Mille detenuti in più nell’ultimo mese. E riprende l’ondata dei suicidi di Fulvio Fulvi Avvenire, 19 settembre 2023 Cresce il numero dei detenuti nelle già sovraffollate carceri italiane e riprende l’ondata dei suicidi dietro le sbarre. Al 31 agosto le persone ristrette nei 189 istituti di pena erano 58.428: quasi mille in più del mese precedente, cioè 7mila oltre la capienza regolamentare. E, mentre si attende l’approvazione da parte del governo dell’annunciato “pacchetto carceri”, con l’aumento delle telefonate ai familiari e nuove norme a tutela del personale, altri due reclusi sono stati trovati impiccati nella propria cella. Si tratta del 26enne cagliaritano Erik Masala, rinvenuto morto ieri nella Casa circondariale Bancali di Sassari, e di un marocchino di 28 anni che nella notte tra sabato e domenica si è tolto la vita al Vocabolo Sabbione di Terni al termine di una rissa tra detenuti nordafricani nel padiglione della media sicurezza. In quattro, forse ubriachi, prima hanno discusso animatamente e poi, quando sono intervenuti gli agenti di polizia penitenziaria, li hanno aggrediti con schiaffi e pugni, lanciando contro di loro diversi oggetti. Tornata la calma nel reparto, i detenuti facinorosi sono stati fatti rientrare nelle loro celle. Uno di questi, però, condannato per una rapina e in attesa di essere trasferito nell’istituto perugino di Capanne, poche ore dopo si è impiccato alle sbarre della finestra. “Vano è stato l’intervento immediato del personale e dei sanitari” precisa il segretario umbro del Sappe, Fabrizio Bonino, che, a proposito dei tafferugli, aggiunge: “Si tratta di violenze annunciate”. Cinque sono stati i decessi-suicidi nel carcere ternano dall’inizio dell’anno e diverse le risse. Per questo la Fp Cgil ha proclamato lo stato di agitazione di tutto il personale del penitenziario. “Chiediamo un incontro urgente con il capo dipartimento anche per discutere della gestione dell’intero Provveditorato dell’Umbria-Toscana, dove il responsabile - afferma il sindacato - si rifiuta di spostare i detenuti dopo che abbiano commesso eventi critici e aggressioni agli agenti”. E sono in tutto 53 i carcerati suicidi dall’inizio del 2023. Ma sul decesso del detenuto a Sassari, che lascia la compagna e due figli piccoli, il suo difensore, avvocato Riccardo Floris, esprime i suoi dubbi: “Masala mi chiamava ogni due giorni ma non mi ha mai dato segnali che potessero pensare che volesse togliersi la vita. Ci sentivamo spesso - riferisce il legale - perché voleva essere trasferito a Cagliari, al più presto: da poco gli era nato l’ultimo figlio ma non aveva avuto ancora modo di riconoscerlo”. “Il suicidio? Mi sembra molto strano - dice l’avvocato - per questo ho deciso di chiedere accertamenti al pm Angelo Beccu affinché si faccia piena chiarezza sulle circostanze della morte di Erik”. Secondo quanto si è appreso, i familiari sarebbero stati chiamati per il riconoscimento della salma e avrebbero notato dei segni sospetti sul corpo del ragazzo. Per il Sappe, comunque, Masala era una “persona problematica che aveva aggredito un altro detenuto prima di ferragosto spaccandogli la testa e, inoltre, era destinatario di svariati rapporti disciplinari e di querele”. Infine, dopo la clamorosa evasione avvenuta a Natale di un gruppo di ragazzi dall’Istituto Penale per minorenni “Cesare Beccaria” di Milano, l’altra notte un altro giovane recluso ha cercato di scappare: sarebbe saltato dalla finestra della propria cella al terzo piano dell’edificio calandosi con un lenzuolo ma nella caduta si è fratturato una gamba ed è stato subito ripreso dagli addetti alla sorveglianza. Per passare attraverso le sbarre, il giovane, che è magrissimo, si sarebbe insaponato il corpo. Ora è in una stanza d’ospedale piantonato dagli agenti di polizia penitenziaria. Quando il carcere minorile è un “banco di prova” per i futuri criminali di Tommaso Romeo* Ristretti Orizzonti, 19 settembre 2023 Il recente decreto legato ai fatti di Caivano e ai reati e alla violenza dei minori secondo la mia esperienza rischia di essere un regalo alla criminalità. Il criminale che è “sul campo di battaglia” ha bisogno di giovani, e se questi poi muoiono o finiscono in carcere non gli importerà più di tanto, perché non porteranno sofferenza alla propria famiglia. Si tratta infatti spesso per lui di perfetti sconosciuti, ma dove li trova questi cavalli da macello? principalmente in quei giovanissimi che finiscono in carcere per qualche piccolo reato. Perché poi il carcere minorile fa da banco di prova e una volta fuori il criminale adulto basta che si informi di che comportamento ha avuto quel ragazzino in carcere e va sul sicuro, è già pronto per fargli fare reati più gravi. Vi immaginate nelle grandi periferie, dove in molte famiglie non entra uno stipendio, ora poi senza più reddito di cittadinanza quanti di quei ragazzini cadranno nella tentazione di commettere qualche piccolo reato per comprarsi il cellulare o un paio di scarpe? E da lì può iniziare una carriera criminale. Io credo che il pensiero di questo governo di usare la spada e la punizione verso questi ragazzini mandandoli in carcere rischia di non far altro che un favore alla grande criminalità, perché quei ragazzini dopo il primo arresto si vedranno marchiati a vita, senza un futuro sociale e lavorativo perché pregiudicati. È infatti inutile nasconderci che una volta che finisci in carcere spesso sia per la società che per le istituzioni sei un criminale a vita, e allora a quel ragazzino non rimane altro che fare a tempo pieno il criminale dandosi le solite giustificazioni che ognuno di noi, che ora siamo in carcere, si è dato, del tipo “non mi hanno lasciato altra scelta”. Sono convinto che si otterrebbe di più dando una seconda possibilità e in qualche caso anche la terza possibilità, perché affidarsi alla galera significa fingere di non sapere che per la maggior parte le carceri non sono altro che una scuola di criminalità, luoghi poco rieducative fortemente punitivi e di contenimento. *Ergastolano, redazione di Ristretti Orizzonti Avevano promesso: “mai più”. Ma sono ancora 19 i bimbi in carcere di Marica Fantauzzi Il Dubbio, 19 settembre 2023 A cinque anni dalla tragica morte di Faith e Divine a Rebibbia, la politica non riesce a trovare una soluzione per evitare che i piccoli finiscano dietro le sbarre. Faith e Divine, di sei e diciotto mesi, entrarono in carcere con la madre il 26 agosto del 2018. Lei, cittadina tedesca, era stata arrestata e accusata di traffico internazionale di stupefacenti. Era un periodo in cui nella sezione nido del carcere romano di Rebibbia si contavano nove detenute e undici bambini. Uno di questi, di lì a poco, avrebbe compiuto tre anni e, come di consueto, venne organizzata una festa di compleanno. Quel giorno la madre di Faith e Divine si affacciò nella sala comune, prese due pezzi di torta per il figlio più grande, si sedette con loro in un angolo e poco dopo tornò in cella. Quando in una situazione straordinaria come può essere quella di un compleanno dentro il nido di un carcere - con musica e candeline - si rimane in disparte, è probabile che qualcuno se ne accorga. Le altre detenute, del resto, avevano notato il fare schivo e assente della donna tedesca: c’era chi lo attribuiva al fatto che era una nuova giunta, chi sosteneva che non sapendo l’italiano era per lei difficile comprendere quanto le avveniva intorno e chi, invece, aveva sollecitato un intervento di uno specialista perché era evidente che non stesse bene. Il 18 settembre, intorno all’ora di pranzo, mentre altre detenute salivano le scale insieme ai figli per rientrare dal cortile, la mamma di Faith e Divine si fermò improvvisamente e lasciò cadere i figli giù per le scale. La più piccola morì sul colpo, il più grande poco dopo in ospedale. Il dramma che si consumò quel giorno a Rebibbia fece scalpore per un mese, il tempo di trovare dei responsabili, sospenderli dall’incarico e trasferire in una Rems (Struttura sanitaria di accoglienza per gli autori di reati affetti da disturbi mentali) la madre che, sentenziò poi il giudice, era totalmente incapace di intendere e di volere al momento del fatto. Da allora sono passati esattamente cinque anni e la questione dei bimbi ristretti continua a essere una delle (rare) tematiche carcerarie che desta un qualche tipo di scalpore e a tratti anche di scandalo, sia nell’opinione pubblica sia, in modalità intermittenti, nella classe politica. Eppure, strisciante e subdola, permane la tentazione di considerare quel numero, tanto è piccolo e mutevole nel tempo, un fallimento tutto sommato sopportabile. Lo era quando le madri detenute con figli erano più di cinquanta, lo è a maggior ragione ora, che si aggirano attorno alla cifra di venti. (L’ultimo dato aggiornato al 31 agosto dal ministero della Giustizia, parla di 18 madri e 19 minori al seguito). Perfino la morte di due bambini, collocata all’interno della macabra cronistoria carceraria, sembra far parte di quegli incidenti che possono capitare in un sistema che non può - guai se lo facesse - incepparsi per una sola terribile vicenda. È comprensibile, si dirà, l’emotività smuove le coscienze per pochi secondi. Poi, a prevalere, specialmente nel caso di chi governa la cosa pubblica, deve essere non tanto il raziocinio, quanto la riduzione della complessità: a ogni reato corrisponde un criminale, a ogni criminale corrisponde una pena che, per riduzione di alternative, finisce per coincidere con il carcere. Luogo dove però non c’è molto spazio per essere madri e, se capita di esserlo, allora bisogna adattarsi. Ed ecco quindi spuntare l’altra terribile tentazione, ossia quella di sostenere (anche pubblicamente) che quelle madri detenute - il più delle volte in attesa di giudizio definitivo - si meritino quella condizione di genitorialità mutilata. E coerentemente con ciò, ipotizzare l’esclusiva liberazione dei figli, aspettando che le madri scontino tutte le loro colpe in galera. E se c’è chi fa notare che quell’età, dai 0 ai 3 anni, è tra le più delicate dell’intera esistenza umana e che il contatto con la madre è essenziale, pazienza! Bisognava pensarci prima. Ma è proprio quella parola - prima - a far scricchiolare l’intera prospettiva carcerocentrica su cui, decennio dopo decennio, lo Stato continua a fare affidamento. I reati per i quali quelle donne sono ristrette - e anche molti uomini e giovani adulti - raccontano di un prima (e di un dopo) fatto spesso di violenza, abbandono, malattia e dipendenza. E se la marginalità economica e sociale continua a essere percepita come un fatto privato, che riguarderebbe esclusivamente l’individuo e le sue presunte capacità di agire e se, quindi, il deserto lo si patisce in solitudine, è possibile che l’acqua la si finisca per cercare ovunque, anche a costo della propria libertà. E il carcere, lungo quel percorso a ostacoli, non sarà altro che una tappa come le altre. Dopo cinque anni, un albero, piantato davanti a un chiosco di “grattachecche”, in via Giovanni Branca a Roma, porta i nomi di Faith e Divine. A memoria di ciò che sarebbe potuto essere e di quello che è ancora possibile fare. Vittime dimenticate: il problema dell’affettività nelle carceri di Valentina Calderone* lafeltrinelli.it, 19 settembre 2023 Il problema del rapporto tra i detenuti e i loro familiari evidenzia sempre più le falle del sistema penitenziario italiano. Regole antiquate e obsolete, infatti, fanno si che le pene commesse non colpiscano soltanto chi sta in carcere, ma ricadano anche sui loro parenti. Quando ragioniamo intorno al carcere, e pensiamo alle persone detenute, tendiamo a concentrarci sul motivo per cui si trovano rinchiuse, quanto efferate sono state le loro azioni, gli anni ancora da scontare, a volte magari ci stupiamo di un buon percorso intrapreso e concluso. Difficilmente riusciamo a vederli come uomini e donne, confondendoli spesso con il loro reato, e quasi mai ci interroghiamo su cosa hanno lasciato dietro di sé. Si occupavano di un genitore anziano, convivevano con qualcuno, avevano dei figli da crescere? Nelle ultime settimane ci sono stati altri suicidi, tra cui quello di Riccardo, ventunenne entrato nell’istituto romano di Regina Coeli da qualche settimana, per aver rubato una collanina. Anche il mese di agosto è stato funestato dalla morte di due donne nel carcere di Torino, Azzurra Campari che si è tolta la vita impiccandosi nella propria cella e Susan John, che da giorni aveva smesso di bere e mangiare. Susan protestava contro una condanna da lei ritenuta ingiusta nell’unico modo che è riuscita a immaginare e con l’unico strumento davvero a sua disposizione, il proprio corpo. Sembra che la donna abbia deciso di intraprendere quel radicale sciopero soprattutto perché da quando era detenuta non aveva ancora visto il figlio, e si può solo immaginare quanto la preoccupazione e la mancanza possano essere dilanianti quando si è chiusi dentro un carcere. Si è parlato molto nei giorni di Ferragosto della scelta di Susan, della sua silenziosa ostinazione di cui nessuno si era accorto e che non era stata segnalata a soggetti esterni, come Garanti o magistrati di sorveglianza. E infatti nessuno è intervenuto, ed è stato possibile che nel nostro paese una donna morisse di fame e di sete nel silenzio più assoluto. Dietro alle colpe degli individui, vere o presunte, lo spazio che dedichiamo a chi resta fuori, alla rete degli affetti delle persone detenute, è praticamente nullo. Mogli e mariti, genitori, figli e figlie, migliaia di persone totalmente innocenti ma che subiscono duramente gli effetti della detenzione dei propri cari. Secondo i dati del ministero della Giustizia, al 30 giugno 2023 i genitori detenuti erano 26.607, il 46,25% del totale. Si parla di quasi 60mila figli e figlie che nella maggior parte dei casi si sottopongono al rito dell’ingresso in istituto e della perquisizione effettuata dagli agenti degli uffici colloqui. Periodicamente vengono avanzate proposte per aumentare le telefonate e favorire maggiormente i contatti tra familiari, ma ad oggi la legge prevede una telefonata a settimana della durata di dieci minuti e dai quattro ai sei colloqui al mese di un’ora ciascuno. Il covid ha permesso di accelerare un processo di modernizzazione introducendo le videochiamate all’interno