Diamo voce a quei corpi ammutoliti dalla prigione di Grazia Zuffa L’Unità, 17 settembre 2023 La sottrazione o la limitazione della libertà personale non devono annullare tutti gli altri diritti fondamentali delle persone in stato di detenzione: è un dettato costituzionale, eppure l’esercizio dei diritti da parte delle persone detenute, anzi l’idea stessa alla base, è continuamente insidiata. Il miglior esempio è rappresentato dalla “vicenda Cospito”, quando significativamente lo stesso ministro decise di interrogare il Comitato Nazionale di Bioetica circa i limiti o peculiarità, da un punto di vista etico dell’applicazione della legge 219/2017 (che prescrive il consenso del paziente ai trattamenti sanitari) in regime di detenzione carceraria: l’ipotesi sottesa era che il trattamento coatto fosse eticamente ammissibile poiché “il digiuno del detenuto Cospito sarebbe stato dettato da finalità estranee alla situazione clinica personale”. Si noti che tale limitazione (etica) dei diritti del detenuto, nel quesito del ministro, è sostenuta e rafforzata dalla responsabilità dell’istituzione che custodisce il detenuto (è eticamente accettabile - scriveva il ministro - che esse (le istituzioni statali) consentano a chi mette in atto questi comportamenti di lasciarsi morire? Vale la pena di prendere sul serio la nota del ministro al CNB, anche se sganciata dalla vicenda Cospito ormai conclusasi, poiché prefigura un rovesciamento totale di sguardo sulla persona detenuta e il suo status, giuridico e etico: dall’equiparazione dei diritti fondamentali con i liberi/libere, motivata in nome di principi di umanità universali, alle “peculiarità e limitazioni” motivate dallo stato di detenzione e da (un certo modo di intendere) la “responsabilità” dell’istituzione di custodia. L’inquadramento dei diritti rimanda al cuore della questione carcere, al significato della pena come privazione della libertà. Un significato umano prima ancora che giuridico, come lucidamente spiegava Aldo Moro ai suoi studenti nella lezione da lui svolta il 13 gennaio 1976 nella Facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Roma (che si può leggere nel volume a cura di S. Anastasia, F. Corleone, A. Pugiotto, Contro gli ergastoli, Futura, 2021, pp.215-228). “La libertà è infatti un tratto essenziale dell’umano, dunque la pena della sottrazione della libertà è qualcosa di enorme: qualche cosa che è già di per sé così grave, così incisivo” - per usare le parole di Moro- da escludere che a questa punizione già così severa possano aggiungersi altre misure restrittive eccedenti la necessità. Nasce da qui, dalla piena comprensione della “enormità” della sottrazione della libertà, la dimensione etica del principio generale di limitare per quanto possibile il ricorso al carcere (la cautela in poenam) nonché di sforzarsi di trovare altre forme di pena che non limitino così radicalmente la libertà personale (vedi la giustizia di comunità). Ancora più importante, la sottrazione - così grave e così incisiva - della libertà personale rende ancora più prezioso per il detenuto e la detenuta mantenere i diritti altri dalla libertà personale. Di converso, la prospettiva della limitazione dei diritti è tanto più nefasta e dolorosa perché i diritti residui hanno un valore in più per la persona privata del bene fondamentale della libertà personale, rispetto ai liberi. Si giustifica così l’etica del sostegno ai diritti, che apre un terreno di impegno attivo per la società e le istituzioni. Un terreno non facile, poiché la privazione della libertà tende di per sé a limitare, reprimere, in una parola a imprigionare tutti i diritti che le persone avrebbero sulla carta. “Liberare i diritti” è l’obiettivo, strettamente legato però a “liberare la soggettività” della persona detenuta. Ciò che forse non è ancora così chiaro è quanto incide nel minus di diritti la considerazione del detenuto come soggetto “incapacitato”. Questo è uno dei temi discussi nel seminario della Società della Ragione intitolato “Corpi, diritti, soggettività” (che si sta svolgendo a Firenze, dal 15 al 17 settembre). Il pensiero della persona incarcerata, le sue emozioni, le sue intenzioni hanno scarso, se non nullo valore. In altre parole, l’imprigionamento del corpo risulta essere una mossa totalizzante, di completa soggezione, non solo fisica, al potere dell’istituzione. Avviene così il declassamento da “corpo pensante” a pura corporeità muta, su cui altri hanno potestà di prendere parola attribuendo significati, al di là del di lui o di lei volere. Ancora la vicenda Cospito è indicativa del processo di de-soggettivazione del prigioniero (cui si appoggia la negazione dei diritti). Cospito ha praticato lo sciopero del cibo - fino a mettere a repentaglio la salute- per interloquire con l’istituzione. Lo sciopero dovrebbe essere un diritto per tutti. Ma il suo intento è stato ignorato e stravolto in atto di tentato suicidio, come rivolta e ricatto all’istituzione. Alcuni, per sostenere interventi forzati, hanno perfino affermato che la prigionia rende le persone vulnerabili, dunque incapaci di intendere e di volere, specie nel delicato campo della rinuncia ai trattamenti: esplicitando così il passaggio da “corpo muto” a “corpo a disposizione”, sotto il pietoso ombrello del paternalismo. Ma gli esempi sono tanti. I tentativi dell’istituzione di circoscrivere nell’ambito della psichiatria il disagio e l’autolesionismo del carcere possono anche essere letti quale scorciatoia di “ammutolimento” dei corpi. Dare voce al corpo imprigionato. Si dirà che è un paradosso. Proprio per questo va sostenuto e praticato, per aprire la strada al “carcere dei diritti”. Il tribunale dà ragione a Cospito: ridategli le foto dei genitori di Frank Cimini L’Unità, 17 settembre 2023 I giudici di Torino hanno accolto il reclamo dell’anarchico detenuto a Sassari. “È del tutto ragionevole ritenere che le 29 fotografie di cui si discute siano le stesse che Alfredo Cospito poteva tenere già nel carcere di Milano”. È uno dei passaggi delle motivazioni con cui i giudici di Torino hanno deciso che siano restituite al detenuto anarchico le immagini di genitori e parenti oltre alle cartoline e a varia corrispondenza. I giudici hanno accolto il reclamo presentato dal difensore Flavio Rossi Albertini. I giudici spiegano che non conta niente il fatto che le immagini possano riguardare persone sconosciute. “La consegna delle foto non pregiudica nulla. Si tratta di foto risalenti a decenni fa come si apprezza dall’abbigliamento delle persone in contesti domestici e familiari. Non appaiono celare messaggi critici e non mettono a repentaglio l’impostazione del regime penitenziario del 41bis”. Nell’udienza di due giorni fa il pm della procura di Torino Paolo Scafi aveva affermato che le foto avrebbero potuto contenere messaggi criptici. Si tratta dello stesso pm che era stato applicato nel processo di appello per i pacchi bomba di Fossano e dello stesso pm che nei giorni scorsi aveva chiesto pene superiori a un anno di reclusione per una dozzina di studenti responsabili di aver occupato aulette universitarie. Scafi negava anche la sospensione condizionale della pena perché gli imputati non si erano pentiti. Cospito è attualmente detenuto nel carcere di Sassari dove le foto erano state “bloccate”, nonostante avessero avuto nella prigione di Opera, in precedenza, il visto favorevole della censura. Cospito, protagonista di un lungo sciopero della fame, attende l’udienza del prossimo 19 ottobre per discutere la revoca del 41bis dopo che l’apposita istanza mandata al ministro Nordio non aveva ricevuto risposta. Le loro prigioni di Daniela Mariotti L’Altrapagina, 17 settembre 2023 Agosto, mese di vacanze, per il carcere è notoriamente un mese d’inferno. Il caldo soffocante in spazi ridotti, anche per il sovraffollamento, la mancanza di servizi per le ferie, legittime, degli educatori e degli agenti, determinano una esplosione del disagio che pure si respira nei volti, nei luoghi e nelle più diverse situazioni per tutto l’anno. I casi di suicidio fino al 20 agosto di quest’anno sono stati 43 e 85 nel 2022. Ne parliamo con il dott. Enrico Sbriglia, residente dell’Osservatorio Internazionale sulla Legalità di Trieste. Dott. Sbriglia, quando si parla di carceri si prova un imbarazzo storico... come di fronte a un problema enorme, incancrenito e irreversibile È così? “Lo è, la situazione è, dal mio punto di osservazione storico e tecnico insieme, la peggiore degli ultimi cinquant’anni, da far tremare i polsi a ogni governante in cui residui un minimo di coscienza istituzionale. Credo che si tratti, insieme all’altro continente devastato, quello della giustizia, del peggior lascito nelle mani del nuovo Governo. Si tratta di un panorama davvero sconfortante che, ove tutto precipitasse, sarebbe in grado di sconvolgere ogni agenda dell’esecutivo”. Si può dire che in carcere finiscano tanti problemi non risolti nell’ambito sociale? Quanti extracomunitari, quanti malati psichiatrici, quanti tossicodipendenti potrebbero stare fuori? “Non è che si possa dire, ma si deve dire assolutamente. Tutto