Morire in carcere di Stefania Carnevale* doppiozero.com, 18 settembre 2023 Continua a cadenze inesorabili, come se fosse un fatto naturale, una legge statistica da accogliere nella sua nuda oggettività, l’ondata di suicidi nelle nostre prigioni. Tra il 1992 e il 2022 si sono tolte la vita 1655 persone e quest’anno sono già 51 i casi registrati, gli ultimi tre proprio in questi giorni. L’anno scorso è stato il più nero della nostra recente storia carceraria: 85 persone si sono uccise negli stabilimenti penitenziari. Mai negli ultimi trent’anni si era raggiunta una soglia così alta di perdite di persone che lo Stato aveva in custodia. Il fenomeno dei suicidi, al ritmo inquietante di uno ogni pochi giorni, tocca trasversalmente tutte le categorie di detenuti: i condannati, gli appena arrestati, gli imputati che attendono una sentenza, le donne e gli uomini, i giovani e i vecchi. Le donne e i giovani, nell’ultimo anno e mezzo, sono stati particolarmente rappresentati nel macabro inventario e gli ultimi due mesi ne hanno dato drammatica riprova, con le due detenute morte quasi contemporaneamente nel carcere di Torino e i detenuti appena scomparsi a Milano, Roma e Busto Arsizio. Il ripudio costituzionale della pena capitale e delle violenze fisiche e morali sulle persone private della libertà non riesce a impedire supplizi autoinflitti da detenuti e detenute per cui la reclusione varca il limite della tollerabilità. Vi si pone allora fine con gesti deliberati, ora impulsivi, ora meditati, ora perseguiti con disperata convinzione: impiccandosi alle grate delle finestre, al blindo, soffocandosi con il gas, lasciandosi morire di fame, inascoltati. C’è poi un numero incalcolabile di persone che compie quotidianamente atti di autolesionismo (più di 13.000 nel solo 2021 secondo i dati del Garante nazionale), tagliandosi, cucendosi le labbra, ingoiando pile, detergenti, quel che c’è sottomano, e una quantità enorme di casi in cui i propositi suicidari vengono sventati dall’intervento della polizia penitenziaria. Il carcere, per la nostra Costituzione, dovrebbe essere luogo di umanità, di diritti tutelati, di trattamenti rispettosi della dignità e quello della detenzione dovrebbe essere tempo di recupero sociale, di riabilitazione, di preparazione al ritorno in società. L’ambizione delle pene, compresa quella detentiva che da due secoli è il castigo per antonomasia, è infatti quella di restituire al mondo libero persone rinnovate, che non ricadano in comportamenti criminali. Che la reclusione porti alla morte, invece che alla chance di una nuova vita rispettosa delle regole, è allora uno scandalo nei cui abissi bisogna guardare. Il carcere, immancabilmente presentato come risposta ai molti mali del mondo, dovrebbe invece diventare una grande domanda. Ciascuno di noi dovrebbe interrogarlo, questionare l’istituzione penitenziaria, che ci è di continuo offerta come soluzione ai problemi (vecchi e nuovi) che attanagliano le società organizzate: la devianza, la marginalità, il disagio psichico, quello giovanile, l’immigrazione, le dipendenze, le piccole e grandi meschinità quotidiane. Che i luoghi di detenzione siano i meno adatti ad assolvere compiti di riabilitazione sociale è stato chiaro sin dalla loro nascita e durante tutto il loro esuberante sviluppo. Il carcere fiorisce come strumento di punizione tra la fine del settecento e i primi decenni dell’ottocento, proprio per superare i supplizi corporali che per secoli erano stati lo strumento principale per sanzionare i comportamenti criminali. Da luogo di attesa e puro contenimento divenne tempo da sfruttare per ottenere un’educazione al lavoro e favorire ripensamenti sulle proprie scelte di vita. Ma - da subito - il penitenziario ha rivelato le sue falle, dimostrando che segregazione, separazione, incapacitazione, non sortiscono quasi mai gli esiti sperati. Già a metà ottocento erano chiari i frutti avvelenati dell’istituzione carceraria: suicidi, impazzimenti, incrementi dei tassi di recidiva. Eppure, nonostante l’evidenza di questi smacchi, che sono andati ripetendosi e cronicizzandosi, si tende ancora a riporre nelle prigioni un’enorme fiducia. Il successo del carcere si deve alla sua apparente capacità di soddisfare tutti gli scopi che le pene perseguono: retribuire, ossia ripagare chi ha violato le regole della nostra convivenza civile; dissuadere gli altri dal trasgredirle a loro volta, per il timore di patire la detenzione; rieducare i condannati, grazie a trattamenti individualizzati che preparino al rientro in società. Tutti e tre gli obiettivi fanno leva sul dolore, sulla pena appunto, che è patimento e afflizione legittima. La sofferenza dei colpevoli ci appaga, perché placa il nostro senso di giustizia, la sofferenza disincentiva i comportamenti criminali, la sofferenza cura, purifica, guarisce il deviante che grazie alle privazioni comprenderà il male commesso e cambierà strada. Più intenso sarà l’affanno, più la risposta penale darà i suoi risultati di rivalsa, deterrenza, rieducazione. Eppure, che pene esemplari disincentivino i consociati dalla commissione di reati non è mai stato dimostrato. Gli studi sui tassi di criminalità negli Stati dove è prevista la pena di morte provano anzi il contrario e non è difficile verificare che anche nel nostro paese gli aumenti di pena per questo o quel reato non ne abbiano provocato evidenti flessioni. D’altro canto, che il soffrire riabiliti il reo è una convinzione a sua volta fallace. In carcere cova una sofferenza esasperata e rabbiosa, non quella salutare che ci figuriamo nelle nostre fantasie sulla detenzione. Qualche detenuto molto predisposto forse ogni tanto sperimenta la forza purificatrice del dolore. Ma di regola ci si tormenta sulle piccole e grandi difficoltà quotidiane e non sul male commesso. Telefonare a casa, avere i soldi per le sigarette, rivedere un figlio, togliere un dente che duole tremendamente dopo un’attesa di anni. Per comprendere la serietà della questione, bisognerebbe aver visto, ascoltato, annusato la vita in carcere. Non solo per gli ambienti angusti, scuri, sovente sovraffollati, non di rado degradati, non solo per il freddo glaciale in inverno, il caldo impossibile d’estate, le grate alle finestre che dopo pochi anni rovinano la vista, le docce condivise con decine di persone, spesso senz’acqua calda, i forti limiti a quello che si può mangiare, cucinare, acquistare e non solo per le angherie quotidiane, praticate e subite, le convivenze moleste, quelle pericolose, quelle deleterie. Ma anche per la separazione, lo stigma, la solitudine, oggi molto più bruciante rispetto a qualche decennio fa, quando non eravamo immersi in un groviglio di comunicazioni ininterrotte e connessioni sempre attive. E ancora la sessualità negata, la genitorialità impedita, lo sfilacciarsi delle relazioni con i familiari, la perdita di autonomia, la mancanza di orizzonte, il deteriorarsi della salute, fisica e mentale, che naturalmente ne consegue. Tutto questo accade nonostante gli innegabili sforzi, l’encomiabile impegno, la maestria nell’ottenere qualcosa avendo quasi nulla tra le mani che dimostrano quotidianamente direttori, educatori, personale di polizia. E capita sebbene gli sforzi, l’impegno e persino la creatività vengano profusi nell’istituzione penitenziaria da secoli, con risultati ben lontani dall’essere appaganti. Sono gli operatori del carcere, quelli in trincea a cui si chiede l’impossibile con scarsissimi mezzi, ad essere i più feriti da una situazione così tragica. Chiunque lavori in un istituto penale si trova a dover fare i conti con l’ombra incombente della disperazione che può tracimare da un momento all’altro in un gesto estremo. È un’angoscia quotidiana con cui si deve imparare a convivere, sebbene sia quanto di più lontano dal senso costituzionale della pena. È capitato anche a me, più volte, quando pochi anni fa mi sono trovata a svolgere il difficile compito di Garante dei diritti delle persone detenute. A pochi mesi dalla nomina un giovane, straniero, arrestato da poche ore, si è suicidato nel carcere della mia città. Quando sono arrivata il corpo era ancora nella cella, dove non sono riuscita ad entrare. Qualche tempo dopo ho incrociato lo sguardo scosso di un poliziotto, che aveva appena impedito ad una persona d’impiccarsi, tirandola giù all’ultimo momento. Diceva di star bene, di non aver bisogno di sostegno, mentre i suoi occhi scombinati dicevano l’opposto. Dopo qualche mese ancora, lo sguardo stanco e afflitto della direttrice del carcere fissava insieme al mio la stanza della terapia intensiva dove attaccato alle macchine stava un detenuto quasi riuscito nel suo intento. Chi avesse dubbi sulla certezza della pena, intesa come sicura sofferenza dei carcerati, può star tranquillo: nei nostri istituti detentivi si pena molto. Ma maneggiare la sofferenza altrui, dosare il dolore legittimo affinché nuoccia, sì, ma senza esagerare, è operazione difficilissima se non impossibile. I suicidi e gli atti di autolesionismo ne sono la tragica dimostrazione. Chi studia il sistema penale e le sue evoluzioni sa che l’umanità delle pene, il rispetto dei diritti degli imputati e dei condannati sono tra i portati più preziosi del progresso dei nostri ordinamenti, mentre la benevolenza nel punire, la mitezza dei castighi, l’incentivo ai buoni comportamenti (ben più che l’accanimento su quelli cattivi) hanno effetti benefici sulla sicurezza collettiva. È controintuitivo, forse disturbante, ma la storia delle sanzioni penali, l’osservazione empirica, le raccolte di dati, le sperimentazioni condotte in tanti paesi lo hanno dimostrato. Le “pene” (al plurale, per la nostra Costituzione) non si esauriscono nel carcere, che non è soluzione ottimale ma un male (forse) necessario per un numero limitatissimo di casi, quelli più gravi. Per tutti gli altri, ci sono diversi modi per punire, altre vie per segnare una discontinuità dal passato criminale, per restringere la libertà, per controllare gli autori di reato o gli imputati ritenuti pericolosi: misure alternative, pene sostitutive, vincoli diversi dalla custodia in carcere. Sono strumenti punitivi o cautelari che hanno meno controindicazioni, meno costi sociali, umani, economici e tuttavia vengono guardati con costante diffidenza, perché l’amara medicina del carcere esercita la sua malia. Bisognerebbe invece diffidare quando, come in questi giorni, quella soluzione viene offerta, ancora una volta, come rimedio elettivo e universale. Occorrerebbe chiedersi con quali effetti, con quali costi, con quali controindicazioni, con quali comprovati benefici. *Professore associato di Diritto processuale penale Dipartimento di Giurisprudenza dell'Università degli Studi di Ferrara Ennesimi morti in carcere di Angela Stella L’Unità, 18 settembre 2023 Un suicidio ad Avezzano. Un detenuto morto nel carcere di Terni, dopo aver dato fuoco alla cella nella quale era recluso. Dalle prime ricostruzioni l’uomo sarebbe morto rimanendo intossicato dal fumo. Nell’accaduto sarebbero rimasti lievemente intossicati anche altri detenuti. Sono in corso le indagini da parte della polizia penitenziaria di Terni, con il coordinamento della procura della Repubblica. A rendere nota la vicenda è stato il sindacato di polizia penitenziaria Sappe. “Siamo amareggiati e arrabbiati. Questa - è il commento di Fabrizio Bonino, segretario nazionale per l’Umbria del Sindacato autonomo di polizia penitenziaria - è una tragedia annunciata ed è anche la conseguenza di una sottovalutazione alle continue sollecitazioni di intervento per il Sabbione che facciamo da mesi e mesi. Un uomo che perde la vita durante la detenzione è sempre una sconfitta per lo Stato: e questo nonostante il personale di polizia penitenziaria abbia fatto di tutto per evitarlo”. Secondo sempre quanto riferito dal sindacalista, l’uomo deceduto aveva anche problemi psichiatrici: “era stato assegnato qui dal Provveditorato regionale della Toscana e l’altro ieri aveva avuto un’udienza in Liguria”. Prontamente è arrivato anche il commento del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale dell’Umbria, Giuseppe Caforio: “La situazione delle carceri umbre, all’indomani dell’ennesima morte nel penitenziario di Terni è divenuta drammatica. Alle carenze croniche di personale, particolarmente grave quella di Terni che ha il peggior rapporto fra numero di poliziotti penitenziari e detenuti, si aggiunge un flusso incessante di detenuti trasferiti da altre carceri con gravissimi problemi di personalità quasi sempre di natura psichiatrica”. Secondo il Garante “non si può più assistere a questa strage silenziosa di morti violente nelle carceri e rimanere inermi. È il tempo che le promesse di implementazione di personale diventino realtà immediata e concreta”. A ciò si aggiunga che “è improcrastinabile l’apertura di almeno due Rems in Umbria entro l’estate e in parallelo implementare fortemente l’assistenza sanitaria e specificatamente quella psicologia e psichiatrica”. Infine, conclude Caforio, “è ora che i parlamentari umbri assumano l’iniziativa di ripristinare in Umbria la direzione del Provveditorato penitenziario che dal 2015 è stata accorpato a quello della Toscana, con effetti deleteri. La coscienza di ognuno di noi e le regole minime di civiltà impongono di agire senza tentennamenti”. Sulla vicenda è intervenuto proprio anche il senatore umbro Walter Verini del Partito Democratico: “La situazione delle carceri italiane ha aspetti drammatici. Non da oggi. Quella di alcune carceri umbre è drammaticamente peggiorata e rischia di esplodere. Terni in particolare. L’ennesimo suicidio la notte scorsa, l’aggressione ad una operatrice sanitaria il giorno precedente. Aggressioni agli agenti, autolesionismo frequente da parte di detenuti. Una situazione esplosiva”. Il parlamentare sottolinea: “Siamo intervenuti più volte. L’ultima in Parlamento la scorsa settimana. Più volte direttamente col Dap. Il Governo balbetta risposte. Assicura, promette, ma nei fatti niente sull’aumento di personale di polizia, sociosanitario, interdisciplinare. Niente per evitare che si trasferiscano a Terni un numero ingestibile di detenuti psichiatrici. Ministro Nordio, lo faccia davvero il garantista, garantendo l’avvio di iniziative vere per rendere le carceri più umane, luoghi di pena ma anche di recupero. Lavori davvero per la sicurezza a Terni come ad Augusta, come a Pescara. Non c’è tempo da perdere, non perda tempo”. Verini nomina Pescara perché sempre due giorni fa, nel pomeriggio, un detenuto di 41 anni, originario di Avezzano, si è tolto la vita nel carcere del capoluogo abruzzese, impiccandosi. Quando il carcere minorile è un “banco di prova” per i futuri criminali di Tommaso Romeo* Ristretti Orizzonti, 18 settembre 2023 Il recente decreto legato ai fatti di Caivano e ai reati e alla violenza dei minori secondo la mia esperienza rischia di essere un regalo alla criminalità. Il criminale che è “sul campo di battaglia” ha bisogno di giovani, e se questi poi muoiono