degli istituti, ma ogni richiesta di adeguamento rispetto all’evidenza di un mondo fuori, ormai mutato, viene costantemente ignorata. Perché, infatti, chi ha commesso reati comuni e non legati alla criminalità organizzata non può avere con sé un telefono cellulare? La legge dice che “Particolare cura è dedicata a mantenere, migliorare o ristabilire le relazioni dei detenuti e degli internati con le famiglie”, ma gli spazi, gli orari e le rigide modalità delle carceri sono inadeguati a garantire una minima parvenza di normalità negli incontri tra genitori ristretti e figli. Nonostante nel 2022 siano stati stanziati 28 milioni di euro per la costruzione di “casette dell’affettività” e sia stata sollevata la questione di legittimità costituzionale da un magistrato di sorveglianza di Spoleto per chiedere alla Corte di dichiarare il controllo visivo a opera della polizia durante ogni colloquio in contrasto con i diritti fondamentali, il tema del rispetto dell’intimità di chi si trova in carcere viene spesso evocato e mai davvero affrontato. C’è sempre, infatti, una parte consistente di politica e di opinione pubblica che ritiene il rispetto di questi diritti degli ingiustificati privilegi, manifestando ostilità ogni volta che se ne presenta l’occasione, ed esplicitando l’assunto che il carcere debba essere principalmente dolore e afflizione. Sull’altra sponda dell’inflessibilità, però, si trovano appunto i familiari e gli affetti, fino a prova contraria innocenti e per questo identificati negli studi sulla questione come “vittime dimenticate”. Il malessere che può provocare una frattura così netta dalle abitudini quotidiane, il trauma dell’assenza e quello dell’approccio con l’istituzione totale, con le sue sbarre, le sue divise, le sue sale d’attesa, ha un impatto talmente forte da poter pregiudicare una vita intera. Lo racconta perfettamente Lorenzo S., autore insieme a Mauro Pescio del podcast, poi divenuto libro, Io ero il milanese. Il padre di Lorenzo viene arrestato quando lui non era ancora nato, e per i primi dieci anni di vita il rapporto tra il protagonista e il genitore avviene solo all’interno delle salette colloqui di un carcere. Quanto questo ha avuto un impatto sulla sua vita, e sulle scelte che ha fatto, è fin troppo facile da immaginare. E qui si trova forse il punto della questione, nella sofferenza cui noi, giudici inflessibili e integerrimi, vogliamo condannare chiunque abbia commesso un reato, non rendendoci conto di contribuire così a spianare la strada affinché future generazioni senza colpa vivano e diventino loro stessi, inesorabilmente, quella stessa condanna. *Garante per i diritti delle persone private della libertà del Comune di Roma Il “caso Cospito” sul confine tra diritto, garanzie e ordine pubblico di Stefano Anastasìa studiquestionecriminale.wordpress.com, 19 settembre 2023 Improvvisamente, a trent’anni dalla sua introduzione, il regime detentivo speciale previsto dall’articolo 41bis, comma 2, dell’Ordinamento penitenziario è entrato nel dibattito pubblico italiano. Stavolta non per lamentarne una insufficiente applicazione, o per paventarne i rischi di una sua elusione di fatto o di diritto (lamentele e preoccupazioni a cui siamo educati da una incessante litania), ma proprio per la sua natura, per le modalità concrete della sua applicazione, per le sue finalità. Di questo va dato atto ad Alfredo Cospito, uno degli oltre 700 detenuti che vi sono sottoposti e che - vuoi in ragione della motivazione politica dei reati per cui è in carcere, vuoi per la personale intolleranza al regime cui è stato costretto - attraverso un calibrato sciopero della fame durato più di quattro mesi e i patimenti che il proprio corpo ne ha subito, ha messo al centro del dibattito pubblico l’intoccabile regime detentivo speciale individualizzato. Si sono intrecciate, in questa vicenda, almeno tre questioni distinte, ciascuna meritevole di essere adeguatamente affrontata. Prima è emersa, agli occhi dell’opinione pubblica, quella della tutela della vita e della salute di Cospito, con le implicazioni conseguenti sugli obblighi di cura e il rispetto della volontà della persona. Questione su cui sono stati chiamati a pronunciarsi (più o meno propriamente) il Comitato nazionale di bioetica (sull’eventualità dell’alimentazione forzata del detenuto in sciopero della fame) e il Tribunale di sorveglianza di Milano (sulla richiesta di sospensione della pena di Cospito per motivi di salute). Accanto a essa è stata posta la questione della legittimità del provvedimento di applicazione del regime di 41bis a Cospito, militante anarchico detenuto per reati motivati politicamente; legittimità confermata dalla Corte di Cassazione, nonostante le incertezze e le obiezioni proposte anche dalla Procura generale e dalla Procura nazionale antimafia e antiterrorismo. Infine, sottese a queste, si stagliava la questione dello stesso regime del 41bis, della sua legittimità costituzionale e convenzionale; questione che era la motivazione originaria della protesta di Cospito. Tutte questioni che avrebbero meritato risposte adeguate, ma che non sempre ci sono state, talvolta nel merito, talaltra in assoluto. In particolare, assenti o evasive sono state le risposte istituzionali sulla questione della legittimità del regime previsto dall’articolo 41bis dell’ordinamento penitenziario, dalle sue circolari applicative e dalle prassi in cui si sostanzia. La Corte costituzionale, la Corte europea dei diritti umani e il Comitato europeo per la prevenzione della tortura hanno più volte giudicato legittimo, e dunque compatibile con il divieto di trattamenti degradanti o contrari al senso di umanità il regime detentivo speciale. Ma ciascuno di questi pronunciamenti ha posto o ha chiesto dei limiti al 41bis, invocandone la provvisorietà, la rivedibilità, la limitazione alle misure strettamente necessarie all’interruzione dei rapporti con l’esterno, la garanzia dei diritti umani fondamentali, e invece dalla giurisprudenza di sorveglianza così come dai ripetuti rilievi del Garante nazionale delle persone private della libertà e del Comitato europeo per la prevenzione della tortura quei limiti appaiono frequentemente, se non legalmente, travalicati. Di queste cose, grazie alla protesta di Cospito, l’opinione pubblica ha iniziato ad avere informazioni nel dibattito pubblico che ne è scaturito, ma il tabù che aleggia intorno al 41bis ha impedito che avessero un approfondimento istituzionale nella sede propria, anche solo nella forma minima di una indagine conoscitiva parlamentare. Resiste, dunque, il tabù del 41bis, vero e proprio totem intorno a cui ruota la legislazione d’eccezione in materia di trattamento penitenziario degli appartenenti alle organizzazioni criminali di tipo mafioso (e, collateralmente, applicabile anche ai detenuti per reati commessi con finalità politiche, come nel caso di Cospito). E allora tocca capire a cosa si deve la forza di questa resistenza, se essa non trova spiegazione negli argomenti che legittimano l’esistenza del regime speciale nei pronunciamenti delle Corti e degli organismi di tutela dei diritti umani. Tocca capire la distanza tra funzioni manifeste e funzioni latenti del dispositivo legislativo. Il regime detentivo speciale previsto dal secondo comma dell’articolo 41bis dell’Ordinamento penitenziario si giustifica costituzionalmente e convenzionalmente come effetto di una norma derogatoria dell’ordinario trattamento penitenziario, applicabile in via temporanea ai capi delle organizzazioni criminali, finché ne sono a capo, per impedire che possano continuare a esercitare le proprie funzioni di comando in stato di detenzione. Così ne fu giustificata l’introduzione prima e durante il tempo delle stragi di mafia, all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso, e così è stata accettata dalle Corti e dagli organismi di tutela dei diritti umani dei detenuti. Una misura di prevenzione dei reati applicabile temporaneamente in condizione di detenzione. Nella prassi, invece, il regime speciale è applicato a circa 740 (dato al 27.2.2023) delle 9068 (dato al 31.12.2022) persone detenute per associazione di tipo mafioso: un po’ tante per presumere che siano tutte effettivamente a capo di organizzazioni ancora attive sul territorio. Inoltre la gran parte delle persone sottoposte al regime speciale lo sono da dieci-venti e più anni, evidenziando il venir meno della temporaneità della misura che spesso coincide con l’intera durata del periodo detentivo, nel caso degli ergastolani spesso fino alla morte. A queste considerazioni ricavabili da una superficiale indagine quantitativa, si aggiungono quelle conseguenti a un’analisi qualitativa del regime detentivo per come viene rappresentato dalle testimonianze delle persone che vi sono state sottoposte e dei loro congiunti, dalla giurisprudenza e dai rilievi degli organismi di garanzia delle persone detenute. La realtà del regime detentivo speciale è disseminata di divieti e limitazioni (alcune previste per legge, molte per disposizione amministrativa centrale, altre per prassi di indeterminabile attribuzione) che nulla hanno a che fare con le finalità di prevenzione che ne legittimano l’esistenza e che si sostanziano in sofferenze penali ulteriori rispetto a quelle naturalmente insite nella privazione della libertà. E’ così che si scopre la funzione latente del regime detentivo speciale, diversa da quella dichiarata, e che si risolve non tanto nella più volte paventata misura inquisitoria della induzione alla collaborazione (sono davvero pochi i casi delle persone passate per il 41bis che abbiano iniziato a collaborare con gli inquirenti), quanto nell’attuazione di quel “carcere duro” che la vulgata le attribuisce: una pena di specie diversa da quella detentiva ordinaria, inflitta anche a persone in attesa di giudizio, sulla base della loro appartenenza alle organizzazioni criminali e della loro presunta o reale pericolosità sociale. La fonte di legittimazione della norma si sposta dunque dalle necessità di prevenzione riconosciute legittime in uno stato costituzionale di diritto all’indicibile diritto penale del nemico, per il quale non valgono le garanzie dell’ordinamento giuridico ordinario e la cui pena non può essere circoscritta dal divieto di trattamenti contrari al senso di umanità. La parabola del “caso Cospito” ci dice dunque di cosa si può e di cosa non si può discutere sul confine tra diritto, garanzie e ordine pubblico. La tendenziale dismisura del potere punitivo resiste a ogni tentativo di suo contenimento e invoca ripetutamente l’eccezione per soddisfare quelle istanze di difesa sociale e disciplinamento che gli derivano dalla sua oscura origine sacrificale e vendicatoria. All’analisi critica la responsabilità, volta per volta, di rilevare la distanza del sistema penale dai suoi presupposti di giustificazione e la funzione reale cui esso contingentemente e strategicamente attende. Magistrati nei ministeri, blitz di Lega e FI per stravolgere la legge Cartabia sulle toghe in politica di Liana Milella e Giuseppe Colombo La Repubblica, 19 settembre 2023 Due emendamenti al decreto Asset replicano il tentativo già fallito a marzo e ampliano da uno a due anni il termine per rientrare in ruolo e concorrere ad incarichi di vertice negli uffici. Due emendamenti nel decreto Asset a palazzo Madama per aggirare la legge Cartabia del giugno 2022 sulle toghe in politica. Con l’obiettivo di avvantaggiare i capi di gabinetto, i loro vice, e i magistrati che lavorano nei ministeri del governo Meloni con incarichi di vertice. Ci avevano già provato, a fine marzo, Lega e Fratelli d’Italia. Ma non erano riusciti a superare l’ammissibilità, perché Repubblica l’aveva scoperto. A fermarli era stata una puntuta interrogazione del responsabile Giustizia di Azione Enrico Costa al Guardasigilli Carlo Nordio, nonché un altolà di Giulia Bongiorno, responsabile Giustizia della Lega, che li aveva bollati come “non autorizzati”. Adesso la Lega insiste di nuovo e ci riprova, ma cambia partner, con lei c’è Forza Italia, mentre FdI si defila. La proposta è simile. Con la scusa del Pnrr le toghe che hanno incarichi di vertice potranno restare in servizio non un solo anno ma due e avere comunque la possibilità di rientrare a pieno titolo in magistratura e assumere soprattutto gli incarichi di capo di un ufficio. Proprio quello che la legge Cartabia, già nel ddl del suo predecessore Alfonso Bonafede, riteneva inammissibile. A marzo era stata battezzata norma Rizzo, da Alberto Rizzo, il capo di gabinetto del Guardasigilli Carlo Nordio che con la sua vice, l’ex deputata forzista nonché toga in politica Giusi Bartolozzi, erano tra i possibili fruitori della proposta che aveva lo stesso obiettivo di quella di oggi, ma ancora più contorta (decorrenza dell’incarico trenta giorni dopo l’affidamento nel novembre dell’anno scorso). Accanto ai loro nomi, ecco quelli di altri possibili fruitori “imputati”, a partire dal capo di gabinetto di Matteo Salvini alle Infrastrutture, il magistrato del Tar Alfredo Storto, che già era al vertice dell’ufficio legislativo con l’ex ministro Danilo Toninelli. Nonché Massimiliano Atelli, ex procuratore regionale della Corte dei conti, e capo di gabinetto del ministro dello Sport Andrea Abodi. E ancora Erika Guerri, anche lei ex della Corte dei conti, stesso ruolo di Atelli al Turismo con Daniela Santanché. Ma la lista potrebbe essere identica all’elenco dei ministeri che gestiscono fondi del Pnrr, in pratica tutti. I due emendamenti sono identici. Poche righe in tutto. A firmare il primo è l’ex sindaco di Brescia e senatore di Forza Italia Adriano Paroli. Mentre il secondo è sottoscritto da ben cinque senatori del Carroccio. Nell’ordine Tilde Minasi, Antonino Salvatore Germanà, Manfredi Potenti, Mara Bizzotto e Gianluca Cantalamessa. Recita il testo: “Al fine di consentire la continuità nella gestione delle attività amministrative connesse all’attuazione del Pnrr, fino al 31 agosto 2026, il termine di un anno della legge Cartabia è modificato in due anni in relazione agli incarichi assunti presso amministrazioni titolari di interventi previsti nel Pnrr”. Un caposaldo della legge Cartabia, peraltro molto criticato dalla stessa Anm, salta. Se la Cartabia bloccava le “porte girevoli” tra magistratura e