ciò che di difficile non venga affrontato seriamente dallo Stato e dalla politica pavida, si traduce spesso in mistica penale. Se le politiche migratorie fanno acqua da anni, se quelle di contrasto ai traffici e ai mercati di droga risultano perdenti, perché non solo è aumentato il numero di tossicodipendenti ma anche la forza intimidatrice dei cartelli e delle criminalità organizzate, nonché le loro capacità organizzative, strumentali e tecnologiche, se ogni forma di disobbedienza viene contrastata con risposte penali, se il disagio psicologico e psichiatrico riempie le carceri. È evidente che sono mancate delle coerenti strategie socio-politiche che avrebbero richiesto grandi e forti investimenti nel sociale, in particolare nel mondo della scuola, mentre si privilegiano quelli penitenziari”. Un esempio è il “dopo carcere”. Per alcuni detenuti, che non hanno più rapporti famigliari e sociali, uscire dal carcere genera vera angoscia. A volte questa è la causa di un suicidio. Che fare? “Manca, e non da oggi, un serio format organizzativo di presa in carico e di accompagnamento verso le persone liberande. Ma per farlo occorrerebbero risorse e seri investimenti di welfare. Sarebbe necessaria una forte rete di assistenti sociali penitenziari insieme a quelli dei servizi pubblici degli enti locali, insomma una organizzazione efficiente. E un tanto non solo per offrire possibilità concrete di recupero sociale, ma anche per esercitare un controllo reale su persone che, se abbandonate a sé stesse, potrebbero davvero divenire più pericolose anche per gli altri: un controllo che significhi sicurezza, seppure formalmente di aiuto e soccorso sociale, piuttosto che sorprendersi di fronte a ogni efferato crimine frutto dell’abbandono e del disagio sociale, se non di diverse forme di pazzia violenta”. Perché è così difficile “mettere mano” a questo buco nero delle nostre istituzioni? “Perché occorrerebbero davvero grandi capacità di governare la cosa pubblica, una competenza amministrativa sistemica e un gioco di squadra tra le diverse istituzioni che dovrebbero ritrovarsi attorno questa esigenza di sicurezza e di soccorso sociale. È questo un campo dove non ci si può muovere con facili slogan oppure mostrandosi pietosi o, al contrario, cerberi. Occorre capacità di programmazione per l’oggi, per il breve e medio e lungo termine. Occorrerebbe una “gabbia” di regia che, almeno con cadenza mensile, faccia il punto della situazione, interloquendo con pochi esperti giuridici, quindi magistrati della prima linea, quella di tribunali intasati, che sanno cosa significhi leggere gli atti di un processo mentre lo si va a formare. Conosco dei GIP o dei GUP che devono fare salti mortali per dare delle risposte equilibrate e tempestive di giustizia. In questa stanza di regia dovrebbero confrontarsi lealmente lo stesso Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute e private della libertà personale con il Capo del DAP, riferendo costantemente al Ministro Nordio, al vice ministro Sisto e ai sottosegretari Ostellari, Delmastro e Delle Vedove, affinché possano assumere tutte le pertinenti iniziative politiche e di Governo. Occorrerebbe avere la consulenza di funzionari penitenziari che sappiano spiegare la complessità amministrativa delle carceri, cosa, ad esempio, un funzionario contabile debba fare nella quotidianità. Occorrerebbe che i Direttori penitenziari raccontino dei salti mortali che devono compiere ogni giorno per non mandare a fondo gli istituti penitenziari, così come per i Comandanti che spieghino la difficoltà non quotidiana, ma ora per ora, che devono affrontare per assicurare, con le scarse risorse di cui si dispongono, una reale e dignitosa sorveglianza verso le persone detenute, piuttosto che una pantomima di essa, con tante carceri nei fatti prive di vero controllo”. Come affrontare il problema salute? “Sarebbe meglio parlare della privazione della salute, che riguarda sia le persone detenute che quelle “detenenti”. Esistono sulla carta almeno venti modelli di sanità penitenziaria, così come è il numero delle regioni: venti modelli e tutti dovrebbero ricevere uguale risposta sanitaria. Ovviamente i contenuti dei protocolli siglati sono diversi, ma nella pratica i risultati sono analoghi, se è vero che non vi sia territorio che non lamenti grandi criticità (rectius: assenza di cure, di medici, di infermieri, di farmaci, di percorsi trattamentali e prese in carico di persone tossicodipendenti, con doppia diagnosi, tossicodipendenza e psichiatrica, oppure semplicemente folli violenti)”. Allo stato attuale quali misure immediatamente praticabili si dovrebbero adottare secondo lei? “Quando comincerà a circolare la parola “amnistia”, che serve non più alle persone detenute ma allo Stato, che deve salvare il salvabile di sé stesso, comincerò a pensare che davvero ci si sia resi conto del reale stato delle cose. Occorre coraggio politico, occorreranno maggioranze qualificate, ma se non troveranno tale coraggio, “rebus sic stantibus”, dubito davvero che riusciranno in un tempo medio breve a invertire tempestivamente la rotta che oggi vede penitenziari, spesso privi di comandanti, con equipaggi stanchi e demoralizzati e con i passeggeri in rivolta. Ho parlato di amnistia, e non di indulto, perché l’indulto è più faticoso e prevede che si arrivi a giudizio, che i processi comunque si facciano, che le matricole delle carceri ed i tribunali continuino ad operare, seppure “a vuoto”. Occorre fare i conti con la realpolitik e con una situazione davvero penosa, che il Governo ha ereditato dai venditori di parole, che oggi bruciano e possono incendiare tutto”. Le misure alternative al carcere hanno dato risultati molto positivi (quelli diffusi dal Cnel pochi mesi fa), eppure rimangono decisioni applicate in minima parte… “Ho visto davvero tante persone cambiare in meglio a motivo del corrispondente impegno sul lavoro. Persone detenute che hanno accettato la sfida del cambiamento, che hanno creduto di potercela fare. Così come ho visto tanti altri migliorare soltanto per avere cominciato a studiare teatro, nell’impegnarsi nello studio delle arti, così come nell’avere ripreso studi scolastici interrotti prematuramente, o perfino dedicarsi alla cura dell’anima attraverso le religioni, tutte, perché tutte hanno finalità buone e universali. Circa le misure alternative, più eloquente di ogni parola sono i dati trasmessi dallo stesso ministero della giustizia: al 31 luglio, su una popolazione di circa 57.749 persone detenute, di cui 42.918 erano condannate definitive, soltanto 1209 erano quelle in semilibertà, praticamente una percentuale del 3%. È il fallimento di un istituto giuridico così importante com’è quello della semilibertà, che prevede che il detenuto esca dal carcere per lavorare presso imprese, aziende private o pubbliche, purché accreditate, rientrando poi a fine giornata lavorativa in luoghi controllati saltuariamente, anche tutti i giorni, dalle forze dell’ordine e sotto la vigilanza di assistenti sociali, nonché della stessa polizia penitenziaria. Da parte di tanti non si vuol dare corso a tali misure di deflazione delle carceri: ma di cosa stiamo parlando?”. Se dopo il carcere ci si ritrova tutti al Bar del Giambellino di Alessia La Villa* Ristretti Orizzonti, 17 settembre 2023 “Il suo nome era Cerutti Gino, ma lo chiamavan drago. Gli amici al bar del Giambellino dicevan che era un mago”. Alzi la mano chi non ha mai canticchiato almeno una volta nella vita questa ballata che l’inconfondibile voce del compianto Giorgio Gaber ha consegnato alla storia della musica leggera italiana. Siamo nella periferia milanese degli anni 60, quella del Giambellino. Il Cerutti Gino ha appena vent’anni, quello che oggi definiremo un giovane adulto. Non ha una lira in tasca e trascorre le sue giornate con gli amici al bar. La storia ce lo consegna come un tipo scaltro sopranominato appunto “il drago”, uno bravo a mettere a segno il colpo giusto al momento giusto, un “mago”. Ma il Gino suo malgrado una sera si scontra con l’imprevisto, con la sfortuna. Qualcuno decide di chiamare le forze dell’ordine, “la madama”, e in men che non si dica il giovane lascia il bar per una cella “del terzo raggio”. Come in una sequenza cinematografica, Gaber ci porta all’interno del carcere di San Vittore dove il Cerutti è “triste e un poco manomesso” mentre aspetta il “suo processo”. Arriva però l’ennesimo colpo di scena, il giudice decide di farlo uscire con il “condono”, non prima di avergli fatto le raccomandazioni del caso. Ed ecco la conclusione straordinaria e quanto mai attuale: cosa accade dopo che il Gino ha vissuto in prima persona l’esperienza del carcere? Cosa diranno adesso gli amici di lui? La risposta, contrariamente ad ogni possibile aspettativa, è che la sua fama di “eroe del Giambellino” ne esce rafforzata: “È tornato al bar Cerutti Gino e gli amici nel futuro quando parleran del Gino diran che è un tipo duro”. Il carcere, dunque, sembra non aver avuto alcuna capacità deterrente per questo giovane delinquente e per i suoi amici e con buona pace di ogni possibile teoria