o finiscono in carcere non gli importerà più di tanto, perché non porteranno sofferenza alla propria famiglia. Si tratta infatti spesso per lui di perfetti sconosciuti, ma dove li trova questi cavalli da macello? principalmente in quei giovanissimi che finiscono in carcere per qualche piccolo reato. Perché poi il carcere minorile fa da banco di prova e una volta fuori il criminale adulto basta che si informi di che comportamento ha avuto quel ragazzino in carcere e va sul sicuro, è già pronto per fargli fare reati più gravi. Vi immaginate nelle grandi periferie, dove in molte famiglie non entra uno stipendio, ora poi senza più reddito di cittadinanza quanti di quei ragazzini cadranno nella tentazione di commettere qualche piccolo reato per comprarsi il cellulare o un paio di scarpe? E da lì può iniziare una carriera criminale. Io credo che il pensiero di questo governo di usare la spada e la punizione verso questi ragazzini mandandoli in carcere rischia di non far altro che un favore alla grande criminalità, perché quei ragazzini dopo il primo arresto si vedranno marchiati a vita, senza un futuro sociale e lavorativo perché pregiudicati. È infatti inutile nasconderci che una volta che finisci in carcere spesso sia per la società che per le istituzioni sei un criminale a vita, e allora a quel ragazzino non rimane altro che fare a tempo pieno il criminale dandosi le solite giustificazioni che ognuno di noi, che ora siamo in carcere, si è dato, del tipo “non mi hanno lasciato altra scelta”. Sono convinto che si otterrebbe di più dando una seconda possibilità e in qualche caso anche la terza possibilità, perché affidarsi alla galera significa fingere di non sapere che per la maggior parte le carceri non sono altro che una scuola di criminalità, luoghi poco rieducative fortemente punitivi e di contenimento. *Ergastolano, redazione di Ristretti Orizzonti Le ultime eredi delle Colonie penali in Italia ilpost.it, 18 settembre 2023 Quattro “colonie agricole”, su isole o in posti molto remoti, ospitano ancora detenuti che vivono lavorando la terra o con gli animali. Ci sono solo due tipi di imbarcazioni che raggiungono l’isola di Gorgona, nell’arcipelago toscano. Una è un battello turistico, parte una volta la settimana e porta amanti del trekking a scoprire i sentieri di quest’isola per lo più disabitata. L’altra è la motovedetta della Polizia penitenziaria: trasporta agenti carcerari, familiari e nuovi detenuti, e parte una volta al giorno verso l’ultima isola in Europa ad avere come unico insediamento umano un carcere. Nello specifico quella di Gorgona è una “colonia agricola”, come viene chiamata oggi in Italia la struttura detentiva che in passato era conosciuta come “colonia penale”, e che nel mondo occidentale è ormai rara. Negli ultimi anni sono per lo più utilizzate da paesi autoritari, come la Russia o la Corea del Nord. Anche in Italia la maggior parte ha chiuso, ma quattro sono ancora attive: sono posti in cui i detenuti vivono per la maggior parte del tempo all’aria aperta, in zone isolate, lavorando nei campi o occupandosi di animali da allevamento. Solo a Gorgona la colonia agricola è su un’isola. Le altre ancora attive sono in posti molto isolati e montuosi in Sardegna, a Mamone (provincia di Nuoro), a Isili e a Is Arenas (provincia Sud Sardegna, ex Carbonia Iglesias). A Pianosa, altra isola dell’arcipelago toscano che fu dal 1858 la prima sede di una colonia penale, il carcere è stato definitivamente chiuso nel 2011, anche se rimane una sezione distaccata di quello elbano di Porto Azzurro, con 21 detenuti che si occupano di un orto biologico e della manutenzione di un hotel. L’istituto della moderna colonia penale nacque nella seconda metà dell’Ottocento e fu molto utilizzato per quasi un secolo: di solito si trattava di una prigione in un luogo isolato, come isole o zone poco abitate, nel quale i detenuti erano obbligati a lavorare per lo stato. In Italia questo genere di strutture fu particolarmente popolare in epoca fascista. Con il passare dei decenni sono spesso diventate antieconomiche, di difficile gestione e poco conciliabili con una nuova concezione della detenzione che non poteva più contemplare pene come i “lavori forzati”. Approvato nel 1975, l’attuale ordinamento penitenziario prevede le colonie agricole e le case di lavoro come strutture di detenzione alternative, disponibili per categorie specifiche di detenuti. Le case di lavoro sono più simili a normali strutture carcerarie, dotate però di fabbriche, officine o laboratori al proprio interno, mentre la realtà delle colonie agricole è totalmente differente dalle carceri tradizionali. I detenuti possono muoversi liberamente all’interno di ampi spazi durante tutta la giornata, sono impegnati in lavori di agricoltura e allevamento, tornano in cella la sera e guadagnano intorno ai 600 euro al mese. Vengono selezionati fra i detenuti che non hanno avuto problemi disciplinari e che non hanno dipendenze. Chi arriva in queste strutture può vivere buona parte della giornata lontano dalla cella. Essere detenuti in una colonia agricola vuol dire però essere più isolati rispetto al mondo esterno che in un normale carcere: i colloqui con i familiari sono così complessi da diventare rarissimi o assenti, e la presenza di volontari è molto sporadica. Mamone è a un’ora di distanza dal comune più vicino, Isili a oltre un’ora da Cagliari, la motovedetta della Polizia penitenziaria per Gorgona parte solo se le condizioni del mare lo permettono. Le strutture sono molto meno affollate rispetto alle carceri tradizionali, ospitando di solito meno detenuti di quanti ne sarebbero previsti, ma non sempre lo svolgimento delle attività lavorative è semplice, soprattutto per una cronica mancanza di fondi, nonché di personale carcerario. Le colonie agricole tuttora aperte attraversano per lo più una fase complessa, in cui sembrano proseguire le proprie attività in forma ridotta e sulla base di una difficile evoluzione da consuetudini del passato. Le tre sedi sarde attualmente sono tutte senza un direttore dedicato, fra la fine di ottobre e l’inizio di novembre sono attese nuove nomine che potrebbero interessarle. Negli ultimi decenni sono andate incontro a una riduzione delle strutture utilizzate, dei progetti, della presenza di personale stanziale. Una parziale eccezione è proprio il carcere di Gorgona: fu aperto nel 1868, oggi i detenuti sono circa novanta e le sue attività sono state profondamente rinnovate nel 2020. Fino a quella data i suoi detenuti erano occupati soprattutto nell’allevamento e nel macello di animali, poi anche su richiesta degli stessi detenuti è stato abbandonato quel lavoro, che ha una componente violenta, e sostituito da orticoltura, cura di una vigna, agricoltura. Da febbraio del 2023 alle attività proposte si è aggiunta anche quella di “guida turistica” per gli escursionisti che prenotano una visita giornaliera sull’isola (una volta la settimana, con al massimo 100 presenze al giorno). A Gorgona i problemi principali riguardano il reperimento di fondi necessari per svolgere le attività lavorative e le comunicazioni talvolta interrotte con la Toscana (il porto più vicino è Livorno). Negli ultimi anni in alcune occasioni la spedizione di posta e pacchi è stata bloccata anche per periodi superiori a un mese. Tutto l’arcipelago toscano è stato in passato ad alta concentrazione di carceri e colonie penali e le due maggiori erano a Pianosa e Capraia. Capraia fu chiusa nel 1986, Pianosa una prima volta nel 1998 e poi definitivamente nel 2011. L’idea delle colonie penali era stata molto popolare a inizio secolo, il regime fascista l’aveva portata avanti con convinzione nell’ambito di una retorica sulla vocazione agraria del paese e sulla capacità di redenzione attraverso il lavoro fisico. Ma le colonie penali agricole divennero anche uno strumento utile, perché da una parte isolavano in zone lontane e poco raggiungibili categorie di persone sgradite al regime, dall’altra permettevano di avere lavoratori non pagati per attuare ambiziose politiche di bonifica di aree rurali. Concepite anche come “esperimenti sociali”, erano spesso situate in zone insalubri e soggette alla malaria, con un tasso di mortalità fra gli ospiti molto alto, vicino anche al 10 per cento: durante il ventennio fascista si trasformarono in luoghi di deportazione. Già a partire dal Dopoguerra la maggior parte delle colonie penali divennero istituzioni antieconomiche in continua perdita, anche per il forte peso dei necessari trasporti marittimi. Era inoltre difficile garantire i rapporti con i familiari e trovare personale disposto a isolarsi quasi quanto i detenuti. Alcune delle isole vennero utilizzate come carceri di massima sicurezza nei cosiddetti “anni di piombo” e poi negli anni Novanta in seguito agli attentati di mafia. Ma in generale l’evoluzione del concetto di carcere e di pena riabilitativa (per quanto lenta), rendeva questo genere di strutture superato. Alcune delle isole su cui sorgevano le carceri erano inoltre possibili destinazioni turistiche di un certo valore (è il caso di Capraia e Pianosa), cosa che favorì la riconversione. A Pianosa dai locali che un tempo erano destinati all’abitazione del direttore del carcere è stato ricavato un piccolo albergo da una dozzina di camere, gestito da una cooperativa di volontari e da detenuti in regime di semilibertà del carcere di Porto Azzurro, sull’isola d’Elba. È invece al momento per lo più abbandonato il piccolo villaggio che sorge all’interno dei 2.700 ettari in zona montana della Casa di reclusione Onanì-Mamone. Fino agli anni Ottanta ci vivevano le famiglie del personale carcerario, c’era un asilo, un ufficio postale, una chiesa con un parroco, oggi i dipendenti vivono altrove, a Mamone restano circa 130 detenuti, che si occupano dei giardini, degli orti, di un allevamento e di una stalla. Si producono formaggi, miele e olio, mentre per questioni di fondi e competenze è stata interrotta la vinificazione. La struttura di Is Arenas ha dimensioni simili, è altrettanto isolata e sorge in una zona in passato dedicata all’estrazione mineraria. Ospita 170 detenuti, per lo più stranieri, che si occupano di un caseificio e di alcuni campi. Isili, la terza struttura sarda, è un po’ più piccola e i suoi circa 700 ettari comprendevano fino agli anni Sessanta un paese, mentre attualmente molti locali sono utilizzati per fare i formaggi e i salami. Come fa notare l’associazione Antigone, che lo ha visitato questa estate, il carcere di Isili è l’unica colonia agricola strutturata per ospitare una categoria particolare di detenuti, i cosiddetti “internati” o “delinquenti abituali, professionali o per tendenza”. Si tratta di persone che hanno violato misure di libertà vigilata o nella maggior parte dei casi hanno finito di scontare la propria pena, ma vengono ritenute socialmente pericolose. Il tribunale può decidere per loro “misure di sicurezza” e inviarle in case di lavoro o colonie agricole, per un periodo di tempo definito, ma che viene spesso prorogato. Sono spesso persone che non hanno una rete familiare o affettiva di sostegno all’esterno e in molti casi presentano disturbi psichici, che a volte paradossalmente li rendono formalmente inabili a lavorare. A Isili gli internati sono 28 e i detenuti 57, si dividono le stesse strutture e hanno celle e sistemazioni simili. Gli internati sono figure giuridiche introdotte dal codice fascista del 1930 e a febbraio 2022 in Italia erano 280: sono una delle contraddizioni più visibili delle colonie agricole. Anche queste ultime oggi paiono più vicine a eredità del passato che a sperimentazioni di modalità di detenzione alternative. Intercettazioni, Forza Italia è divisa e nervosa sul tema. E, intanto, Antonio Tajani fa retromarcia di Paolo Pandolfini Il Riformista, 18 settembre 2023 La spaccatura fra il garantismo degli azzurri e le spinte giustizialiste di FdI e Lega è quanto mai evidente. “Purtroppo si confermano i sospetti: Giorgia Meloni non vuole andare contro i magistrati e ha timore di finire sotto il tiro dei giornali pro pm”, dice a microfoni spenti un parlamentare azzurro. Il decreto antimafia nella parte relativa alle intercettazioni è “incostituzionale” e annichilisce le “garanzie” della difesa. C’è molto nervosismo fra i parlamentari di Forza Italia ai quali non è andato giù questa settimana l’aver dovuto ritirare gli emendamenti al decreto legge 105 dello scorso 10 agosto, fortemente voluto dai procuratori, ad iniziare dal capo dell’antimafia Giovanni Melillo, che aveva reso più facile le procedure per effettuare le intercettazioni. Gli emendamenti erano stati ritenuti da Palazzo Chigi “non coerenti con la volontà dell’esecutivo”. I forzisti avrebbero voluto mettere un argine alle nuove disposizioni in tema di intercettazioni. Il decreto, infatti, prevede i “sufficienti indizi” per autorizzare gli ascolti invece dell’originaria formula dei “gravi indizi”. Una norma, peraltro, che si applica ai procedimenti già in corso. Nello specifico il nuovo regime tocca le attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti, il sequestro di persona a scopo di estorsione, i delitti commessi con finalità di terrorismo o avvalendosi delle condizioni tipiche della mafia previste dall’articolo 416bis del codice penale o al fine di agevolare l’attività delle associazioni mafiose. Di fatto si possono effettuare intercettazioni anche per reati ‘comuni’ purché siano stati commessi con il metodo mafioso, una fattispecie quest’ultima dai confini quanto mai dilatati dalla giurisprudenza nell’ultimo periodo. La disposizione poi estende ancora di più l’utilizzo del trojan, il virus spia che trasforma il telefono in un microfono sempre acceso e che può essere impiegato per i reati di mafia e terrorismo e per quelli contro la Pubblica amministrazione. Il trojan era stato anche oggetto di un approfondimento in queste settimane in Commissione giustizia al Senato per la sua estrema invadenza nella sfera privata delle persone, anche non direttamente coinvolte nelle indagini. Tommaso Calderone, capo gruppo di Forza Italia in Commissione giustizia alla Camera, unitamente al vice presidente della stessa Pietro Pittalis, hanno chiesto sul punto un incontro con il ministro Carlo Nordio - da tenersi già all’inizio della prossima settimana - per capire dove sta andando il governo in materia di giustizia. La spaccatura fra il garantismo degli azzurri e le spinte giustizialiste di FdI e Lega è quanto mai evidente. Il trojan, come ricordato anche da Enrico Costa (Azione), dovrebbe tornare ad essere utilizzato solo per i reati gravi, quelli di mafia e terrorismo, e non appunto per i reati contro la pubblica amministrazione, come volle l’allora ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. “Purtroppo si confermano i sospetti: Giorgia Meloni non vuole andare contro i magistrati e ha timore di finire sotto il tiro dei giornali pro pm”, dice a microfoni spenti un parlamentare di Forza Italia, evidenziando le