politica, anche per i sottosegretari “togati”, per cui chi assumeva ruoli nel governo o nei ministeri subiva il divieto di rientrare in ruolo e di assumere incarichi direttivi per ulteriori 3 anni, con il blitz Lega-Fi, fino al 2026 potrà tornare in magistratura e avere anche un incarico direttivo. Il giurista della Statale di Milano Gian Luigi Gatta, che è stato consigliere giuridico di Cartabia, legge l’emendamento e chiosa: “Basta che l’incarico governativo duri un anno, 11 mesi e 30 giorni e la toga potrà correre anche per fare il procuratore di una grande città”. Dopo fiumi di inchiostro contro le toghe in politica ecco come si può aggirare una legge in quattro righe. “Il governo per ora è molto deludente: mi aspettavo un cambio radicale sulla Cartabia” di Gianni Barbacetto Il Fatto Quotidiano, 19 settembre 2023 Nicola Gratteri è appena stato nominato procuratore della Repubblica a Napoli: “Sono onorato. Si tratta di una realtà complessa. Il mio impegno è quello di dare il massimo per proseguire il percorso fatto dai miei predecessori e di valorizzare al meglio tutte le professionalità e le risorse presenti”. Il Csm si è diviso sulla sua nomina. Come lo spiega? Non mi aspettavo certo l’unanimità, non sono stupito. Ho ascoltato il dibattito del plenum del Csm e ho apprezzato molto quegli interventi che hanno valorizzato dati oggettivi, senza farsi condizionare da ricostruzioni parziali dell’istruttoria. Alcuni suoi colleghi, dopo la diffusione di stralci della sua audizione, hanno fortemente criticato alcune sue affermazioni... È vero, ho detto quanto c’era scritto, ma erano dichiarazioni che facevano parte di un discorso molto più ampio. Non era un giudizio sui sostituti della Procura di Napoli, che non conosco e quindi mai avrei potuto giudicare. Napoli è la capitale della camorra. Lei ha grande esperienza di ‘ndrangheta. Sarà difficile affrontare una realtà diversa? Il metodo di lavoro e gli strumenti investigativi sono gli stessi. Ovviamente ciascuna organizzazione ha le sue peculiarità. Normalmente, quando si cambia Ufficio, occorre colmare un fisiologico deficit di conoscenza sul territorio in cui si arriva. Metterò a disposizione la mia esperienza maturata in altri contesti, confrontandomi con quella dei colleghi. Per la criminalità giovanile a Napoli servono strumenti specifici? È un discorso che ho sempre fatto anche per la realtà calabrese. Non basta la repressione. La criminalità giovanile si previene, o comunque si contiene, con la presenza dello Stato in tutti i settori della società. I ragazzi devono avere modelli di riferimento alternativi, che solo l’impegno della scuola può fornire. Bisogna educare sin dall’inizio al senso civico. E anche le famiglie, soprattutto quelle in difficoltà, devono avere il sostegno delle istituzioni. Per questo cerco di dedicare tempo agli incontri nelle scuole, spiegando ai ragazzi che delinquere non conviene. Le hanno già fatto una critica preventiva: ha esperienza soltanto nel contrasto alle mafie e poca visione d’insieme... Chi mi critica non sa che la Procura di Catanzaro ha condotto inchieste su vari fronti: l’abusivismo edilizio, anche attraverso lo strumento delle demolizioni, i delitti contro la pubblica amministrazione con significativi risultati, le violenze di genere e i reati finanziari. Anzi, proprio così si è potuto constatare come la ‘ndrangheta si stia dedicando alla finanza e meno al traffico di droga, un reato che fa correre maggiori rischi. L’hanno accusata di essere un magistrato-sceriffo... Non ho mai capito cosa vuol dire. Ho sempre lavorato con il codice in mano, se non ci sono le condizioni per arrestare o processare, sono il primo a fermarmi. Ciò che non tollero è non indagare o fare distinguo, per ragioni metagiuridiche. Tutti sono uguali di fronte alla legge. Se ci sono le prove si procede, altrimenti no. La Procura di Napoli in passato ha condotto grandi inchieste sulla corruzione politica e sulle illegalità delle imprese. Poi è sembrata rallentare… Non sono abituato a dare giudizi senza constatare di persona. Sicuramente la riforma sulla cosiddetta presunzione di innocenza, sulla quale è noto il mio giudizio negativo, ha reso meno facile il lavoro degli organi di informazione. L’hanno anche accusata di aver fatto indagini-show per attirare visibilità... Rispondo con le sentenze. Le cosiddette operazioni show, approdate a giudizio, stanno ottenendo conferme in primo grado, appello e Cassazione. Chi mi accusa di fare indagini che finiscono nel nulla, cita sempre le stesse due o tre. Come se avessi fatto solo queste. È stato dipinto come un magistrato vicino al centrodestra di Giorgia Meloni e, contemporaneamente, come troppo critico nei confronti del governo Meloni. Non sono legato ad alcuno schieramento politico. Come tutti ho le mie idee ma le tengo per me, è importante anche apparire indipendente, oltre che esserlo. Non faccio il tifo per questo o quel governo. Se vengono proposte buone riforme, il governo ha il mio plauso, altrimenti, le mie critiche. Le piace la cosiddetta “svolta securitaria” del governo? Come giudica il decreto Caivano? Se non si fanno riforme serie per velocizzare i processi e per dare certezza della pena, le cosiddette “svolte securitarie” rimangono sulla carta. Parliamo delle riforme annunciate. Giusto abolire l’abuso d’ufficio? No, lo ribadisco. Andremmo contro le indicazioni dell’Europa. E poi resterebbero irragionevolmente impunite condotte riprovevoli e non riconducibili al reato di corruzione. Se un tecnico comunale rilascia un permesso di costruire illegittimo al fratello, ovviamente senza farsi pagare, perché dovrebbe essere impunito? Perché un pubblico ufficiale che fa vincere un concorso a un conoscente dovrebbe essere esente da colpe? Gli esempi sono infiniti. Ridurre le intercettazioni? E perché? La criminalità si sta evolvendo e noi andiamo indietro. Gli altri Stati stanno investendo per “bucare” le piattaforme telematiche con cui le mafie comunicano, e noi dovremmo tornare all’investigatore con la lente d’ingrandimento? Impedirne la pubblicazione? Sono d’accordo sul fatto che le misure cautelari e le informative di reato debbano contenere solo i dati rilevanti e che si faccia attenzione a non coinvolgere terze persone. Ciò posto, se si adottano queste doverose accortezze, le intercettazioni, come tutti gli atti non più coperti da segreto, devono poter essere pubblicate, per consentire una informazione precisa e soprattutto esatta. Che riforma della giustizia si aspettava dal governo? Mi aspettavo cambiamenti radicali della riforma Cartabia, visto che gli esponenti di FdI più volte avevano precisato, in campagna elettorale, di non aver votato e sostenuto questa riforma che sta creando solo problemi e una malagiustizia a tutti i livelli. Già i primi dati dimostrano che non solo i processi non si sono velocizzati, ma molti tribunali sono in sofferenza e non certo per colpa dei magistrati, ma perché mancano le risorse necessarie. E questo accade in tutti i settori. Come si può pensare di avere processi telematici se i sistemi ogni due giorni si bloccano? Ritiene utile la divisione delle carriere? Assolutamente no e l’ho sempre sostenuto. Il cambio di funzione arricchisce professionalmente il magistrato e non fa perdere al pubblico ministero la cultura della giurisdizione. Si criticano spesso i pubblici ministeri di non acquisire le prove in favore della difesa. Si pensa che con questa riforma le cose miglioreranno? La verità è che la separazione delle carriere è l’anticamera della sottoposizione del pm all’esecutivo. Forza Italia in rivolta contro la propaganda leghista sulla castrazione chimica di Ermes Antonucci Il Foglio, 19 settembre 2023 I parlamentari di Forza Italia contro la proposta di castrare chimicamente gli stupratori: “L’ennesima prova di panpenalismo. Allora dovremmo atrofizzare le dita a chi spara...”. Il no di Nordio del 2019: “Un ritorno al Medioevo”. “Una proposta indecente”. “Siamo assolutamente contrari”. “Se vogliono farci passare pure questa roba qua non hanno capito niente…”. A parlare, lontano dai microfoni, sono i parlamentari di Forza Italia, sorpresi, a tratti sdegnati, dalla decisione della Lega di rilanciare la proposta di castrazione chimica per stupratori e pedofili. Un vecchio pallino del partito di Matteo Salvini, riesumato nelle ultime settimane in seguito ad alcuni fatti di cronaca (in particolare lo stupro di una diciassettenne a Palermo), nella migliore tradizione del populismo forcaiolo. Il primo a rievocare l’intervento è stato proprio il vicepremier Salvini tre settimane fa: “Se stupri una donna o un bambino hai evidentemente un problema: la condanna in carcere non basta, meriti di essere curato. Punto”, ha scritto il leader della Lega sui social, annunciando la prossima approvazione di una legge in Parlamento che preveda la castrazione chimica per i responsabili di violenze sessuali. Domenica scorsa, dal palco di Pontida, la misura è stata riproposta (nell’ovazione generale) dalla senatrice Giulia Bongiorno, presidente della commissione Giustizia del Senato e responsabile giustizia del partito di Salvini: “Ci sono quelli che violentano donne e minori. Entrano in carcere, poi escono e riviolentano donne e minori. Se uno stupratore non riesce a tenere i propri impulsi vuol dire che ha bisogno di un aiuto e questo aiuto si chiama in un modo: castrazione chimica”, ha detto Bongiorno. “Non è una tortura - ha aggiunto - è un trattamento farmacologico e questa sarà la nostra battaglia”. Nella versione di Bongiorno, il provvedimento dovrebbe riguardare gli stupratori che, una volta usciti dal carcere, commettono nuovamente violenza sessuale. Una proposta quindi diversa da quella salviniana, ma del resto a nessuno importa il contenuto del provvedimento: l’importante è alimentare gli istinti giustizialisti dell’opinione pubblica. Lo conferma il fatto che la proposta di Bongiorno non si basa su nessun dato fattuale: non si segnala infatti nessun particolare tasso di recidiva fra gli stupratori. “La Lega vuole soltanto inviare un messaggio di stampo securitario ai cittadini, viste anche le difficoltà a fornire risposte sul piano economico e del contrasto all’immigrazione”, confida un senatore forzista. “L’ennesima prova di panpenalismo. Allora dovremmo atrofizzare le dita a chi spara…”, ironizza amaramente un altro esponente azzurro. A rendere ancora più paradossale l’intera vicenda è che ad assistere alla “battaglia” leghista sarà un ministro della Giustizia che da sempre ha considerato l’introduzione della castrazione chimica “un ritorno al Medioevo”: così scriveva Carlo Nordio in un editoriale pubblicato sul Messaggero nel marzo 2019. L’ex magistrato, all’epoca ancora ben distante dall’essere nominato Guardasigilli (di un governo composto anche dalla Lega), smontò già allora l’iniziativa leghista: “Sovvertirebbe completamente la struttura del nostro codice e della Costituzione, dove la pena ha una funzione preventiva, retributiva e rieducativa. Si può concedere che la castrazione prevenga nuovi crimini; ma se le attribuiamo anche una funzione retributiva ciò significa che torniamo alla vecchia pena corporale”. Nordio evidenziò non solo il carattere incostituzionale della misura, ma anche la sua inefficacia: “Se la ‘castrazione’ è un surrogato della pena, dev’essere provvisoria, e di conseguenza è inefficace. Se invece è irreversibile, costituisce una menomazione permanente come l’amputazione di un arto, e quindi, incidendo su un diritto indisponibile, è manifestamente incostituzionale”. Chissà quale sarà oggi il pensiero del Nordio ministro. Castrazione chimica? Inutile, inumana e incostituzionale di Giulia Bongiorno Il Dubbio, 19 settembre 2023 La senatrice leghista Giulia Bongiorno rilancia da Pontida la misura per gli stupratori. Ma Nordio in passato ne parlò come di una “punizione corporale”. “Ci sono quelli che violentano donne e minori. Entrano in carcere, poi escono e riviolentano donne e minori. Ci dicono: “non riesco a frenare i miei impulsi”. Io non ho dubbi: se uno stupratore non riesce a tenere i propri impulsi vuol dire che ha bisogno di un aiuto e questo aiuto si chiama in un modo: castrazione chimica”. Lo ha affermato la senatrice della Lega Giulia Bongiorno, dal palco di Pontida. “Non è una operazione chirurgica, non è una tortura - ha precisato - è applicata in molti Paesi europei, è un trattamento farmacologico che agisce sulla libido e con il vostro aiuto questa sarà la nostra prossima battaglia”. Applausi dal pratone dei militanti del Carroccio. Ma sarà davvero una battaglia condivisa dalla maggioranza che sorregge il Governo? Sicuramente troverà l’appoggio di Fratelli d’Italia. Già nel 2019 Tommaso Foti scrisse su Facebook: “Fratelli d’Italia per la castrazione chimica di chi compie violenza sessuale. Basta buonismo”. Gli si accodò l’attuale Ministra del Turismo Santanché in un video su Facebook di polemica con i colleghi capitanati da Matteo Salvini: “Se la Lega non avesse bocciato i nostri emendamenti al decreto sicurezza sulla castrazione chimica, avremmo da tempo nel nostro ordinamento questa pena. Oggi sarebbe legge dello stato e si potrebbe applicare a questi porci”. Forza Italia non dovrebbe essere della partita invece. Alcuni ci hanno risposto “no comment” che lascia presagire una contrarietà, mentre è stato molto chiaro l’onorevole Pietro Pittalis, vice presidente della Commissione Giustizia: “Io sono contrario ad ogni forma di sanzione corporale, ci riporta al medioevo, all’oscurantismo della civiltà giuridica”. E il Ministro Nordio che ne pensa? Giulia Bongiorno sa che nel 2019 dalle colonne del Messaggero il Guardasigilli scrisse in merito ad una proposta di legge di cui si stava discutendo quanto segue? “La castrazione, pare, sarebbe opzionale per il condannato: se l’accetta, evita il carcere, altrimenti deve espiare la pena. Questa alternativa sovvertirebbe completamente la struttura del nostro codice e della Costituzione, dove la pena ha una funzione preventiva, retributiva e rieducativa. Si può concedere che la castrazione prevenga nuovi crimini; ma se le attribuiamo anche una funzione retributiva ciò significa che torniamo alla vecchia pena corporale”. Ma cosa dice la medicina? Per Gabriella Mirabile, specialista in Urologia e Andrologia, “la castrazione chimica nasce per scopi curativi, in particolar modo per trattare il tumore prostatico metastatico ormono-sensibile. L’obiettivo di questa terapia è quello di azzerare i livelli del testosterone sierico, attraverso una terapia orale e/o iniettiva”. Non bisogna poi sottovalutare il fatto che - prosegue la dottoressa Mirabile - “si tratta di terapie molto costose che hanno effetti collaterali, soprattutto sul sistema cardiovascolare, e non si escludono conseguenze anche sul sistema metabolico dell’individuo”. Sulla possibilità che la castrazione chimica possa avere qualche utilità per frenare gli episodi di violenza, l’esperta ci risponde: “non esistono al momento evidenze scientifiche secondo le quali questa metodica possa far abbassare gli episodi di violenza. Diminuendo i livelli di testosterone sicuramente si riduce la libido e si annulla l’erezione, tuttavia con questa terapia i disturbi violenti comportamentali non possono essere corretti né inibiti. Invece della castrazione chimica questi soggetti avrebbero bisogno di un supporto di altro tipo, psichiatrico o psicologico”. Mirabile aggiunge che “il soggetto sottoposto a castrazione chimica potrebbe paradossalmente assumere testosterone per via esogena; che la libido potrebbe comunque essere stimolata a livello neurosensoriale o immaginato, anche in assenza di testosterone; che alcuni pazienti in castrazione chimica hanno regolare vita sessuale, soprattutto i giovani, con o senza uso di farmaci proerettivi (perché l’erezione potrebbe essere indotta farmacologicamente, a dispetto della castrazione)” e che inoltre “la Comunità Europea e la Chiesa Cattolica la considera tortura se praticata non a fini medici”. Poi c’è da sollevare un altro elemento che riguarda il consenso informato alla somministrazione di una terapia e il suo controllo: “se al soggetto deve essere somministrato il farmaco intramuscolo ogni tot di mesi, allora ci può essere un controllo da parte dell’autorità sulla sua assunzione mentre per la terapia orale chi ci garantirebbe la somministrazione quotidiana?”