sulla stigmatizzazione e sull’etichettamento non fa altro che rinforzare un’identità dove i valori sono completamente ribaltati. Impossibile a questo punto non pensare al decreto Caivano e all’ingenuità nel voler ritenere la detenzione e l’inasprimento delle pene una misura efficace per ragazzi che sfidano tutti i giorni le regole del vivere sociale convinti che il carcere non solo faccia parte del “pacchetto” ma che, come per il Gino degli anni 60, contribuisca a renderli ancora più popolari. Se dopo il carcere si torna al Giambellino, allo Zen, a Caivano, a San Basilio, solo per citare alcuni tra i quartieri più tristemente noti alle cronache, se si torna lì dove si viene celebrati come eroi, lì dove tutto dovrebbe cambiare ma nulla cambia, che cosa abbiamo risolto? Nulla. Non è mettendo dietro le sbarre il Cerutti Gino che possiamo pensare di affrontare il problema della criminalità minorile ma solo trovando il coraggio di investire sull’educazione degli “amici del bar del Giambellino”, su quella comunità che deve essere in grado di trovare parole nuove per raccontarsi e raccontare. Il Gino ha solamente bisogno di avere un’alternativa a tutto quello che ha sperimentato fino a questo momento e questa alternativa la possiamo costruire solo avendo il coraggio di investire sull’essere in quanto umano, solo avendo il coraggio di essere proprio lì dove tutto sembra più difficile e complicato, non avendo paura di entrare in tutti i bar del Giambellino che troveremo sul nostro cammino alla ricerca di tutti i Cerutti Gino che aspettano solo qualcuno che sappia essere la differenza oltre qualsiasi decreto. *Funzionario Giuridico Pedagogico presso la C.C. di Livorno, autrice del testo: “Metà giardino, metà galera. Le parole del carcere nella musica italiana” Il governo si spacca sulle intercettazioni per i reati di mafia e l’uso del trojan per le indagini sui colletti bianchi di Giacomo Salvini Il Fatto Quotidiano, 17 settembre 2023 Tutti contro tutti. È questo il clima nel governo sulla riforma delle intercettazioni, più volte annunciata dal ministro della Giustizia Carlo Nordio. Venerdì pomeriggio il Guardasigilli ha convocato i suoi sottosegretari Francesco Paolo Sisto (Forza Italia), Andrea Delmastro (Fratelli d’Italia) e Andrea Ostellari (Lega) per parlare del decreto che ha esteso le intercettazioni per i reati di mafia in discussione alla Camera, ma la riunione è diventata l’occasione per un duro scontro tra le forze di maggioranza proprio sul tema degli ascolti. Forza Italia, infatti, vuole modificare il decreto dell’8 agosto con cui il governo ha messo una toppa a una sentenza della Cassazione di settembre 2022 che, a dire della premier, rischiava di “far saltare molti processi per mafia” perché faceva venire meno il “doppio binario” tra intercettazioni per reati di mafia (per cui bastano indizi “sufficienti” e non “gravi”) e reati comuni. Il governo, con una disposizione transitoria, ha specificato che il decreto si applica retroattivamente a tutti i processi in corso, ma questo non piace a Forza Italia: gli azzurri hanno presentato diversi emendamenti in commissione Giustizia alla Camera per chiedere che la norma non si applichi ai processi in corso perché “incostituzionale”, come ha specificato un documento dell’ufficio legislativo di Forza Italia. Ma su questo Sisto si è scontrato con Nordio e Delmastro: l’obiettivo del decreto voluto da Giorgia Meloni era proprio quello di salvare i processi già in corso e quindi, se dovesse passare l’emendamento di Forza Italia, il decreto sarebbe di fatto neutralizzato. Alla fine il Guardasigilli e il suo sottosegretario meloniano hanno avuto la meglio: la norma non dovrebbe cambiare, dice una fonte di governo. Nordio e Delmastro hanno anche chiesto che Forza Italia ritiri i suoi emendamenti in merito per evitare spaccature nella maggioranza. Tant’è che Enrico Costa di Azione ora invita gli azzurri ad andare avanti: “La prossima settimana alla Camera si voteranno gli emendamenti sulle intercettazioni. Non ritireremo certo i nostri. E auspico che anche gli altri non si pieghino alle pressioni”. L’altro scontro ha riguardato il tema più ampio delle intercettazioni e ha coinvolto Forza Italia e Lega. Gli azzurri, con i deputati Pietro Pittalis e Tommaso Calderone, hanno presentato emendamenti in commissione Giustizia anche per eliminare il trojan per i reati contro la Pubblica Amministrazione lasciandoli solo per quelli di mafia e terrorismo, evitare che la microspia venga accesa in casa e vietare la trascrizione delle conversazioni ritenute inutili alle indagini nei “brogliacci” della polizia giudiziaria. Tutte norme molto impattanti sul processo penale e politicamente divisive. Su questo, di fronte a un appoggio di Nordio e di Fratelli d’Italia, è la Lega ad opporsi: la presidente della commissione Giustizia del Senato Giulia Bongiorno ha appena terminato un’indagine conoscitiva a Palazzo Madama sul tema delle intercettazioni e non vuole vedersi strappare il dossier. Per questo il Carroccio chiede che Forza Italia ritiri i suoi emendamenti e che una riforma più complessiva delle intercettazioni arrivi dal governo proprio su proposta di Bongiorno. Al momento Forza Italia non ha ancora risposto ma Costa mette il dito nelle divisioni della maggioranza: “Ci appelliamo alle forze realmente garantiste della maggioranza perché non si ripeta il copione - con i medesimi attori (riferimento a Bongiorno, ndr) - del 2011, quando la riforma delle intercettazioni presentata da Berlusconi fu stoppata a pochi metri dal traguardo. Il decreto è alla Camera ed è questa la sede naturale in cui affrontare l’argomento. Il Governo può esprimere pareri favorevoli o contrari, presentare proposte, ma non può stabilire che sia il Senato ad occuparsi dei temi della Giustizia (dopo lo scippo dell’abuso d’ufficio), con la Camera a fare da spettatore”. La Commissione antimafia parte con l’handicap: non si occuperà dei buchi neri delle stragi di Simona Zecchi L’Espresso, 17 settembre 2023 I lavori guidati dalla meloniana Chiara Colosimo si concentreranno sul filone degli appalti legato a Via D’Amelio. “Ragionamento assurdo nel metodo e nella logica: il biennio 92-94 va valutato nel suo complesso” attacca Scarpinato (M5S). E ad affiancare la maggioranza spunta il generale Mario Mori. Parte con l’handicap la nuova Commissione antimafia di Chiara Colosimo, Fratelli d’Italia. L’avvio dei lavori è imminente ma già si sente odore di rinuncia sui buchi neri delle stragi 92-94. L’organismo parlamentare è intenzionato a concentrare la propria attività solo su via D’Amelio, ovvero sull’eccidio del procuratore aggiunto Paolo Borsellino e dei cinque agenti di scorta, avvenuta il 19 luglio del 1992. E, in particolare, sulla pista degli appalti per spiegare l’eccidio, ovvero sul filone che le procure siciliane non hanno mai ritenuto centrale per risalire alle ragioni che decretarono la fine del magistrato. La pista che conduce al nodo di interessi tra mafia e affari è legata al rapporto dei carabinieri del Ros al quale Borsellino intendeva lavorare dopo la morte di Giovanni Falcone, avvenuta il 23 maggio di quell’anno. Tanto più che, come sembra, a consigliare la maggioranza della commissione potrebbe essere Mario Mori, l’ex generale, processato e assolto per la trattativa Stato-mafia che di quel rapporto fu uno degli estensori. In un documento di oltre 50 pagine, che L’Espresso ha potuto visionare in anteprima, è il senatore Roberto Scarpinato, ex procuratore generale a Palermo, oggi parlamentare dei Cinquestelle a tracciare l’orizzonte che la commissione dovrebbe prendere in considerazione, rispondendo direttamente a Chiara Colosimo che lo scorso 4 settembre ha informato ufficialmente i commissari sulle intenzioni che animeranno la nuova Commissione. Secondo la presidente, infatti, l’elenco di priorità è decisamente contenuto. Al primo punto c’è via D’Amelio, “il cui seguito giudiziario - scrive nel documento che prospetta l’attività futura - è stato definito il più grande depistaggio della storia”. Colosimo sostiene poi “l’esigenza, anche culturale, di fornire risposte agli interrogativi in merito alla lunga latitanza di Matteo Messina Denaro”. Un controsenso, secondo Scarpinato, che invece mette in fila tutti i nervi scoperti che hanno costellato a esempio le indagini di Falcone a partire dall’omicidio Mattarella, da Gladio e dal fallito attentato all’Addaura, collegandolo alle ultime pagine declassificate - dopo l’applicazione della direttiva Draghi - su Gladio. E lo fa includendo oltre alle stragi anche gli stessi depistaggi sull’inchiesta di via D’Amelio fino a incorporare le più recenti risultanze del processo ‘ndrangheta stragista. “Nell’ambito della istruttoria dibattimentale del processo per l’omicidio del giornalista Mauro Rostagno - recita la controagenda di Scarpinato - è stato acquisito dalla Corte di Assise di Trapani un dispaccio segreto del 19 giugno 1989 attestante che l’articolazione di Gladio a Trapani fu incaricata di eseguire nei giorni seguenti una operazione (denominata in codice Domus Aurea) coperta dalla massima segretezza