contraddizioni di Nordio che sul tema delle intercettazioni ha sempre auspicato una stretta. “Con le nuove norme si è inteso ampliare il novero delle fattispecie che confluiscono nel ‘doppio binario’ e per le quali è consentito il massiccio ricorso alle intercettazioni, anche attraverso il captatore informatico, in presenza di indizi (solo) sufficienti di reato”, avevano fatto sapere gli avvocati dell’Unione delle camere penali. “Il governo - avevano aggiunto - ha scardinato l’insieme dei limiti alla compressione del diritto alla segretezza e inviolabilità delle comunicazioni prevedendo, secondo il dettato normativo, una qualche rigidità dei presupposti e un freno all’utilizzo delle intercettazioni in procedimento diverso da quello nel quale sono state predisposte” e così “realizzando i desiderata di alcune Procure oramai aduse a fondare quasi esclusivamente sulle intercettazioni l’impianto probatorio a sostegno dell’azione penale”. Per i penalisti, insomma, “il Dicastero guidato da Nordio fa oramai sistematicamente seguire alle condivisibili dichiarazioni garantiste del Ministro, disegni, atti e proposte che vanno in altra direzione. L’avvocatura penale saprà individuare le forme più adeguate per dar voce alla protesta e richiamare alla coerenza con gli impegni assunti tutti gli attori istituzionali”. Terni. Si uccide in cella a 28 anni dopo una rissa con altri detenuti, la procura apre un fascicolo di Nicoletta Gigli Il Messaggero, 18 settembre 2023 Il Garante dei detenuti: “Violati i diritti umani, indaghino le procure”. Un detenuto marocchino di 28 anni, in cella per rapina, si è impiccato mentre aspettava di essere trasferito nel penitenziario di Perugia dopo una rissa con altri tre connazionali. La tragedia sabato alle 23, dopo una serata di fuoco per la rissa andata in scena nel padiglione della media sicurezza. I poliziotti della penitenziaria, col suppore del personale rientrato dal servizio, erano riusciti a riportare la calma. Una calma apparente perché poco dopo il 28enne, che in isolamento aspettava il trasferimento a Capanne, ha preso un indumento personale e si è impiccato alla grata. Il corpo senza vita del detenuto marocchino è a diposizione del pm, Barbara Mazzullo, che ha aperto un’inchiesta. Sulla vicenda la denuncia e lo sdegno del Sappe con il segretario dell’Umbria Fabrizio Bonino: “I colleghi sono stati aggrediti con schiaffi e pugni e gli sono state lanciate contro lanciandogli contro bombolette del gas e addirittura maglie insanguinate”. Mirko Manna, della Fp Cgil polizia penitenziaria nazionale sottolinea che “durante la rissa sono rimasti feriti una decina di poliziotti, intervenuti per separare i gruppi e un detenuto è riuscito a ferire ad un braccio con una lametta il vice comandante che era intervenuto subito per coordinare l’intervento dei poliziotti”. Dichiarato lo stato di agitazione per il carcere di Terni. Secondo Valentina Porfidi, segretaria generale di Terni della Fp Cgil “è indispensabile un cambio al vertice del penitenziario ternano”. Per Giuseppe Caforio, garante dei detenuti “il tempo dell’attesa è finito e non si può continuare a scaricare le gravi inadempienze del sistema carcerario sulla polizia penitenziaria ridotta all’osso e senza strumenti adeguati per affrontare queste situazioni. Queste morti - aggiunge Caforio - sono sulla coscienza di tanti e sono indegne per una comunità civile come quella umbra”. Il Garante dei detenuti si riserva di formalizzare un esposto dettagliato alle procure della Repubblica “per le gravi omissioni perpetrate nel sistema carcerario Umbria in violazione dei diritti umani come consacrati dalla Dichiarazione universale sui diritti dell’uomo”. Trani (Bat). Paziente psichiatrico incompatibile col carcere, ma per lui c’è posto solo lì di Alessandra De Filippis* L’Unità, 18 settembre 2023 La storia di Giuseppe, detenuto psichiatrico. Il Tribunale ne ha ordinato il trasferimento in una Rems o in una comunità per pazienti autori di reato. Troppo scomodo, è finito al centro di uno scaricabarile. Giuseppe Pepe è un detenuto psichiatrico. Tecnicamente non è neanche un detenuto, poiché dichiarato parzialmente incapace di intendere e di volere e incompatibile con il regime carcerario. Quindi è semplicemente un cittadino, fragile, del quale lo Stato si deve prendere cura, avendo commesso reati a causa della sua patologia. Per ordine del Tribunale dovrebbe stare, sin dal lontano 4 luglio, in una Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza (REMS), struttura presente in solo quattro città, ovvero, in attesa della REMS, in una Comunità Riabilitativa Assistenziale Psichiatrica (CRAP) dedicata a pazienti autori di reato. Purtroppo, trattandosi di un paziente psichiatrico, mesi fa aveva creato danni nella CRAP ove si trovava ed è stato classificato come “violento”. Perciò era stato trasferito nell’infermeria del Carcere di Bari, dal quale è stato trasferito a Trani, dopo essere arrivato a colluttazione con un infermiere. Come suo difensore mi sono subito interessata (agisco pensando sempre a cosa farei io, se ciò che vedo per lavoro capitasse a me…) per fare in modo che, in attesa della REMS, che ha tempi biblici di attesa, fosse trovata una CRAP. La triste realtà del rapporto inesistente tra aree sanitarie delle carceri e detenuti, per gli psichiatrici diventa un girone infernale, a seguito dei danni creati dal DPCM del 2008, che ha spostato la competenza delle aree sanitarie delle Carceri alle ASL, ove la burocrazia, già deleteria per la cura dei cittadini liberi, per i detenuti diventa “speriamo che vada tutto bene”, e per gli psichiatrici azzera ogni intervento. È iniziato un vero e proprio pingpong di competenze, per l’individuazione della CRAP, tra la medicina penitenziaria e il CSM di Bari, i cui uffici hanno semplicemente comunicato ai giudici che le strutture da loro richieste non hanno posto. Ho segnalato che non si stava eseguendo un ordine dell’Autorità Giudiziaria, e ho incontrato di persona i dirigenti di questi uffici, e Giuseppe è diventato un paziente ancora più scomodo, avendo un difensore che si impegna per scardinare l’assurda burocrazia che fa diventare le persone fragili e già private della libertà, niente altro che numeri statistici e pacchetti da trasferire. Hanno tutti ripetuto che Giuseppe è un violento, per giustificare la mancanza di posti nelle CRAP dedicate. Hanno scaricato le colpe alla Regione Puglia, finché la Regione non mi ha chiaramente spiegato che i posti nelle CRAP ci sono, ma che non è sua competenza individuarli. Il posto dipende dalla volontà di chi dirige le strutture, che decide di non accettare alcuni pazienti quando sono un po’ più problematici. In piena estate, quando tutti erano in ferie, Giuseppe è stato trasferito, letteralmente come un pacchetto, presso il Reparto Osservazione Psichiatrico (ROP) del Carcere di Lecce, dove, invece di essere curato, è semplicemente sedato. Ma Giuseppe, con tutte le sue difficoltà, anche mentali, non è completamente scemo, e quando capisce che lo vogliono sedare in modo massiccio, reagisce. E quando reagisce viene messo nella “stanza liscia” per punizione, con buona pace della legge che ha disposto la chiusura degli OPG, e la cura di Giuseppe diventa quasi un crimine contro l’umanità! Gli operatori dei ROP, poi, non hanno le stesse competenze degli operatori delle CRAP, e non è neanche giusto che Giuseppe sia tranquillizzato grazie alla buona volontà degli operatori del carcere e alla possibilità di fargli chiama re più spesso famiglia e difensore. La segnalazione fatta da me a Tribunale, DAP, medicina penitenziaria, CSM e Regione, in cui ho evidenziato che tutto ciò non sia nient’altro che un caso di cura e di giustizia negate, non ha sortito alcun effetto. Segnalazione che ho così concluso: “Lo scrivente è tristemente consapevole che quanto finora denunciato potrebbe non sortire alcun effetto, e non garantire al Sig. Pepe le cure per lui necessarie, a causa della burocrazia che spesso rende inefficaci anche le più elementari aspettative dei cittadini, ma confida che quanto scritto resti agli atti nella denegata ipotesi che il Paziente possa peggiorare, fisicamente e psichicamente, a causa del mancato riconoscimento dei suoi diritti sanitari, peraltro confermati e garantiti dall’Autorità Giudiziaria”. Concludo con una amara domanda, forse senza risposta: che cosa farebbero coloro che sono preposti a garantire la cura di Giuseppe, se si trattasse di loro o di qualche loro parente, e, soprattutto, che cosa fareste voi lettori, se si trattasse di voi o di un vostro parente? *Avvocata Castrovillari. “Nessuno Tocchi Caino” e l’Osservatorio Carcere Ucpi fanno visita al carcere reportageonline.it, 18 settembre 2023 Il 20 settembre la visita nella Casa circondariale con una delegazione della Camera Penale, il pomeriggio una conferenza su “Carcere e tossicodipendenza”. Ascoltare la voce dei detenuti, verificare le loro condizioni di vita materiale, e soprattutto, infondere fiducia e speranza in chi rischia di prevalere sfiducia e disperazione, come testimonia il numero dei suicidi che anche in questo anno aumenta giorno dopo giorno. Sono gli obiettivi di fondo del “Viaggio della speranza - Visitare i carcerati” l’iniziativa promossa da Nessuno tocchi Caino in collaborazione con l’Osservatorio Carcere dell’UCPI e le Camere Penali territoriali che mercoledì 20 settembre farà tappa nella città di Castrovillari con un doppio appuntamento. Al mattino, a partire dalle ore 10:00, una delegazione dell’associazione insieme ai rappresentanti della Camera Penale di Castrovillari, farà visita alla Casa Circondariale “Rosetta Sisca” della città del Pollino, secondo le autorizzazioni del Capo DAP ai sensi dell’art. 117 del DPR 30 giugno 2000, n. 230. Un tour che sta attraversando tutta la penisola e che dal 19 al 30 settembre farà tappa in tutti gli istituti di pena della Calabria. Un’attività - scrivono dal sodalizio Nessuno tocchi caino - che “ non è solo un’opera di misericordia” verso i carcerati ma una attenzione verso tutta la comunità penitenziaria “che ci sta a cuore, non solo i detenuti ma anche - come diceva Marco Pannella - i “detenenti”, tutti gli operatori penitenziari che in carcere lavorano e soffrono altrettanto per le condizioni strutturali a dir poco difficili”. Nel pomeriggio presso l’Aula Magna dell’Ordine degli Avvocati alle ore 16:00 una conferenza sul tema “Carcere e tossicodipendenza: la pena diventa doppia” coinvolgerà la presidente nazionale di Nessuno Tocchi Caino, Rita Bernardini, insieme a tanti altri protagonisti del mondo delle istituzioni detentive, il garante dei detenuti della Calabria, esponenti del territorio e i vertici della Camera Penale “Eugenio Donadio” di Castrovillari, con il presidente Liborio Bellusci, la presidente dell’ordine degli Avvocati, Nicoletta Bauleo. Napoli. Liberato in concerto per la popolazione detenuta Ristretti Orizzonti, 18 settembre 2023 Il 19 settembre 2023 alle ore 11:00, presso il cortile esterno della Chiesa grande della C.C. “Giuseppe Salvia di Poggioreale”, nell’ambito dell’iniziativa “Degni di Nota” l’artista Liberato si esibirà in concerto per le persone recluse tossicodipendenti. L’accesso alla stampa è consentito dalle ore 10:30. Il concerto vuole portare alla luce la questione carceraria, soprattutto per chi è piegato dalla fragile condizione della dipendenza da sostanze che aggrava la già pesante esperienza che rappresenta la reclusione. Il giorno 19 settembre è stato selezionato dall’artista per il valore simbolico che questa data ricopre per la città di Napoli, la ricorrenza di San Gennaro è fortemente radicata nella cultura e tradizione napoletana, e per permettere di vivere quel giorno anche a chi, per diverse ragioni, non potrebbe altrimenti farlo. Il concerto si inserisce nell’iniziativa “Degni di Nota” che si concluderà il 21 settembre con un seminario presso la sala conferenze della C.C. di Poggioreale, con l’obiettivo di raccontare il modello organizzativo altamente innovativo che si è riusciti a costruire all’interno della casa circondariale, garantendo ai detenuti tossicodipendenti le stesse prestazioni offerte ai cittadini liberi: sia in termini di assistenza sanitaria (medico infermieristica e psico sociale) che di attività socioriabilitative (laboratori di lettura, mediazione familiare, mind fullness, artigianato, attività sportive, etc) nonché interventi di accompagnamento alla fruizione di Misure Alternative. Comunicato della Casa Circondariale di Napoli Poggioreale “Giuseppe Salvia” Benedetta Tobagi, vincitrice del Campiello: “Un premio per tutte le donne che resistono” di Raffaella De Santis La Repubblica, 18 settembre 2023 Un riconoscimento a un libro che racconta la lotta di liberazione dal fascismo: “Lo dedico alle ragazze di Teheran ma in generale a tutte quelle che non si sono mai girate dall’altra parte”. Il giorno dopo la vittoria del Campiello, Benedetta Tobagi ci racconta al telefono di essere “stupitissima”. Felice per la vittoria del suo La Resistenza delle donne (Einaudi), libro corale che racconta un pezzo importante della nostra storia democratica attraverso protagoniste forti come Tina Anselmi, Ada Gobetti o Gina Negrini. “Con questo governo, il premio mi sembra un bel segnale”. Lo ha dedicato alla memoria delle donne che non si sono girate dall’altra parte... “E che non si girano. Le donne devono ancora lottare per far sentire la propria voce. Siamo a un anno dalle rivolte in Iran, tra le resistenti di oggi ci sono tutte le donne che si sono mobilitate per Mahsa Amini”. Nelle piazze di Teheran cantavano “Bella ciao”... “Per quanto sia diventata una canzone pop, inserita perfino nella Casa di carta, rimane un canto di lotta. Senta questa. Sono arrivata a Venezia il giorno prima della finale, camminavo di fretta e in Piazza San Marco, davanti a uno dei bar storici, stavano suonando Bella ciao. Ho pensato: è un segno! (ride, ndr)”. Lei indica come spartiacque l’8 settembre... “È un grande momento collettivo in cui le donne entrano in scena, nel solco di un maternage di massa, come ha scritto Anna Bravo, una delle “antenate” a cui ho dedicato il libro. Le donne accolgono, aiutano, nutrono gli uomini, dando loro la possibilità di unirsi alle bande partigiane. Li liberano delle divise e li restituiscono agli abiti civili. Riescono a trasformare i propri gesti quotidiani in un atto politico. Appartengono a tutte le classi sociali: donne ribelli e anticonvenzionali, più o meno istruite, anche suore. Le suore avevano in mano le carceri femminili e molti ospedali. Dall’interno del sistema hanno fatto cose prodigiose con un coraggio colossale. Ci sono sempre mille modi di non girarsi dall’altra parte”. Mille modi di rompere gli stereotipi che inchiodano la femminilità a un’idea falsa di passività? “Quello che accade con la Resistenza è grandioso, perché le donne, da sempre considerate invisibili, si servono di questa loro invisibilità e la usano come maschera per fare fessi i nazifascisti. Mettono in