. E dal punto di vista giuridico? Lo abbiamo chiesto alla professoressa Marilisa D’Amico, ordinario di Diritto costituzionale e Giustizia costituzionale presso il Dipartimento di Diritto Pubblico Italiano e Sovranazionale della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Milano: “Ciclicamente, in ragione della sempre attuale emergenza rappresentata dalle violenze contro la donna, il dibattito pubblico è chiamato a confrontarsi con il tema dell’effettività delle misure sanzionatorie previste nei confronti degli uomini maltrattanti e responsabili di abusi. In questo contesto, sembra trovare crescenti consensi l’idea di introdurre strumenti eccezionali - come la castrazione chimica - per neutralizzare la pericolosità di tutti questi soggetti e per proteggere le potenziali vittime”. Si tratta di una pratica, “accettata e regolamentata con modalità differenti in alcuni Stati dell’Europa e del resto del mondo, che si pone in contrasto con alcuni principi sanciti nella nostra Costituzione: in primis, con il principio del finalismo rieducativo della pena che l’art. 27, comma 3, sancisce in termine solenni e sul quale, peraltro, la nostra Corte costituzionale sta basando molte delle sue più recenti decisioni in materia penale; la castrazione chimica, a ben vedere, presenta una sola finalità di tipo retributivo e, considerata l’invasività che essa necessariamente sottende, sembra ricordare quelle “pene corporali” diffuse in epoca medievale che il nostro sistema valoriale ha invece disconosciuto, anche grazie al contributo dei pensatori illuministi”. Queste stesse considerazioni gettano, sulla castrazione chimica, “un’ombra di contrarietà alla Costituzione anche rispetto all’art. 32, parametro che tutela la salute come “fondamentale diritto” di ogni persona. Da parte di chi ne sostiene l’introduzione, si sottolinea il fatto che il ricorso ad essa sarebbe in ogni caso subordinato al consenso del condannato. Ciò, però, non costituisce un argomento decisivo perché se è vero che, nel sistema disegnato dalla Costituzione, ogni invasione nella sfera personale è condizionata dal consenso dell’interessato, è vero, allo stesso tempo, che anche i trattamenti imposti dalla legge per la protezione della salute pubblica non possono “violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. In gioco, insomma, quando si discute della castrazione chimica, sembra esserci una grande questione di fondo che chiama in causa la dignità di ciascuna persona, che deve essere riconosciuta e rispettata anche quando responsabile di gravi reati”. Mimmo Lucano, il reato di solidarietà alla sbarra di Luigi Ferrajoli Il Manifesto, 19 settembre 2023 Riprende, domani, il giudizio d’appello contro la condanna in primo grado, il 30 settembre 2021, a 13 anni e due mesi di reclusione per l’ex sindaco di Riace. C’è una nuova figura penalistica creata in questi anni dalla demagogia populista: quella dei reati di solidarietà. Le persone che salvano migranti in mare, coloro che danno lavoro a un clandestino, oppure una casa in locazione dove poter vivere umanamente, sono i nuovi delinquenti creati dalla legislazione d’emergenza. È un capovolgimento della logica del vecchio populismo penale: non più gli inasprimenti di pena, inutili e tuttavia giuridicamente legittimi, nei confronti di reati di sussistenza provocati dalla povertà e tuttavia pur sempre illeciti. Il nuovo populismo penalizza comportamenti virtuosi con misure insensate, quando non esse stesse illegittime, come la chiusura dei porti, l’omissione di soccorso e i respingimenti collettivi. L’imputato simbolo di questa nuova figura penalistica è Mimmo Lucano, contro il quale riprende, domani, il giudizio d’appello contro la condanna in primo grado, il 30 settembre 2021, a 13 anni e due mesi di reclusione. Le colpe imputategli, come è noto, consistono nel fatto che Lucano, come sindaco di Riace, ha ridato vita a questo piccolo comune, ha costruito un frantoio pubblico e una scuola, ha trasformato due orrende discariche in un teatro all’aperto, in un giardino di giochi per bambini e in una serie di piccole fattorie e, soprattutto, ha realizzato - questa la colpa più grave - un modello di integrazione e di accoglienza di centinaia di migranti. Ma questa incredibile processo è molto più di un processo alla solidarietà. Con esso si è voluto processare, fino all’assurda condanna a oltre 13 anni di reclusione, non soltanto l’accoglienza e l’umana solidarietà, ma più in generale una politica e un’azione amministrativa informate ai valori costituzionali dell’uguaglianza e della dignità delle persone e, proprio per questo, stigmatizzate come false e non credibili. C’è una frase rivelatrice nella motivazione della condanna, che si aggiunge alla massa di insulti in essa contenuti contro l’imputato: la mancanza di prove dell’indebito arricchimento di Lucano seguito alla sua politica di accoglienza, scrivono i giudici, dipende dalla “sua furbizia, travestita da falsa innocenza” e attestata dalla sua casa, “volutamente lasciata in umili condizioni per mascherare in modo più convincente l’attività illecita posta in essere”. Qui non siamo in presenza soltanto di una petizione di principio, che è il tratto caratteristico di ogni processo inquisitorio: assunto come postulato l’ipotesi accusatoria, è credibile tutto e solo ciò che la conferma, mentre è frutto di inganni preordinati o di simulazioni tutto ciò che la smentisce. Non ci troviamo soltanto di fronte a un tipico caso di quello che Cesare Beccaria stigmatizzò come “processo of­fensivo” nel quale, egli scrisse, “il giudi­ce diviene ne­mico del reo” e “non cerca la veri­tà del fatto, ma cerca nel pri­gioniero il delitto”. Qui s’intende screditare come impensabili e non credibili le virtù civili e morali dell’ospitalità, del disinteresse e della generosità. È lo stesso pregiudizio che è alle spalle delle norme che penalizzano coloro che salvano i migranti in mare. Non è pensabile che essi dedichino tempo e denaro soltanto per generosità, che non abbiano degli sporchi interessi, che non siano in qualche modo collusi con quanti organizzano le fughe di questi disperati dai loro paesi. Perché l’egoismo, l’imbroglio è la regola. Perché c’è sempre un secondo scopo. È insomma necessario diffamare e screditare l’accoglienza di Riace, perché Riace ha mostrato che è possibile un’alternativa alle politiche crudeli e disumane messe in atto dai nostri governi e dalle nostre amministrazioni. Giacché il modello Riace, per il solo fatto di essere stato praticato con successo, è un severo atto d’accusa contro quelle politiche. Chiunque si sia recato a Riace è in grado di testimoniarlo. E i giudici per primi, prima di giudicare, dovrebbero conoscere: dovrebbero andare a Riace e vedere, con i loro occhi, ciò che nel suo comune Lucano è stato capace di fare. Dalla pronuncia della sentenza di secondo grado in questo incredibile processo dipende ovviamente la libertà di Lucano. Ma certamente non dipende da essa la sua reputazione, essendo Lucano diventato un simbolo indiscusso, a livello internazionale, non solo delle buone politiche di accoglienza ma anche della buona amministrazione. Ne dipendono invece la reputazione e la credibilità della nostra giustizia. Al di là degli aspetti giuridici dell’infondatezza delle imputazioni mosse a Lucano - primo tra tutti la mancanza del dolo, attestata dalle intercettazioni riportate nella stessa sentenza di condanna che ci dicono tutte della convinzione di Lucano di aver sempre agito a fin di bene - si misurerà, da ciò che i giudici decideranno, la loro volontà o meno di unirsi a quest’opera nazionale di diseducazione civile e morale, consistente nella diffusione dell’idea che il bene e la virtù non sono credibili né possibili, ma sono solo delle ipocrite simulazioni, e che la disumanità delle istituzioni è giusta e inevitabile e possiamo tutti continuare a tollerarla, o meglio a sostenerla e a praticarla, con la dovuta indifferenza. Sassari. Detenuto 25enne padre di due bambini si uccide in cella a Bancali di Luciano Onnis La Nuova Sardegna, 19 settembre 2023 Lo ha reso noto Maria Grazia Caligaris, referente e portavoce dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme” che si occupa dei problemi dei detenuti e del sistema carcerario sotto l’aspetto umanitario. Un cagliaritano di 25 anni, detenuto nel carcere di Bancali a Sassari, si è suicidato la scorsa notte impiccandosi nella sua cella. Padre due bambini, Erik Masala, stava scontando un cumulo di pene per numerosi reati compiuti a Cagliari. Lo ha reso noto Maria Grazia Caligaris, referente e portavoce dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme” che si occupa dei problemi dei detenuti e del sistema carcerario sotto l’aspetto umanitario. “Un gesto estremo, per molti versi inspiegabile - sostiene Caligaris, che ha gettato nello sconforto tutti gli operatori penitenziari di Bancali. Sono infatti risultati inutili i tentativi di salvarlo. Un atto estremo di autolesionismo che nessuno però può ignorare. Occorre una seria riflessione su quanto sta avvenendo dentro le carceri italiane e mettere mano a una seria azione riformatrice in grado di dare risposte ai bisogni reali della società”. “La morte di una persona dietro le sbarre - ha aggiunto l’esponente di Socialismo Diritti Riforme - acquista un particolare valore per l’intera società e per le Istituzioni che devono impegnarsi prima di tutto fuori dal carcere. La salvaguardia della vita non può essere messa in discussione in nessuna circostanza specialmente quando dipende da una istituzione totalitaria. La giovane età del ragazzo fa ritenere che possano esserci alternative alla perdita della libertà. Su questo bisogna riflettere. Il carcere è diventato il luogo principe del disagio economico, culturale, sociale, affettivo. Tutto questo pesa particolarmente su una persona giovane”. “Lo sgomento e il dispiacere - conclude Maria Grazia Caligaris - non sono più sufficienti, la gestione del disagio deve essere affrontata in modo da non farla ricadere su un luogo e su persone che devono soltanto organizzare e rendere utile il tempo da trascorrere dietro le sbarre. Allo Stato non può mancare questa consapevolezza, altrimenti si rende complice di ogni vita senza speranza che si spegne”. Modena. Trentaseienne morto in carcere, la Procura di Modena dispone l’autopsia Gazzetta di Modena, 19 settembre 2023 Aperto un fascicolo: l’uomo era stato trovato senza vita nella sua cella. La Procura di Modena vuole vederci chiaro e, tramite gli inquirenti, ha deciso di avviare un’indagine sulla morte del detenuto 36enne tra le mura del carcere di Sant’Anna. Per farlo, ha disposto ed effettuato l’autopsia sul corpo dell’uomo, trovato morto martedì scorso all’interno della sua cella. L’uomo, che prima di entrare al Sant’Anna faceva l’aiuto cuoco in una pizzeria di Modena, è stato trovato senza vita alla mattina, dopo la notte, per cause ancora al vaglio della Medicina legale. Secondo il quadro emerso da un primo esame esterno parrebbe (il condizionale, visto il fascicolo aperto dalla Procura, in questi casi è d’obbligo) che l’uomo sia morto per un arresto cardiaco ma la Procura, come detto, vuole approfondire le cause del decesso: si tratta di un atto dovuto per permettere lo svolgimento di tutti gli esami. La famiglia, che attraverso l’avvocato Luca Lugari ha sporto denuncia per omicidio colposo, vuol capire se in carcere ha potuto curarsi e se gli sono state date le terapie indicate da Villa Rosa, struttura nella quale era ospite per alcune cure. Ma non è tutto: sempre la famiglia, quindi la madre, i suoi fratelli e la sua compagna, vogliono anche sapere le posologie e i dosaggi delle terapie e se i medici del carcere si sono confrontati con quelli di Villa Rosa. L’uomo, che era finito in carcere per rapina, ha poi intrapreso un percorso presso la comunità “L’angolo”, ma era stato riportato in carcere dopo alcune violazioni in termini di uso degli stupefacenti. La Procura modenese, come accade in casi di questo tipo, vuole vederci chiaro e fare chiarezza su ogni aspetto e, dunque, anche sul percorso terapeutico e i farmaci somministrati al 36enne. Venezia. Il caso di Bassem Degachi, gli intitolano una barca che solcherà la laguna di Nicola Munaro