dell’ingiustizia umana”. E se la comunità accademica dei penalisti, è concorde nel rifiuto di un diritto terribile concepito, come scriveva Filippo Sgubbi, quale “rimedio giuridico a ogni ingiustizia e ogni male sociale”, oggi assistiamo a una deriva in qualche modo ancora più pericolosa. L’idea che la sanzione sociale non solo debba precedere la sentenza processuale (tranciando la presunzione d’innocenza), ma addirittura prescindere da essa, come accaduto nel caso eclatante di Woody Allen, anche negli ultimi giorni contestato a Venezia da un (pur minoritarissimo) gruppo di sedicenti femministe. Un passaggio dal pan-penalismo a una sorta di “post- penalismo”; una notte in cui tutte le vacche sono nere e che rende indistinguibili la totale insussistenza del fatto (come nel caso di Allen), la mancata rilevanza penale della condotta inopportuna (come avvenuto nel caso di Spacey) e la effettiva colpevolezza. Sembra di assistere, in definitiva, alla società da cui ci aveva messo in guardia Learned Hand, una società che “sfugge alle proprie responsabilità, abbandonando ai tribunali lo spirito della moderazione”, dimenticando che quest’ultimo, così facendo, è destinato a sparire. *Presidente associazione Extrema Ratio **Membro della direzione nazionale di +Europa Un colpo di spugna all’odio: la pulizia-sfida dei giovani per farlo sparire dai muri di Paolo Foschini Corriere della Sera, 20 settembre 2023 Un italiano su due denuncia di aver subìto almeno una volta atti di discriminazione, razzismo, intolleranza. I dati di un nuovo report, una campagna di sensibilizzazione e l’iniziativa “Scendiamo in piazza”. Carlo Maria racconta di una festa al liceo in cui aveva ballato con un suo compagno, e dice che gli insulti omofobi ricevuti allora li ricorda tutti. Elisa invece, per come veniva trattata a causa del suo aspetto fisico, aveva il terrore dell’estate fin da quando era alle medie. Mark di anni ne aveva quindici - si sfoga adesso - quando i ragazzi più grandi del parco lo chiamavano “sporco ebreo”. Mentre Osayi dice di “convivere ogni giorno” con gli sguardi di chi non la considera italiana, per il colore della sua pelle, nonostante in Italia sia nata e cresciuta. Storie e nomi che trasformano in vite e persone quelli che in realtà sarebbero numeri già tremendi da soli: un italiano su due è stato o è tuttora vittima di discriminazioni, più di tre su quattro hanno assistito almeno a un episodio di intolleranza, odio, o violenza, e il 50 per cento di loro non ha fatto niente per impedirlo o porvi rimedio. E se più di un terzo di tali episodi a quanto pare avviene a scuola, almeno secondo la percezione dei testimoni, è forse ancora più preoccupante constatare che il 31 per cento dei fatti avviene in ambito familiare. Sono i risultati di una indagine realizzata attraverso 1.100 interviste su tutto il territorio nazionale, in cui cifre e percentuali si sovrappongono ai tg che ancora rimbalzano sui fatti di Caivano, di Palermo, e quasi ogni giorno di un altrove sempre diverso e sempre simile. All’indagine però è connessa questa volta una doppia iniziativa, che in qualche modo si sforza di rispondere a tanta invadente sporcizia di parole-opere-omissioni non con la polizia ma con la pulizia, in senso metaforico e non solo: da una parte cioè con una campagna nazionale di sensibilizzazione battezzata “Formula Anti-Odio”, dall’altra con una serie di azioni concrete riunite sotto il titolo “Scendiamo in piazza” e che hanno già portato (e altre ne porteranno) i giovani studenti di diverse città italiane a trovarsi con i residenti dei rispettivi quartieri per ripulirne strade, muri, parchi e altri spazi da tutto ciò - diciamo così - che sa di cattiveria. L’iniziativa nel suo insieme fa parte di quelle in cui il mondo profit non solo si muove anche per il sociale ma lo rivendica tra i propri obiettivi e qui è promossa da Ace del gruppo Fater, il cui general manager Antonio Fazzari parte proprio da questo aspetto: “Noi ci occupiamo di pulizia, e quando diciamo “il pulito che unisce” ci riferiamo a tutto. E quindi alla nostra casa comune, al nostro Paese per il quale c’è molto da fare”. E per il quale l’unto più difficile non è quello su una maglietta: “Appunto. Lo sporco più ostinato - continua il gm - è l’odio e la paura del diverso. E tutti noi siamo chiamati in causa per rimuoverlo. Anche contribuendo a farlo sparire dai muri e dalle piazze delle nostre città. Per farlo abbiamo chiesto aiuto a chi in questo senso ha più esperienza di noi”. E infatti i partner dell’iniziativa sono Diversity Lab, Retake e Vlbbdo. Il primo ha prestato la sua consulenza per la campagna di sensibilizzazione di cui si è detto e che raccoglie le testimonianze dei quattro giovani citati in apertura sui temi di omofobia, body shaming, razzismo e antisemitismo. L’associazione di volontariato Retake, in collaborazione con l’agenzia educativa La Fabbrica, ha invece partecipato a costruire il percorso di “Scendiamo in piazza”, partito già nel 2022 e giunto ora alla seconda edizione con un tour di quattro tappe e il coinvolgimento delle scuole primarie e secondarie di primo grado di Roma (23 settembre), Milano (7 ottobre), Pescara (20 ottobre) e Palermo (11 novembre). “Abbiamo voluto dare spazio ai più giovani - spiega Francesca Elisa Leonelli, presidente di Retake - per costruire e trasformare con loro spazi quotidiani in luoghi più fruibili, di gioco, più sicuri e costruttivi”. “Perché sarà quella dei giovani - insiste Fazzari - la generazione capace di cambiare le cose”. Migranti. Nuovo Dl del Governo: nei Cpr fino a 18 mesi di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 20 settembre 2023 La misura confluirà nel “Dl Sud” non ancora pubblicato in Gazzetta Ufficiale. Realizzazione di nuovi Centri di permanenza per i rimpatri (Cpr) e modifica del termine di trattenimento di chi entra illegalmente in Italia, innalzato a 18 mesi, limite massimo consentito dalle attuali normative europee. Dopo l’annuncio dei giorni scorsi in seguito all’emergenza sbarchi registrata a Lampedusa arriva in Consiglio dei ministri il via libera alla stretta dell’esecutivo sulla gestione dei flussi migratori. “Misure molto importanti” per Giorgia Meloni che, prima di volare a New York per l’assemblea generale delle Nazioni Unite, presiede anche la riunione del Comitato interministeriale per la sicurezza della Repubblica (Cisr). Nel suo intervento introduttivo in Cdm la premier esprime “grande soddisfazione per la compattezza e per il grande lavoro di squadra di tutto il governo” per far fronte all’emergenza e per trovare soluzioni alla forte pressione esercitata dai flussi irregolari sulle coste italiane. “È la conferma che, su questi temi, come su tantissimi altri, tutto il centrodestra ha la stessa visione - sottolinea la presidente del Consiglio a palazzo Chigi - e che tutti lavorano nella stessa direzione, a dispetto di quello che si legge e si tenta di raccontare in questi giorni”. Intanto il Partito democratico presenta la sua controproposta: un piano in 7 punti che prevede la riforma del trattato di Dublino, la messa in atto una Mare nostrum