in ambito Nato nei pressi di un Villino all’Addaura. Il dispaccio conteneva l’ordine (per fortuna non eseguito dal destinatario) di distruggere immediatamente il documento dopo la lettura. Le coordinate del dispaccio consentono di identificare il villino in quello occupato dal dott. Falcone, dove il 21 giugno fu eseguito un attentato nei suoi confronti mediante esplosivo”. La rotta seguita da Scarpinato, però, non ha solo come riferimento la bussola del passato, visto che anche le nuove inchieste ad altre collegate fanno capolino. Come a esempio quella più recente di Caltanissetta sulla presenza di Stefano Delle Chiaie a Capaci prima della strage, che ha visto indagati, con ulteriori sviluppi più recenti, l’ex avvocato dell’estremista, Stefano Menicacci assieme a Domenico Romeo, altro personaggio che entra nelle dinamiche precedenti alla strage, piene di opacità. Su tutto, l’urgenza di continuare a indagare, come più volte scritto da L’Espresso, sulla presenza di elementi esterni agli attentati come sostenuto da varie procure, Firenze su tutte. Per questo, secondo Scarpinato, bisgna sentire i testimoni ancora in vita, acquisire carte vecchie e nuove non limitarsi alla semplice ricostruzione storica. Il senatore 5S a L’Espresso parla chiaramente di una incomprensibile volontà di “vivisezionare” i fatti scollegandoli tra loro. Come se il biennio 92-94 non fosse figlio di un unico filo conduttore tessuto per convogliare gli interessi di varie provenienze: la criminalità organizzata nelle sue consorterie più occulte, la massoneria, i servizi segreti e l’estremismo politico, in particolare quello neofascista. Sul controdocumento di Scarpinato è stata già espressa una linea negativa da parte della maggioranza del comitato di presidenza e dalla Colosimo stessa (FdI, FI e Lega in testa, escluso il Pd) come comunicato al gruppo parlamentare dei 5S. “Ho cercato di far capire alla Presidente l’importanza di dover mantenere necessariamente uniti, nelle more delle indagini, i fili che collegano la strage di Via D’Amelio e le altre stragi. Nonché tutti gli eventi che a quegli stessi eccidi sono a loro volta collegati”, dice Scarpinato. “Se il voto dovesse rispecchiare la posizione già espressa - chiarisce- bisognerà allora trarre le conclusioni dovute e cioè che il disegno possa essere un altro, nonostante tutte le informazioni ricevute”. Come si muoverà la Commissione Antimafia in tema di filoni investigativi settoriali è ancora presto per dirlo. Sembra non ci sia la volontà di proseguire la strada già tracciata dalla Presidenza di Nicola Morra durante la quale i comitati per temi (dal caso Moro alla strage dei Via dei Georgofili passando per gli eventi di Alcamo Marina e l’omicidio di Pier Paolo Pasolini tra gli altri) hanno permesso un approfondimento utile anche alla magistratura. E le cose potrebbero complicarsi, inoltre, se come riferito all’Espresso da fonti interne alla Commissione, a sostenere i nuovi lavori su Via D’Amelio sarà anche l’ex generale Mario Mori forse non in maniera ufficiale, ma comunque in forza al lavoro d’inchiesta parlamentare. È una voce da cui è difficile ricavarne la conferma, ma se si torna con la mente all’incontro che la stessa Colosimo ha avuto con l’ex Generale e l’avvocato Fabio Trizzino, legale dei figli del giudice Borsellino, insieme a una delegazione del Partito Radicale, lo scorso giugno, allora unire i pezzi non è difficile. Nel documento steso da Scarpinato, Mori (assolto ad aprile insieme agli ufficiali dei carabinieri Antonio Subranni e Giuseppe De Donno nel processo trattativa Stato Mafia) è presente per la vicenda che lega Paolo Bellini, condannato come quinto esecutore della strage alla stazione di Bologna, e Antonino Gioè lo stragista di Capaci, anche uomo-cerniera tra servizi e mafia. Si legge nel documento: “Della diretta interlocuzione instaurata da Bellini con gli stragisti, il generale Mori fu informato in tempo reale dal maresciallo dei carabinieri Tempesta che gli consegnò un manoscritto che il Bellini aveva ricevuto dai mafiosi, ma inspiegabilmente Mori di tale vicenda non solo non informò nessuno, non solo distrusse il manoscritto, ma ordinò a Tempesta di non redigere alcuna relazione scritta. La vicenda - continua il testo - è ricostruita nella motivazione della sentenza dalla Corte di Appello di Palermo del 23 settembre 2021”, dove non è messa in discussione. Sono anche queste le “anomalie gestionali” rimaste da chiarire, secondo Scarpinato, nei lavori della Commissione. “Pensare di poter trattare i fatti come singoli episodi da chiarire - conclude infine l’ex magistrato- limitando poi alla sola strage di Via D’Amelio il focus dei lavori parlamentari, è assurdo nel metodo e nella logica. E farlo usando la forza politica dei numeri è poi oltremodo contrario ai principi democratici”. Toghe onorarie a Nordio: riforma o faremo ricorso a Corte Ue di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 17 settembre 2023 Per la Consulta dei giudici onorari la richiesta di immediato deferimento dell’Italia alla Corte di Giustizia europea sarà la conseguenza automatica in caso di ulteriori ostacoli ad una riforma ormai improcrastinabile. “Sono scaduti i 60 giorni concessi all’Italia per adeguare la propria normativa al diritto europeo, in materia di Magistratura onoraria”. Lo ricorda al ministro Nordio la Consulta della MO, con una nota che ripercorre “tutte le discriminazioni ancora incidenti sulla categoria, stigmatizzate dall’Unione a luglio, tra cui i livelli retributivi ed il trattamento lavoristico complessivo, lontani dalle condizioni del magistrato professionale, unico soggetto comparabile”. Nei giorni scorsi, rispondendo al question time della Camera, il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha annunciato che nella prossima legge di bilancio “sarà inserita una disposizione che porrà finalmente una disciplina, sia retributiva sia previdenziale, nei confronti dei giudici onorari che sarà, quantomeno, decorosa”. Nordio ha poi ricordato che dal punto di vista fiscale il Governo “ha posto fine all’incertezza interpretativa del regime fiscale dei compensi erogati ai magistrati prevedendo l’assimilazione ai fini fiscali di quei compensi al reddito del lavoro dipendente, ed è stata individuata la gestione previdenziale alla quale i magistrati onorari devono essere iscritti, e ciò ha consentito alla competente articolazione ministeriale di corrispondere integralmente attraverso il servizio gestito dal Mef i compensi spettanti”. Una soluzione che però non convince i giudici onorari. “Il regime fiscale e previdenziale, su cui il legislatore è intervenuto di recente - prosegue la nota della M.O. -, inquadra i magistrati onorari stabilizzati in via esclusiva come ‘assimilati’ ai dipendenti e li iscrive all’Ago dell’Inps, nel Fondo Dipendenti del settore privato, in luogo della Ctps, la Cassa di pertinenza dei dipendenti statali, in netta difformità rispetto a quanto avviene per l’omologo magistrato ordinario”. Dopo le “importanti” parole del Guardasigilli, in Aula, che ha definito inaccettabile il trattamento di questi servitori di Stato ed ha dichiarato come costoro oramai fanno le stesse cose che fanno i giudici togati, Consulta chiede un gesto fattivo che trasformi le intenzioni in azioni, “la previsione in Nadef della riforma organica della categoria, con lo stanziamento dei fondi necessari a realizzare la completa riforma, nei termini ribaditi dall’Unione”. La richiesta di immediato deferimento dell’Italia alla Corte di Giustizia europea, conclude Consulta, sarà la conseguenza automatica in caso di ulteriori ostacoli ad una riforma ormai improcrastinabile”. Fermo. La vita dietro le sbarre. Il Garante: questo carcere va chiuso e ricostruito Il Resto del Carlino, 17 settembre 2023 Giulianelli parla dell’istituto penitenziario di Fermo facendo il punto sulla situazione delle Marche. Ci sono 55 detenuti e 41 posti regolamentari. “Il carcere di Fermo andrebbe chiuso e ricostruito altrove”. Lo ha ribadito ancora una volta il Garante per i detenuti delle Marche, Giancarlo Giulianelli, nel corso di un incontro voluto per fare il punto sulla situazione carceraria nella regione. In generale si parla di poche misure alternative per chi deve scontare pene brevi; poco personale; troppi detenuti in attesa di sentenza definitiva; strutture inadeguate, sono i quattro problemi che accomunano tutte le strutture, con Fermo che ha la situazione peggiore. “Il carcere oggi conta di 55 detenuti - spiega - a fronte di 41 posti regolamentari, con 14 stranieri, va chiuso il carcere, che è Casa di reclusione, di Fermo: un ex convento non adatto, con spazi stretti e porte fatiscenti. È meglio ridarlo alla città per altri usi. Il Comune ha individuato un’area, con il sottosegretario Delmastro ne abbiamo discusso ma non c’è disponibilità finanziaria attualmente. Quello che l’onorevole ha spiegato è che si potrebbero usare i fondi del Pnrr, non riuscendo a portare a termine il proprio programma, per costruire un nuovo istituto. Ideale sarebbe un carcere a metà tra Macerata, che è l’unica provincia senza struttura, e