scena un teatro, sono forti, consapevoli di sé”. “L’anello forte” è un titolo di Nuto Revelli... “Un libro seminale che mostra la forza femminile delle donne delle campagne, donne che reggevano famiglie intere e che sono state affluenti potenti per alimentare la Resistenza nel ‘43. Un’immagine femminile vigorosa, completamente diversa da quella veicolata dal fascismo”. Scelga due storie alle quali è particolarmente affezionata. “Quella di Gina Negrini, una donna di origini umilissime che diventa partigiana e che dopo la guerra scivola in un rapporto tossico che la distrugge. Gina riuscirà poi a rinascere attraverso la scrittura, nonostante non abbia studiato. Sono affezionata anche a Cleonice Tomassetti, che dopo aver subito un abuso in famiglia entra nella Resistenza grazie a un grande amore, diventando un’icona. Il suo sguardo, nella foto bellissima che pubblico, mi è sembrato un messaggio a tutte le donne: non fatevi schiacciare. A proposito, ringrazio Barbara Berruti per l’aiuto nelle ricerche iconografiche”. Il libro è stato votato da una giuria di 300 lettori, se lo aspettava? “Mi hanno emozionata. Abbiamo al governo l’estrema destra ma evidentemente sono molte le persone mosse da altri valori. Ed è importante che siamo arrivate testa a testa io e Silvia Ballestra, autrice di un libro su Joyce Lussu”. Si potrebbe obiettare che questa è la bolla della cultura... “Non è così, può sembrare così perché è più facile amplificare le voci di pancia, rabbiose”. Il fatto che abbia vinto una narrazione basata su fatti storici è un altro indicatore? “I lettori probabilmente sono stufi di questa continua invenzione dei fatti e alterazione della storia. L’antifascismo e la Resistenza sono profondamente sotto attacco attraverso un lavoro di decostruzione e delegittimazione. Ma credo che questo accada perché la radice democratica viene percepita come pulsante e viva”. Si attacca ciò che si teme? “Certo, anche se al momento l’onda di destra fa più rumore. I rigurgiti della destra vanno presi sul serio ma non bisogna essere catastrofisti. Non mettiamoci sulla scia di qualcosa che viene gonfiato sui social e dallo strapotere mediatico nella tv pubblica. Le memorie dell’antifascismo e la Costituzione non possono essere trascurate, sono l’architrave della nostra società”. Guardare al futuro rimane la molla del progressismo? “C’è una frase di Rebecca Solnit che trovo bellissima: “Non ce ne facciamo niente della speranza quando tutto va bene. La speranza non è la stessa cosa della felicità, della fiducia o della pace interiore: è un impegno a cercare opportunità”“. Come ha festeggiato? “Sono stata fino a tardi con mio marito in una piazza San Marco deserta, è stato bellissimo. E stasera (domenica, ndr) siamo in scena ad Arco al festival Intermittenze”. Benedetta Tobagi, vincitrice del Campiello: “Le storie delle partigiane parlano ancora alle donne di oggi” di Jessica Chia Corriere della Sera, 18 settembre 2023 Sta in piedi, disarmata; indossa una gonna. Lo sguardo è severo, potente. Insieme a lei ci sono altre donne, due delle quali, gonna al ginocchio, sono armate: munizioni intorno al collo e armi sulle spalle. Le due donne al centro della copertina de La Resistenza delle donne (Einaudi), il saggio con cui la storica e scrittrice Benedetta Tobagi ha vinto lo scorso 16 settembre il Campiello 2023(con 90 voti della Giuria popolare) sono le sorelle partigiane Lina e Liliana Cecchi, pistoiesi, che immortalate in questa fotografia del 1944 testimoniano un’”altra” storia. “È una foto densa di storia e di significati - dice Tobagi a La 27ora, raggiunta al telefono in occasione della vittoria della 61ª edizione del premio letterario - e l’ho scelta perché rappresenta donne armate e disarmate insieme. E la donna in primo piano, disarmata, emana un’autorevolezza e un carisma palpabili, che bucano la fotografia e colgono qualcosa di grande di questa storia. Ci fu un grande dibattito tra le donne partigiane, se prendere le armi o meno, e per molte è stata una scelta etica. Che poi ha alimentato, durante la Costituente, il varo dell’Articolo 11: “L’Italia ripudia la guerra”. La partigiana e politica Teresa Mattei (1921-2013, ndr), la più giovane eletta all’Assemblea Costituente a 25 anni, disse che quando si votò l’Articolo 11 tutte le elette si presero per mano”. Perché è importante la vittoria di un premio come il Campiello per questo libro? “Il fatto che il premio sia stato votato da una giuria popolare, scelto a breve distanza da La Sibilla. Vita di Joyce Lussu (Laterza) diSilvia Ballestra, la storia di un’altra partigiana, femminista e attivista per l’ambiente, mi è sembrato, oggi, un segnale di speranza. Mi ha toccato come le parole di queste donne risuonassero attuali, così come quello che hanno incarnato, cioè essere le sole vere volontarie della guerra di Liberazione, mentre la società si aspettava da loro che rimanessero a casa. Invece sono donne che si sono fatte trovare quando la storia ha bussato, dicendo: “Abbiamo fatto solo quello che c’era da fare”. E si sono spese per contrastare l’orrore che avevano davanti, incarnando tanti modi diversi di combattere: con le armi e senza. Queste sono due cose che parlano al presente”. In che modo? “Vediamo ogni giorno cose feroci e orribili che accadono intorno a noi. E spesso rispondiamo con atteggiamenti di chiusura; vengono respinte le persone che stanno bussando alle nostre frontiere per cercare una speranza di futuro. E, per quanto riguarda le donne, vediamo che ancora siamo alle prese coni veleni di una cultura patriarcalee di una sopraffazione che alimenta laviolenza di genere. Davanti a tutto questo, ho sentito che c’era una grandezza nel messaggio della Resistenza delle donne che continua su tanti fronti. Questo premio è quasi coinciso con l’anniversario dell’inizio delle rivolte in Iran e conla morte di Mahsa Amini. E sono tante le forme di resistenza femminile, appunto, che spesso partono dalla dimensione privata per poi diventare una lotta di resistenza collettiva”. I più giovani porteranno avanti questa memoria? “Io lavoro molto con le scuole superiori, e devo dire che questo libro parla ai ragazzi e non solo alle ragazze, li fa sentire interrogati e in effetti è un libro che parte con delle domande molto radicali su chi sei, chi vuoi essere, quale parte vuoi avere nel mondo. Tutti i ragazzi sono alle prese con le grandi domande e le grandi paure, tante volte con ansia per il futuro ma anche con un grande desiderio di fare e trovare dei riferimenti”. Le testimoni in vita oggi sono sempre meno. Lei come ha lavorato? “Ho lavorato su storie di vita, autobiografie narrate, testimonianze raccolte a partire dagli anni Settanta e tutta la memorialistica perché questo ti dà la stratificazione nel tempo del racconto, dopo un lunghissimo silenzio da parte di quelle testimoni. Nel libro io ho voluto dare respiro alle studiose che hanno riportato questa pagina di storia alla luce. Oggi si è un po’ perso il senso di quanto la ricerca può trasformare le cose e aprire degli orizzonti. Per le ex partigiane, l’incontro con le studiose le ha aiutate a guardare alla loro esperienza con occhi diversi, di capire più profondamente le questioni femminili. È un movimento in due direzioni”. Un nome, una foto, una storia che l’hanno colpita di più nella sua ricerca? “La prima immagine che mi è venuta in mente sabato sera è una foto della partigiana Gina Negrini (1925-2014, ndr) seduta a una scrivania con occhi luminosi, sorriso ironico, penna in mano: era stata una partigiana - nome di battaglia Tito - di origini umilissime. Dopo la guerra, lei finisce in un matrimonio tossico con un uomo che la umilia. È una donna che ha dato prova di colossale coraggio, spirito di iniziativa, ma ha molte ferite che la portano nel buco nero di una relazione malata. Però ha un istinto di sopravvivenza e sente che non vuole che muoia con lei la ragazza che era stata e che aveva fatto la Resistenza; allora capisce che per salvarla deve scrivere la sua storia: nasce Sole nero, in cui, oltre alla Resistenza, parla di un abuso subito quando era una ragazzina. È in questo modo che torna alla vita. Il tema di trovare la voce e farla sentire nello spazio pubblico è cruciale, è uno dei fili rossi attorno a cui ho costruito il libro. È un tema pubblico, le donne che non avevano voce in capitolo, non avevano diritti civili, non erano neppure cittadine. Durante la Resistenza, le donne prendono la parola, fanno riunioni, si aiutano a vicenda a istruirsi alla politica. È la consacrazione delle donne nello spazio pubblico. Anche il mio primo libro è stato autobiografico, e questo mi ha permesso di riprendere le fila della mia storia, ho raccontato di mio padre, della sua vita e della sua morte. Attraverso la scrittura ho trovato un modo di venire veramente al mondo”. Chi sono le “partigiane moderne”, le donne che lottano, che fanno sentire la propria voce oggi? “Nella Resistenza ‘43-45 le donne hanno avuto anche una dimensione di riscatto e liberazione personale e di prima messa in discussione del sistema patriarcale. Oggi nel mondo vediamo luoghi di colossale oppressione, come il già citato Iran, l’Afghanistan, le donne combattenti dell’esercito curdo. Ora vediamo che il femminile è il motore della ribellione e della rivoluzione perché la situazione femminile è una cartina di tornasole: innesca, quando c’è grande sopraffazione, e limitazione dei diritti, una ribellione che poi si estende a tutta la società. Tutte le persone che lottano per arrivare a una reale parità che eroda il sistema patriarcale, stanno continuando quella Resistenza che ha avuto una grandissima dimensione di prefigurazione del futuro”. Queste donne ci hanno lasciato in eredità anche il senso della parola “libertà”. Lei come l’ha fatta sua, dopo la stesura di questo libro? “Una delle cose più potenti che mi è rimasta è il senso di questa grande speranza, un ottimismo della volontà come scelta, come assunzione di responsabilità di voler contribuire a costruire il futuro, anche quando le circostanze sembrano ostili e difficili. Mi rimangono le parole di una lettera di Carla Capponi (1918-2000, ndr) rivolte a una giovane ragazza, a cui disse di non farsi ingannare dall’eccezionalità delle circostanze, perché ciascuno di noi è poi chiamato alle scelte nel proprio contesto, nella propria vita. Serve un po’ di coraggio, di cuore, e non bisogna voltarsi dall’altra parte. Poi Carla Capponi dice: “Credimi, eravamo tante”. Noi sappiamo che quelle partigiane erano pochissime rispetto alla massa della popolazione (oltre 70mila aderenti ai gruppi di difesa, e circa 35mila le partigiane combattenti). Allora ho pensato: si può essere tanti anche quando siamo pochi perché l’essere solidali amplifica la potenza, la capacità di incidere nelle cose. E quindi, di cambiarle”. Sì, Norimberga svelò l’orrore al mondo intero. Ma in quell’aula fu umiliato anche il diritto di Domenico Tomassetti Il Dubbio, 18 settembre 2023 La storia del processo ai gerarchi nazisti racchiude in sé tutto quello che può essere un processo, ma anche tutto quello che non deve essere: “Una giurisdizione dei vincitori che si ergono a giudici dei vinti”. Avvocato e scrittore, Domenico Tomassetti è il vincitore della prima edizione del “Premio Letteratura per la Giustizia” - il concorso promosso da Dubbio, Cnf e Fai - con il romanzo “Una vita come la tua”, pubblicato da Bertoni Editore. Liberamente ispirato a fatti di cronaca giudiziaria, il libro offre uno spaccato della professione forense vista dal suo interno e da chi, ogni faticoso giorno, cerca di sopravvivere al mondo della (in)giustizia. Ma soprattutto è il racconto del rapporto tra un padre con suo figlio. Andrea Armati ne è il protagonista, che continua a “vivere” e scrivere sulle pagine del Dubbio. “Che vai a fare a Norimberga? “, mi chiede mio figlio Marco che sta facendo un periodo di studio all’Università di Colonia. È partito a maggio, faceva caldo. Sono andato a trovarlo con la macchina piena della sua roba invernale. Ed ora, scarico, riparto per l’Italia. “Vado a vedere l’Aula 600, quella del Processo” “Perché?” Non so rispondergli. Spero di trovare la risposta in viaggio. In verità una risposta semplice ci sarebbe. Sono solo. Che torno a fare a Roma, prima della riapertura dello studio? Ma non voglio ammetterlo, nemmeno con me stesso. Non ero mai stato a Norimberga prima. Il navigatore mi porta facilmente in Furtherstrasse. Parcheggio ed entro nell’edificio storico della Corte di Appello. Mentre pago il biglietto e mi consegnano l’audioguida, penso che non sarei dovuto venire. Ho paura della spettacolarizzazione, provo disagio come se fossi venuto a spiare la Storia dal buco della serratura. Potevo leggere di più, studiare come ho sempre fatto, invece di venire fino a qui. Ma non è così, mi sbaglio. I tedeschi hanno fatto i conti con il loro passato e hanno allestito un memoriale sobrio e molto approfondito (anche se un po’ filoamericano) nel quale, attraverso una mostra fotografica commentata in 12 lingue, raccontano quello che è successo nel processo senza quasi mai indulgere in commenti. L’idea te la devi fare da solo, dopo. Ma è altro quello che elimina ogni timore di trovarsi difronte ad una vuota rappresentazione ad uso e consumo di turisti “guardoni”. Con una scelta orgogliosamente razionale, già negli anni ‘60 (quasi contemporaneamente ai primi processi di Fritz Bauer) hanno deciso che nell’aula si tornasse ad amministrare la Giustizia della nuova Repubblica Federale: in quel luogo, nel 1945, un popolo intero ha preso consapevolezza dell’orrore e, nello stesso luogo, cerca di superarlo attraverso il quotidiano esercizio democratico della giurisdizione. Però, quando entri e ti siedi sulle panche destinate al pubblico, il peso della Storia incombe. Non puoi non pensare che proprio lì sono stati processati alcuni dei responsabili della più grande tragedia del XX secolo. Berlino fu conquistata dai russi il 2 maggio 1945, il 9 maggio la Germania dichiarò la resa incondizionata. Hitler, Himmler e Goebbels erano morti. Alcuni gerarchi nazisti, tra i quali Eichmann, riuscirono a scappare grazie ad insospettabili complicità. Altri - tra i quali Goering, Ribbentrop, Speer - furono catturati. Altissime gerarchie militari - Donitz - si consegnarono spontaneamente agli Alleati. Non pensavano che sarebbero stati processati. Alcuni di loro temevano di essere giustiziati; altri, come il morfinomane Goering, erano convinti che gli americani gli avrebbero permesso di uscire silenziosamente di scena in cambio della rivelazione di chissà quali segreti. Probabilmente nessuno di loro sapeva che Stalin e Roosvelt, prima, e Truman, poi, non volevano esecuzioni sommarie, ma la celebrazione di un processo che mettesse a nudo le atrocità perpetrate dai nazisti e che, attraverso la divulgazione degli atti a mezzo stampa, le facesse conoscere al mondo intero. L’8 agosto 1945 americani, russi, inglesi e francesi - cioè i vincitori della guerra - sottoscrissero la Carta di Londra nella quale, per la prima volta nella Storia, la guerra di aggressione e la sua pianificazione venivano considerate un crimine, veniva definito il concetto di crimine contro l’umanità e si “organizzava” il Tribunale internazionale militare che avrebbe giudicato i criminali nazisti. La prima udienza si svolse a Berlino il 18 ottobre 1945, ma gli americani pretesero che il processo fosse trasferito a Norimberga: la città delle grandi adunate hitleriane, organizzate da Himmler e filmate da Leni Riefenstahl; ma soprattutto la città in cui furono promulgate le leggi razziali. Norimberga era stata quasi completamente rasa al suolo. Uno dei pochi palazzi ancora in piedi era la Corte di Appello di Furtherstrasse con annesso carcere in cui alloggiare gli imputati evitando quotidiani spostamenti e sempre possibili gesti autolesionistici. Qui - nella stessa Aula in cui, tra meno di un’ora, si discuterà un procedimento iscritto a ruolo nel 2023 - tra il 20 novembre 1945 e il 1° ottobre 1946 fu celebrato il Processo. Nel corso del dibattimento emersero prove inconfutabili sia della pianificazione della guerra, fin dalla presa del potere del nazionalsocialismo, sia soprattutto della Shoah. L’accusa si basò su documenti recuperati dagli americani, principalmente relazioni di servizio delle Einsatzgruppen, su rapporti del governo sovietico e di quello polacco relativi ai campi di sterminio e su testimonianze dirette dei sopravvissuti. Particolarmente sconvolgente furono le testimonianze sul trattamento riservato ai bambini ebrei a Birkenau. Una deportata ad Auschwitz dichiarò, piangendo, che i neonati di madri ebree venivano uccisi subito dopo essere venuti al mondo, mentre i bambini più grandi, ma non utili (o non più utili in quanto ammalati o sottonutriti) al lavoro, venivano gettati nei forni crematori, saltando il passaggio nelle camere a gas. “In nome di tutte le donne d’Europa divenute madri nei campi di concentramento, chiedo alle madri tedesche: dove sono adesso i nostri bambini?”, gridò la donna, guardando il banco degli imputati. In quel momento “gli imputati abbassarono la testa”. Al termine dell’udienza si udì l’avvocato di Donitz chiedere al suo assistito: “Ma è possibile che nessuno ne sapesse niente?”