europea, il rafforzamento della cooperazione internazionale e accordi con Paesi terzi in cui il rispetto dei diritti sia garantito, la creazione “di canali d’ingresso legali a tutti i Paesi Ue” come contrasto al traffico di essere umani accanto a misure repressive, un piano di accoglienza diffusa da concordare con i sindaci, la riforma della Bossi-Fini e infine la piena attuazione della legge Zampa sui minori non accompagnati. “La destra italiana sull’immigrazione ha fallito”, si legge nel documento dem. “ Le misure - Le nuove misure adottate dal governo confluiranno, con una tecnica legislativa singolare, nel Dl Sud che tra le altre cose istituisce la Zes unica per il Mezzogiorno e stanzia dei fondi proprio per Lampedusa. In Cdm c’è stata infatti una nuova delibera sul provvedimento non ancora pubblicato in Gazzetta ufficiale. La prima novità riguarda la modifica del termine di trattenimento nei Centri di permanenza per i rimpatri di chi entra illegalmente in Italia, che verrà alzato al limite massimo consentito dalle attuali normative europee: 6 mesi, prorogabili per ulteriori 12, per un totale di 18 mesi. Toccherà poi ministero della Difesa realizzare nel più breve tempo possibile le strutture per trattenere gli immigrati illegali. I nuovi Cpr verranno realizzati dal Genio civile in località a bassissima densità abitativa e facilmente sorvegliabili. “Non si creerà ulteriore disagio e insicurezza nelle città italiane”, assicura la premier Giorgia Meloni anticipando l’arrivo nel Cdm della prossima settimana di un nuovo decreto in tema di immigrazione e sicurezza che affronterà, tra le altre cose, la questione dei minori non accompagnati. “Il nostro obiettivo - spiega Meloni - è tutelare i veri minori per evitare, come accade ora, che con una semplice autocertificazione chiunque possa essere inserito nei circuiti rivolti ai minori. Inseriremo norme per prevedere dei canali differenziati per donne, bambini e under 14, ai quali sarà garantita ogni tutela”. Inoltre, in accordo col titolare della Farnesina Antonio Tajani, saranno convocati gli ambasciatori di quei Paesi che rappresentano le più consistenti nazionalità dichiarate al momento dello sbarco. “L’Italia - conclude Meloni - chiederà loro la massima collaborazione per l’immediato rimpatrio degli irregolari”. I Cpr - Le strutture di trattenimento per stranieri irregolari sono disciplinate dal testo unico immigrazione (Dlgs 286/1998): si tratta dei Centri di permanenza temporanea e assistenza (CPTA), poi definiti Centri di permanenza temporanea (CPT) e successivamente Centri di identificazione ed espulsione (CIE). Con il decreto-legge 13 del 2017 i Centri di identificazione ed espulsione (CIE) hanno assunto la denominazione di Centri di permanenza per i rimpatri (CPR) (aricolo 19, comma 1). Il medesimo Dl 13/2017 (articolo 19, comma 3) ha disposto, al fine di assicurare una più efficace esecuzione dei provvedimenti di espulsione dello straniero, l’ampliamento della rete dei CPR, con la finalità di assicurare la distribuzione delle strutture sull’intero territorio nazionale. I CPR sono luoghi di trattenimento del cittadino straniero in attesa di esecuzione di provvedimenti di espulsione (articolo 14, Dlgs 286/1998). Inutile trattenere i migranti 18 mesi nei Cpr: la direttiva Ue dice ben altro di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 20 settembre 2023 Trattenimento nei Cpr aumentato a 18 mesi? La direttiva europea però dice altro. Come già riportato ieri, il Consiglio dei ministri ha deciso di prolungare il trattenimento massimo nei Centri di Permanenza per i Rimpatri (Cpr). Si passa da tre mesi, ai quali in casi particolari potevano essere aggiunti 45 giorni, a diciotto. Con questa modifica, si ritorna alla legge Maroni del 2011, quando questo limite massimo di detenzione per i migranti, che non hanno commesso alcun reato come sottolineato più volte, fu esteso. Ci si adagia sul fatto che questo limite massimo è consentito dalla Direttiva europea sui rimpatri del 2008. Ma è esattamente così? La modifica del 2013 e la direttiva europea - Come già riportato ieri, nel 2013 l’allora governo aveva modificato la legge del 2011, riducendo vertiginosamente il limite del trattenimento massimo, proprio - così si legge nella Gazzetta ufficiale - “per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea’. Ma perché questa modifica? La direttiva europea, precisamente l’articolo 15, consente allo Stato di trattenere il migrante in un Cpr per un periodo massimo di sei mesi, prorogabile in casi particolari fino a un massimo di 18 mesi. Come recita la direttiva stessa, questo periodo può essere prolungato solo in presenza di condotte gravemente ostruzionistiche da parte del migrante e assicurando comunque il riesame periodico della persistente necessità della misura coercitiva rispetto allo scopo di eseguire l’allontanamento, ed evitando di regola che lo straniero venga collocato in un istituto penitenziario. Quindi il periodo massimo è di sei mesi. I casi particolari dove si consente di arrivare a un massimo di 18 mesi si possono trarre dalle lettere a e b, ed emerge che il trattenimento oltre i sei mesi è consentito esclusivamente in presenza di estreme condotte. I diritti umani e le normative internazionali - Questo ultimo aspetto, però deve essere inquadrato all’interno degli standard internazionali sui diritti umani. Secondo il diritto internazionale, la detenzione dei “migranti irregolari” al fine di espellerli dal territorio italiano può essere consentita solo se le autorità possono dimostrare che esiste una prospettiva ragionevole per il rimpatrio delle persone in questione e che le procedure per il rimpatrio vengano eseguite con la dovuta diligenza. Il diritto internazionale richiede una prospettiva ragionevole di rimpatrio o espulsione affinché la detenzione sia legale. Basterebbe leggere la linea guida numero 7 del Consiglio d’Europa sui rimpatri forzati: “La detenzione in attesa del rimpatrio sarà giustificata solo per il periodo in cui le procedure relative siano in corso. Se queste procedure non sono eseguite con la diligenza dovuta, la detenzione cesserà di essere consentita”. La pronuncia della Corte di giustizia dell’Unione europea - Per comprendere meglio questa questione, possiamo fare riferimento alla pronuncia del 28 aprile 2011 della Corte di giustizia dell’Unione Europea nel caso di Hassen El Dridi, alias Soufi Karim, che verteva sull’interpretazione della direttiva europea. Parliamo di una delle sentenze che verranno prese in considerazione dal governo italiano nel 2013, proprio con la legge che ha limitato tempi di intrattenimento presso i Cpr. Da precisare che la pronuncia verteva sulla questione penale, ovvero sull’accertata incompatibilità con gli articoli della direttiva rimpatri, che prevedeva l’irrogazione della pena della reclusione al cittadino di un paese terzo in ragione dell’irregolarità del suo soggiorno. Di particolare interesse, per la questione che a noi interessa, è l’ipotesi in cui l’esecuzione immediata dell’allontanamento non sia possibile. L’articolo 15 della direttiva - come detto - consente allo