Fermo”. Giulianelli passa spesso per Fermo, ci è stato qualche settimana fa e ricorda che è ripreso il corso per la cura di un orto, con dei vasconi per piantare la verdura, un’attività che piace molto ai detenuti e che diventa parte del percorso di rieducazione: “In quella struttura si riesce a fare poco altro, so però che il sindaco Paolo Calcinaro, che è molto attivo, vuole far ripartire la convenzione che permette ai detenuti più meritevoli di svolgere lavori per la comunità”. Giulianelli chiarisce che nelle Marche a fronte di una popolazione di 877 detenuti, 201 sono in attesa di sentenza definitiva, 121 in attesa di giudizio, 80 appellanti o ricorrenti in cassazione. Le Marche hanno il 22, 8 per cento di detenuti in ‘misura cautelare’. Se non tutti, fosse anche la metà, stessero ai domiciliari, il sovraffollamento si ridurrebbe. La capienza totale nei sei istituti regionali è di 743, ma i detenuti sono 877. Sono 723 i detenuti residenti nelle Marche, 341 i nati nelle Marche. Secondo Giulianelli quello che serve è far sentire che si fa attenzione alla storia di ognuno, curando la sfera degli affetti familiari, offrendo assistenza per le pratiche e le difficoltà burocratiche. Bologna. Sos dal Pratello: “Dieci agenti trasferiti e non sostituiti” di Marco Merlini Corriere di Bologna, 17 settembre 2023 La situazione al carcere minorile del Pratello non può più essere sottovalutata. Gli agenti della polizia penitenziaria devono essere aiutati, perché il clima rischia di diventare esplosivo. La denuncia arriva dal Sappe, il sindacato autonomo della polizia penitenziaria che ieri mattina ha dato vita ad un presidio davanti all’edificio che ospita i giovani detenuti: “I nostri colleghi stanno vivendo un momento di grande disagio - spiega Giovanni Durante segretario aggiunto del sindacato - negli ultimi mesi dieci agenti sono stati trasferiti e non sono stati rimpiazzati. Questa situazione, oltre a significare un aggravio notevole di lavoro, costringe in alcuni casi gli operatori a turni che superano le otto ore. Non è sostenibile”. Da mesi la situazione al Pratello è difficile, ci sono 41 agenti per 41 detenuti, in un rapporto di uno a uno che a fronte di situazioni di disagio manifesto crea un evidente cortocircuito: “La pressione a cui vengono sottoposti gli agenti è enorme - prosegue Durante - nell’ultimo anno gli eventi critici si moltiplicano, assistiamo ad aggressioni fisiche e ad azioni che mettono in pericolo l’incolumità di tutti”. Di reinserimento sociale entro quelle mura si parla sempre meno ed il problema diventa quello della sicurezza. “Ci sono situazioni contingenti che vanno risolte - insiste l’esponente del sindacato - un ragazzo di 21 anni non può vivere a stretto contatto con uno di 14, si finisce per creare una scuola del crimine”. Il Sappe chiede un tavolo di confronto con il Dipartimento della giustizia minorile, e l’invito si estende anche alle istituzioni locali: “Possono fare molto dal punto di vista della collaborazione, facciamo appello anche a loro”. Novara. Radicali in visita al carcere: “Pochi educatori, un’emergenza da risolvere” di Roberto Lodigiani La Stampa, 17 settembre 2023 “Il carcere non si racconta, lo devi vedere”: è la motivazione che ha portato una delegazione di Radicali italiani a visitare le carceri piemontesi, dando la possibilità di partecipare anche ai cittadini. Ieri mattina l’iniziativa ha fatto tappa nella casa circondariale di via Sforzesca a Novara mentre oggi sarà il carcere di Verbania. “Lo scopo principale dell’iniziativa “Devi vedere” - spiega Giovanni Oteri, dell’associazione radicale Adelaide Aglietta di Torino - è avvicinare la società civile in un processo di consapevolezza e capire una realtà che è considerata negletta. Finora l’iniziativa ha registrato un buon riscontro. Siamo già entrati nelle carceri di Biella, Ivrea, Vercelli, Saluzzo e Torino. A inizio ottobre è prevista la visita al carcere minorile del capoluogo regionale”. Le oltre due ore trascorse nella struttura carceraria di Novara, anche a diretto contatto con i detenuti, hanno permesso di meglio definire che “ci sono delle difficoltà di dialogo con le famiglie all’esterno - dice Giovanni Oteri -. Mancano inoltre momenti di contatto organizzato con il personale di sorveglianza. C’è da precisare che il carcere di Novara dal punto di vista delle strutture murarie è messo meglio degli altri istituti di pena piemontesi”. Igor Boni, presidente dei Radicali Italiani, evidenzia una carenza: “Dei quattro educatori che sarebbero in organico a Novara, ne è rimasto solo uno. Significa che il detenuto si sente completamente isolato perché risulta bloccato il percorso futuro di progettazione della riabilitazione”. Il radicale Andrea Turi richiama l’attenzione sul numero dei detenuti che hanno problemi con l’abuso delle sostanze stupefacenti: “Ben 51 detenuti su 182 hanno problemi di dipendenza. Il servizio Sert dell’Asl li ha presi in carico ma invece di essere curati all’esterno sono stati incarcerati. Restare in cella non rappresenta una soluzione adatta per la loro rieducazione”. La novarese Nathalie Pisano ricorda che “è scaduto il mandato di tre anni, e già prorogato, del Garante dei detenuti. Don Dino Campiotti ha dichiarato di non ambire al rinnovo. Il Consiglio comunale di Novara al più presto dovrà occuparsi della nomina, avviando la pubblicazione di un bando per raccogliere le candidature. I Radicali furono i primi nel 2017 a chiedere la nomina del Garante dei detenuti. E’ una figura fondamentale essendo il trait d’union tra la direzione penitenziaria, i detenuti e tutto ciò che ha a che fare con la gestione burocratica dentro le mura”. I momenti di maggior coinvolgimento emotivo sono stati gli ingressi nelle celle: “I detenuti ci hanno accolti offrendoci il caffè, fette di torta, bibite. Abbiamo cantato insieme le canzoni di De André - dice Luca Oddo di Vercelli -. Mi aspettavo una separazione netta tra guardie e detenuti ma è emersa una capacità di coinvolgere l’intera popolazione carceraria con l’obiettivo di convivere nel rispetto dei ruoli e creare una comunità viva, attiva pur con le limitazioni della libertà personale”. Napoli. “Mare Fuori? Il carcere minorile non è come la fiction” di Susy Malafronte Il Mattino, 17 settembre 2023 Il sottosegretario di Stato Andrea Delmastro Delle Vedove e il vice del Dap - dipartimento corpo di polizia penitenziaria - Lina Di Domenico hanno trascorso una giornata con i minori a rischio camorra accolti nella comunità minorile “A’ voce d’e creature”, di don Luigi Merola. “Si sono lasciati trasportare dalla gioia dei nostri bambini e sono andati via carichi di entusiasmo. Grazie di cuore per questa graditissima visita”, ha detto il prete anticamorra che, tra le sedi della fondazione di Pompei e Napoli, toglie dalla strada 250 minori potenziali baby camorristi. “Sono venuto qua - ha spiegato il sottosegretario Andrea Delmastro Delle Vedove - per vedere cosa umilmente fa qui don Luigi e per imparare da lui, così da poter contagiare altri sacerdoti in tutta Italia e creare tanti don Luigi Merola e aprire centri come ‘A voce d’e creature’ in tutta Italia. L’entusiasmo di don Luigi nell’aiutare i bambini a rischiò camorra è la benzina dell’umanità”. Il vice capo del Dap, Lina Di Domenico ha spiegato ai bambini che “il carcere non è assolutamente come nella fiction ‘Mare Fuori’“. Roma. Manifestazione per chiedere più dignità per i detenuti rainews.it, 17 settembre 2023 Dopo i recenti episodi di suicidio, in piazza le associazioni e il volontariato penitenziario contro il sovraffollamento nelle carceri. 51 suicidi in carcere dall’inizio dell’anno in Italia. L’ultimo nel Lazio neanche una settimana fa: a togliersi la vita, a Regina Coeli, un ragazzo di 21 anni con un sospetto caso di scabbia. Una situazione sempre più critica negli istituiti di pena della nostra regione, dove sono detenute oltre 6 mila persone. Nasce da qui la manifestazione di questa mattina a piazza Cairoli a Roma, organizzata da Sbarre di Zucchero, a cui hanno aderito anche altre associazioni e il volontariato penitenziario. Tante le rivendicazioni, a cominciare da una maggiore attenzione alla dignità dei detenuti. A cui andrebbe concessa anche la possibilità di comunicare più frequentemente con i loro familiari come misura di prevenzione per aiutarli a superare sconforto e solitudine. Si rivolgono dunque al ministro della Giustizia Nordio gli organizzatori, chiedendo una modifica regolamentare che vada proprio in questa direzione. La società - viene sottolineato - non dovrebbe aumentare le carceri ma diminuirle. Più volte viene citato l’articolo 27 della Costituzione: la sanzione ha senso - viene ribadito - se ha una finalità rieducativa e risocializzante. Perché quando una persona è in carcere, non è una ferita solo per la famiglia ma per la collettività. Milano. La mostra con le opere dei detenuti dei quattro carceri cittadine di Giulia Giaume artribune.com, 17 settembre 2023 La mostra si chiama “Rinascita” e gli autori dei lavori in mostra al Palazzo Arese Borromeo di Cesano Maderno sono i carcerati di Bollate, Opera, San