. Donitz non rispose, limitandosi a scuotere il capo, ma Jodl confermò: “Certo che qualcuno sapeva”. L’importanza storica del processo di Norimberga è talmente palese da essere innegabile. Nell’Aula 600 il mondo comprese che lo sterminio di sei milioni di ebrei fu, per usare le parole di Hannah Arendt, “un attentato alla diversità umana in quanto tale, cioè a una caratteristica della condizione umana senza la quale la stessa parola ‘umanità’ si svuoterebbe di ogni significato”. Eppure, sotto il profilo giuridico, i dubbi sulla correttezza del processo si fecero strada fin dalle sue prime battute. Principalmente due: sull’imparzialità dei giudici (i vincitori processavano i vinti) e sull’inesistenza di una previa norma che permettesse di individuare la responsabilità penale degli imputati (nullum crimen, nulla poena sine praevia lege poenali). La prima obiezione era rafforzata dalla indiscutibile circostanza che, tra i quattro giudici, sedevano un russo (nonostante la guerra fu scatenata in seguito alla sottoscrizione del patto Molotov-Ribbentrop di spartizione della Polonia, prontamente eseguito dall’Urss, dopo l’invasione nazista, con l’annessione di metà del territorio polacco) e un americano (a pochi mesi dalle bombe di Hiroshima e Nagasaki che, causando quasi 150 mila vittime tra la popolazione civile, configurano un crimine di guerra proprio secondo la definizione della coeva Carta di Londra). Kelsen, all’epoca del processo professore a Berkley, condannò “il fatto che il tribunale istituito dall’accordo fosse composto esclusivamente da rappresentanti degli Stati vittoriosi. Non solo i rappresentanti degli Stati vinti, ma anche - ciò che è più importante - rappresentanti degli Stati neutrali sono stati esclusi dall’ufficio Tra gli Stati, i cui rappresentanti erano i giudici e gli accusatori nel giudizio di Norimberga, ve ne era uno che aveva spartito con la Germania il bottino della guerra condotta contro la Polonia”. Persino un giudice del Collegio, il francese Donnedieu de Vabres, affermò che si trattava di “una giurisdizione dei vincitori che si ergono a giudici dei vinti”. Per superare la seconda obiezione, invece, si fece appello alla Carta di Londra, sottoscritta però l’8 agosto 1945, cioè dopo lo svolgimento dei fatti per cui si stava celebrando il processo. Ancora Kelsen, probabilmente con l’animo lacerato dalla complessità di una Storia che aveva vissuto in prima persona (ebreo austriaco, costretto ad abbandonare l’insegnamento presso l’Università di Colonia nel 1933), ammise che il diritto applicato al processo di Norimberga era stato positivizzato post factum e che l’accordo di Londra aveva senz’altro infranto il principio d’irretroattività, ma giustificò tale forzatura facendo riferimento all’entità degli atti criminali: “Nel caso in cui due postulati di giustizia sono in conflitto l’uno con l’altro, prevale il più alto; e il punire coloro i quali erano moralmente responsabili per il crimine internazionale della seconda guerra mondiale può certamente essere considerato come più importante che osservare la regola che si oppone alle leggi ex post facto”. Posizione certamente comprensibile, ma maggiormente condivisibile se, con i medesimi principi, si fossero processati tutti i criminali di guerra, non solo i vinti giudicati dai vincitori. Il processo si concluse con la condanna a morte di 12 imputati, tra i quali Goering, Jodl, e Ribbentrop. Furono condannati al carcere a vita Hess e altri due imputati; a pene minori Donitz (10 anni) e Speer (20 anni); tre furono invece assolti von Papen, Schacht e Fritzsche. Sono ancora seduto sulle panche dell’Aula 600 quando sento toccarmi sula spalla. Un usciere, in un inglese persino più scolastico del mio, mi chiede garbatamente di uscire: sta per cominciare l’udienza di un nuovo processo. Alzo gli occhi e vedo entrare gli avvocati che parlano con le parti. Dopo quasi trent’anni di professione sempre più mi sorprendo della fiducia accordata dagli uomini all’intervento dei tribunali. Non so se gli imputati del processo, che sta per cominciare, siano colpevoli o innocenti. Spero, in cuor mio, che trovino Giustizia, ma so che la verità che uscirà da quell’Aula, scritta in una sentenza, non sarà comunque null’altro che una verità giudiziaria: umana, controvertibile ed insoddisfacente. Delle colpe (morali e politiche) di chi fu processato, nella stessa Aula, quasi 80 anni fa sono invece certo. Perché è una verità storica, sulla cui base la Germania e il mondo intero hanno costruito un’idea di progresso civile e morale che ancora condividiamo. E sono consapevole che parte fondamentale delle prove, che quella verità hanno svelato, sono state raccolte nel processo del ‘45. Ma altrettanto sono certo che quello di Norimberga fu un processo ingiusto e parziale, inquinato da (più o meno elevate) finalità politiche. La storia del Processo di Norimberga racchiude in sé tutto quello che può essere, ma anche tutto quello che non deve essere un processo. Esco dalla Corte di Appello di Furtherstrasse. Fuori piove e sento freddo, per la prima volta in un’estate torrida anche a queste latitudini. Mi squilla il cellulare. “Adesso hai la risposta? Hai capito perché sei andato a vedere l’Aula 600?”, mi chiede mio figlio Marco. “Forse”, rispondo risalendo in macchina. Mentre mi allontano penso che ho fatto bene ad andare a vedere l’Aula 600 e sono contento che lì, ancora oggi, si coltivi la più scandalosa ed irriverente utopia del genere umano: amministrare la Giustizia nella consapevolezza che “alle altissime finalità del diritto fanno riscontro le sue limitate possibilità”. Andrea Armati Il processo Eichman e quel formidabile “reportage” di Hannah Arendt Il Dubbio, 18 settembre 2023 L’incipt del libro di Hannah Arendt, “La banalità del male”, dedicato al processo ad Eichmann. “Beth Hamishpath” - la Corte! Queste parole che l’usciere grida a voce spiegata ci fanno balzare in piedi giacché annunziano l’ingresso dei tre giudici: a capo scoperto, in toga nera, essi entrano infatti da una porta laterale per prendere posto in cima al palco eretto nell’aula. Ai due capi del lungo tavolo, che presto si coprirà di innumerevoli volumi e di oltre millecinquecento documenti, stanno gli stenografi. Subito sotto i giudici c’è il banco degli interpreti, la cui opera è necessaria per i dialoghi diretti tra l’imputato (o il suo difensore) e la Corte; per il resto, sia la difesa sia la maggior parte degli stranieri seguono il dibattimento, che si svolge in lingua ebraica, ascoltando con la cuffia la traduzione simultanea, che è ottima in francese, passabile in inglese, e veramente pessima e spesso incomprensibile in tedesco. (Data la scrupolosa correttezza con cui il processo è stato organizzato dal punto di vista tecnico, è un po’ strano che il nuovo Stato d’Israele, malgrado la sua alta percentuale di cittadini di origine tedesca, non sia riuscito a trovare una persona capace di tradurre bene in tedesco, unica lingua che l’imputato e il suo avvocato capiscono; poiché in Israele l’avversione per gli ebrei tedeschi non è più cosí forte come una volta, il piccolo mistero si può spiegare soltanto con la ben più antica e tuttora potente “vitamina P,” come gli israeliani chiamano quella sorta di protezionismo a cui ci si ispira nel selezionare i funzionari dell’apparato governativo e della burocrazia.) E sotto gli interpreti, una di fronte all’altro (sicché il pubblico vede gli interessati di profilo) notiamo la gabbia di vetro dell’imputato e il recinto dei testimoni. Infine, al gradino più basso, con le spalle rivolte all’uditorio, il Pubblico ministero con i suoi quattro assistenti, e l’avvocato difensore, che sarà fiancheggiato da un assistente soltanto durante le prime settimane. Per tutto il processo non ci sarà mai nulla di teatrale nel comportamento dei giudici. Entrano con passo disinvolto, ascoltano con serietà e attenzione, e i tratti del loro volto s’irrigidiscono per un senso naturale di pena al racconto di tante sofferenze; la loro impazienza, quando l’accusa cerca di prolungare all’infinito le udienze, è spontanea e dà un senso di sollievo; il loro atteggiamento verso la difesa è forse fin troppo corretto: si direbbe che non dimentichino mai che il dottor Servatius combatte “questa disperata battaglia quasi da solo e in un ambiente ostile”; i loro modi verso l’imputato sono sempre irreprensibili. Si vede subito che sono tre uomini buoni e onesti, sicché non fa meraviglia che nessuno di essi ceda a quella che pur dovrebbe essere la loro massima tentazione, in un ambiente simile: cioè, per quanto nati ed educati tutti e tre in Germania, attendere di volta in volta, prima di parlare, che le dichiarazioni dell’imputato e del suo difensore siano tradotte in ebraico. Moshe Landau, il presidente, non riesce quasi mai a frenarsi e ad aspettare che l’interprete abbia terminato, anzi spesso lo interrompe, correggendo e migliorando la traduzione, visibilmente lieto di potersi distrarre un po’ e di poter dimenticare per un istante la gravosità del suo compito. Qualche mese più tardi, durante l’interrogatorio di Eichmann, egli non esiterà ad usare la sua lingua materna, il tedesco, inducendo i colleghi a fare altrettanto: una prova - se di una prova ci fosse ancora bisogno - della sua notevole indipendenza di spirito, che gli permette di non curarsi dell’opinione pubblica israeliana. Fin dall’inizio non c’è dubbio che è il giudice Landau a dare il tono; ed è lui che fa di tutto perché l’irruente teatralità del Pubblico ministero non trasformi questo processo in una semplice messinscena. Se non sempre vi riesce, è soltanto perché il dibattimento si svolge su una specie di ribalta, davanti a un uditorio, e il grido magnifico dell’usciere, al principio di ogni udienza, fa quasi l’effetto di un sipario che si alzi. Chiunque sia stato a progettare quest’aula della modernissima Beth Ha’am, la Casa del Popolo (circondata ora da alti reticolati, sorvegliata dal tetto alle cantine da poliziotti armati fino ai denti, con una fila di baracche di legno nel cortile antistante, dove tutti coloro che entrano sono perquisiti da mani esperte), sicuramente aveva in mente un teatro, con tanto di orchestra e di loggione, di scena e proscenio e porte laterali per l’ingresso degli attori. Questa aula è certo una sede indovinata per il processo spettacolare che David Ben Gurion, Primo ministro d’Israele, già prevedeva quando decise di far rapire Eichmann in Argentina e di farlo portare a Gerusalemme perché il Tribunale distrettuale lo giudicasse per la parte avuta nella “soluzione del problema ebraico.” E Ben Gurion, giustamente chiamato “l’architetto dello Stato,” resta il regista invisibile del processo. Non assiste a nessuna seduta; nell’aula del tribunale parla per bocca del Procuratore generale, Gideon Hausner, il quale, rappresentando il governo, fa proprio del suo meglio per obbedirgli. E se per fortuna gli sforzi del sig. Hausner spesso non raggiungono il risultato voluto, la ragione è che il processo è presieduto da una persona che serve la giustizia con lo stesso zelo con cui egli serve lo Stato d’Israele. La giustizia vuole che l’imputato sia processato, difeso e giudicato, e che tutte le altre questioni, anche se più importanti (“come è potuto accadere?,” “perché è accaduto?,” “perché gli ebrei?,” “perché i tedeschi?,” “quale è stato il ruolo delle altre nazioni?,” “fino a che punto gli Alleati sono da considerarsi corresponsabili?,” “come hanno potuto i capi ebraici contribuire allo sterminio degli ebrei?,” “perché gli ebrei andavano a morte come agnelli al macello?”), siano lasciate da parte. La giustizia vuole che ci si occupi soltanto di Adolf Eichmann, figlio di Karl Adolf Eichmann, l’uomo rinchiuso nella gabbia di vetro costruita appositamente per proteggerlo: un uomo di mezza età, di statura media, magro, con un’incipiente calvizie, dentatura irregolare e occhi miopi, il quale per tutta la durata del processo se ne starà con lo scarno collo incurvato sul banco (neppure una volta si volgerà a guardare il pubblico) e disperatamente cercherà (riuscendovi quasi sempre) di non perdere l’autocontrollo, malgrado il tic nervoso che gli muove le labbra e che certo lo affligge da molto tempo. Qui si devono giudicare le sue azioni, non le sofferenze degli ebrei, non il popolo tedesco o l’umanità, e neppure l’antisemitismo e il razzismo. E la giustizia, anche se forse è un’”astrazione” per le persone della mentalità di Ben Gurion, si rivela molto più austera del potente Primo ministro. La regia di quest’ultimo, come il sig. Hausner non esita a dimostrare col suo comportamento, è un po’ facilona: permette che il Pubblico ministero conceda conferenze- stampa e interviste alla televisione durante il processo (il programma americano