Stato di trattenere lo straniero in un Cpr per un periodo massimo di sei mesi, prorogabile in casi particolari sino a complessivi 18 mesi, assicurando comunque il riesame periodico della persistente necessità della misura coercitiva rispetto allo scopo di eseguire l’allontanamento, ed evitando di regola che lo straniero venga collocato in un istituto penitenziario. La Corte di giustizia europea, a tal proposito, sottolinea che il ricorso alla misura del trattenimento - ossia alla “misura più restrittiva della libertà che la direttiva consente nell’ambito di una procedura di allontanamento coattivo” - è regolamentato in maniera precisa e stringente dalla direttiva, “segnatamente allo scopo di assicurare il rispetto dei diritti fondamentali dei cittadini interessati dei paesi terzi”, rilevando più in particolare come la fissazione di un termine di durata massima inderogabile del trattenimento abbia “lo scopo di limitare la privazione della libertà dei cittadini di paesi terzi in situazione di allontanamento coattivo”, come già ritenuto dalla Corte di giustizia nel precedente caso Kadzoev del 2009 e conformemente ai principi espressi dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, secondo la quale il trattenimento dello straniero durante la procedura amministrativa di espulsione deve avere durata quanto più breve possibile, e non deve mai protrarsi oltre il tempo strettamente necessario per raggiungere lo scopo dell’allontanamento. Si aggiunge anche un’altra questione. La direttiva europea è anche ben chiara sulla modalità di trattenimento. Il Cpr dovrebbe essere l’ultima spiaggia. Prevede che non si debba fare ricorso alla detenzione “se nel caso specifico possono essere applicate in modo efficace misure sufficienti ma meno coercitive della detenzione”. La direttiva europea è chiara quindi anche sulla modalità di trattenimento. Dovrebbe essere l’ultima risorsa e non dovrebbe essere utilizzata se ci sono misure meno coercitive efficaci disponibili per il caso specifico. La direttiva presenta la detenzione amministrativa presso i Cpr come una misura eccezionale e residuale. La storia delle modifiche nella durata massima del trattenimento - Eppure tutto questo non interessa. Basterebbe cristallizzare come, nel corso degli anni, il legislatore è intervenuto più volte sui termini massimi di trattenimento degli stranieri nei Centri più volte rinominati: Legge Turco- Napolitano (legge 6 marzo 1998, n. 40): 30 giorni; Legge Bossi- Fini (legge 30 luglio 2002, n. 189): 60 giorni; - Il “Pacchetto sicurezza” 2008 (decreto legge 23 maggio 2008 n. 92): 180 giorni; Decreto legge del 23 giugno 2011 n. 89: 18 mesi; Legge30 ottobre 2014, n. 161: 90 giorni; Legge Salvini. Bonafede 2018: 180 giorni. Ora, con il governo Meloni, si ritorna ai 18 mesi di trattenimento massimo. Il Garante Nazionale Mauro Palma, nel 2018, ha espresso un parere basato sui dati e non su visioni ideologiche. L’estensione proposta nuovamente della durata massima del trattenimento non appare trovare giustificazione in un’effettiva esigenza né sembra idonea al raggiungimento dello scopo che si prefigge. Infatti, l’analisi dei rapporti percentuali persone rimpatriate/ persone trattenute continuano a mostrare che la media dei rimpatri effettuati rispetto alle persone trattenute - indipendente dai termini di trattenimento vigenti - si è sempre attestata attorno al 50%. Il Garante quindi ha fatto notare, con dati in mano, come l’efficacia del sistema del trattenimento non sia direttamente correlata all’estensione dei termini massimi di permanenza nei Centri ma segua un andamento proprio. Molto, ovviamente, dipende dal livello di cooperazione offerto da ciascun Paese di provenienza dei cittadini stranieri. L’ampliamento del campo di applicazione della misura con evidenti ricadute sul diritto fondamentale alla libertà dei cittadini stranieri irregolari non sembra quindi trovare un adeguato bilanciamento in effettive esigenze di sistema. Migranti. Piantedosi: “I Cpr ce li chiede l’Europa” di Adriana Pollice Il Manifesto, 20 settembre 2023 Per i Centri di rimpatrio nell’ultima manovra sono stati stanziati 42,5 milioni in tre anni. Il ministro dell’Interno difende le nuove misure del governo. Solo Fedriga è entusiasta, Zaia: “Nessuno ci ha contattati”. E Giani: “Mai in Toscana”. Il presidente emerito Mirabelli: “Diritti costituzionali a rischio se la custodia avrà un carattere detentivo”. La nuova parola magica del governo Meloni è Cpr, la sigla per Centri di permanenza per i rimpatri. Nel Cdm di lunedì (la misura è stata inserita nel decreto Sud alla Camera) il via libera alla nuova strategia (che assomiglia alla vecchia, basata sui Centri di identificazione ed espulsione): nel giro di due mesi, assicurano fonti dell’esecutivo, ci sarà il via libera al piano con l’elenco delle strutture scelte. I Cpr saranno almeno uno per regione (12 quelle sprovviste) e saranno considerati di interesse nazionale per la sicurezza, selezionati tra le caserme dismesse in località scarsamente popolate, facilmente recintabili e sorvegliabili. L’allestimento sarà affidato al Genio militare, il presidio alla polizia. I servizi saranno dati tramite bando ai privati, responsabili del rapporto con i migranti trattenuti e del funzionamento del centro. Nell’ultima manovra stanziati 42,5 milioni in tre anni. Tirando le somme, si tratta di una sorta di detenzione che può durare 18 mesi. Con la promessa, tutta da verificare, che sarà poi possibile effettuare tutti i rimpatri. Il presidente emerito della Corte costituzionale, Cesare Mirabelli, solleva dei dubbi: la modifica del termine di trattenimento nei Cpr potrebbe violare i diritti della persona, riconosciuti dalla Costituzione, se “le condizioni di custodia avranno un carattere detentivo invece che di accoglienza. Tutto dipenderà dai limiti che verranno imposti rispetto alla possibilità di movimento e uscita. I Cpr devono essere luoghi in cui stare, non essere reclusi”. Per concludere: “Il rischio di una linea non iper restrittiva è però che molti prendano altre vie, si manifesta dunque l’inutilità dei centri. La finalità dei Cpr dovrebbe essere l’accertamento delle condizioni per il rilascio del diritto di asilo. Mi chiedo quindi se non possano essere accelerate le procedure di controllo che renderebbero inutile la misura di questo massimo di detenzione nei centri”. Il ministro dell’interno Piantedosi non ha dubbi: “Dobbiamo garantire un maggior numero di espulsioni: ce lo chiede l’Europa. Nessuna violazione di diritti, la possibilità di portare a 18 mesi il trattenimento è prevista dalla normativa europea. Ci sono già 10 Cpr, uno è in manutenzione (619 posti in funzione su 1.338 potenziali ndr), introdotti con la legge Turco-Napolitano”. Sulla presunta regia dietro gli sbarchi, tesi cara a Salvini, Piantedosi non si è sbilanciato: “Non ho prove, le sue supposizioni avranno sicuramente qualche fondamento. Da leader politico può dirlo, io da ministro devo avere prove concrete” scordandosi però che Salvini è vicepremier e collega alle Infrastrutture. Approdi: degli oltre 129mila migranti sbarcati in Italia