Vittore e Beccaria. Che fanno dell’arte uno strumento di speranza e dialogo con la società civile. Sono i detenuti delle quattro carceri milanesi - Beccaria, Bollate, Opera e San Vittore - gli autori delle opere in mostra al Palazzo Arese Borromeo di Cesano Maderno. L’esposizione Rinascita raccoglie infatti, nelle sale dei Centauri e Titani, i lavori pittorici e scultorei realizzati dai carcerati durante una serie di laboratori coordinati dai responsabili e professori Renato Galbusera, Chiara Mantovani, Valentina Marzani e Mariuccia Roccotelli. L’iniziativa organizzata dall’Associazione dEntrofUoriars, che vedrà le opere esposte per tutto il mese di Ville Aperte, vuole “evidenziare alla società civile come da una condizione di sofferenza esistenziale della popolazione dei privati della libertà può manifestarsi un messaggio di rinascita, ritorno alla speranza che si manifesti con gli strumenti dell’Arte visiva”. La mostra - che dal 26 ottobre al 5 novembre si sposterà nel Foyer dell’Auditorium di San Fedele, a Milano - è solo l’ultima delle iniziative dell’Associazione dEntrofUoriars, fondata nel 2017 per promuovere il reinserimento sociale dei detenuti attraverso la cultura. “L’arte tutta rappresenta una delle risorse più potenti per ritrovare l’armonia dentro e fuori di sé e per ammirare l’essere umano nella sua manifestazione più pregevole, quella dell’atto creativo”, sottolineano dall’Associazione, che si prefigge di portare sempre più la realtà carceraria a contatto con la società civile per stimolare un confronto costruttivo. Numerose le iniziative e gli eventi organizzati dal 2017 a oggi: diffuso l’appoggio dei detenuti alle guide museali in tutta la Lombardia - che ha interessato luoghi come la Casa Museo Boschi di Stefano di Milano e la Villa Reale di Monza -; la realizzazione, per i 500 anni dalla morte di Leonardo, di una grande opera sulla Battaglia di Anghiari e una serie di sanguigni a Palazzo Rezzonico, oltre a una rivisitazione della Dama con l’Ermellino esposta a Villa Borromeo d’Adda di Arcore; la mostra, per i 700 anni dalla morte di Dante, di una serie di dipinti sulla Divina Commedia tra Villa Orsini Colonna di Imbersago e e Villa Cusani Confalonieri di Carate Brianza; e l’esposizione, l’anno scorso, di scorci delle Ville Gentilizie al Palazzo Arese Borromeo e a Villa Tittoni Traversi di Desio. “Riteniamo che il carcere che abbatte la recidiva e che dà frutti sia quello che diventa fucina di cultura, che abbatte l’ignoranza, che dà opportunità al ripensamento del proprio comportamento e quindi responsabilità”, dicono ancora da dEntrofUoriars. Il carcere si fa così “promotore nell’accompagnare il detenuto in un percorso di recupero, di cambiamento della propria condotta e che gli offre l’opportunità di reinserimento nella società una volta finita la pena”. Quel “sistema tossico” che innerva il lavoro consumandoci la vita di Cristina Morini Il Manifesto, 17 settembre 2023 A proposito di “Le grandi dimissioni”, l’ultimo volume di Francesca Coin di recente pubblicato da Einaudi. Il salario minimo è una misura che appare necessaria, compresa la critica alla cultura antisindacale. Le donne sono oggi le più penalizzate dai processi di inclusione differenziale del neoliberismo. Sono anche le più disposte a scommettere sull’altrove e a ricominciare da capo. Il libro di Francesca Coin da poco uscito per Einaudi, “Le grandi dimissioni. Il nuovo rifiuto del lavoro e il tempo di riprenderci la vita” (pp. 288, euro 17.50), è innanzitutto un testo sulla “libertà”. Un concetto complesso, spesso deformato da questi tempi di democrazie illiberali e di libertà neoliberiste. Addentrarci troppo ci porterebbe lontano, ma si può notare che esso si confronta da sempre, nelle letture che ci appassionano, con i rapporti di potere, di produzione e sociali sui quali si fondano le forme dell’oppressione. Simone Weil scrive nel 1934: “La storia dell’umanità viene a coincidere con la storia dell’asservimento che fa degli uomini, oppressi e oppressori, il puro zimbello degli strumenti di dominio che essi hanno fabbricato, e riduce così l’umanità vivente a essere cosa tra le cose inerti”. In questa interpretazione, precisamente politica ma che non manca di partecipazione lirica per la condizione dell’umanità, “la libertà vera” potrebbe darsi per l’essere umano “qualora le condizioni materiali che gli permettono di esistere fossero esclusivamente opera del suo pensiero che dirige lo sforzo dei suoi muscoli”. Ebbene, la base del ragionamento di Coin da qui ci induce a osservare fino a quali profondità si sia spinta la pervasività e l’intensificazione del lavoro imposta da un “sistema tossico” che si articola su più piani e non è disponibile a pensare l’autodeterminazione dell’individuo né il benessere collettivo. La questione della sussistenza, anche se inaggirabile, non può eludere la necessità di porre al centro “gesti di sottrazione” dal lavoro e con ciò “porre all’ordine del giorno una discussione che è stata per troppo tempo rimandata”. Perché, si domanda Coin nell’esordio del volume, “lasciare il lavoro in un periodo di recessione nel quale - si dice - avere un lavoro è un privilegio?”. Basandosi anche su una serie di interviste qualitative condotte sul campo, l’autrice nota che, diversamente da quanto è stato nelle epoche passate, oggi appaia strampalato “dimettersi”, lasciare, quitting. Eppure, scrive citando lo storico dell’economia Paul Douglas, “nel 1910, negli Usa i tassi di dimissioni erano altissimi e rappresentavano oltre il 70 per cento di tutte le cessazioni volontarie”. Cosicché, “in assenza di meccanismi di promozione interna, il personale era incentivato ad andare in qualche altro stabilimento per migliorare la propria condizione”. Dopodiché “gli studiosi concordano sul fatto che il cambiamento progressivo nelle politiche del lavoro e nelle condizioni salariali e di tutela sia stato la ragione per cui le dimissioni volontarie hanno avuto cali sostanziali nel corso del Novecento”. Insomma, welfare state, salari adeguati, forme di redistribuzione differita sono stati in grado di “fidelizzare” la manodopera. Oggi, questi strumenti di politica economica sono “in dismissione”, in questo modo mettendo in discussione “i cardini stessi della stabilità occupazionale tipica del secolo scorso”. La crisi dei sistemi collettivi di assicurazione sociale come forma di garanzia del lavoro nella società fordista e nei modelli keynesiani di governance si accompagna al crollo, a mio modo di vedere definitivo, della società salariale. Il fatto che la precarietà sia diventata la forma prevalente di organizzazione del lavoro contemporaneo è, insomma la chiave di volta per capire anche il fenomeno della “grandi dimissioni”, almeno nel contesto italiano. La “classe precaria” è infatti figlia di modificazioni sostanziali del paradigma produttivo, i cui effetti definiscono l’employment engagement con le imprese, cioè il tentativo di creare forme di coinvolgimento nei lavoratori, facendo leva su promesse, creazioni di immaginari e connessioni emotive con il lavoro. Nel decennio scorso, sono stati analizzati processi come la “femminilizzazione del lavoro” e della “trappola della passione”. Si tratta di precisi dispositivi di sfruttamento, che provano ad agire come sostituti simbolici di retribuzione e tutele, strutturati a partire da una trasformazione epocale del contesto in cui i lavori vengono ordinati e comandati. L’impiego nei servizi, analizzato da Coin entro uno spettro assai ampio, dal terziario umile della grande distribuzione, della ristorazione e del turismo, fino al lavoro estremamente specializzato e professionalizzato del sistema sanitario, è specchio suggestivo di questo cambiamento. In tali contesti l’incidenza dei contratti a breve termine, il turn over contrattuale e il dumping sociale, è estremamente elevata, diversamente dal settore manifatturiero di matrice fordista dove il rapporto di lavoro dura di più e i contratti a tempo indeterminato sono più alti della media. Dunque, vorrei sottolineare che è il paradigma odierno a determinare i sintomi di fronte ai quali ci troviamo. La labilità dei contratti e la svalorizzazione del lavoro, spiegano la tendenza a rifiutare, a non accettare il ricatto, a mollare. Poiché, in effetti, i precari di seconda generazione, sfiniti da inutile spreco di attenzione e di intelligenza emotiva, hanno imparato a “non crederci più” o, almeno, a “crederci meno”. Questa precisazione approfondisce il significato dell’anomalia italiana, su cui riflette Francesca Coin: c’è chi se ne va anche senza un’alternativa in mano. Il lavoro che viene abbandonato è, perciò, in massima parte già lavoro precario, instabile, povero, a termine, predisposto ad avvitarsi verso il basso dagli andamenti della “trappola della precarietà”. Altro che successo, realizzazione, soldi facili. È già lavoro a termine, stagionale, destinato a essere dismesso, è lavoro in condizioni semischiavistiche. Sull’altro fronte, nel caso del settore sanitario, il vettore dell’immedesimazione, il professionalismo, il vincolo etico, sacrificale, “a fare il