organizzato dalla Glickman Corporation è costantemente interrotto dalla réclame di prodotti - gli affari innanzitutto, come sempre) e si abbandoni anche a “sfoghi spontanei” nell’edifìcio stesso del tribunale (è qui che Hausner confida ai giornalisti di essere stufo d’interrogare Eichmann, il quale risponde sempre con menzogne); permette che l’occhio si soffermi spesso sul pubblico e che si metta in mostra una vanità eccessiva, la quale avrà il suo trionfo alla Casa Bianca, quando il Presidente degli Stati Uniti si congratulerà per il “lavoro ben fatto.” La giustizia non permette nulla di tutto questo: richiede isolamento, vuole più dolore che collera, prescrive che ci si astenga il più possibile dal mettersi in vista. Quando, poco dopo il processo, il giudice Landau visiterà l’America, attorno al suo viaggio non si farà tanta pubblicità, tranne che nei circoli ebraici per i quali quel viaggio verrà compiuto. Ed ora, per quanto schivi e compresi del loro dovere, i giudici erano lí, seduti alla loro cattedra, di fronte al pubblico come in un teatro. Il pubblico doveva rappresentare il mondo intero, ed effettivamente nelle prime settimane fu costituito in prevalenza da corrispondenti di quotidiani e riviste, accorsi a frotte a Gerusalemme dai quattro angoli della terra. Dovevano assistere a uno spettacolo non meno sensazionale del processo di Norimberga; solo che questa volta il tema centrale sarebbe stato “la tragedia del popolo ebraico nel suo complesso.” Se infatti ad Eichmann “contesteremo anche crimini contro non ebrei,” ciò avverrà non tanto perché li ha commessi, quanto “perché non facciamo distinzioni etniche.” Frase davvero singolare, in bocca a un Pubblico ministero, e questa frase, pronunziata nel discorso di apertura, si rivelò essenziale per capire tutta l’impostazione data dall’accusa al processo: ché il processo doveva basarsi su quello che gli ebrei avevano sofferto, non su quello che Eichmann aveva fatto. Distinguere tra le due cose, secondo Hausner, non aveva senso, perché “ci fu solo un uomo che si occupò quasi esclusivamente degli ebrei, che aveva il compito di distruggerli, che nell’edificio dell’iniquo regime non aveva altra funzione: e quest’uomo fu Adolf Eichmann.” Non era dunque logico esporre dinanzi alla Corte tutti i fatti, tutte le tragiche vicende degli ebrei (anche se naturalmente nessuno le aveva mai messe in dubbio) e poi isolare gli elementi che in un modo o nell’altro dimostravano l’esistenza di una connessione tra l’operato di Eichmann e ciò che era accaduto? Sempre secondo Hausner, il processo di Norimberga, dove gli imputati erano stati “giudicati per crimini contro cittadini di varie nazionalità,” aveva trascurato la tragedia del popolo ebraico per la semplice ragione che Eichmann non sedeva al banco degli imputati. Hausner riteneva veramente che a Norimberga ci si sarebbe occupati di più del destino degli ebrei se Eichmann fosse stato presente? È difficile crederlo. Come quasi tutti in Israele, cosí anche Hausner pensava che soltanto un tribunale ebraico potesse render giustizia agli ebrei, e che toccasse agli ebrei giudicare i loro nemici. Di qui il fatto che in Israele nessuno voleva sentir parlare di un tribunale internazionale, perché questo avrebbe giudicato Eichmann non per “crimini contro il popolo ebraico,” ma per “crimini contro l’umanità commessi sul corpo del popolo ebraico.” Di qui la strana vanteria: “Noi non facciamo distinzioni etniche,” vanteria che ci apparirà meno singolare se si pensa che in Israele la legge rabbinica regola la vita privata dei cittadini, col risultato che un ebreo non può sposare un non ebreo; i matrimoni contratti all’estero sono riconosciuti, ma i figli nati dai matrimoni misti sono, per legge, bastardi (i figli nati da genitori ebrei fuori del vincolo matrimoniale vengono legittimati), e se uno ha per caso una madre non ebrea, non può sposarsi e non ha diritto al funerale. Qualche spicciolo e aumenti di pena, così non si aiutano le Caivano d’Italia di Donatella Stasio La Stampa, 18 settembre 2023 L’approccio del governo è emergenziale e securitario, non basta a risolvere il problema. Bisogna riavvicinare le periferie, costruire un senso di appartenenza a una comunità di valori. In uno degli episodi di Mare fuori, la bella serie televisiva sui ragazzi reclusi nell’Istituto penale minorile (Ipm) di Napoli, Edoardo rischia di essere trasferito, per punizione, nel carcere per adulti di Poggioreale. Ormai è maggiorenne e, anche se per legge potrebbe restare nell’Ipm fino a 25 anni, il comandante e la direttrice vogliono chiederne al giudice il trasferimento per la sua ostinata refrattarietà al circuito minorile. Una decisione dolorosa: tutti sanno che a Poggioreale potrebbe essere ucciso dal clan nemico della sua famiglia, che gliel’ha giurata. Perciò Edoardo scappa, pur di non morire in quella galera. Dalla fiction alla realtà: Ciro ha 21 anni ed è recluso nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Non si capisce bene come sia finito fra gli adulti. Al magistrato di sorveglianza dice di non sapere che sarebbe potuto andare all’Ipm di Nisida, almeno fino a 25 anni, certo più “accogliente” ma anche più impegnativo per chi, invece, vuole farsi la galera e basta, meglio se inzeppata di mafia locale. A Santa Maria, Ciro si sente in famiglia, adulto tra gli adulti. Lì però si cementerà il suo legame con la camorra da cui non uscirà più. Fiction o realtà, quelle di Edoardo e di Ciro sono due storie emblematiche di che cosa può significare, per un ragazzo appena maggiorenne, essere trasferito nelle patrie galere degli adulti invece che stare in quelle per i minori. Anche di questo si occupa il “decreto Caivano” (non ancora pubblicato in Gazzetta), in una versione “bonificata”, su questo punto, ad opera del guardasigilli Carlo Nordio rispetto a quella, monstre, proposta e rilanciata dalle anime securitarie della maggioranza. Che avrebbero voluto, allo scoccare dei 18 anni di questi ragazzi e in modo automatico, il loro trasferimento “punitivo” nelle carceri “ordinarie”, senza alcuna valutazione né del direttore né del giudice. Nordio ha mediato per cancellare almeno quell’incivile automatismo, per subordinare il trasferimento a tre condizioni concorrenti (se il ragazzo compromette la sicurezza e l’ordine dell’istituto, impedisce l’attività degli altri, minaccia, usa violenza e intimidisce) e per consentirlo solo dopo i 21 anni. Quest’ultima modifica, però, non è passata, almeno non nel testo illustrato da Nordio in conferenza stampa. Il danno rimane, anche se limitato. La faciloneria con cui il trasferimento punitivo automatico a 18 anni era stato proposto è la conferma - se ce ne fosse bisogno, viste le altre misure del decreto Caivano e di altri decreti, passati e annunciati - dell’approccio emergenziale, securitario e demagogico alle situazioni complesse. Sono tantissime le periferie d’Italia in cui la Repubblica si è dissolta. Periferie urbane e culturali. Stupri e violenze sulle donne non abitano solo al Sud ma sono un fenomeno trasversale geograficamente, urbanisticamente e socialmente, che affonda le radici, fra l’altro, in una cultura patriarcale mai definitivamente estirpata e, anzi, in qualche modo giustificata dalle destre (si pensi all’ostentato ostruzionismo ideologico alla piena attuazione della sentenza della Consulta sul doppio cognome dei figli). Non esiste, quindi, un’emergenza Caivano. Esiste un rischio democratico sotto gli occhi di tutti, che è sbagliato ricondurre alla questione criminale o minorile o all’invasione dei migranti invece che al dissolvimento della Repubblica. Perciò le Caivano d’Italia non si aiutano con logiche congiunturali, squilli di tromba, aumenti di pena, e magari qualche spicciolo (meglio di niente, ma sempre spiccioli sono). Occorre un lungo e paziente lavoro di rammendo, per riavvicinare quelle periferie, urbanistiche e culturali, ai migliori valori della nostra Repubblica. Che non sono la “difesa di Dio”, della famiglia “tradizionale”, della galera per tutti, della Patria che respinge i migranti, ma quelli scritti nella Costituzione, uguaglianza, dignità, rispetto, solidarietà, pluralismo, istruzione, lavoro, salute. Ispirare l’azione di governo, in concreto, a questi principi consente di riempire il vuoto, di ritrovare fiducia e di costruire un senso di appartenenza, non a un partito politico, ma a una comunità di valori. È un lavoro di “cura”, anzitutto, parola che forse meglio di altre sintetizza il compito della Repubblica, con tutte le sue istituzioni, di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana” (articolo 3 della Costituzione) e quello di “riconoscere e garantire i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità” (articolo 2). Eppure, nel favoloso mondo - questo sì “al contrario” - della destra di governo, chi richiama i principi costituzionali viene tacciato di opposizione politica, come il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Spesso il governo Meloni rivendica di avere davanti a sé una prospettiva lunga, altri quattro anni, e poi ancora cinque, assicura la premier, convinta di vincere le prossime elezioni. Non solo: rivendica di essere un governo politico e omogeneo, al di là delle differenze (di cui si fa sfoggio solo alla vigilia di competizioni elettorali come le Europee del 2024). Ma se così è, se davvero abbiamo davanti una maggioranza politicamente coesa e duratura, allora è imperdonabile l’approccio emergenziale a ogni curva della nostra vita, l’incapacità di seminare oggi per raccogliere i frutti domani. Un lusso che i governi precedenti - al di là delle specifiche responsabilità - non potevano permettersi essendo governi “promiscui”, “tecnici”, “strani”, come sono stati definiti per descrivere le diverse anime che certo non hanno giovato né alla loro durata né alla coerenza delle riforme. Questa maggioranza invece non ha alibi. Se ha l’opportunità di governare a lungo, ha il dovere di seminare non misure spot ma strutturali, sempre nel rispetto della Costituzione. Eppure, continua a muoversi con il respiro corto, usando l’emergenza come moneta di scambio del consenso popolare, barricata nel suo recinto identitario. Dice molto l’enfatico discorso di Meloni, giovedì scorso a Budapest di fronte al suo amico Vicktor Orbàn, sulla “difesa di Dio” e della famiglia “tradizionale”, descritta ostinatamente, quasi provocatoriamente, in modo diverso dalla famiglia ormai riconosciuta dalla Costituzione e da chi ne è la viva voce, la Corte Costituzionale, di fatto inascoltata, quasi fosse un accidente, un fastidio da ignorare o zittire, non una fondamentale istituzione della Repubblica con cui si ha il dovere di collaborare lealmente per far progredire il Paese. A meno che la destra di governo non voglia emulare Orbàn, che si è messo sotto i piedi la Corte costituzionale, assumendone il controllo. Ma non vogliamo neanche pensare a una simile ipotesi. L’anno scorso, a Napoli, l’attuale Procuratore nazionale antimafia Giovanni Melillo, che per anni ha guidato la procura del capoluogo campano dove si è appena insediato Nicola Gratteri, disse che “siamo abituati a non considerare il peso devastante di cose ritenute normalmente lontane dalle questioni criminali, come l’urbanistica. Le scelte urbanistiche fatte a Napoli - spiegò - sono una delle cause più significative della questione criminale e della devianza giovanile”. Raccontò dei ragazzi di Secondigliano, una volta città orgogliosa e oggi area cittadina degradata e costretta al silenzio da un potente cartello mafioso: se a quelli che vanno a studiare o a lavorare nel centro di Napoli si chiede dove abitano, loro rispondono con una bugia, per evitare di essere discriminati. “Cosa c’è di più lontano di questo dalla promessa di uguaglianza scritta nel patto costituzionale?”, chiese Melillo. E a ragione, perché quella promessa - poterci trattare da uguali - può essere mantenuta solo se si ricostruisce il “clima” da cui è nata la Costituzione e sul quale scommisero i costituenti. Lo spiegò bene Giuliano Amato proprio ai ragazzi reclusi nell’Ipm di Nisida, che protestavano perché “non è vero che siamo tutti uguali”. Per costruire quel clima, non bisogna cavalcare né l’odio né la paura né l’esclusione ma coltivare il rispetto, anzitutto dei valori su cui è nata la Costituzione antifascista, non certo di quelli che una maggioranza politica, pur legittimamente eletta, vorrebbe arbitrariamente e surrettiziamente sostituire ad essi. Blitz a Napoli e a Caivano. “La bonifica” è propaganda. Servirà altro di Roberto Saviano Corriere della Sera, 18 settembre 2023 A Caivano, e precisamente in zona Parco Verde, le operazioni di polizia sono la prassi, non una risposta eccezionale di questo o di altri governi. La loro frequenza, insieme alle condizioni di degrado in cui versa il territorio, sono la dimostrazione che non è così - o meglio non solo così - che può cambiare il destino dei suoi abitanti. Ad azione corrisponde reazione. Due bambine sono vittime di stupro, il governo manda 400 militari a Parco Verde. Viene ucciso un giovane napoletano a Piazza Municipio, sui Quartieri Spagnoli si abbatte la scure del governo sotto forma di maxi retata. Maxi blitz, maxi retate: Napoli non ha bisogno di questo. O meglio, non ha bisogno solo di questo. Non è possibile andare avanti così. Territori ignorati per anni, richieste di aiuto, di sostegno economico da parte delle associazioni che sul territorio tengono ragazze e ragazzi letteralmente lontani dalla strada, che restano senza risposta, come se quel grido di allarme non fosse mai arrivato. Maxi blitz, maxi retate che, essendo annunciate, producono poco e nulla. Si parla di abbassare a 12 anni l’età in cui una persona che commette un reato possa essere imputabile. Una bestialità e chi le pronuncia non si rende nemmeno conto di quanto siano pericolose queste parole. Ora, come spesso faccio, vi chiedo di dedicare qualche minuto del vostro tempo per leggere gli esiti degli ultimi blitz avvenuti a Parco Verde, prima che il governo Meloni lo usasse come vetrina. Prima che Giorgia Meloni, l’ underdog che è stata anche ministra della Gioventù, senza aver mai speso una parola per i giovani di quella periferia devastata, decidesse che Parco Verde doveva diventare l’ennesimo teatro per l’ennesima azione clamorosa ed esemplare. E, sia chiaro, se questo governo specula sulla pelle di chi soffre, i governi che lo hanno preceduto, quelle stesse sofferenze le hanno ignorate: potremmo quindi dire che hanno fallito tutti. Il Mammut, associazione territoriale di Scampia, chiede da anni al Comune di Napoli un miglioramento del parco urbano (alberi che facciano ombra, giostrine, attrezzi ginnici, panchine). Sono esigenze reali dagli abitanti del quartiere, ma le richieste degli operatori e della cittadinanza cadono da sempre nel vuoto e qualunque briciola data ha il sapore della concessione e della beneficenza. Ma qui non serve beneficenza, non serve lo sguardo pietoso di chi osserva esseri umani meno