nel 2023, circa 83mila sono stati soccorsi da Guardia costiera e Guardia di finanza; dalle Ong 5/6mila. Eppure, nonostante i numeri, il ministro insiste: “Fanno da pull factor? Ce lo dice la storia”. Le tesi ardite proseguono: il blocco navale invocato per anni da Giorgia Meloni, nonostante sia ampiamente ritenuto inapplicabile, secondo il Viminale potrebbe essere comunque una via ma “solo in accordo con i Paesi interessati. Che poi era quanto prevedeva la missione Sophia”. E qui è il dem Orfini a inviare al ministro un promemoria: “Oggi Piantedosi ci spiega che la soluzione è il blocco navale ma che il blocco navale in realtà è la missione Sophia. Cioè quella che Salvini e Piantedosi, suo Capo di gabinetto, fecero sopprimere perché non era un blocco navale”. Un piccolo dubbio il titolare del Viminale ce l’ha: “I 200 barchini partiti da Sfax ci pongono l’interrogativo sulla capacità e talvolta sulla volontà di collaborare della Tunisia”. I Comuni sono sul piede di guerra. “Siamo all’ennesimo slogan - la posizione del sindaco di Firenze, Nardella -. Dopo i porti chiusi e il blocco delle Ong. Protrarre da 12 a 18 mesi la permanenza nei Cpr non significa risolvere il problema dell’immigrazione irregolare che delinque. Semmai pone un problema di rispetto dei principi costituzionali”. Da Bologna il collega Lepore: “I Cpr sono la dimostrazione che i rimpatri non si possono fare perché si allunga la permanenza in centri che in realtà sono carceri. Si vuole far diventare la questione un problema di ordine pubblico”. A Modena è addirittura il Siulp a denunciare: “47 migranti sono giunti lunedì da Lampedusa in questura per essere identificati e assegnati ai centri di accoglienza. Ma la questura non è attrezzata per ricevere persone che devono essere visitate, ascoltate, nutrite e infine sottoposte ai controlli di legge”. Per la giunta di Torino i Cpr non servono: “Ci vogliono hub di smistamento diffusi su tutto il territorio nazionale nei quali accogliere le persone in maniera dignitosa”. Sono 141.201 i migranti in accoglienza: 5.696 negli hotspot, 100.734 nei Cas, 34.771 nei Sai (dati aggiornati al 15 settembre). La regione che ospita il maggior numero di persone è la Lombardia (17.455), quindi la Sicilia (14.788). Nei 9 Cpr ci sono 592 persone. A Lampedusa ieri sono arrivati 402 migranti, nell’hotspot erano in circa 1.200. E oggi è annunciato l’arrivo di Giuseppe Conte. Intanto da Palazzo Chigi fanno sapere che Meloni andrà a Porto Empedocle, dopo la denuncia del sindaco: “Siamo arrivati a ospitare 2mila migranti in una struttura per il transito di 250 persone. Abbiamo assistito a condizioni disumane: niente cibo né acqua sotto il sole, con donne e bimbi che si sono sentiti male e con liti per un pezzo di pane”. Dal Friuli Venezia Giulia, Fedriga difende il governo: “Nei Cpr ci sono persone che hanno precedenti penali. Nella mia esperienza di Gradisca di Isonzo, il Cpr funziona molto bene. Invece l’accoglienza diffusa è stata un fallimento”. Zaia mette le mani avanti: “Sull’apertura di un Centro in Veneto non siamo stati contattati. Puntare sui rimpatri è come svuotare il mare con un secchio. La soluzione è far arrivare solo chi ha davvero bisogno”. Dalla Toscana Giani ribadisce: “Non darò l’ok a nessun Cpr. Il problema è come farli entrare e accoglierli, non come buttarli fuori”. Dall’Emilia Romagna Bonaccini: “I grandi hub hanno fallito, inutile girarci attorno”. Nelle Marche si prende tempo: “Ora non c’è l’esigenza”. Salvini riserva un’altra stoccata alla premier: “Passiamo il tempo a redistribuire ma il processo va bloccato a monte”. Il leader 5S Conte: “Il blocco navale è una presa in giro ma non possiamo nemmeno dare accoglienza a tutti”. E il dem Orlando: “Stiamo misurando lo scarto tra la propaganda e la realtà”. Migranti. La rivolta dei governatori di Eleonora Camilli La Stampa, 20 settembre 2023 Le Regioni contro i Cpr chiesti dal governo per la detenzione dei migranti irregolari. Critiche dal Veneto alla Campania: “Il vero problema è accogliere, non respingere”. In molti rumoreggiano, alcuni si dicono pronti alle barricate. Parte in salita la nuova strategia annunciata da Giorgia Meloni per contrastare l’immigrazione irregolare. La realizzazione di centri per il rimpatrio (Cpr) in ogni Regione, dove detenere le persone fino a 18 mesi, incontra il secco no dei territori. In queste ore i governatori di centrosinistra, ma non solo, annunciano battaglia contro l’apertura delle nuove strutture. La giornata si era aperta con la presa di distanza del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi dalla teoria, espressa dal vicepremier Matteo Salvini, secondo cui dietro gli sbarchi ci sarebbe una regia: “Io non ho prove, se Salvini lo ha detto le sue supposizioni avranno sicuramente qualche fondamento. Lui da leader politico può dirlo, io da ministro dell’Interno devo avere prove concrete”. Per frenare i sospetti di una freddezza con il suo ex capo di gabinetto, Salvini è intervenuto in serata: “Massimo sostegno a Piantedosi”. Ma il fronte più caldo resta quello dei Cpr. Il primo governatore ad alzare la voce è il toscano Eugenio Giani: “Non darò l’ok, non esprimerò mai la condivisione a nessun Cpr”. Sottolinea che il governo sta “prendendo in giro gli italiani, perché il problema dei migranti è come farli entrare e accoglierli, non come buttarli fuori. Cosa c’entra il Cpr con la risposta ai flussi emergenziali che arrivano oggi?”. Sulla stessa linea il presidente dell’Emilia-Romagna, Stefano Bonaccini, che boccia la possibilità di un nuovo centro sul suo territorio, ancora alle prese con i danni dell’alluvione: “I grandi hub hanno fallito, lo dice chiunque, è inutile girarci attorno”. Quel che serve, insiste, è “un’accoglienza diffusa che permetta di avere meno pressione su singoli territori e distribuire meglio un carico che sta diventando molto pesante”. Per Bonaccini il governo sta improvvisando, né lui né gli altri colleghi sono stati informati dell’apertura di nuovi centri: “Se qualcuno vuole costruire un Cpr da qualche parte in Italia ci chiami a Roma”. Scettico da mesi sulle strette più volte annunciate dal governo è però anche il presidente del Veneto, Luca Zaia. Per il governatore leghista puntare sui rimpatri è come “svuotare il mare con un secchio”. “Su 107.000 persone con provvedimento di rimpatrio abbiamo avuto 20.000 rimpatriati. E dal 2021 a oggi non abbiamo mai superato i 4.000 all’anno”, dice. “Ci saranno anche i Cpr, ma non ce la faremo mai”. Perplessi sarebbero anche i governatori di Marche e Molise, mentre Arno Kompatscher, temendo lo scaricabarile, ha chiesto al ministro Piantedosi la rassicurazione che il Cpr in Alto Adige sia solo per “esigenze locali”. Di “annunci fatti solo per digrignare i denti” parla Mario Morcone, assessore alla Legalità, sicurezza e immigrazione della Campania. “Non abbiamo notizie per ora di un nuovo centro, ma credo che tanto rumore per nulla sia solo un colpo di teatro”. Secondo quando previsto nell’ultimo Cdm le nuove strutture, individuate dal ministero della Difesa, dovrebbero sorgere in località a bassissima densità abitativa. Ma per Morcone, già capo Dipartimento al ministero dell’Interno, il piano è difficilmente realizzabile. “Sono 20 anni che ne parliamo, da quando al Viminale c’era Maroni, poi l’idea è stata riproposta da Amato, Alfano e Minniti. Ma non è mai stato fatto niente. La Difesa ha una tradizione decennale per tempi infiniti nella realizzazione delle strutture. Se devono ancora individuarle, poi ristrutturarle e fare le gare per l’appalto, passeranno mesi. Nel frattempo saremo già alle elezioni europee”. L’assessore campano parla di “pura cattiveria” nell’allungamento dei termini di trattenimento: “Mettiamo in galera le persone senza che abbiano commesso un reato. Ci costerà una follia. Nel frattempo i rimpatri, come sempre, rimarranno più o meno gli stessi in mancanza di accordi con i Paesi di origine. Davvero si pensa che questo sia un deterrente? Se una persona è disperata, non ha di che vivere, si spaventa a essere trattenuto in un Cpr?”