bene” che impregna molti mestieri connessi alla cura non bastano più a reggere burnout, stress lavorativo, conflitto tra lavoro e vita privata. La pandemia ha scoperchiato la situazione di forte crisi attraversata dalla sanità pubblica. Proprio lo smantellamento del settore del welfare, connesso alla fine della società salariale, da un lato non consente più forme di garanzia collettiva, favorendo le dimissioni del precariato a più bassa qualificazione, dall’altro si ritorce sui lavoratori stessi del comparto dei servizi pubblici: il welfare diventato modo di produzione, tra profitti esorbitanti estratti dai brevetti e lavoro a ritmi forsennati, nuova catena di montaggio contemporanea con turni infiniti per mancanza di personale, è un luogo infernale da cui fuggire per salvarsi la vita. Perciò, interrogarsi sul senso del lavoro e della vita, nella generalizzata assenza di misura del medesimo e mentre i confini tra il primo e la seconda scolorano, è fondamentale. È giusto notare che le donne siano oggi le più penalizzate dai processi di inclusione differenziale del neoliberismo e che siano anche le più disposte a scommettere sull’altrove e a ricominciare da capo. Come abbiamo sempre detto: il punto non è inglobare la differenza, il punto è trattenerla. Le donne intervistate da Francesca Coin danno risposte appassionate su una tensione verso un modo di vivere che rispetti la libertà, quel concetto che sta alla radice dell’idea di società non soggiogata evocato all’inizio di queste note. Per tale motivo, nelle conclusioni, le soluzioni per uscire da questo vortice non possono che essere difformi da tutto ciò che fino a qui è stato. Il salario minimo, certamente, è una misura necessaria, e lo è anche la critica alla cultura antisindacale che si è introdotta nella società. Dedicherei più enfasi all’ostracismo cui è stato condannato il conflitto per arrivare a dire che il cuore del problema del lavoro, oggi, è che il welfare state si presenta come strumento inadeguato agli obiettivi per cui è sorto. Da cui il disagio dello stare nel lavoro. L’autrice non si sofferma abbastanza sullo strumento del reddito di autodeterminazione. Gli attuali sistemi di sicurezza sociale offrono protezione per certi tipi di rischio ma nessuna tutela per altri. Il reddito di base è il modo per riportare al centro dell’agenda politica la questione dell’efficacia delle politiche pubbliche, se abbiamo a cuore la libertà non di pochi ma di tutti. Giustizia distributiva che declina la libertà come bene nella cui equa distribuzione consiste propriamente la giustizia. Non “libertà formale”, ma “libertà reale”, come scrivono da tanto tempo Van Parijs e Vanderborght. Solo facendo forza su nuovi strumenti di welfare, si potrà ritrovare equilibrio nell’ineguale scambio attuale, e nella grave omissione del principio dell’universalità che è ciò che determina le regole tossiche e ricattatorie che vengono disertate. “Penitenziari industriali” che fabbricano schiavi e non “lavoratori liberi”, scriveva Simone Weil nel suo tempo. Quasi un secolo dopo, “liberare la vita dal lavoro è un’urgenza esistenziale”, ribadisce Francesca Coin. “Don Puglisi? Più pericoloso di mille magistrati” di Antonio Maria Mira Avvenire, 17 settembre 2023 Il magistrato Alfonso Sabella, che indagò a Palermo: don Pino faceva quello che lo Stato non faceva. A tutti diceva che un altro mondo era possibile. “Don Pino Puglisi è stato ucciso perché era un’alternativa a “cosa nostra”. E lo faceva a Brancaccio, dove per tutto dovevi passare per “cosa nostra”. Anche aprire un negozio o comprare una casa. Invece don Pino spiegava che c’era un altro mondo possibile, che in quel quartiere ti potevi diplomare, potevi imparare a fare l’idraulico o l’elettricista senza passare da loro. Tutto questo non era tollerabile da “cosa nostra”, minava la stessa radice del suo potere. Era molto più pericoloso don Pino di mille magistrati, di diecimila carabinieri”. A spiegare le motivazioni dell’uccisione del parroco di Brancaccio è Alfonso Sabella, giudice del Tribunale di Roma, per anni magistrato di punta a Palermo, il pm che catturò moltissimi capi di “cosa nostra”, titolare di inchieste importantissime, che raccolse le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Pasquale Di Filippo e Pietro Romeo che indicarono per primi i nomi dei due killer Salvatore Grigoli e Gaspare Spatuzza e il contesto nel quale il delitto era avvenuto. Negli incontri coi ragazzi delle scuole parla sempre di Puglisi. E ha testimoniato nel processo di beatificazione. Ma su quegli anni ha un giudizio molto duro. “È paradossale ma don Pino rappresenta la sconfitta dello Stato e della mafia insieme. La sua presenza a Brancaccio col Centro Padre nostro dice “lo Stato è assente e io lo sostituisco, la mafia cerca di dominare e io mi oppongo solo con la mia persona, col mio coraggio, con la mia determinazione”. A Brancaccio c’era don Pino che faceva quello che lo Stato non faceva, che portava un’idea diversa dalla mafia, che doveva essere universale ma che universale non era. C’era don Pino, sacrificabile con un colpo di 7,65 alla nuca”. I due collaboratori diedero anche una motivazione dell’omicidio? Pasquale Di Filippo la legò al discorso di Giovanni Paolo II ad Agrigento e al fatto che don Pino rompeva le scatole con la sua attività. Grigoli e Spatuzza invece lo sapevano con certezza perché dovevano ucciderlo? Non venivano da famiglie mafiose, non erano “uomini d’onore”, non erano “punciuti”. Era una tecnica usata per avere i cosiddetti “vuoti a perdere”, soggetti a cui davano ordini ma che non sapevano mai le ragioni. Ad esempio i materiali esecutori delle stragi del 1993, fatta eccezione per “Fifetto” Cannella, non sono “uomini d’onore” e nessuno sa la verità sul perché avevano messo quelle bombe. La regola tra gli “uomini d’onore” è che tra loro si dice la verità. Usare, quindi, degli “affiliati” era un modo per evitare di raccontare loro le ragioni dei delitti più riservati. E in caso di arresto una loro eventuale collaborazione sarebbe stata meno dannosa. Quando capisce il motivo dell’uccisione di don Pino? Quando arresto Pietro Aglieri seguendo padre Mario Frittitta che andava a dire messa da lui. Ben altro prete… Un altro tipo di prete. E infatti io nella richiesta di misura cautelare faccio proprio la differenza. A don Frittitta si rivolgevano tutti i mafiosi per celebrare matrimoni e battesimi. Don Pino no. Quando entro nel covo di Aglieri trovo l’altare, i paramenti sacri, i messali, gli incensieri. Allora capisco che lui ha fatto una sorta di pentimento davanti a Dio. Quindi forte dei miei tre esami di teologia all’Università Cattolica e gli dico “Aglieri lei ha dato a Dio quel che è di Dio, ora dia a Cesare quel che è di Cesare”. Le rispose? Mi disse: “Quando voi venite nelle nostre scuole a parlare di legalità e di civile convivenza, i nostri ragazzi vi seguono, ma quando cercano lavoro, un supporto scolastico, assistenza sanitaria, una casa, trovano voi o noi?”. Io non ho saputo cosa rispondergli. Ma capì realmente quali erano le ragioni dell’uccisione di don Pino. Perché era la negazione di questo controllo assoluto di “cosa nostra” sulla vita delle persone e spiegava che chi nasceva a Brancaccio non doveva necessariamente sottostare ai Graviano. Era un “prete antimafia”? No, solo prete. Non faceva antimafia militante, non tuonava contro i mafiosi, ma coi fatti faceva molto più danno di qualunque altra parola. Dando un’alternativa a quei giovani, un luogo dove riunirsi, recuperare gli anni scolastici, imparare un mestiere. Questo per la mafia era devastante perché andava “nelle nostre scuole”, come diceva Aglieri usando un aggettivo possessivo. Quei ragazzi non erano più “loro”, dei mafiosi. Questa era la rivoluzione di don Pino. La stessa ragione per cui viene ucciso Libero Grassi, non perché si rifiutava di pagare il pizzo ma perché era un vulnus della credibilità del sistema “cosa nostra”. Don Pino addirittura dice ai mafiosi “incontriamoci”... Così li spiazzava. Il dialogo che don Pino cercava con i mafiosi era un modo per dire “riconosco che avete esercitato qui un potere, io sto esercitando un altro potere, parliamoci”. I mafiosi si dicono religiosi, ma colpiscono un prete... Quando sono entrato nelle varie “camere della morte” della mafia ho sempre trovato immagini sacre. Gaspare Mutolo mi raccontava che prima di andare a commettere gli omicidi si faceva il segno della croce e chiedeva la protezione di Gesù per non farlo arrestare. Questa è la loro “cultura religiosa”, ovviamente paganesimo, ma usando dei simboli e dei riferimenti della cristianità. Don Pino non faceva lezioni di teologia, non spiegava perché “cosa nostra” fosse contraria ai dettami di nostro Signore, ma coi fatti era dannosissimo per il potere mafioso. È convinto del reale pentimento di Grigoli e Spatuzza? Di veri pentiti ne ho conosciuti pochissimi. Grigoli mi ha dato l’impressione di aver fatto un percorso di rivalutazione critica reale di quello che aveva fatto. Su Spatuzza non mi esprimo, ma è verosimile. In questi giorni si parla tanto di giovani criminali, di