fortunati. Serve impegno quotidiano, servono promesse che si fanno sostanza. Per darvi un’idea di quanto tutto ciò che accade ora sia solo una bolla destinata a sgonfiarsi e, in molti casi, pura e becera propaganda, paragonate voi stessi gli esiti dei sequestrati di operazioni di settimane o mesi fa a quelli del maxi blitz propagandato dal governo Meloni come il blitz del secolo, quello definitivo. - 23 marzo 2023, zona Parco Verde (Caivano), i carabinieri sequestrano 700 dosi di eroina e 350 dosi di cocaina. - 19 luglio 2023, zona Parco Verde (Caivano), i carabinieri arrestano 2 persone e sequestrano 185 grammi di cocaina, 3 panetti di hashish (278 gr), 630 gr. di eroina, 1.667 dosi di brown sugar (2 kg), 35 cartucce 9x21, 29 cartucce lugar 9x19, un passamontagna, una pistola a salve, un bilancino di precisione, diverso materiale per il confezionamento dello stupefacente. - 25 novembre 2022, zona Parco Verde (Caivano), i carabinieri scoprono 4 bunker. Al loro interno un chilo di cocaina, 20 panetti di hashish (4 kg), 50 proiettili calibro 7,65 e 57 calibro 9x21 millimetri. Durante il blitz è stato scoperto anche un laboratorio per il confezionamento della droga. - 5 settembre 2023, zona Parco Verde (Caivano), 400 tra carabinieri, poliziotti e finanzieri sequestrano 408 grammi di hashish, 375 grammi di marijuana e 28 grammi di cocaina. La montagna che ha partorito il topolino. E intanto tutto resta com’è, perché la disperazione è una risorsa. Sulla disperazione si costruisce la propaganda, lì la criminalità pesca le sue braccia. Quando si smette di essere disperati e funzionano scuole, sanità, mezzi di trasporto, stai dando strumenti, oltre a garantire diritti. Strumenti e diritti non fan gioco a nessuno. I maxi blitz, gli annunci di bonifica servono a pulire le coscienze di chi governa. A dare l’impressione che lo Stato non sia indifferente. Ma solo l’impressione... Il caporalato tra i vigneti del Friuli Venezia Giulia. Presto il primo processo di Lillo Montalto Monella rainews.it, 18 settembre 2023 Udienza per i quattro arrestati a febbraio dalla Guardia di Finanza di Gorizia, tre rumeni e un moldavo. Pagavano 6 euro al giorno ai lavoratori. “Lì dove non c’è buona accoglienza e emarginazione si costruiscono bacini in cui uomini, donne a volte anche minori vengono in realtà impiegati illegalmente con grave pericolo per la loro salute” Il caporalato è realtà anche in Friuli Venezia Giulia. Dove manodopera irregolare viene impiegata soprattutto nelle aziende vitivinicole per la produzione di vini di altissima qualità. A denunciarlo, Marco Omizzolo, sociologo Eurispes, a Udine per presentare il suo ultimo libro. “Nel Veneto è un fenomeno più stanziale, nel caso del Friuli Venezia Giulia le vittime tendono ad avere un progetto di via di fuga, ambiscono ad entrare in altre regioni o paesi, ma paradossale da vittime grave di grave sfruttamento necessariamente restano vincolate”. A giorni si terrà la prima udienza per i primi 4 arresti per caporalato in ambito agricolo nella storia della regione. Effettuati a febbraio dalla guardia di finanza di Gorizia. Tre rumeni e un moldavo, reclutavano nelle regioni più povere della Romania. 6 euro a giornata per lavorare alla potatura dei vigneti. Il capitano Antonino Ingrasciotta spiega perché le indagini nel settore sono così difficili. Non basta dimostrare lo sfruttamento: bisogna dimostrare anche che chi li sfrutta si approfitti di uno stato di bisogno. Per farlo, ci vogliono mesi di lavoro, telecamere infrarossi, intercettazioni, pedinamenti, incrocio dei dati delle posizioni lavorative. Enrico Sbriglia, presidente dell’Osservatorio regionale antimafia (Ora), indica che immigrazione clandestina e caporalato sono strettamente connesse, ma una risposta solo securitaria non basta: servono azioni di recupero nei confronti di queste persone. “Un elemento utile potrebbe essere la rete del lavoro agricolo di qualità, la certificazione di legalità delle aziende”, suggerisce Stefano Gobbo, Fai Cisl. Una seconda proposta arriva da Omizzolo. “Ci sono processi aperti, le amministrazioni, parti datoriali e sindacali si devono costituire parte civile nei processi - dice - e dare un segnale preciso, noi stiamo dalla parte del diritto e non dei violenti”. Immigrati, i limiti dell’azione dell’Unione europea di Enzo Moavero Milanesi Corriere della Sera, 18 settembre 2023 Se gli europarlamentari potessero presentare progetti di legge, come nei singoli Paesi, forse la situazione cambierebbe. In Europa, per l’ennesima volta, stiamo vedendo gli effetti di uno dei grandi, drammatici eventi della nostra epoca. Da almeno un decennio, su scala mondiale, è in rapido aumento il numero delle persone che lasciano i luoghi d’origine per sfuggire a guerre, regimi oppressivi e degrado climatico o comunque per cercare prospettive di vita migliore. Con riguardo al nostro continente, colpisce l’incapacità dell’Unione europea di trovare valide formule unitarie per fronteggiare l’emergenza. L’elenco delle vivaci polemiche e delle dichiarazioni è sterminato, mentre mancano i risultati. Una situazione grave che, a ben vedere, si rivela emblematica di un fallimento a più livelli sulle cui cause è opportuna una riflessione. I Trattati Ue sono molto chiari: impongono politiche comuni per immigrazione, asilo e controlli alle frontiere esterne, fondate sulla solidarietà, la ripartizione della responsabilità tra gli Stati membri e l’equità verso chi proviene da fuori Ue. Lo scopo è disciplinare gli arrivi, gestire l’immigrazione regolare, rilasciare permessi di soggiorno e lavoro, garantire tutela a chi ne ha diritto ai sensi della Convenzione di Ginevra sui rifugiati, contrastare la tratta di esseri umani e l’immigrazione irregolare. Il varo della legislazione necessaria spetta al Parlamento europeo e al Consiglio, con voto a maggioranza. Sono basi esplicite, di ampio respiro su cui ci si aspetterebbe venga costruito uno schema articolato di idonee regole Ue. Invece, le normative emanate delineano un quadro frammentato e incompleto. Ad esempio, ci sono disposizioni per le domande di lavoro e ad hoc per i lavoratori qualificati e gli stagionali, nonché per sanzionare i trafficanti di persone e chi fa lavorare migranti irregolari. C’è poi il discusso e datato regolamento di Dublino sul diritto di asilo che fissa i criteri per riconoscerlo, caricando sullo Stato Ue dove il richiedente asilo entra per la prima volta nell’Unione ogni onere: accoglienza, verifica d’identità, esame della domanda di asilo, controllo degli eventuali movimenti irregolari verso altri Paesi europei e rientro (anche forzato) nel luogo d’origine di chi non ottiene asilo. All’evidenza, il contesto è insoddisfacente, in frizione con valori e principi Ue e con le urgenze attuali. La prima causa è nota e palese: sono le ostinate, profonde divisioni fra gli Stati. I loro governi e non pochi partiti politici assecondano i sentimenti istintivi di diffidenza degli elettori verso i migranti e reagiscono in una logica nazionale, guardando solo all’impatto a casa propria. Si preferisce dare la colpa all’Europa o ad altri Stati, anziché cercare intese strutturate, stabili e vincolanti. Mancando la volontà di operare insieme, perfino i palliativi accordi volontari o i piani più organici si impantanano o sono sospesi unilateralmente. Ne discende che le correnti dei flussi e la geografia condizionano tutti, creando asimmetrie. Le liti sono frequenti e diventa impervio radunare una maggioranza fra i ministri al Consiglio Ue, per nuove leggi o per modernizzare il regolamento di Dublino. Poco cambia ai vertici dei capi dei governi che di rado vanno oltre i pur lodevoli proponimenti. Una seconda causa ha per protagonista la Commissione. Nel sistema dell’Unione, è l’unico organo abilitato a fare proposte legislative: quindi, ha il potere/dovere di attuare i precetti dei Trattati Ue. Tuttavia, a differenza di quanto fatto in tanti settori, per le immigrazioni non ha portato avanti un concreto disegno ambizioso, al passo con i tempi. In buona sostanza, ha svolto un’azione mediatrice, spesso preziosa, ma non ha messo sul tavolo progetti in grado di stimolare, magari provocare, gli Stati indolenti ed egocentrici. Eppure, a sentire il recentissimo discorso della presidente, non difettano né la piena cognizione dei problemi, né le intenzioni positive. Lo stallo europeo sconcerta e alimenta le ansie dei cittadini. La soluzione richiede più concordia fra i governi e una spinta efficace dalla Commissione. Mai dire mai, benché dopo anni di attesa e drammi, le speranze vacillino. Le difficoltà sono politiche e serve una svolta culturale, perché il motivo che le rende ostative rimane la carenza di vocazione genuinamente europea. A ben vedere, però, una componente negativa dipende anche dall’usurata architettura istituzionale Ue. Gli Stati contano troppo: quando divergono, guidati dal prisma nazionale, l’Unione si ferma a prescindere dagli equilibri scaturiti dalle elezioni per il Parlamento europeo. Se poi latitano le incisive mediazioni di rango, non c’è nulla da fare. Si badi che, per il tema dell’immigrazione, la previsione nei trattati Ue di delibere a maggioranza al Consiglio, fa cadere l’alibi secondo cui non si riesce a decidere per via del voto all’unanimità. Pesa la titubanza della Commissione nel redigere proposte per nuove norme. Forse è dovuta alla percezione della prevedibile opposizione determinante di vari governi, ma mostra i seri limiti del suo tradizionale monopolio dell’iniziativa. Se i parlamentari europei fossero abilitati a presentare progetti di leggi Ue, così come lo sono i colleghi di qualsiasi altro parlamento democratico, esisterebbe almeno un’alternativa. Dunque, si dovrebbero ridefinire meccanismi nodali per consentire all’Unione di agire laddove oggi è frenata o bloccata (la politica per l’immigrazione è un esempio fra vari). A tal fine, la strada maestra più trasparente è una sola: modificare i Trattati base e rivederne gli assetti funzionali nella cornice uniforme di una Costituzione dai connotati riconoscibili. Migranti. Meloni prova a superare a destra Salvini, tra blocco navale e carcere per i profughi di Piero Sansonetti L’Unità, 18 settembre 2023 Cosa altro deve fare l’Onu? Non si capisce bene cosa possano pretendere Tajani e Meloni, che sono appunto quelli che dovrebbero eseguire le direttive dell’Onu. Tajani e Meloni invocano l’Onu. Chiedono che intervenga nell’emergenza profughi. Salvini e Meloni invece invocano la Marina Italiana (Salvini) e addirittura una ipotetica Marina europea (Meloni). Chiedono che si schieri sul Mediterraneo per impedire l’arrivo di barche di migranti in Italia. Come? Non ho idea. Penso che immaginino che la Marina, che dispone di cannoni, possa cannoneggiare i barchini e affondarli prima che entrino in acque territoriali italiane. E’ un metodo sicuro. In realtà l’Onu è già intervenuto più volte sulla questione profughi. Intimando all’Italia di ritirare il decreto spazza-ong, del 2 gennaio 2023, immaginato dal ministro Piantedosi, e poi di ritirare il decreto Cutro, immaginato sempre da Piantedosi, qualche mese dopo, e poi i vecchi decreti sicurezza scritti a quattro mani da Salvini e dal capo dei 5 Stelle, Giuseppe Conte, che bloccavano le Ong, cioè i soccorsi, e che smantellavano la rete dell’accoglienza, e che radevano al suolo il diritto di asilo e di protezione. Aumentando così il numero dei profughi illegali. Sono esattamente questi dissennati decreti, buttati lì a caso per racimolare qualche consenso, la causa del disastro attuale. L’assenza di soccorsi in mare, da parte delle Ong, spinge tutti i barchini verso Lampedusa. E’ chiaro che 7000 persone che arrivano in una decina di porti diversi, e in città grandi, non sono un gran problema. Se invece arrivano tutti a Lampedusa, isoletta con 6000 abitanti, è un disastro. Ed è chiaro che se hai smantellato il sistema di accoglienza, migliaia di profughi diventano un problema. Cosa altro deve fare l’Onu? Il suo compito è quello di chiedere il rispetto delle leggi e delle regole internazionali, e lo ha fatto: non è che può imporle coi caschi blu al governo italiano. Non si capisce bene cosa possano pretendere Tajani e Meloni, che sono appunto quelli che dovrebbero eseguire le direttive dell’Onu. Ma anche la richiesta di intervento della Marina è bizzarro. E vano. Nessun ufficiale di Marina accetterebbe di violare le leggi italiane, le leggi internazionali e le leggi del mare, e attaccare - forte della propria potenza militare - le povere navi dei profughi. Se ricevessero quest’ordine dal ministero lo respingerebbero al mittente. “Signornò, signor ministro”. Si creerebbe un conflitto tra forze armate e governo. Un gran pasticcio. È chiaro - e va detto - che la presidente del Consiglio è in un cul de sac. Deve barcamenarsi. Da una parte sente forte la voce del buonsenso, del quale è dotata, e sente anche gli ammonimenti del mondo cattolico e del Vaticano. Che la spingono alla moderazione e all’accoglienza. Dall’altra sente la pressione della parte più fascista del suo elettorato e anche la voce feroce di Salvini, che la spingono a posizioni strillate e demagogiche, che in qualche modo evitino lo scavalcamento a destra del leader della Lega. Salvini dice che siamo in guerra e che è in corso una invasione di “negri”. E quindi invoca le forze armate, che respingano i “negri” come il generale Diaz respinse gli austriaci (i crucchi) nel 1917, dopo che quel pasticcione di Cadorna (un po’ come Piantedosi e Meloni) li aveva fatti passare a Caporetto. Meloni non può certo compiere atti sconsiderati di violenza, ma è costretta almeno ad usare parole violente. Che però incendiano il paese, spingono una parte dell’opinione pubblica verso idee populiste e xenofobe che poi non è facile contenere o correggere. L’altra sera Giorgia Meloni, nel suo messaggio televisivo, che ormai è diventato il nuovo strumento essenziale della comunicazione politica in Italia (sull’esempio di Kim Il Un) ha cercato di porre rimedio alle grida di Salvini. Di eguagliarle. Ha parlato anche lei di intervento militare, si è rivolta con atteggiamento autoritario ed autorevole ai profughi intimandogli di starsene a casa loro per evitare la severità della legge italiana, e poi si è lamentata del complotto internazionale. Mussolini parlava della perfida Albione (Albione è l’antico nome dell’Inghilterra) e del complotto pluto-giudaico-massonico. Meloni è su quella lunghezza d’onda. Non ce l’ha con gli inglesi ma coi Galli, i francesi, e poi soprattutto con Joseph Borrell, che è spagnolo ma di origini argentine, e dunque chiaramente è un nemico, e probabilmente è lui, con l’aiuto di Elly Schlein, che forse è svizzera e quasi certamente giudaica, che organizza gli sbarchi a Lampedusa. Lunedì si riunisce il consiglio dei ministri e stabilisce probabilmente due cose. La prima è questa corbelleria di chiedere l’intervento delle marine europee per fermare i barbari. La seconda è l’aumento a 18 mesi del limite di detenzione