. Critiche arrivano anche dai sindacati delle forze dell’ordine. “La misura è colma”, sottolinea Unarma, associazione che rappresenta i carabinieri: “Il governo annuncia nuovi centri sapendo che non ci sono forze di polizia disponibili perché ridotte all’osso”. Anche le associazioni che si occupano di tutela di migranti e rifugiati parlano di “propaganda spicciola”. Cild, coalizione che racchiude diverse organizzazioni, tra cui Antigone, dati alla mano, ricorda che nel 2013 e 2014, quando i tempi di trattenimento erano di 18 mesi, si rimpatriavano la metà delle persone. Proprio come ora. Insensato gestire le migrazioni come fossero un’emergenza di Gianfranco Pasquino* Il Domani, 20 settembre 2023 Hotspot, confinamenti e trasferimenti non servono a nulla. Le misure congiunturali non bastano, serve una visione strutturale per affrontare una sfida epocale che durerà per un tempo indefinito. Soltanto in parte è lecito e utile definire l’immigrazione un’emergenza. Infatti, il fenomeno è strutturale, destinato a durare per un periodo di tempo indefinito. Uomini, donne e bambini continueranno a lasciare l’Africa, il medio oriente, Pakistan e Bangladesh incessantemente. Nei loro paesi ci sono governi autoritari e repressivi, spesso aiutati e sostenuti dagli occidentali, ma anche dai russi e dai cinesi. Nei loro paesi non ci sono opportunità di lavoro, di istruzione, di una vita decente. Se ne vanno tutti coloro che hanno qualche conoscenza, qualche ambizione, qualche volontà di miglioramento. Così facendo impoveriscono ulteriormente il loro paese e indeboliscono le opposizioni agli autoritarismi. Nessuno dei governi occidentali che, trattando con quei regimi, li puntella, può incolpare chi se ne va. Nessuna delle opinioni pubbliche che accettano come fatti loro quei regimi e quei dirigenti oppressivi può girare le spalle ai migranti per fame, anche di libertà. All’emergenza vera, cioè il grande e costante afflusso, bisogna rispondere, ma non in modo emergenziale, non con hotspot, confinamenti, trasferimenti. La risposta, ovviamente dell’intera Unione europea, deve essere strutturale poiché quei migranti nell’Unione sono venuti, nell’Unione vogliono restare, qui vogliono che vivano i loro discendenti. Sbandati ed espulsi molti cercheranno di tornare meglio attrezzati. La risposta strutturale è comprensibilmente molto costosa ed esigente. Tutte le procedure di identificazione vanno espletate al contempo acquisendo le informazioni essenziali sulla personalità, sugli obiettivi e sulle preferenze dei migranti. Avvilente è vedere centinaia di uomini e donne giovani in grado di lavorare e studiare abbandonati per lunghi mesi a sé stessi in baracche con nessuna attività da svolgere, nessun compito cui adempiere. Molti di loro non sono manovalanza, semplici raccoglitori di frutta e pomodori, ma hanno conoscenze e capacità di vario tipo acquisite e esercitate nei rispettivi paesi di provenienza. Molti sono disposti a imparare, a guadagnarsi la vita. Nell’emergenza del quotidiano è possibile collocare due risposte strutturali: affidare lavori da loro eseguibili, insegnare la lingua a grandi e piccoli. L’inizio sarà molto difficile, ma di gran lunga preferibile e persino meno costoso della detenzione nell’ozio forzato. Non è un compito effettuabile dalle sole strutture statuali, ma può essere affidato con lungimiranza, sostegno, controllo a una pluralità di associazioni private. Quel pluralismo di cui le democrazie occidentali giustamente si vantano è in grado di offrire molte soluzioni, non immediate e miracolose, ma costruite con pazienza e efficacia, anche, se necessario, rivedute e corrette. Una volta “ricollocati”, per lo più nei limiti, numerici e di opportunità, del possibile, l’integrazione che nasce dal lavoro e dalla scuola dovrà essere perseguita con un monitoraggio costante che premi coloro che più s’impegnano e che punisca, fino all’espulsione, degli inadempienti. Le informazioni circolano e raggiungeranno anche parenti, amici, conoscenti che intrattenessero a loro volta l’aspirazione a partire. In tempi relativamente brevi l’impatto economico dei migranti nei paesi di maggiore/migliore accoglienza si farà positivamente sentire. È immaginabile che le opinioni pubbliche si dividano, quindi è auspicabile che, anche nel loro interesse, i governi unitamente all’Unione europea operino al meglio, senza conflitti egoistici e particolaristici, anche fornendo periodicamente i dati più significativi. Chi pensa che le migrazioni sono una sfida strutturale e culturale ha l’obbligo di affrontarla non (solo) con decreti congiunturali e emergenziali, come sta facendo il centro-destra italiano, ma con una visione. Forse quella che ho delineato, forse con visioni alternative che, però, le opposizioni italiane non stanno convincentemente delineando. Prima si inizia meglio sarà. *Accademico dei Lincei Migranti. “Vado. E se muoio, muoio” di Federica Iezzi Il Manifesto, 20 settembre 2023 Nel 2023 sono già più di 130mila i migranti arrivati in Italia via mare e oltre duemila quelli deceduti nel tentativo di raggiungere l’Europa. Nel 2023 sono già più di 130mila i migranti arrivati in Italia via mare e oltre duemila quelli deceduti nel tentativo di raggiungere l’Europa. Di questi, secondo i dati diffusi dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr), almeno 73mila partono dagli hub tunisini e 33mila da quelli libici. È inoltre fortemente sottostimato il numero di migranti intercettati dalle autorità libiche e rinchiusi senza speranza nei centri di detenzione. Più di 9.800 persone arbitrariamente trattenute, finché non pagheranno funzionari corrotti per essere liberate. “I trafficanti che gestiscono le barche sono più o meno gli stessi miliziani che controllano i centri di detenzione. Non c’è differenza tra polizia, soldati e trafficanti” ci racconta Abrielle, nata in Repubblica Centrafricana. A Lampedusa migliaia di migranti occupano spazi pensati per poche centinaia di persone nel centro di accoglienza traboccante dell’isola. “Vado. E se muoio, muoio. Se arrivo, arrivo”. In tanti ci ripetono queste parole, quasi come una preghiera. Ogni sbarco apre un nuovo dibattito mediatico che