Il Gazzettino, 19 settembre 2023 Si era tolto la vita in cella dopo un’ordinanza di custodia cautelare per fatti risalenti al 2018. “Bob” è un pupparino azzurro-giallo restaurato dalla Remiera Serenissima e che solcherà le acque della laguna. Porta il soprannome con cui i colleghi di lavoro chiamavano Bassem Degachi, il trentottenne tunisino che il 6 giugno si è impiccato in cella dopo aver ricevuto un’ordinanza di custodia cautelare per fatti di spaccio in via Piave del 2018. Quelle carte erano rappresentavano per lui - già in semilibertà - un macigno insormontabile che calava sull’orizzonte di una nuova vita fuori dal carcere ormai vicina fatta, anche, di un lavoro in remiera. La stessa remiera che sabato ha voluto dedicargli l’imbarcazione con una cerimonia alla quale, oltre alla moglie di Bassem, Silvia, ha partecipato anche il garante dei detenuti, l’avvocato Marco Foffano: era stato lui ad accompagnare Bassem alla Serenissima la prima volta e a condividere preoccupazioni e prospettive. Una scelta, quella di dedicare al trentottenne tunisino il pupparino rimesso a nuovo grazie al lavoro di Bruno Menin, che “ha un grande significato per noi e ci permetterà di ricordarlo ogni volta che il Pupparin attraverserà le acque della nostra laguna” ha spiegato il presidente della Remiera Serenissima, Alberto Olivi. Ed è stata la moglie Silvia - dopo aver ricevuto un mazzo fiori rosso e bianco, a richiamare i colori della Tunisia, a sollevare il gonfalone di San Marco che copriva il nome, quel “Bob” con cui tutti in cantiere chiamavano Degachi. A chiusura della cerimonia, con il pupparino in fondamenta pronto al suo battesimo d’acqua, una socia della Remiera ha raccolto le firme di tutti i colleghi di lavoro e degli iscritti all’associazione in un foglio dedicato a Bob, che è stato piegato a forma di barchetta, inserito un fiore e lasciato vagare nella laguna. Per i carabinieri che ne avevano chiesto l’arresto a cinque anni di distanza dai fatti (anni quasi tutti passati in carcere da Bassem per scontare un’altra condanna, sempre per droga, ormai alla fine) il trentottenne tunisino era ritenuto il polo attorno al quale ruotava lo smercio di droga. Dopo aver chiamato la moglie per salutarla un’ultima volta, si è tolto la vita. L’inchiesta della procura ha certificato che il 6 giugno Bassem era rimasto da solo in cella un’ora, tempo trascorso tra le chiamate della donna in carcere per avvertire gli agenti e il suo ritrovamento. Sessanta minuti nei quali nessuno degli agenti in servizio quel giorno sarebbe andato a controllarlo, nonostante la moglie per tre volte avesse chiamato la guardiola del penitenziario di Santa Maria Maggiore dicendo che il marito l’aveva chiamata per salutarla un’ultima volta, annunciandole di volersi uccidere. Come chiesto dall’avvocato Marco Borella, legale di Degachi e (ora) della famiglia del tunisino, la procura ha disposto l’acquisizione delle telecamere interne a Santa Maria Maggiore e dei tabulati telefonici del cellulare del detenuto, della moglie e del centralino del carcere veneziano: l’obiettivo è ricostruire tutti i passaggi di quella mattina e capire come mai ci sia stato un buco di un’ora nella sorveglianza nel quale Decaghi ha portato a dama ciò che aveva annunciato. Degachi era in semilibertà: di giorno usciva dal carcere per lavorare e si stava già immaginando una nuova vita una volta pagato il debito con la giustizia per fatti del 2020. Vedersi ri-arrestare per fatti precedenti alla condanna per la quale era in carcere gli ha aperto un baratro. Un’ordinanza di arresto - beffa amara - annullata per tutti gli altri undici pusher arrestati con lui a inizio giugno. Il motivo? Era passato troppo tempo dai fatti. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Torture in carcere: “Denudati e costretti a fare le flessioni” di Attilio Nettuno casertanews.it, 19 settembre 2023 La testimonianza nel corso del processo all’aula bunker. Depositate le foto delle lesioni e i referti medici. Le foto delle lesioni ma anche i referti medici che le descrivono entrano nel processo per le torture avvenute nel carcere di Santa Maria Capua Vetere il 6 aprile 2020 per le quali sono imputate 105 agenti della polizia penitenziaria e 2 medici (questi ultimi accusati di falso). Gli orrori della stanza zero: “Lì si abbuscava” - E’ quanto accaduto nel corso dell’udienza celebrata all’aula bunker di Santa Maria Capua Vetere dinanzi alla Corte d’Assise presieduta dal giudice Roberto Donatiello (a latere Honoré Dessi). I pubblici ministeri hanno depositato la documentazione medica relativa ai testimoni Ciro Esposito e Salvatore Quaranta, escussi dalla Procura nelle precedenti udienze (il controesame di Quaranta è in programma mercoledì). Proprio Quaranta ha raccontato in aula i pestaggi avvenuti il 6 aprile durante quella che il gip sammaritano ha definito “orribile mattanza” all’interno del carcere. Calci, pugni, manganellate subiti: “mi hanno scassato di mazzate”, ha detto Quaranta in aula. Non solo. La vittima dei pestaggi ha anche raccontato gli orrori della ‘stanza zero’: “era una stanza dove si abbuscava”, ha chiarito in aula. Denudati e costretti a fare flessioni - Nel corso dell’udienza è stato escusso il teste Alessandro Marino che, pur con qualche difficoltà, ha confermato il racconto reso agli inquirenti qualche mese dopo i fatti. Tra le circostanze riferite da Marino quella relativa alle flessioni a cui diversi detenuti sarebbero stati costretti. “Ci hanno chiesto di denudarci e di fare le flessioni. Mentre ci spogliavamo ci cominciavano a colpire con manganellate sulla schiena, sulle gambe, nei fianchi, nonché schiaffi e pugni su tutto il corpo”. E ancora. “Tre agenti mi accerchiarono, uno mi manteneva da dietro, uno incitava a picchiarmi e quello che mi intimò di spogliarmi cominciò a colpirmi anche alle parti basse con pugni”. Poi Marino sarebbe stato picchiato sul pianerottolo delle sezioni: “ogni rotonda di sezione trovavo la stessa scena, agenti che mi bloccavano e cominciavano a colpirmi con i manganelli”. Acquisiti i verbali dei tre detenuti morti - Nel corso dell’udienza, infine, sono stati depositati i verbali di tre detenuti che sono deceduti. Si tratta di Vincenzo Cacace, il recluso in sedia a rotelle picchiato le cui immagini hanno destato particolare scalpore, Marouane Fakhri, morto all’ospedale di Bari dopo essersi dato fuoco in cella a Pescara, e di Renato Russo. La Procura ha anche chiesto l’acquisizione delle dichiarazioni di altri 48 detenuti ma le difese degli imputati non hanno prestato il loro consenso. Saranno ascoltati in aula. Le accuse - I fatti di cui al processo sono accaduti il 6 aprile del 2020 dopo che il giorno precedente ci fu una protesta dei detenuti in seguito al primo contagio Covid nel penitenziario. La reazione degli agenti fu durissima: bisognava ripristinare l’ordine adottando il “sistema Poggioreale”. Circa 200 agenti entrarono in reparto per una perquisizione straordinaria. I detenuti vennero fatti uscire dalle celle e pestati con i manganelli ed umiliati. Molti vennero fatti inginocchiare in una sala dedicata alla socialità con gli agenti che di tanto in tanto li percuotevano. A qualcuno vennero tagliati i capelli e la barba. Viterbo. Assistenza e nuovi servizi per i detenuti, così ho migliorato il carcere di Anna Maria Dello Preite* Il Dubbio, 19 settembre 2023 Con riferimento ai fatti riportati nell’articolo apparso il 13 settembre 2023 dal titolo “Il grido dei detenuti di Viterbo: qui è un gulag staliniano”, preme precisare che il detenuto cui si fa riferimento nella prima parte dell’articolo, è stato ricoverato presso il reparto di Medicina Protetta nei mesi di maggio e luglio dove ha eseguito tutti gli esami previsti i cui risultati hanno dato esito negativo. Il 7 settembre scorso ha rifiutato di essere condotto in infermeria pretendendo di essere trasferito direttamente in Ospedale senza la necessaria preventiva valutazione medica. Il decesso avvenuto in data 10 settembre ha riguardato un detenuto assolutamente estraneo alla protesta messa in atto poco prima in un’altra sezione dell’istituto che dall’atto del suo ingresso (settembre 2022) non aveva mai manifestato problematiche sanitarie ad eccezione di un diabete trattato farmacologicamente, per il controllo del quale in data 25/ 7 u. s. era stata fissata visita specialistica di controllo rifiutata dallo stesso. Quanto all’ altro episodio riportato e relativo al detenuto deceduto “nonostante avesse pochi mesi di pena residua e non fosse quindi socialmente pericoloso”, si precisa che il predetto aveva tatto ingresso in questa struttura in data 30/06/23, a seguito di aggravamento della misura degli arresti domiciliari, ed essendo portatore di patologia vascolare era stato sin da subito ubicato in infermeria sino al 5/07/23, data del suo ricovero presso il locale Ospedale dove in pari data è stato raggiunto dal provvedimento di differimento pena concesso dal Magistrato di Sorveglianza. Con riferimento alle “troppe morti” che si sarebbero verificate in questo istituto, si precisa che l’ultimo suicidio risale all’anno 2018 e che dal novembre 2020 ad oggi, periodo di direzione dell’istituto da parte della scrivente, ci sono stati 4 decessi per cause naturali. Su un piano più generale del diritto alla salute, è doveroso evidenziare lo sforzo congiunto di questa Direzione e del l’Azienda Sanitaria Locale per migliorare gli standard qualitativi attraverso misure specifiche: l’attivazione dei servizi di telemedicina per le branche di cardiologia e radiologia - sono in corso i lavori di estensione alle altre branche incontri mensili del tavolo paritetico permanente con la presenza del Garante Regionale per l’esame delle problematiche e la individuazione di soluzioni condivise, la messa in atto di tutte le misure previste dal Protocollo locale per la prevenzione del rischio suicidario, le riunioni quindicinali finalizzale alla individuazione delle priorità e delle prese in carico dei detenuti dal punto di vista socio- sanitario, gli incontri periodici sul tema della educazione alla salute destinati alla popolazione detenuta come quello svoltosi nel mese di maggio ad oggetto il programma di screening. Con riferimento, poi, alle condizioni detentive è doveroso citare solo alcuni degli interventi che la scrivente ha messo in atto in questi ultimi due anni per il miglioramento del benessere dci detenuti: la manutenzione straordinaria dell’ impianto di riscaldamento di tutto l’istituto, la installazione nelle camere di socialità di termo- ventilconvettori, l’adeguamento dell’impianto elettrico propedeutico all’utilizzo dei ventilatori concesso nei mesi scorsi, l’installazione di cabine telefoniche in tutte le sezioni dell’istituto finalizzate al miglioramento delle relazioni familiari, la installazione di 6 congelatori in altrettante sezioni, la installazione di distributori automatici di bevande e snack all’interno delle aree verdi destinate ai colloqui. Da ultimo, segnatamente le affermazioni dell’avvocato Palmo Labbate, corre l’obbligo di precisare che, contattato personalmente dalla scrivente in data 11/9/23, lo stesso ha riferito che in data 8 settembre é stato presente in istituto per incontrare due detenuti diversi ed estranei alla protesta effettuando con gli stessi regolare colloquio. *Direttore del carcere di Viterbo Civitavecchia (Rm). Istituto Calamatta, in cinque anni 30 detenuti diplomati di Francesco Baldini civonline.it, 19 settembre 2023 Dal 1950 l’istituto fornisce una seconda occasione alla popolazione carceraria. Quest’anno sono attive 4 classi: 3 a Borgata Aurelia e 1 a via Tarquinia. Circa trenta alunni diplomati negli ultimi cinque anni negli istituti penitenziari cittadini grazie al lavoro dell’Istituto Calamatta che, dal 1950, offre un’importante possibilità di riscatto e reinserimento ai detenuti. Come hanno spiegato il dirigente scolastico Giovannina Corvaia e il docente responsabile Fabio Brunori attualmente nei due istituti superiori cittadini sono attive 4 classi di manutenzione assistenza tecnica, 3 a Borgata Aurelia e 1 a via Tarquinia per un numero approssimativo di 30 alunni. “Non è facile - hanno sottolineato - dare numeri precisi a causa delle dinamiche proprie del carcere. C’è chi esce, chi viene trasferito, chi smette, chi si aggiunge, eccetera. Si tratta di una importante opportunità per lavorare su se stessi, sia nell’ottica del reinserimento che più semplicemente del miglioramento personale, rivalutarsi, rimettersi in gioco. È bello vedere persone anche grandi tornare tra i “banchi” e impegnarsi, sfruttare al massimo l’occasione”. L’iter è molto semplice, il detenuto effettua domanda presso l’educatore che la gira al responsabile che andrà poi ad effettuare i colloqui in sezione scolastica dove vengono valutati i titoli di studio dichiarati. Dopo i vari controlli di routine i detenuti vengono inseriti in classe dopo alcuni eventuali colloqui integrativi. “Il piano di studi è oggetto di una forte personalizzazione - ha spiegato Brunori. Viene stilato sulla base delle competenze in ingresso, un po’ come in università con i crediti”. Si firma un patto formativo, un documento dove vengono riconosciuti crediti formali, informali e non formali, e indicate le ore necessarie, materia per materia, per completare il percorso. Il monte ore necessario per la validità dell’anno scolastico è individuale. “Si tratta - hanno detto Brunori e Corvaia - di una opportunità di crescita formativa nel caso di uscita per agevolare la ricerca di lavoro, o anche di un semplice investimento operoso del tempo che hanno a disposizione”. C’è poi ad esempio chi si appassiona allo studio e una volta scontata la pena detentiva prosegue presso i corsi serali della scuola Calamatta. “L’obiettivo - hanno concluso - è sicuramente quello di mettersi in gioco, investire su se stessi senza gettare la spugna e cercare di portare a termine il ciclo di studi. I detenuti sono tra i banchi cinque giorni su sette, dalle 9 alle 14 circa e gli esami di maturità vengono svolti con una commissione che si reca in carcere”. Il Calamatta è nelle carceri dal 1950 quando a via Tarquinia c’era la sezione di falegnameria. Crotone. Opere dei detenuti consegnate a Papa Francesco e al Presidente Mattarella Gazzetta del Sud, 19 settembre 2023 Il 13 settembre