arbitraria e illegale dei profughi. Mi ricordo che quando ero ragazzo facemmo fior di manifestazioni per opporci a una legge “d’emergenza”, si chiamava la “Legge Reale” (dal nome del ministro che la promosse), che portava a 48 ore il fermo di polizia. Ora il governo Meloni stabilisce che il fermo, senza che ti sia contestato alcun reato passibile di arresto, può arrivare a 12.960 ore. Speriamo che l’opposizione si faccia sentire. Che impedisca questa follia. Già un bel numero di governi di destra di centro e di sinistra, tecnici e politici, di coalizione, qualunquisti o leghisti e altri ancora hanno varato decreti e leggi assolutamente ispirati alla xenofobia. Ora però si supera ogni limite. Ci si fa beffe dello Stato di diritto. Altro che Onu! Clementi: “Va garantita la dignità dei migranti. Il blocco navale? Non giochiamo a Risiko” di Serena Riformato La Stampa, 18 settembre 2023 Il professore di Diritto pubblico: “Problemi di costituzionalità per i 18 mesi nei centri d’identificazione”. La norma arriverà oggi in Consiglio dei ministri: i migranti irregolari in attesa di rimpatrio potranno essere trattenuti nei centri fino a diciotto mesi, non più dodici. “Se questa dilatazione importante del tempo di attesa non è suffragata da ragioni giuridiche ben giustificabili, a me sembra una soluzione che rischia di andare anzitutto in conflitto con l’articolo 13 della Costituzione italiana: la libertà personale è inviolabile”, dice Francesco Clementi, professore di Diritto pubblico italiano e comparato all’università La Sapienza di Roma. La premier Giorgia Meloni ha confermato l’allungamento della detenzione amministrativa nei Cpr per “i meno fragili”, mentre per donne e bambini sarà previsto un percorso diverso. Basta a rispettare la Carta? “La Costituzione garantisce i diritti di tutti, non solo dei cittadini italiani. Il testo della legge ci dirà quali siano le ragioni giuridiche per giustificare il prolungamento fino a diciotto mesi. Ma bisogna stare attenti: l’Italia come Stato europeo non può trattare un individuo che scappa dal proprio Paese rispondendo con una violazione così potente e pesante della sua libertà personale. Ne va del rispetto di alcuni principi costituzionali”. Quali? “La norma entrerebbe in conflitto anzitutto con l’articolo 13 sull’inviolabilità della libertà personale e con l’articolo 2 che riconosce “i doveri inderogabili di solidarietà sociale”. Non solo. Andrebbe anche contro l’articolo 3, secondo il quale tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali di fronte alla legge. La dignità viene citata ancor prima dell’uguaglianza. È dignitoso stare diciotto mesi reclusi dopo aver vissuto quello che hanno già vissuto queste persone? Forse no. Il rischio è che non si voglia vedere la realtà. Ci si nasconde dietro un atteggiamento securitario e repressivo invece di dedicarsi davvero alle cause che vi sono dietro a questo vero e proprio esodo dall’Africa”. La presidente del Consiglio sottolinea che sia il “massimo previsto dalle norme europee”. Quindi regolare... “Noi sappiamo già una verità: la legislazione vigente non funziona. Le statistiche ci dicono che il rapporto fra le persone che ricevono il foglio di via e le persone che vengono effettivamente rimpatriate è molto basso. Il problema quindi non è adeguarsi alla legislazione europea o meno. Il problema è cambiare le regole e farlo dentro criteri che diano valore e senso a un altro modello di immigrazione. Come ha detto proprio qualche giorno fa il presidente della Repubblica Sergio Mattarella all’assemblea di Confindustria non bisogna “cedere alla paura e alla tentazione di cavalcare le paure”. O si affronta il problema fino in fondo per quello che è, cioè una grande sfida di accoglienza fatta di integrazione nelle regole oppure l’alternativa è una chiusura ridicola. Si pensa di poter svuotare il mare con un bicchiere?”. Il capo dello Stato, ad agosto, ha ribadito la necessità di “ingressi regolari, sostenibili, ma in numero adeguatamente ampio” perché i movimenti globali “non vengono cancellati da muri o barriere”. Riflessione caduta nel vuoto? “È passato poco meno di un mese, vedremo anche dai prossimi provvedimenti se questo monito rimarrà inascoltato. Le parole del Presidente Mattarella tuttavia dicono tre cose: la strategia utilizzata finora non è una strategia funzionante; il percorso non può che passare da una risposta europea al problema. E il governo italiano non si può nascondere dietro a un dito: noi abbiamo di fronte delle persone che, come tali, come indica la Costituzione, vanno trattate. Allungare il tempo di attesa, tenendoli in detenzione amministrativa, più che una soluzione ragionata mi sembra una cinica toppa per comprare tempo politico sulle vite degli altri.”. Intanto si torna a parlare di blocco navale... “Il blocco navale è un classico strumento che si usa in guerra, ed è previsto solo in questi casi anche dalle Nazioni Unite. Ma noi, l’Italia o l’Unione europea, siamo in guerra con l’Africa? Non mi pare. Al contrario, dovremmo attrezzare un’accoglienza che faccia dell’Europa il primo hub capace di trasformare l’immigrazione in un valore aggiunto per loro e quindi anche per noi. Perché l’Europa può farlo, sa farlo e deve farlo. Dando l’esempio”. E se invece si trattasse di una missione con navi europee, come spera la premier? “Qualsiasi blocco navale a me pare impensabile, a maggior ragione uno europeo. Un conto è controllare il mare, salvando vite in fuga, un conto è schierare le portaerei di fronte all’Africa. Ma s’immagina? Non siamo mica a Risiko”. Migranti. Il Consiglio Ue boccia l’intesa con Saied: “Firmata senza via libera dei governi” di Alessandro Barbera e Marco Bresolin La Stampa, 18 settembre 2023 Parere negativo del servizio giuridico, Berlino scrive alla Commissione per criticare l’accordo. Oggi in Cdm la stretta sull’accoglienza. Il Memorandum d’intesa con la Tunisia è stato firmato “senza rispettare le procedure”. A dirlo non sono (soltanto) i gruppi politici che criticano l’accordo, ma un parere giuridico del Consiglio dell’Unione europea. Secondo quanto risulta a La Stampa da più fonti diplomatiche è stata prodotta un’opinione legale nella quale si contesta il fatto che la presidente della Commissione di Bruxelles Ursula von der Leyen - accompagnata da Giorgia Meloni e dall’ex premier olandese Mark Rutte - abbia siglato l’intesa con Tunisi senza l’autorizzazione preventiva del Consiglio, vale a dire degli altri governi. Il documento contiene anche un monito: eventuali accordi con altri Paesi non potranno più essere firmati senza prima l’approvazione degli altri Stati dell’Unione. Una zavorra per Meloni e Von der Leyen che invece vorrebbero replicare il modello Tunisia con altri partner nordafricani, a partire dall’Egitto. Il parere ha spinto molti governi a prendere carta e penna per esporre tutti i dubbi - di metodo e di merito - al commissario per le politiche di vicinato, l’ungherese Oliver Varhelyi. La lettera più critica è firmata di Annalena Baerbock, la ministra degli Esteri tedesca, e sarebbe stata inviata a inizio di agosto. Il parere giuridico del Consiglio era stato oggetto di discussione durante la riunione del Consiglio Affari Esteri quattro giorni dopo la firma del memorandum, il 20 luglio scorso. Alla riunione era presente anche il vicepremier Antonio Tajani. In quella sede - a porte chiuse - Baerbock aveva criticato l’accordo con la Tunisia per il mancato rispetto delle procedure e la mancanza di condizionalità sul rispetto dei diritti umani. Subito dopo i dubbi sono stati formalizzati per iscritto. In questo contesto si inserisce un’altra lettera che l’Alto rappresentante per la politica estera Josep Borrell ha scritto al collega Varhelyi il 7 settembre. Nel documento - svelato ieri da Il Giornale - lo spagnolo parte proprio dai dubbi del Consiglio sul fatto che “non sono stati seguiti i passi adeguati per la procedura d’adozione”. Borrell sottolinea quindi che “parecchi Stati membri hanno espresso la loro incomprensione riguardo l’azione unilaterale della Commissione”, oltre che “preoccupazione per alcuni suoi contenuti”. La vicenda emersa in queste ore spiega la lentezza nell’erogazione dei primi fondi alla Tunisia, in tutto 255 milioni: 105 destinati alla gestione dell’immigrazione illegale, altri 150 di mera assistenza finanziaria. Con il fiato sul collo di molti governi la Commissione non può permettersi di saltare nuovamente le procedure per accelerare i pagamenti a Tunisi, né di chiudere un occhio sul rispetto dei diritti umani. Come se non bastasse - sempre secondo quanto ricostruito - i governi più critici hanno messo in guardia l’esecutivo comunitario: l’ulteriore piano di assistenza da 900 milioni, parte dell’intesa con Saied, dovrà essere vincolato alle stesse condizioni previste dal Fondo monetario internazionale in termini di riforme, il quale sta trattando con Saied un ulteriore piano di aiuti da due miliardi di dollari. La Commissione si stava già muovendo su questa linea, ma il pressing delle altre capitali complica i tentativi di Meloni di aggirare le condizionalità per aiutare Saied. Secondo le tesi che circolano nella maggioranza i dubbi sull’accordo con la Tunisia sarebbero una manovra architettata dei socialisti europei per bloccare il prossimo accordo in agenda con l’Egitto, uno dei Paesi che nelle ultime settimane conta il più alto numero di immigrati irregolari. Un primo memorandum per la concessione di 80 milioni è stato firmato lo scorso autunno da una delegazione guidata proprio dal commissario Varhelyi. Dice Meloni: “Si spererebbe che tutti avessero la capacità di marciare insieme”, invece di “farmi fare la parte di Penelope: il giorno io costruisco e la notte loro provano a smontare”. Palazzo Chigi è irritata anche per la lettera apparsa ieri su questo giornale contro il memorandum tunisino firmato da due esponenti del Partito democratico, Laura Boldrini e Giuseppe Provenzano. La tesi cozza però con alcuni dati di fatto. Il primo: il governo italiano era al corrente sin da luglio dei dubbi che stavano emergendo a tutti i livelli decisionali dell’Unione. Il parere giuridico del Consiglio dice poi una cosa difficilmente contestabile alla luce degli sbarchi di questi giorni: senza un mandato politico qualunque accordo si mostra, oltre che “illegittimo”, inefficace. I due accordi firmati in precedenza con la Turchia furono autorizzati dai governi e permisero di concedere ad Ankara ben altre cifre: il rinnovo del giugno 2021 prevede di versare ad Ankara fino a sei miliardi di euro. Sia come sia, nel frattempo Giorgia Meloni cerca di tamponare l’enorme flusso di arrivi, soprattutto a Lampedusa. Il video sul modello inglese diffuso venerdì sui social network, e nel quale si avvertono i migranti dei rischi di rimpatrio, è stato tradotto e diffuso dalle ambasciate italiane di tutto il Nord Africa. Oggi il Consiglio dei ministri approverà un pacchetto di norme che permetteranno di allungare fino a diciotto mesi i tempi di permanenza nei Cpr (centri di permanenza per i rimpatri). Il governo ne vorrebbe uno per Regione, al momento ci sono strutture solo in otto. La mossa di Meloni, che ha chiesto aiuto al ministero della Difesa per l’individuazione delle aree, sta alimentando la protesta dei sindaci. Nel pacchetto ci saranno misure anche per contrastare con strumenti diagnostici la falsa certificazione dell’età dei più giovani, che in questo modo eviterebbero di finire nelle nuove strutture. Ad oggi i minori non accompagnati censiti sono ventunomila, per lo più maschi tra i 15 e i 17 anni, per i quali la disponibilità di posti autorizzati è di poco più di seimila. L’obiettivo primario delle misure, che potrebbero entrare come emendamento al decreto Caivano, è contenere l’enorme mole di movimenti secondari, ovvero della fuga dei migranti (la gran parte) verso il nord Europa: è la prima richiesta di Francia e Germania. Non è un caso se la scorsa settimana Berlino ha prima bloccato e poi fatto ripartire le procedure di redistribuzione previste dagli accordi europei. Stati Uniti. L’Alabama si prepara a mettere a morte un detenuto con l’azoto puro di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 18 settembre 2023 Sarebbe il primo Stato al mondo ad usare questo metodo che priva il condannato di ossigeno e lo soffoca. In rivolta le associazioni umanitarie. L’Alabama è pronto a diventare il primo Stato nel mondo a uccidere un detenuto costringendolo a respirare azoto allo stato puro. Venerdì l’ufficio del procuratore generale dell’Alabama, Steve Marshall, ha annunciato l’intenzione di eseguire la condanna a morte di Kenneth Eugene Smith, 58 anni, per ipossia di azoto, che priva i detenuti di ossigeno e li soffoca. Finora negli Stati Uniti solo tre stati hanno autorizzato l’uso di questo metodo per le esecuzioni - Alabama, Oklahoma e Mississippi - ma nessuno l’ha ancora utilizzato. Smith è stato condannato nel 1988 per l’omicidio su commissione di Elizabeth Sennett, moglie di un pastore della Westside Church of Christ a Sheffield, nel nord dell’Alabama. Quest’ultimo, che aveva una relazione, progettava di incassare varie polizze assicurative stipulate sulla vita dalla consorte. Smith avrebbe dovuto essere ucciso l’anno scorso tramite iniezione letale ma, dopo quattro ore di tentativi, l’esecuzione è fallita perché non è stato possibile inserire la flebo nelle vene. “L’Alabama non è nella posizione di sperimentare un metodo mai utilizzato. Tutto ciò è crudele e sconsiderato” ha detto all’Associated Press l’ong Equal Justice Initiative. L’azoto costituisce il 78% dell’aria intorno a noi ed è sicuro da respirare. Tuttavia, quando l’ossigeno viene rimosso diventa mortale, portando alla perdita di coscienza e alla morte per asfissia. Il detenuto dice di essere “assolutamente terrorizzato” dopo il fallito tentativo di ucciderlo con un’iniezione letale. Nella sua intervista al Sunday Times, che ieri ha raccontato la sua vicenda, ha ricordato come uno dei suoi carnefici gli disse: “L’iniezione letale è indolore, con l’azoto nessuno sa cosa succederà”. Il mese scorso il procuratore generale dell’Alabama ha chiesto di portare nuovamente a termine l’esecuzione questa volta tramite l’ipossia di azoto. Smith è una delle 166 persone in attesa di esecuzione in Alabama, che in proporzione è il braccio della morte più numeroso negli Usa. La pena di morte è in vigore in 24 dei 50 Stati americani, mentre altri tre sono nel limbo perché i governatori in carica si rifiutano di firmare le condanne a morte. Più della metà degli americani è favorevole alla pena capitale in alcune circostanze, ma il sostegno sta diminuendo. In più le aziende farmaceutiche sono sempre più riluttanti a fornire i farmaci tossici necessari per le esecuzioni e questo è uno dei motivi per cui l’Alabama e altri Stati sono alla ricerca di metodi diversi dall’iniezione letale. La Carolina del Sud, ad esempio, ora costringe i prigionieri nel braccio della morte a scegliere tra il plotone di esecuzione e la sedia elettrica.