ricade in un quadro distorto. I migranti privi di documenti scivolano ancora su una rete statistica ambigua che alimenta il gioco di colpe politiche. Il controverso accordo che l’Unione Europea ha siglato con la Tunisia appare come un’estensione di fatto di una rete di traffico di esseri umani attentamente costruita. Perché il problema della migrazione non può essere risolto adottando un criterio puramente securitario, finché esistono le ragioni strettamente oggettive legate alla migrazione. E invece continua a vincere la visione manichea della sicurezza delle frontiere: più pattuglie, sorveglianza più intensa, muri più alti. Eppure gli esempi del passato indicano tutti come la militarizzazione delle frontiere non ha affatto ridotto la migrazione ma l’ha invece resa più pericolosa. Le recinzioni, i droni, i sensori e le telecamere ci renderanno davvero più sicuri? Uomini che incanalano persone disperate attraverso rotte sempre più letali, nella fattispecie in pescherecci stracolmi che sembrano barattoli di vetro, sono la soluzione? Per loro sicuramente si. La tratta di esseri umani fornisce ai funzionari statali un reddito aggiuntivo, inoltre funge da valvola di sicurezza politica. Senza di essa, il sistema dei servizi nazionali crollerebbe, a causa dell’enorme numero di persone che sono intrappolate al proprio interno e che il sistema stesso non può assorbire. Nella diaspora i regimi fratturati ricatturano i migranti economicamente e politicamente. Le condizioni sopportate dai sopravvissuti, di fatto detenuti nei centri di accoglienza, sono incompatibili con i diritti umani e al tempo stesso cristallizzate in una logica politica autoritaria. Le condizioni di repressione sono radicate in un immaginario istituzionale funzionale. Sofferenze e perdite che non hanno fatto altro che accumularsi e peggiorarsi nel tempo. L’abuso di potere all’interno dei campi deve essere integrato da un’analisi dell’incapacità di accoglienza degli Stati nell’Unione Europea, tale da produrre una politica di immigrazione coerente e collettiva. Il Mar Mediterraneo è diventato un confine che separa il nord del mondo dal sud, unendo i sistemi politici di entrambe le zone in modi che producono risultati disfunzionali e infruttuosi, nel tentativo di arrestare l’emorragia di esseri umani. Sulla cannabis un pezzo di Pd supera la Meloni a destra: vuole il carcere per i ragazzini di Piero Sansonetti L’Unità, 20 settembre 2023 Per uno stupro te la cavi di solito con cinque anni; secondo l’esponente del Pd invece, se ti beccano con lo spinello, devi fartene forse anche sei. Non credo che ci sia bisogno di spiegare l’evidente follia della proposta. Uno dei capi della corrente di minoranza del Pd, cioè il correntone di Bonaccini, ha presentato alla Camera una proposta di legge per aumentare le pene ai ragazzini che vengono beccati con lieve quantità di droghe leggere: fino a 6 anni. E comunque non meno di 2 anni. Sono pene in linea con le pene che oggi sono previste per il reato di stupro. Per uno stupro te la cavi di solito con cinque anni; secondo l’esponente del Pd invece, se ti beccano con lo spinello, devi fartene forse anche sei. Non credo che ci sia bisogno di spiegare ai lettori dell’Unità l’evidente follia della proposta. Peraltro il deputato del Pd chiede che sia innalzata anche la pena minima. Oggi è di sei mesi, lui la vuole portare a due anni. Praticamente con una forbice che va dai due ai sei anni diventa quasi impossibile ottenere la condizionale. Cioè si va dritti in cella. E per di più, l’asticella della pena massima a sei anni permette alla polizia e ai Pm di adoperare mezzi di indagini speciali, come i trojan e le intercettazioni telefoniche che prima non erano consentite. Non solo, c’è la questione del carcere preventivo. Oggi per utilizzare il carcere preventivo è necessario contestare un reato che abbia come pena massima i 5 anni. Al momento lo spinello è sotto questo limite. Se passerà la legge proposta dalla minoranza del Pd lo spinello sarà passibile di arresto immediato. Si potranno organizzare retate davanti ai licei e portare in carcere più o meno un terzo dei presenti. Risolvendo in pochi minuti la questione della mancanza di professori. Qual è il senso di questa proposta? E poi, seconda domanda: ma la corrente di Bonaccini approva l’iniziativa del suo dirigente? Spero che nelle prossime ore arrivi qualche comunicato che permetta di rispondere no alla seconda domanda. Per ora silenzio dal Pd. L’unico commento indignato è arrivato dal radicale Riccardo Magi. Alla prima domanda la risposta è semplice: ricerca di voti. C’è un pezzo di schieramento anti-destra che ormai è convinto che per raccogliere voti bisogna mostrarsi più di destra possibile. Soprattutto sull’immigrazione, sebbene sia chiaro a tutti che la faccia feroce non dà risultati; ma anche su altri temi come quello del proibizionismo. L’ideale è scavalcare a destra Meloni e Salvini. Sicuramente questa idea di mandare i ragazzini in prigione per uno spinello è perfetta da questo punto di vista. Dai nemici mi guardo io, dagli amici mi guardi Iddio! Droghe. “No alla svolta proibizionista, non si mettono in cella i ragazzini” di Silvia Bignami La Repubblica, 20 settembre 2023 Intervista alla sindaca di San Lazzaro (Bo), che boccia il ddl presentato dal dem De Maria. “Cannabis legalizzata? Sì, sono a favore. Soprattutto per tutelare i giovani”. “Non condivido il disegno di legge presentato dall’onorevole Andrea De Maria. Questa proposta rischia di vedere in carcere ragazzini incensurati. Un minorenne che fosse trovato con piccole quantità di marijuana, con questa proposta, potrebbe rischiare il carcere”. La sindaca di San Lazzaro Isabella Conti boccia il ddl “proibizionista” presentato dal deputato dem. Sindaca, lei quindi non condivide? Sia lei che De Maria siete di area Bonaccini. Il governatore però si è dissociato da questa proposta... “Non condivido il disegno di legge. Capisco l’esigenza di assicurare ai cittadini il sacrosanto diritto alla sicurezza nelle città, ma così si va nella direzione opposta. Il tema è che oggi chi viene trovato in possesso di piccole quantità di droga può essere sottoposto alla misura cautelare dei domiciliare e non quella del carcere, in virtù della lieve entità del reato. Il problema è che così strutturato il ddl otterrebbe l’effetto contrario e metodo e merito sono sbagliati”. Cioé? Perché sbagliati? “Per due motivi. Primo, perché se si alza la pena per reati di lieve entità non si può più prevedere l’istituto della “messa alla prova” che ha finalità rieducative vere. In più si va ad aggravare il problema del sovraffollamento delle carceri. Serve in questo Paese un serio piano carceri, e io vorrei che i nostri parlamentari si occupassero di questo, visto è il sovraffollamento a diminuire la certezza della pena. Senza contare che oggi il carcere in Italia è per tanti un vero e proprio master di delinquenza, che fallisce il suo primo obiettivo, e cioè la rieducazione. Secondo, si rischia di esporre al carcere i giovanissimi, magari incensurati che vengano ritrovati con ridotte quantità di marijuana, rovinando