scorso una delegazione dell’Istituito penitenziario di Crotone ha consegnato al Santo Padre Francesco, al Presidente Mattarella, per il tramite del Consigliere per gli Affari dell’Amministrazione alla Giustizia dott. Stefano Erbani e al Capo del Dipartimento per Amministrazione Penitenziaria Presidente Giovanni Russo, delle opere artistiche realizzate dai detenuti del locale Istituto penitenziario. La delegazione era composta dal Garante dei detenuti avv. Federico Ferraro, dal Cappellano del carcere Don Oreste Mangiacapra, dal Comandante del reparto Francesco Tisci con una delegazione della Polizia penitenziaria: Sovrintendente Vincenzo Mauro e gli Assist. Capo Coord. Domenico Anania e Francesco Mascaro. Le due tele e un’opera con delle rose sono doni realizzati dai detenuti della Casa Circondariale di Crotone all’interno dell’Istituto detentivo, in ricordo del naufragio di Steccato di Cutro del 26 febbraio scorso. Le opere rappresentano il sentimento di condivisione da parte dei detenuti, del dolore provato per le vittime e di vicinanza ai sopravvissuti ed alle loro famiglie; il progetto di valorizzazione delle abilità artigianali dei detenuti di Crotone è stato fortemente voluto dal Garante Ferraro fin dal 2022 e, successivamente, è stato riadattato per la tragedia avvenuta nelle acque di Steccato di Cutro. La consegna delle opere ha avuto tre momenti distinti: dapprima c’è stato l’incontro con il Santo Padre Francesco, all’udienza generale del mercoledì, durante la quale è stato spiegato il lavoro svolto dai detenuti della Casa Circondariale di Crotone dal Cappellano, e successivamente sono stati donati al Papa, alcuni volumi su tematiche giuridiche-religiose-sociali, pubblicati dal Garante Comunale dei detenuti e due lettere: una sulle problematiche carcerarie e una, a nome dei giovani della terra di Calabria, dove è racchiusa una richiesta di particolare attenzione e preghiera per le giovani generazioni, specialmente per il difficile periodo che stiamo vivendo tutti. Il secondo momento istituzionale è avvenuto al Palazzo del Quirinale, dove la delegazione è stata ricevuta dal Consigliere Stefano Erbani, al quale sono state consegnate, oltre alla tela e alla teca, anche i medesimi volumi giuridici dell’Avv. Ferraro, e due lettere indirizzate al Presidente Mattarella. L’ultimo momento è stato alla sede del D.A.P. dove è stata consegnata una teca artigianale in legno e plexiglass, contenente un mazzo di rose realizzate artigianalmente. L’ occasione ha consentito al Garante Ferraro di interloquire con il Presidente Russo, circa le potenzialità progettuali che riguardano i detenuti, per un reinserimento sociale e lavorativo. Il Garante Comunale ha chiesto al Capo del D.A.P. che il carcere si apra sempre di più alla società esterna in modo che i detenuti non si sentano dei “sepolti vivi”. Il Garante ha invitato infine il Presidente Russo a visitare l’Istituto di Crotone. Il presidente Russo ha assicurato anche l’arrivo a Crotone di un nuovo Direttore. “Producevo le mine antiuomo, poi mio figlio mi disse ‘tu sei un assassino’ e ora le tolgo” di Stefano Lorenzetto Corriere della Sera, 19 settembre 2023 Alfieri Fontana, ex imprenditore e volontario, da fabbricante di morte a sminatore nei Balcani. “Salvato da mio figlio, aveva 8 anni quando mi diede dell’assassino. Come ho espiato le mie colpe? Tre stent al cuore e ho perso l’occhio destro”. Si fa presto a dire mine antiuomo. Quali? Ve ne sono di due tipi: a pressione e a frammentazione. Le prime esplodono se vengono calpestate e dilaniano il piede, la gamba, i genitali; le seconde si attivano con un filo d’innesco e uccidono all’istante. Per lo sventurato che vi inciampa meglio le seconde, verrebbe da dire, se non fossero imbottite di schegge metalliche che feriscono chiunque si trovi nei 10.000 metri quadrati di terreno circostante. Vito Alfieri Fontana, ex imprenditore di Bari, ha prodotto 2,5 milioni di mine. Cominciò quando aveva 26 anni. Da un trentennio ha smesso. Ha riscattato la sua prima vita da fabbricante di morte con una seconda vita da operatore umanitario di Intersos nei Balcani. È andato a toglierne 2.000 da Kosovo, Serbia e Bosnia, ha sminato Sarajevo. Lo 0,08 per cento. “Sembra un nulla, invece sono tantissime, per la fatica che ci ho messo con 20 persone”, si consola, mentre sta per uscire (venerdì prossimo) il libro “Ero l’uomo della guerra”, scritto per Laterza con Antonio Sanfrancesco. Fontana era titolare della Tecnovar, che ha chiuso nel 1997 per uno stato di crisi, quella di coscienza, non contemplato in Confindustria. È l’unico al mondo ad aver svelato i meccanismi della più criminale fra le produzioni belliche. Senza di lui non sarebbe mai decollata la Campagna internazionale per la messa al bando delle mine antiuomo, premiata quello stesso anno con il Nobel per la pace. Senza di lui il Parlamento italiano non avrebbe mai varato la legge che ha vietato per sempre l’infame commercio. Più pentito lei di Tommaso Buscetta... “È ciò che mi disse Teresa Sarti, compianta consorte di Gino Strada: “Buscetta le fa un baffo”. Il chirurgo di Emergency mi aveva telefonato: “Si rende conto di quello che combinano le sue mine?”. Farfugliai: lo so, dottore, un grandissimo macello. “Finalmente qualcuno che mi chiama dottore. Faccia subito qualcosa!”, mi intimò severo. Vent’anni dopo lo incontrai a Catania. Era ancora preoccupato di essere stato troppo aggressivo”. A che servono le mine antiuomo? “Ad atterrire, mutilare, uccidere. Mettono in sicurezza un’area: in Afghanistan le basi americane erano circondate da campi minati che gli alleati avrebbero dovuto denunciare. Rendono inabitabile un territorio per molti anni dopo una guerra: gli abitanti non possono tornare a casa, coltivare la terra, pascolare il bestiame. I bimbi sono le prime vittime”. Chi le ha inventate? “L’uomo. Quando i mongoli tentarono nel 1274 d’invadere il Giappone, ad attenderli sulle spiagge trovarono ordigni rudimentali riempiti con polvere nera. Le mine moderne apparvero per la prima volta nel 1861, durante la guerra di secessione americana. Da noi dilagarono nella Grande Guerra: impedivano il taglio del filo spinato steso attorno alle trincee”. Le sue quanto esplosivo contenevano? “Fino a 350 grammi di T4 o di tritolo”. Costo? “La TS-50, la più sofisticata che ho progettato, 5.000 lire”. Niente. “Era la più richiesta, perché esplodeva anche a distanza di decenni. Nel 1988 il governo italiano mi chiese di studiare delle mine “intelligenti”, anzi “etiche”“. Difettava di senso del ridicolo. “Avrebbero dovuto cessare di attivarsi entro 6-12 mesi. Ma costavano 100.000 lire l’una. Non le ho mai prodotte, perché nel 1990 il progetto fu cancellato”. A quali Paesi vendeva i suoi ordigni? “Soprattutto all’Egitto, che attraverso il ministero della Produzione militare operava in vari teatri di guerra. Ho incontrato un ex ufficiale che era stato un fedelissimo di Saddam Hussein. All’epoca del conflitto tra Iraq e Iran comandava il Genio militare. Dopo l’embargo del 1984, servivano triangolazioni per far arrivare le mine nel Golfo. Mi raccontò che il dittatore gli aveva urlato: “Non me ne frega niente da dove le prendi, l’importante è che ci sia il profumo italiano”. Ma la Tecnovar commerciava anche con Stati Uniti, Canada, Corea del Sud, Emirati Arabi Uniti, Francia, Thailandia. In Bosnia fu trovata una nostra campionatura che avevamo fornito all’esercito tedesco. Non ho mai capito come fosse finita lì”. Avveniva tutto alla luce del sole? “Certo! Le nostre esportazioni dovevano essere autorizzate dalla presidenza del Consiglio e da quattro ministeri: Difesa, Esteri, Interno, Commercio estero”. Oggi dove si comprano le mine? “Cina, Russia, India, Iran, Corea del Nord, Corea del Sud, Pakistan, Myanmar, Cuba, Singapore e Vietnam continuano a produrle in barba alla messa al bando, cui non hanno mai aderito neppure gli Usa: sostengono che servono per tenere in sicurezza il confine tra le due Coree”. La Tecnovar l’aveva creata lei? “No, l’avevo ereditata da mio padre Ludovico, ingegnere come me e come il mio nonno materno Vito. La fondò nel 1958. All’inizio si chiamava Fabem, acronimo di Fabbrica articoli bacheliti e metalli. Costruiva basi e telai per i contatori dell’Enel e valvolame per gli acquedotti”. Perché fu riconvertita alle munizioni? “Non che papà fosse un guerrafondaio. Proveniva da una famiglia liberale e antifascista. Rilevò il 20 per cento della Gazzetta del Mezzogiorno per compiacere Aldo Moro, che glielo chiese attraverso un suo fedelissimo, l’ex ministro dc Nicola Vernola, cugino di mia madre”. E dunque perché si sporcò le mani? “Litigò con zio Giovanni, suo socio. La Fabem fu posta in liquidazione. Mio padre si rivolse alla Valsella di Montichiari, leader nelle mine antiuomo, della quale era consulente. Ma gli servivano capitali per la nuova società. Si rivolse a un potente e cinico uomo d’affari, il Vecchio. Non mi va di farne il nome, è morto. Viveva attaccato alla bombola dell’ossigeno tra Milano e una villa a picco sul mare in Liguria. Così nel 1971 nacque la Valsella Sud srl, poi divenuta Tecnovar. Arrivammo ad avere 350 dipendenti e a fatturare 40 miliardi di lire l’anno. Ma la prima commessa dal ministero della Difesa risale a 60 anni fa. Fu per la mina Aups, cioè “antiuomo persona e sabotaggio”“. Poi sopraggiunse la crisi di coscienza. “Mio figlio Ludovico a 8 anni vide i cataloghi della Tecnovar sul sedile posteriore dell’auto. Mi chiese che cosa fossero quegli aggeggi. Balbettai: mine, tutti quelli che producono armi le fanno. “Allora tu sei un assassino”, concluse. Ancora più terribile fu l’anno dopo, di ritorno da una gita scolastica. Forse aveva parlato con gli amichetti. Mi assalì come una furia: “Pensavo che tu fossi il migliore papà del mondo. Invece non lo sei”. Ha idea di che cosa prova un genitore a sentirsi dire una frase del genere?”. Ha patito anche la censura sociale. “Tutte le mattine il magazziniere entrava nel mio ufficio: “Ingegnere, è arrivato questo pacco senza affrancatura e senza mittente”. Aprivo: dentro c’era una sola scarpa. E sempre lo stesso biglietto: “Il francobollo mettilo tu, bastardo!”“. Nicoletta Dentico, ex vicepresidente di Mani tese, mi ha detto: “S’è convertito”. “Lei mi ha convertito, Dio la benedica. Ogni settimana telefonava per insultarmi. Alla fine mi trascinò alla Conferenza di Oslo del 1997. E lì una sera si sedette davanti a me un ex ufficiale dell’esercito britannico, meno di 30 anni, bellissimo. Aveva perso un braccio e parte di una gamba durante uno sminamento in Cambogia. “Proprio lei dovevo incontrare?”, mi apostrofò. Che pena, che pena!”. Il vescovo Tonino Bello la strapazzò. “Morì prima di poterlo fare de visu. Un mese dopo il funerale provvidero 400 persone in un cinema di Bisceglie. Si alzò un ragazzo: “Ma lei cosa sogna di notte? Che scoppi un’altra guerra per vendere tante mine? Che razza di vita è la sua?”. Siamo rimasti in contatto. Si chiama Gianpietro Lo Sapio, abita a Barletta”. Suo padre si è pentito? “No, morì nel 2006, convinto che avessi dissipato il patrimonio di famiglia. La mamma la pensava come lui, ahimè. Solo mia moglie mi ha capito, insieme con due operai della Tecnovar, testimoni di Geova. Erano semplici attrezzisti. Appena compresero a che cosa servivano i loro stampi, diedero le dimissioni”. Resipiscenze a livello internazionale? “Nel 1984 vennero a visitare la Tecnovar due svedesi di una commissione delle Nazioni Unite. Erano preoccupati per il fatto che le nostre mine marine provocavano danni ingenti alla fauna ittica”. Di mine antiuomo quante ne restano? “Nessuno lo sa. Solo sul confine Iran-Iraq ce ne saranno 40 milioni. Si calcola che nel mondo abbiano fatto non meno di 500.000 vittime, tra morti e mutilati”. Come ha espiato le sue colpe? “Con tre stent al cuore. E ho perso l’occhio destro. Dovevo operarmi per il distacco della retina, ma non volevo lasciare la Bosnia. A Sarajevo la direttrice della cooperazione italiana mi chiese: “Quanto guadagna?”. Replicai: 14.500 euro. Si stupì: “Non le sembra eccessivo, ingegnere?”. Intendevo all’anno, non al mese. Nonostante alla Tecnovar viaggiassi sui 10.000 euro mensili, mi ero autoridotto lo stipendio a 1.200, come i comuni sminatori. Con i soldi risparmiati riuscimmo a bonificare 3 ettari di terreno in più”. Ha avuto bisogno di antidepressivi? “No, sono bastati i Balcani. Mi rimprovero solo di non averli ripuliti prima”. Riesce a dormire? “Poco e male. Non ricordo mai i sogni, tranne uno. In Egitto mi apparve di notte Madre Teresa di Calcutta. Mi scrutava senza dir nulla e scuoteva la testa. Mi risvegliai turbato. L’indomani me la trovai davanti all’aeroporto di Fiumicino”. Come definirebbe la sua odissea? “Con il carme di Catullo: “Multas per gentes et multa per aequora vectus advenio has miseras, frater, ad inferas”. Per molte genti e molti mari condotto, giungo a queste misere spoglie, fratello”. Migranti. Il decreto legge Frankenstein al cubo di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 19 settembre 2023 Le modifiche sull’immigrazione, ha annunciato la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, saranno inserite nel decreto legge Sud per renderle immediatamente efficaci. Varate cioè ieri in un decreto legge, saranno trapiantate nel corpo di un altro decreto legge già approvato il 7 settembre e già sottoposto al Quirinale. Frankenstein al cubo. Già non era bello vedere un po’ tutti gli ultimi governi inzeppare nei decreti legge i più disparati temi alla faccia dell’omogeneità tante volte richiamata dalla Corte Costituzionale e dal presidente della Repubblica, e giocare a fare lo slalom dei requisiti di straordinaria “necessità e urgenza” per strozzare il fisiologico iter legislativo di Camera e Senato. Poi si è arrivati ai decreti legge-Frankenstein al quadrato, nei quali in sede di conversione in Parlamento arriva pure qualche modifica paradossalmente proprio governativa, magari persino sotto forma di maxi-emendamento su cui magari porre persino la questione di fiducia a poche ore dallo scadere. Ma ieri l’acrobatico inedito decreto legge-Frankenstein al cubo è degno del primo premio al festival del circo legislativo: le modifiche sull’immigrazione, ha annunciato la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, verranno inserite nel decreto