loro il futuro”. Lei è a favore della legalizzazione della cannabis? “Sì. Sono a favore prima di tutto per tutelare i giovani, che sono più garantiti da una tracciabilità della produzione di droghe leggere che da spacciatori che possono vendere loro qualunque cosa, tagliata con sostanze come la fibra di vetro, e che possono danneggiare la loro salute. Inoltre la legalizzazione toglierebbe questo mercato dalle mani della criminalità organizzata, magari reinvestendo le risorse che si incasserebbero per la tassazione in progetti di welfare”. Preferisce l’approccio di Mattia Santori, che ha ammesso di coltivare in casa tre piante di marijuana? “Io penso più che altro che serva una discussione nel Pd su questo tema che tenga insieme una proposta seria sulle carceri, la necessità della certezza della pena e al contempo una proposta di legalizzazione controllata della cannabis. Santori fa una operazione provocatoria. È fisiologico che nel partito ci siano anche queste posizioni più “movimentiste”, ma io non credo la battaglia vada portata avanti solo così. Non possiamo dire che bisogna legalizzare la cannabis dicendo che si è utilizzatori e mostrando di coltivare. Io non sono consumatrice, ma penso vada fatta una distinzione tra droghe leggere e pesanti per tutelare i nostri ragazzi. Proprio per questo non avrei scritto quel ddl”. Cioè? “Questo ddl fa lo stesso errore che si fece quando si equipararono droghe leggere e pesanti. Fa di tutta l’erba un fascio. Prevede il carcere per la detenzione delle piccole quantità di stupefacenti come per le grandi quantità, senza distinzioni”. Droghe, il proibizionismo che alimenta le guerre di Marco Perduca Il Dubbio, 20 settembre 2023 L’ultimo World Drug Report delle Nazioni Unite segnala che “economie basate sul traffico di stupefacenti illeciti possono prosperare in situazioni di conflitto o dove lo stato di diritto è debole” concorrendo a “prolungare o alimentare” i combattimenti. Non è una novità bensì, in tempi in cui la presenza di “droghe” illegali non accenna a diminuire e tornano guerre civili e di aggressione, la conferma che la proibizione è un elemento strutturale o con-causa di crimini. Se non crimine essa stessa. Le sostanze psicoattive in zone di conflitto rappresentano anche un sostituto di assistenze sanitarie - già spesso precarie - per la gestione dei traumi o per sopportare le condizioni in cui si è costretti a vivere: alla mercé del caos, di regimi o bande criminali o fuggendo in cerca di rifugio. Conflitti armati interni e internazionali sono recentemente tornati in Sudan, Ucraina, Repubblica Democratica del Congo, Myanmar, Madagascar, Somalia e Yemen; colpi di stato hanno interessato Mali, Burkina Faso, Guinea Conakry e Niger: L’”incertezza del diritto” caratterizza, tra gli altri, Siria, Libia, Iraq e Afghanistan. Regimi autoritari si sono consolidati in Tunisia, Salvador, Filippine, Corea del Nord e Iran. Milizie paramilitari hanno formalmente soppiantato i meccanismi di protezione, seminando il terrore e concorrendo alla gestione criminale di stupefacenti, armi ed esseri umani. Fino all’imposizione del recente bando talebano, la cui efficacia resta da verificare, quasi tutta la fornitura mondiale di eroina proveniva dall’Afghanistan, zona “instabile” per antonomasia e confinante con importanti mercati. Anche altri conflitti armati interni in regioni produttrici sono stati alimentati per decenni dalle sostanze proibite: in Colombia, dove la cocaina era una risorsa per l’insurrezione militare delle FARC e le altre formazioni paramilitari (anche filo-governative), o in Myanmar dove l’oppio ha finanziato la guerra civile lasciando un’eredità di caos e criminalità in particolare nelle terre degli Shan al confine con la Cina. Quando i conflitti riguardano aree con dimensioni considerevoli, come Ucraina o Sudan, si nota anche l’aumento di produzione, traffico e uso interno di stupefacenti con raffinazioni di nuove sostanze psicoattive che la fanno da padrone. Quando i combattimenti riguardano aree di transito, la pericolosità dei commerci fa spostare le vie del traffico altrove: in particolare verso l’Africa, zona di smistamento sud-nord di eroina e cocaina. All’indomani del golpe in Niger, Marco Montanari ha ricordato su queste pagine d’esser stato accolto in quel paese con la battuta “Il Niger è al 90% musulmano e al 10% cocaina”; se la situazione era così nel 2015 è ragionevole ipotizzare che i controlli in un paese prevalentemente desertico, grande come la Francia, oggi siano inesistenti. I vicini occidentali del Niger, retti da giunte militari, negli anni son diventati parte integrata della catena dei traffici della cocaina andina che dal Brasile arriva in Mediterraneo attraverso i porti delle Guinee (Bissau e Conakry), proseguendo a nord attraverso i deserti burkinabé, nigerini e libici per arrivare a Gioia Tauro, Barcellona o Rotterdam. Istituzioni facilmente corruttibili, caos istituzionali, infiniti confini incontrollabili e collusioni con gruppi armati sono condizioni ideali per il prosperare di traffici illegali. L’eroina che arrivava in Europa da Asia centrale e Mar Nero adesso entra in Africa dal porto di Mombasa e, quel che non resta nella regione o parte per la penisola arabica, giunge a noi attraverso i deserti dei Sudan. Potrebbe essere il caso di tornare a ipotizzare la criminalizzazione della proibizione perché oltre a violare i diritti umani di chi usa sostanze, sostiene e favorisce crimini di guerra e contro l’umanità. Stati Uniti. Condannato a morte sopravvisse all’esecuzione: ora sarà giustiziato con l’azoto di Alessio Di Sauro La Repubblica, 20 settembre 2023 “Come una cavia, fine orrenda”. Kenneth Smith, 58 anni, sarà il primo a subire il nuovo metodo, escluso anche in ambito veterinario: nel 2022 si salvò perché non riuscirono a inserirgli gli aghi. Hanno provato per quattro ore a ucciderlo senza riuscire a infilargli nelle vene gli aghi necessari a dare il via all’iniezione letale; un anno dopo Kenneth Eugene Smith, cinquantottenne condannato a morte in Alabama, si prepara ad affrontare il suo destino diventando una sorta di cavia umana. Verrà costretto a respirare l’azoto puro, come mai era successo nella centenaria storia della pena capitale in America. “Una morte rapida e indolore”, stando ai rapporti delle autorità federali, che ne hanno autorizzato l’utilizzo già nel 2018; “un esperimento crudele e sconsiderato” secondo le associazioni umanitarie e “incostituzionale” per gli avvocati del detenuto, che sottolineano come finanche l’Associazione veterinaria statunitense abbia escluso da più di 10 anni l’utilizzo dell’azoto per la soppressione degli animali. Il procuratore generale dello Stato, Steve Marshall, ha annunciato l’intenzione di procedere al più presto, chiedendo alla Corte suprema federale di fissare una data per l’esecuzione. Per Smith si tratterà del secondo incontro con il boia: aveva già ordinato il suo ultimo pasto il 17 novembre del 2022, quando però il suo appuntamento con la morte era stato infine rimandato. Guardie carcerarie e infermieri avevano fallito nel praticargli l’iniezione: si era tentato di infilargli gli aghi nelle braccia, nei piedi, nelle gambe. A un certo punto Smith venne persino capovolto a testa in giù, nella speranza che l’afflusso di sangue riuscisse a evidenziargli una qualche vena sul collo. Una corsa contro il tempo nel tentativo di portare a termine la morte di Stato entro la mezzanotte, quando il mandato di esecuzione sarebbe scaduto. Niente da fare. Dopo quattro ore di agonia il detenuto fu riportato in cella, sotto shock. Smith, 58 anni, ne ha trascorsi 35 dietro le sbarre del braccio della morte: era il 1988 quando assieme a un altro sicario fu assoldato per uccidere Elizabeth Senneth, per conto del marito predicatore Charles, dopo avere pattuito un compenso di mille dollari. Il mandante si è poi suicidato, mentre il suo complice è stato giustiziato nel 2010. Adesso Smith dice di essere “terrorizzato”, e grida al mondo: “Mi state ammazzando due volte”. Nessuna sperimentazione - Dopo il rifiuto di molte case farmaceutiche europee di fornire i farmaci necessari al cocktail letale, molti Stati sono corsi ai ripari: il Tennessee ha riesumato la vecchia sedia elettrica, in Carolina del Nord, Utah e Idaho è tornato in auge il plotone di esecuzione. E poi c’è l’azoto, l’ultimo arrivato, tecnicamente previsto anche da Oklahoma e Mississippi: e però nessuno Stato, all’atto pratico, ne ha mai predisposto un protocollo d’uso. Non si sa nemmeno come avrà luogo l’esecuzione: nel 2021 le autorità della prigione di Holtman, dove vengono giustiziati tutti i detenuti in Alabama, avevano annunciato di avere dato il via alla costruzione di una camera della morte appositamente adibita alla somministrazione dell’azoto, senza specificare se il condannato riceverà la sostanza letale legato a una sedia tramite un comune casco ospedaliero, o se invece verrà confinato all’interno di una vera e propria camera a gas, soluzione già a suo tempo bocciata per gli elevati costi di manutenzione e per i problemi di sicurezza legati a possibili infiltrazioni della sostanza tossica, che avrebbero potuto mettere a rischio l’incolumità di guardie e testimoni. La questione su cui dovrà pronunciarsi la maggioranza repubblicana della Corte suprema è però una sola: se l’ipossia di azoto rappresenti o meno “una punizione inumana e degradante” ai sensi dell’ottavo emendamento della Costituzione statunitense. In altre parole, se sia realmente indolore o meno. L’esperto: “Una morte orrenda” - “L’azoto è presente all’interno dell’aria che respiriamo, di cui rappresenta più del 70% - spiega il professor Davide Chiumello, direttore della struttura di Anestesia e rianimazione dell’Ospedale San Paolo di Milano. Di per sé è un gas inerte, inodore e indolore. Il problema è che allo stato puro induce una totale saturazione dell’ossigeno, e la perdita di coscienza può subentrare anche dopo molti minuti. Qualora l’azoto non venisse preventivamente associato a un barbiturico sedativo, il condannato andrebbe incontro a iperventilazione e fame d’aria. Morirebbe letteralmente soffocato, e sarebbe una morte orrenda”. In favore di Smith si è mobilitata la ong Equal Justice Initiative, presieduta da quel Bryan Stevenson che ispirò sul grande schermo la pellicola “Il diritto di opporsi”, di Daniel Cretton: “È assurdo giustiziare qualcuno con un sistema mai testato su un essere umano - spiegano - ci batteremo fino alla fine per bloccare l’esecuzione”. Quando Smith salirà al patibolo sarà il settantaduesimo detenuto ad essere messo a morte dalla reintroduzione della pena di morte nel 1976: un tasso di esecuzioni più alto rispetto a quello del Texas, in rapporto a una popolazione di poco più di cinque milioni di abitanti: è uno dei pochissimi Stati dove non serve un verdetto unanime della giuria per imporre una sentenza capitale. Dopo le numerose esecuzioni fallite negli ultimi anni - prima di Smith era i carcerieri non erano riusciti a inserire gli aghi per l’iniezione anche ad Alan Miller - la governatrice repubblicana Kay Ivey aveva ordinato uno stop temporaneo alla morte di Stato. Nel 2023 il boia è tornato in azione. Nove detenuti sono stati rilasciati dal braccio della morte negli ultimi 47 anni: per ogni nove persone giustiziate, una è innocente. Iran. Un anno di feroce repressione rimasta impunita: è ora di contrastarla di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 20 settembre 2023 Negli ultimi 12 mesi, coincisi con le proteste “Donna Vita Libertà”, le autorità iraniane hanno commesso una sequela di crimini di diritto internazionale per stroncare ogni minaccia al loro potere: centinaia di uccisioni illegali, l’impiccagione di sette manifestanti, decine di migliaia di arresti arbitrari (tra cui almeno 90 giornalisti e 60 avvocati), torture di massa comprendenti anche stupri delle detenute, intimidazioni nei confronti delle famiglie che chiedono verità e giustizia e rappresaglie contro le donne e le ragazze che sfidano le leggi discriminatorie sull’obbligo d’indossare il velo. In questo anno, a partire dalla morte nelle mani della “polizia morale” di Mahsa Zhina Amini, le autorità iraniane hanno trascorso il tempo infliggendo inenarrabili crudeltà a persone che con coraggio erano tornate a sfidare decenni di oppressione e disuguaglianza. Hanno mentito spudoratamente sulle morti dei manifestanti, descrivendoli come “suicidi” o “incidenti automobilistici”. Hanno promosso un discorso d’odio che descrive la lotta contro il velo come “un virus”, “una malattia sociale” o “un disordine” e che equipara la scelta di non indossare il velo alla “depravazione sessuale”. Alla repressione di piazza con proiettili veri e pallottole di metallo che, quando non hanno ucciso, hanno causato accecamenti e menomazioni fisiche permanenti, e alle scorribande della “polizia morale” per le vie delle città, si è aggiunta tutta una serie di misure che privano dei loro diritti le donne e le ragazze che sfidano le norme discriminatorie sull’obbligo d’indossare il velo. Questi nuovi provvedimenti comprendono il sequestro delle automobili, il divieto di accesso al lavoro, all’istruzione, alle cure mediche, ai servizi bancari e ai trasporti pubblici. Al contempo, le autorità iraniane hanno svolto processi ed emesso condanne al carcere, a multe e a punizioni degradanti come ad esempio lavare i cadaveri. Ovviamente, le autorità iraniane non hanno chiamato a rispondere alcun responsabile di questi crimini, neanche i due agenti che avevano ammesso di aver stuprato delle manifestanti a Teheran. Per contrastare questa impunità di sistema, che perdura da quasi mezzo secolo, è necessario che gli Stati esercitino la giurisdizione universale e altre forme di giustizia extraterritoriale in relazione ai crimini di diritto internazionale commessi dalle autorità iraniane. Occorre, come hanno chiesto nel fine settimana solo in Italia decine di piazze, avviare indagini, dotate di risorse adeguate, per scoprire la verità su tali crimini, identificarne i presunti responsabili - comprese le persone con ruoli di comando - ed emettere, ove vi siano prove sufficienti, mandati d’arresto internazionale. *Portavoce di Amnesty International Italia