legge Sud per renderle immediatamente efficaci. Varate cioè ieri 18 settembre in un decreto legge, saranno trapiantate nel corpo di un altro decreto legge (quello per il Sud) già approvato il 7 settembre e già sottoposto al Quirinale: ma come? “A quanto si apprende da fonti di governo”, secondo le quali “non si tratterà di un emendamento al provvedimento ma di quella che in gergo” (in gergo?) “si chiama ridelibera”, siccome il decreto Sud non era ancora stato (dopo 10 giorni...) bollinato e pubblicato in Gazzetta Ufficiale, ieri “in Consiglio dei ministri c’è stata una nuova delibera su quel provvedimento”, insomma è stato ritirato e subito riproposto con dentro anche le nuove norme di ieri sull’immigrazione. Creatività legislativa senza precedenti, eppure record già a rischio: infatti, dopo il decreto legge Cutro del 10 marzo, e quello di ieri, “è intenzione del governo portare la settimana prossima in Consiglio dei ministri un nuovo decreto legge”. Il ventisettesimo in 7 mesi, il terzo sullo stesso tema. Aumento della detenzione dei migranti nei Cpr: un ritorno al passato? di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 19 settembre 2023 Non hanno commesso reati, ma si prevedono diciotto mesi come nel 2011. Il governo Meloni aumenta fino a 18 mesi la detenzione amministrativa dei migranti presso i Centri di Permanenza per il Rimpatrio (Cpr). Un vero e proprio ritorno al passato, un ritorno a un lungo periodo di detenzione in strutture che, a differenza del carcere, sono luoghi e contesti molto meno ‘tutelati’. Non esiste, infatti, un ordinamento che dettagliatamente ne regoli la quotidianità e le tutele, né una Magistratura chiamata a vigilare con continuità su ciò che accade al loro interno e destinata a ricevere reclami su singoli aspetti del suo svolgersi. La società civile fatica ad accedere, così come il mondo dei media. È importante ricordare che i migranti sono, di fatto, detenuti. Tuttavia, non hanno commesso alcun reato, ma solo una violazione amministrativa per il fatto di essere entrati o di soggiornare nel territorio italiano in maniera irregolare. Eppure, sembra che la caratteristica di eccezionalità della detenzione amministrativa delle persone migranti si stia perdendo in questi tempi, e la privazione della libertà sembra sempre più diventare il principale mezzo per giungere all’allontanamento forzato delle persone straniere. Non è più uno strumento straordinario, ma la regola, tanto da ampliarne i tempi di applicazione della misura. I Cpr rappresentano una realtà che ha preso forma in maniera informale fin dal lontano 1995. Nel corso degli anni successivi, la pratica dei Cpr è stata progressivamente normalizzata, portando a significative variazioni nella durata massima della detenzione. Inizialmente, questa era limitata a soli 30 giorni, ma nel 2002, con l’entrata in vigore della legge Bossi- Fini, il periodo di detenzione è stato esteso a 60 giorni, aprendo la strada a nuove discussioni sull’efficacia e sulla giustizia di questa politica. Una delle trasformazioni più significative si è verificata con il decreto-legge 89/ 2011, quando la detenzione nei Cpr è stata portata a un massimo di 18 mesi. Questo cambiamento ha sollevato domande sulla conformità alle norme internazionali in materia di diritti umani. La situazione è rimasta fluida nel tempo, con ulteriori cambiamenti legali che hanno segnato la storia dei Cpr. Nel 2013, una direttiva europea ha stabilito una riduzione significativa del periodo di detenzione, portandolo a soli 3 mesi. Questo cambiamento è stato accolto da molte organizzazioni per i diritti umani, ma è stato poi nuovamente ampliato con l’entrata in vigore del decreto sicurezza nel 2018, portando la detenzione fino a 180 giorni. Un’ulteriore evoluzione è stata introdotta dal decreto 130/ 2020, promosso dall’allora ministra dell’Interno, Luciana Lamorgese. Questo decreto ha ridotto nuovamente il periodo di detenzione nei Cpr a 90 giorni, ma ha anche previsto la possibilità di estenderlo fino a un massimo di 120 giorni in casi particolari. Ora, però, si ritorna indietro. In un attimo, tutto viene azzerato. Migranti. Il disastro dei Cpr di Luigi Manconi La Stampa, 19 settembre 2023 Il cuore del messaggio inviato dal governo attraverso i provvedimenti in materia di immigrazione consiste in un numero: 18. Ovvero 18 mesi di trattenimento nei Centri per il rimpatrio (Cpr) per gli stranieri irregolari. Il calcolo che c’è dietro è elementare: 18 mesi, un anno e mezzo, sembrano una misura abbastanza intimidatoria e afflittiva per chi - e così l’operazione rivela il suo fondo di vergogna - è responsabile esclusivamente di un illecito amministrativo: non disporre, cioè, di un documento valido per l’ingresso e il soggiorno in Italia. Ma l’inganno non si limita a questo. Quei 18 mesi dovrebbero apparire, a una opinione pubblica inquieta, come la giusta sanzione inflitta da un governo finalmente rigoroso. Le cose non stanno così. Basti ricordare che la detenzione per un anno e mezzo è tutt’altro che una novità. Era già così tre lustri fa e, successivamente, qualche anno addietro. E i dati parlano chiaro. Tra il 2019 e il 2020 - sempre con permanenza di 18 mesi - i rimpatri sono diminuiti sensibilmente, passando da 6.581 a 3.251. Una autentica sconfitta. Il fatto è che i Cpr sono un istituto fallimentare. Sotto altro nome (o meglio: sotto altri e differenti nomi) esistono dal 1998 e, nel corso di questo quarto di secolo, il periodo di trattenimento è stato allungato o accorciato sulla scorta dei successivi allarmi sociali e dei diversi sussulti emotivi che hanno scosso l’opinione pubblica: da 3 mesi a 18, da un mese a 6. E mai si sono rivelati una soluzione efficace, a partire dai numeri: poche migliaia di persone rispetto all’universo degli stranieri irregolari. Per capirci, in tutto il 2022 sono stati trattenuti nei Cpr meno di quelle 7mila persone sbarcate a Lampedusa nell’arco di 48 ore: e, di loro, solo la metà sono state rimpatriate. Dunque, tutta l’enfasi riposta su queste due evocazioni (Cpr-18 mesi) sembra finalizzata solo a esaltare la dimensione carceraria del provvedimento, la sua funzione minatoria e la simbologia securitaria che evoca. Il problema infatti è tutt’altro. La strategia dei rimpatri non funziona perché, innanzitutto, la base giuridica dell’istituto dei Cpr è controversa (un illecito amministrativo sanzionato con la reclusione in assenza di una decisione del magistrato); e, poi, perché i rimpatri sono assai dispendiosi e richiedono una interlocuzione con i Paesi di provenienza degli immigrati, che attualmente coinvolge appena una minoranza di Stati. Un esempio solo: nel corso di 12 mesi sono stati rimpatriati in Albania appena 58 irregolari. Il rimpatrio di un solo migrante è, dunque, operazione quanto mai complessa dai costi elevatissimi, che richiede una cooperazione intensa con i Paesi di provenienza, ancora tutta da realizzare. Se a questo, o poco più, si limita la strategia di Giorgia Meloni siamo davvero fritti. Dietro tutto ciò, è impossibile tacerlo, c’è un gigantesco problema di cultura politica: una macroscopica ignoranza dell’origine profonda del fenomeno. Facciamo un passo indietro e ascoltiamo Meloni: “Andremo a cercare gli scafisti lungo tutto il globo terracqueo” (Cutro, 10 marzo 2023). Non è dato sapere quanti trafficanti di esseri umani nelle settimane trascorse da quell’annuncio siano stati arrestati, ma è lecito supporre che il loro numero sia irrisorio: in caso contrario, chissà che sarabanda. Tuttavia, nell’ansiogena ricerca del responsabile del complotto che ha portato quegli oltre 7 mila profughi a Lampedusa in poche ore, i trafficanti non sono più i principali sospettati. La destra accusa, di volta in volta, “i socialisti europei”, le armate della Wagner e il presidente della Tunisia Kais Saied, irritato per non aver ancora incassato i 255 milioni promessigli. Una tale ossessiva ricerca del capro espiatorio giustifica la domanda: insomma, i nostri nemici sono i trafficanti oppure il despota tunisino che foraggiamo per contrastarli, quegli stessi trafficanti? In ogni caso, quanto emerge nitidamente è la povertà irreparabile dell’analisi dell’immigrazione elaborata dalla destra che, nel corso di decenni, non è stata in grado di proporre uno straccio di diagnosi seria fondata su dati scientifici e su categorie economiche, sociali, ambientali e demografiche. Di conseguenza, ogni volta che il fenomeno si acutizza, ecco l’invenzione di un nemico. E, non a caso, il piano Kalergi sulla “sostituzione etnica”, confusamente ciancicato dal ministro delle Politiche Agricole Francesco Lollobrigida, è stato agitato dal presidente Saied nei confronti dei migranti provenienti dal Sahel per mobilitare gli strati popolari tunisini contro i nuovi arrivati. Come si vede, dall’insieme di questo quadro, ciò che viene espunta è l’analisi delle cause profonde dei flussi migratori: dal fallimento di numerosi Stati africani alle guerre tribali, dalle carestie e dalle inondazioni in Libia ai milioni di profughi ambientali, dalla crisi di tutte le politiche occidentali nel continente all’incremento dello scarto tra il ritmo di sviluppo dei Paesi industrializzati e quello delle nazioni più arretrate. Si tratta evidentemente di questioni globali e di portata davvero epocale che nessun Paese europeo e nessun Consiglio dei ministri può pensare di affrontare in solitudine. Ma ciò che colpisce è la totale inconsapevolezza di tali questioni, per come emerge brutalmente dai provvedimenti adottati dal governo italiano. Tutte le parole pronunciate e tutte le misure assunte sembrano provare, in maniera inoppugnabile, che manca qualsiasi contezza delle dimensioni reali della questione, qualsiasi analisi scientifica, qualsiasi memoria storica. È una sorta di deficit cognitivo e di analfabetismo di ritorno che, purtroppo, rischia di ricadere su tutti noi, governati da dilettanti che - per loro stessa ammissione - non leggono i libri e non leggono la realtà. Migranti. Se i dati fanno meno paura dell’allarme “invasione” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 19 settembre 2023 Quando si passa dalla propaganda alla realtà dei numeri la prospettiva cambia: chi arriva in Italia non vuole restarci. Percezione e realtà. Anche quando si parla di immigrazione questo binomio entra nel dibattito non senza frizioni. Se si prende in considerazione la percezione, gli sbarchi che stanno interessando le coste italiane, a partire da quelle di Lampedusa, inducono a parlare di “invasione”. Ne consegue che gli appetiti demagogici e populisti di alcuni esponenti politici vengono stimolati. Se, invece, ci confrontiamo con la realtà e prendiamo in considerazione i dati ufficiali, la prospettiva cambia. Soffermiamoci, quindi, su quanto accade quotidianamente, guardando in faccia la realtà. Il dipartimento per le Libertà civili e l’immigrazione del ministero dell’Interno pubblica quasi ogni giorno sul sito del Viminale il “cruscotto statistico”, contenente l’insieme dei numeri aggregati sugli sbarchi e l’accoglienza degli stranieri. L’ultima elaborazione è del 15 settembre. Il ministero precisa che i numeri indicati sono suscettibili di modifiche, seppur sensibili, in quanto la comunicazione dei dati è frammentaria per questioni tecniche legate al caricamento da parte delle strutture sparse sul territorio nazionale. Dal 1 gennaio al 15 settembre 2023 sono sbarcati sulle coste italiane 127.207 migranti. Nello stesso periodo di riferimento, nel 2022, gli arrivi sono stati quasi la metà (66.237); ancora meno nel 2021 (42.750). Il mese di settembre presenta un picco di sbarchi: una settimana fa, il 12 settembre, sono stati 5.018. Lo stesso giorno di un anno fa sbarcarono 1.030 persone. Il 13 settembre scorso gli arrivi sono stati 2.980, mentre nel 2022 furono 988. I mesi di luglio e agosto hanno fatto registrare il numero maggiore di approdi sulle coste italiane. A luglio sono arrivate 23.420 persone, ad agosto 25.664. Cifre schizzate all’insù se si prendono in considerazione gli stessi mesi del 2021 (nel luglio 2021 gli sbarchi sono stati 8.609, nel 2022 sono stati 13.802; nell’agosto 2021 si sono contati 10.269 arrivi, nel 2022 sono stati 16.822). Chi fugge verso l’Italia - Il Viminale individua anche le nazionalità dichiarate dalle persone al momento dello sbarco. Prevalgono fino ad oggi i cittadini della Guinea (15.088), seguono quelli della Costa d’Avorio (14.208), Tunisia (11.530), Egitto (8.420), Bangladesh (7.575), Burkina Faso (6.783), Pakistan (6.321), Siria (5.071), Camerun (4.279), Mali (4.274). I restanti 43.658 migranti hanno altre nazionalità. Dalla Costa d’Avorio al “sogno europeo” - I cittadini ivoriani si collocano al secondo posto per numero di arrivi in Italia. In questo caso non manca un particolare elemento geopolitico, che vale la pena prendere in considerazione. La Costa d’Avorio, rispetto ad altri paesi, come il Pakistan, la Tunisia e la Guinea non presenta un assetto governativo autoritario o dittatoriale. È una democrazia che negli ultimi anni ha avuto un Pil in costante crescita, in media dell’8 per cento all’anno. Secondo il Fondo monetario internazionale, nel 2023 è prevista una crescita del 6,2. Inoltre, il Paese africano ha raddoppiato in dieci anni il reddito pro capite ed è attualmente il maggior produttore ed esportatore mondiale di cacao, il sesto di caffè, il primo esportatore di olio di palma e il primo produttore africano di gomma. Nonostante questo quadro piuttosto roseo, non mancano gli squilibri sociali. I giovani ivoriani vogliono raggiungere i loro connazionali e parenti in Europa, prima di tutto in Francia e Belgio. Per realizzare il “sogno europeo”, come ha spiegato alla rivista Vita Lorenzo Manzoni, responsabile Avsi per la Costa d’Avorio, i giovani ivoriani sono disposti a investire una parte dei loro risparmi e a rischiare la vita. Già, perché il viaggio con destinazione l’Europa può costare fino a 5mila euro, è pieno di imprevisti ed è scandito da diverse tappe. In Tunisia o in Libia il trasferimento in Europa diventa una vera e propria scommessa. Ci si assume il rischio per poi intraprendere un viaggio della speranza a bordo di un barchino per la prima, importante, meta: Lampedusa. Chi sbarca sull’isola siciliana è molto fortunato. La permanenza nell’hotspot dovrebbe essere solo una parentesi del viaggio, il nostro Paese è considerato un luogo di passaggio. Le mete sono altre e, dunque, la percezione di cui parlavamo all’inizio si scioglie di fronte alla realtà. L’opinione del giurista - Secondo l’avvocato Fulvio Vassallo, già docente di diritto di asilo all’Università di Palermo, occorrono interventi strutturali, senza cedere alla tentazione degli annunci. “Un “Piano di azione” europeo - dice al Dubbio - non contiene norme ad impatto immediato, vincolanti per gli Stati membri, ma prevede soltanto un insieme di attività amministrative e anche misure legislative da parte delle istituzioni europee a seguito di criticità emerse nella attuazione di programmi europei. Viene adottato in vista di azioni correttive per realizzare le finalità perseguite dall’Ue. A sette mesi dalle elezioni europee il Piano di azione Ue in dieci punti, annunciato da Giorgia Meloni e Ursula Von der Leyen a Lampedusa, rappresenta l’ennesima strumentalizzazione elettorale, che potrebbe legittimare soltanto ulteriori prassi illegali di respingimento collettivo in mare e accordi per deportazioni dirette o indirette in paesi terzi non “sicuri”. Tra questi la Tunisia e la Libia che operano espulsioni sommarie e respingimenti collettivi verso paesi di origine, che non rispettano i diritti umani o versano in situazione estreme di conflitto o di devastazione ambientale”. Migranti. Democrazia tradita dal ricatto tunisino di Giorgia Linardi La Stampa, 19 settembre 2023 A Lampedusa abbiamo ceduto al ricatto. Uno dei punti del decalogo enunciato dalla commissaria europea Von der Leyen a conclusione della visita-lampo di domenica riguarda lo sblocco dei fondi promessi nell’Intesa Ue-Tunisia per la lotta al traffico di migranti. Eppure, dal 2011 sono aperte linee di credito europee e italiane che non hanno portato ai risultati auspicati: 178 milioni dal fondo fiduciario Ue per l’Africa e 47 milioni dall’Italia. La pressione per lo sblocco dei fondi legati la Memorandum è altissima dato che, proprio nelle ore in cui aveva luogo la prima discussione democratica in Parlamento Ue la scorsa settimana, a Lampedusa arrivava un numero record di persone dalla Tunisia, dove sono in corso sgomberi verso le zone costiere. Complice un’economia parallela sviluppatasi nelle aree rurali intorno a Sfax, in cui la differenza tra trafficanti, “passeurs” e civili si assottiglia sempre di più, a fronte di un tessuto economico che non offre nulla alla popolazione. Il tasso di disoccupazione sfiora il 20% e sale al 40% tra i giovani, i salari - già bassissimi - valgono il 30% in meno del 2011, l’inflazione supera il 10% (il tasso più alto degli ultimi 30 anni), in un Paese che si regge in solida parte sull’economia informale, spesso tradotta in sfruttamento, e sull’oligopolio intoccabile di una manciata di uomini d’affari che decidono letteralmente della disponibilità di prodotti di prima necessità sul mercato. Il 90% dei giovani tunisini cresce con il progetto migratorio in testa: chi può cerca - spesso invano - di ottenere un visto, e chi no, resta come può o prende il mare. E proprio in mare sono numerose le testimonianze di violenze delle autorità tunisine contro i migranti subsahariani che Von der Leyen e Meloni vogliono continuare a foraggiare: bastonate, colpi d’arma da fuoco, insulti e sputi, speronamenti che in alcuni casi hanno causato il rovesciamento dei barchini e l’annegamento delle persone a bordo, richiesta di denaro in cambio di soccorso dopo aver depredato la barca del motore, percosse e arresti arbitrari a seguito del respingimento a terra. “Maledetti immigrati! Volete rovinare la Tunisia dicendo che non è sicura!” così si è sentito gridare S., giovane sierraleonese, mentre veniva torturato nella stazione di polizia di Lac, il quartiere finanziato dagli emirati in cui hanno sede le ambasciate e principali organizzazioni internazionali, incluse le agenzie Onu. E proprio davanti all’Unhcr S. si era accampato in cerca di protezione - dopo aver perso la casa a seguito del discorso xenofobo di Saied - ma è stato arbitrariamente arrestato durante il violento sgombero di aprile. Quarantacinque infiniti minuti di botte, scosse elettriche e insulti, conclusi con il trasferimento nella prigione di Mornaguia. Il Forum Tunisino per i Diritti Umani ha contato 3500 arresti di migranti tra gennaio e maggio, numero ulteriormente cresciuto con l’escalation di violenze, pogrom razzisti e deportazioni nel deserto di oltre 1200 persone a luglio. A Mornaguia, si trovano anche molti tunisini vittima di arresti arbitrari legati alla negazione dei diritti fondamentali in corso nel Paese. Esponenti di associazioni Lgbtqi+, persone arrestate poiché l’omosessualità è criminalizzata dal codice penale. Oppositori politici rastrellati dopo l’assunzione dei pieni poteri il 25 luglio 2021, quando, a seguito del colpo di stato, la popolazione aveva sperato in una radicale riforma del Parlamento corrotto di allora, e si è vista invece riscrivere la Costituzione, dando pieni poteri a un presidente-autarca che ha destituito e indagato per corruzione e terrorismo 57 giudici in un giorno. “Saied ha sovvertito il processo democratico per instaurarne un altro di negazione delle libertà” racconta un esponente dell’Associazione dei Magistrati tunisini. Anche la libertà d’espressione e di associazione sono fortemente minacciate. Secondo il Sindacato dei giornalisti tunsini, 36 reporter sono indagati e due in prigione, soggetti a processi d’opinione mentre la normativa vigente viene utilizzata per censurare l’informazione pubblica. In un contesto di altissima repressione, violenza poliziesca e arresti arbitrari, la società civile tunisina avverte: più securitizzazione per contenere i migranti significa più potere all’apparato repressivo. L’approccio Meloni-Von der Leyen, dunque, si abbatte non solo sulle persone in fuga, ma anche sulla popolazione tunisina intrappolata in un Paese che ha sempre più l’aspetto di una dittatura. Italia e Ue non possono sottrarsi al monitoraggio dello stato di diritto nei Paesi terzi con cui stringono relazioni: il rischio concreto è che l’influenza esterna alimenti la crisi della democrazia in Tunisia. Droghe. “Più carcere per i piccoli spacciatori”: la proposta del deputato dem Andrea De Maria di Eleonora Martini Il Manifesto, 19 settembre 2023 Pene minime portate da 6 mesi a 2 anni e quelle massime da 4 a 6 anni. “Ma non sono proibizionista”. Innalzare le pene minime (da sei mesi a due anni) e massime (da 4 a 6 anni) per il piccolo spaccio, per la detenzione ad uso personale e per la condivisione di cannabis con altri consumatori, per quei reati cioè che nel linguaggio giuridico si definiscono “fatti di lieve entità” in materia di stupefacenti. È quanto proposto nuovamente (ci aveva già provato nel 2018 ma senza successo) non da un fratello d’Italia ma da un deputato del Pd, Andrea De Maria, da poco nominato responsabile dell’organizzazione di Energia Popolare, il movimento lanciato a luglio da Stefano Bonaccini (mai chiamarlo “corrente”, però) per far sentire a Schlein il fiato sul collo della minoranza. Raramente un testo di legge composto da un solo articolo riesce a mostrare una tale sgrammaticatura rispetto alla sintassi politica di riferimento come nel caso della proposta di legge De Maria presentata alla Camera il 12 giugno scorso. In poche parole contraddice anni di analisi - condivisa ormai non solo a sinistra - sul fallimento dello strumento repressivo nella lotta al grande spaccio che ingrassa le mafie, sul sistema di esecuzione della pena giunto al capolinea e sul collasso del sistema giudiziario nel suo insieme. Non bruscolini. La proposta recita così: “Al comma 5 dell’articolo 73” del testo unico sugli stupefacenti 309/90 (quello cioè che punisce fatti che “per i mezzi, la modalità o le circostanze dell’azione ovvero per la qualità e quantità delle sostanze”, sono “di lieve entità”) “le parole: “da sei mesi a quattro anni” sono sostituite dalle seguenti: “da due a sei anni”“. Aumentare il massimo edittale della pena sopra il limite dei 5 anni consente tra l’altro le intercettazioni dei sospettati. Ma è il minimo della pena ad apparire davvero sproporzionato: a farne le spese potrebbero essere ragazzini, o al massimo piccoli spacciatori, ancora più piccoli di quelli che già inzeppano le nostre carceri. “Oltre il 34% dei detenuti è in carcere per droghe: il doppio rispetto alla media europea (18%) e quasi di quella mondiale (22%) - fa notare il segretario di Forum Droghe, Leonardo Fiorentini, criticando la proposta - La distinzione fra possesso per uso personale e spaccio è talmente labile, e grande la variabilità dei giudizi rispetto alla lieve entità, che sono le persone con minori mezzi, sia culturali che economici, a finire in carcere”. Neppure il governo Meloni aveva osato tanto: nel decreto Caivano infatti la pena per il reato di spaccio di stupefacenti, nei casi di lieve entità, “passa da un massimo di 4 a un massimo di 5 anni”. “Ci tengo a sottolineare che la proposta non è “proibizionista” ma mira a rendere più efficace il contrasto allo spaccio di droga - risponde alle critiche De Maria - Per le droghe leggere peraltro sono per la depenalizzazione ed ho sottoscritto lo scorso anno la relativa proposta di legge. Penso che lo spaccio di droga vada combattuto con determinazione e senza ambiguità. Come penso che forme di depenalizzazione siano utili anche a contrastare lo spaccio”. La proposta di De Maria che, precisa lui, non ha nulla a che vedere con il suo ruolo nel Pd, l’ha “messa a punto nel 2018 con le forze dell’ordine e le associazioni dei cittadini del centro di Bologna, dove lo spaccio è un problema serio”; era “un impegno preso nella campagna elettorale” di allora, spiega. E il fatto di aver deciso di ripresentarla adesso nulla ha a che vedere con l’estrema ricettività al metodo dell’attuale maggioranza di destra: “Non condivido affatto la politica di sicurezza di questo governo”, assicura. Evidentemente però non maneggia molto bene la materia, l’on. De Maria. “Depenalizzare significa l’esatto contrario”, fa notare Fiorentini secondo il quale bisogna invece lavorare “per un governo sociale del fenomeno, anche attraverso la regolamentazione legale. Il resto si chiama proibizionismo”. L’orrore di Stato in Australia: carcere per i bambini di dieci anni di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 19 settembre 2023 Il Governo laburista del Qeeensland abolisce lo “Human Rights Act”, introdotto nel 2019 per impedire che i minori venissero trattati come detenuti adulti. Il governo della regione nord-orientale australiana del Queensland ha letteralmente scioccato l’opinione pubblica sospendendo lo Human rights act. L’intento delle autorità è quello di mettere dietro le sbarre anche i bambini, abbassando la soglia di punibilità a 10 anni. Il partito laburista al potere, già il mese scorso aveva fatto approvare una serie di provvedimenti per consentire la detenzione di minorenni. Una reclusione a tempo indeterminato in strutture di sorveglianza gestite dalla polizia, perché le modifiche alle leggi sulla giustizia minorile, incluso il carcere per i giovani che violano le condizioni per la cauzione, hanno saturato i posti in quelli che venivano chiamati comunemente riformatòri. La brutale misura è stata resa possibile dunque dalla rinnovata sospensione del Queensland Human Rights Act, introdotto nel 2019, che proteggeva i bambini che non potevano in alcun modo essere detenuti in carcere come fossero adulti. All’inizio di quest’anno, la Commissione per la produttività australiana ha riferito che il Queensland ha il più alto numero di minori in detenzione rispetto a qualsiasi stato. Tra il 2021 e il 2022 è stata registrata una media giornaliera di 287 incarcerazioni, rispetto alle 190 del Nuovo Galles del Sud, il più popoloso dell’Australia Tutto ciò nonostante le spese altissime per il bilancio pubblico: ogni giorno di prigione infatti arriva a costare oltre 1800 dollari australiani, e più della metà dei bambini del Queensland incarcerati vengono condannati per nuovi reati entro 12 mesi dal loro rilascio. Un rapporto pubblicato dalla Justice Reform Initiative nel novembre 2022 ha mostrato che il numero di detenuti giovanili del Queensland è aumentato di oltre il 27% in sette anni. La nuova stretta securitaria sta seriamente preoccupando il commissario per i diritti umani dello Stato, Scott McDougall, che ha descritto la protezione dei minori in Australia come molto fragile: “Non abbiamo una legge nazionale. Alcuni dei nostri stati e territori hanno dispositivi di protezioni dei diritti umani nella legislazione. Ma non sono costituzionalmente radicati”. Lo dimostra proprio la detenzione nelle cosiddette case della polizia, annesse ai commissariati e ai tribunali. Questi luoghi sono composti da piccole celle di cemento senza finestre, normalmente utilizzati per gli adulti in attesa di comparire davanti un giudice o per essere trattenuti durante la notte. Secondo McDougall ciò provoca danni irreversibili ai bambini rinchiusi in una “scatola di cemento” con un solo bagno e altri piccoli detenuti. I bambini non hanno accesso all’aria fresca o alla luce del sole. Dopo due o tre giorni la salute mentale inizia a deteriorarsi. Inoltre il 90% dei giovani imprigionati sono in attesa di processo trattenuti in custodia cautelare. La decisione del Queensland nasconde però un elemento che potrebbe essere definito razzista. Nonostante i nativi costituiscano solo il 4,6% della popolazione, i bambini indigeni costituiscono quasi il 63% di quelli in detenzione. Un tasso di incarcerazione 33 volte superiore a quello dei bianchi. Sembrano essere così ignorate tutte le soluzioni alternative che affrontino il comportamento dei bambini senza sottoporli a un processo. Eppure secondo diverse organizzazioni per i diritti dei nativi: “Ci sono state innumerevoli opportunità per questo governo di perseguire alternative alla carcerazione, insegnando ad essere responsabili al di fuori di una cella di prigione”. Un ulteriore rischio per la protezione dei diritti umani è il parlamento del Queensland, che è composto da un solo ramo. Non esiste una camera alta per esaminare le leggi, così il partito al governo può approvare nuovi provvedimenti pressoché incontrastato.