carcere, di pene. Lui accoglieva anche i ragazzi più “difficili”... Don Pino è una figura attualissima. La pecorella smarrita da lui trovava sempre accoglienza. Dava ai ragazzi quello che lo Stato non dava. Per questo don Pino è stato un eroe. Non lo sono stati i magistrati, i carabinieri e i poliziotti uccisi nell’adempimento del proprio dovere. Don Pino invece lo ha fatto “gratis”, per questo è un eroe. Non glielo imponeva la sua missione pastorale. E lo ha fatto consapevole dei rischi. Quello che mi dispiace è che ancora oggi puntiamo sui don Pino, che ancora oggi quelle cose le fanno loro e non lo Stato. Per questo ho parlato di sconfitta dello Stato. C’è un’altra Caivano che resiste: quella che vuole cambiare. A cominciare dai bambini di Francesca Barra L’Espresso, 17 settembre 2023 Il Parco verde, quartiere del comune campano, è una delle più grandi piazze di spaccio e di violenze. Ma ci sono associazioni che strappano i più piccoli alla camorra. Nel silenzio dell’opinione pubblica e delle istituzioni. Parco verde è un quartiere di Caivano nato per dare casa agli sfollati dopo il terremoto del 1980, ma che si è trasformato anche in una piazza di spaccio di droga, una delle più grandi d’Europa. Torna sotto i riflettori perché è qui che si è consumata una violenza su due cuginette di dieci e dodici anni. Da tempo viene descritto come un non luogo, la porta dell’inferno da non varcare. C’è però, come in ogni narrazione, un’altra faccia della medaglia: la parte sana del quartiere che resiste e lotta per difendere la bellezza ed è per questa speranza di riscatto che chiede proprio oggi, mentre la ferita sanguina, di non abbandonarla più e di non accorgersi della sua esistenza solo quando il confine viene sporcato con episodi drammatici. La salvezza è anche prevenzione. Alfredo Giraldi è un attore, un burattinaio e un educatore. Abita nel Parco Verde da quando aveva tredici anni. Il nome del quartiere è nato nel tinello di casa sua dove si riuniva la Commissione ecologica del Comitato Popolare del quartiere. Si sarebbero dovuti chiamare rione 219, ma in quell’occasione una signora disse: “O verde è comm e nuje, vene maltrattato, sputato, ma po’ ricresce, rinasce”. Era verde, ma ben presto si è inquinato. “Quando arrivammo nel 1985 la giunta era stata arrestata, non avevamo un riferimento politico. Non avevamo tutti i giorni l’acqua, la Chiesa nacque nel 1990: mancava tanto. Sono uno dei tanti che si è salvato dalla criminalità, ma i miei compagni di classe andavano in galera, sparivano da scuola e finivano nei clan della camorra”. Malgrado questo si parla poco del bene che si fa: i comitati hanno sempre agito per resistere e far resistere, coinvolgendo i ragazzi nelle attività culturali. “Vorrei che la gente ci vedesse con occhi diversi, anche se so che è complesso. È giusto raccontare la verità, ma vorrei far conoscere anche un’altra storia. Solo così si può capire quanto sia importante proteggere la bellezza e lavorare contro “lo schifo” che balza agli occhi. Che forse fa anche comodo a qualcuno che resti così”. C’è anche chi prova a cambiare, come Bruno Mazza, che ha scontato dodici anni in carcere e oggi ha fondato un’associazione, “Un’infanzia da vivere”, per aiutare i ragazzi del quartiere a non scegliere la sua stessa strada. “Quando arrivammo non c’era niente per noi bambini: giostre, aree attrezzate, colori, campi sportivi. Nel 1992 ho perso mio padre che era un meccanico ed eravamo cinque fratelli, senza un punto fermo, mi sono perso anche a scuola. Tanti compagni non avevano il papà: chi morto per overdose, chi in agguati di camorra. Mi allontanai dalla scuola, malgrado mia mamma ci tenesse tantissimo perché era una maestra di asilo, anche se lavorava come bidella. A dodici anni ho iniziato a rubare: ci chiamavano “i rapinatori bambini”. Tutti sapevano chi fossimo, ma nessuno è venuto a casa nostra, nessuno è intervenuto con gli assistenti sociali. Era più facile spararci, anche se avevamo armi giocattolo. A 16 anni sono stato arrestato e quando sono uscito sono diventato il braccio destro di un boss, Alfredo Russo, che si era proposto come guida e padre protettivo. Un giorno però mi sono affacciato al balcone di casa durante i domiciliari e ho visto i bambini in strada commettere i miei stessi reati e ho capito che dovevo cambiare”. “Ho sconfitto l’eroina ma oggi vivo in strada e ho perso una gamba. Vorrei una stanza e un lavoro” di Luca Caglio Corriere della Sera, 17 settembre 2023 Da senzatetto a Milano chiede l’elemosina sul metrò. A marzo ha subito l’amputazione e ora si muove con l’aiuto delle stampelle. “Facevo le fiere e i mercati con papà. Ho scoperto la droga da adolescente in discoteca”. Reduce dagli inferi della tossicodipendenza ma i giorni son brutti uguale, in strada a Milano, senza dimora né lavoro. Anche se da anni ha smesso di farsi, lui che adesso vorrebbe rifarsi. Una vita. Anche se da marzo non ha più una gamba e la protesi è ancora un po’ ballerina: tre giri di scotch dal ferramenta in via Pacini. Scene mai viste. Anche se oggi è un ex zombie, presentabile e presente a sé stesso, un’anima in pena confinata a Lambrate in attesa del “treno” giusto. L’elemosina sul metrò - Si trascina sulle stampelle, Marco Cesardi, 40 anni, che per fare qualche euro scende in metropolitana. L’elemosina tra i vagoni. “Fatica e vergogna, non ho molta autonomia ma devo mangiare. Mai rubato, mai. Spacciato sì. Quando mi va bene pernotto in ostello, altrimenti dormo su una panchina in viale Rimembranze, io che avrei bisogno di medicare almeno la gamba, il moncone intendo: vedi, ha fatto un bel callo ma è rimasto un buchino, una ferita che dà un gran fastidio. Il fatto è che la sforzo troppo, però basta sedia a rotelle. Mi servirebbe una stanza con un bagno, se qualcuno volesse aiutarmi. Mi hanno operato alla clinica Città Studi e dato la morfina. Ora ho la sindrome dell’arto fantasma, per esempio avverto prurito o formicolio al piede ma quando faccio per grattarmi, diamine, il piede non c’è. Da impazzire. A fine mese si riunisce una commissione per decidere sulla pensione di invalidità, ma io vorrei lavorare, magari un part time adatto alla mia condizione. Vorrei una chance”. “Quello che mi ricordo” - Marco seduto al bar, una centrifuga di ricordi, qualcuno solo accennato perché interrotto dal pianto o da una sigaretta - “Scusa, capo, hai da accendere?” - e altri più definiti. Come con le canzoni che ricerchi freneticamente sul telefono ma che talvolta, dopo le prime strofe, anche basta: la prossima. “A trent’anni mi facevo 15 “pere” di eroina al giorno spendendo fino a 150 euro, spesso al boschetto di Rogoredo. Un prete missionario mi notò per strada e si offrì di lavarmi i vestiti alla Casa della Carità. Poi un giorno mi disse: “Marco, come posso renderti felice?”. Riavere il mio sorriso, don. Mi erano rimasti tre denti, non sono un brutto ragazzo”. Il sacerdote pagò le cure da un dentista. Un salto nel presente: “Mi sto sentendo con una donna di Torino conosciuta su Facebook, sono andato a trovarla, mi dà energia”.” Il casolare dell’infanzia - Marco sfoglia l’album in ordine sparso, rimestando anche nell’infanzia già abbozzata su un taccuino - “Quello che mi ricordo” - in ospedale, dopo l’amputazione: “Sono nato a Borgomanero (Novara). Mi ricordo la casa di famiglia, che poi era un grande casolare con il giardino e il posto per gli animali: un bellissimo cane da caccia, le anatre, i conigli, galli e galline a cui nonna tirava il collo. Tanti parenti, nel casolare. Mi ricordo che sulla stufa c’erano sempre pentoloni d’acqua a scaldare, ci riempivamo la vasca da bagno per non sprecare quella corrente, dunque le corse per essere il primo a lavarmi. Mi ricordo che quando avevo bisogno del bagno, d’inverno, chiedevo alla nonna di sedersi sulla tazza a scaldarla un po’. Ricordo che i miei si sono separati presto, avevo 2 anni: papà era un rappresentante di materassi, sempre in giro, ma anche un tipo libertino e giocatore di poker. Andò via con una donna che aveva già due figlie, ne fecero un terzo. Tornerò a parlargli dopo molto tempo. Io sono rimasto con mamma insieme a mio fratello, maggiore di 7 anni, che inizierà a drogarsi…”. Disco, pastiglie e fiere - Adolescenza, la porta dell’inferno, e con una famiglia disunita è più facile attraversarla. Eleggendo a nuova “casa” la discoteca e salutando l’innocenza. Non solo canne. “A 14 anni ballo e mi sballo con pasticche di ecstasy, droga vera, come mio fratello, come la mia prima ragazza”. La scuola? “Neanche la terza media. L’anno del diploma mancato ero a Genova, ospite in una casa-famiglia, ma son scappato per tornare da mamma, a Gozzano. Ho iniziato a lavorare come saldatore di rubinetti. Nel weekend aiutavo papà, l’avevo perdonato, nelle fiere e nei mercati: io, un giovane venditore ambulante. Ma ero già dipendente dalle sostanze: tiravo cocaina. Non c’è un motivo, succede che la provi e non sai se ti fermerai. Appena maggiorenne gestivo un circolino a Pogno, sempre nel Novarese, che ho chiuso dopo aver chiuso con una, una tipa, tradendo gli anziani clienti. Meglio le fiere…”. Imbonitore nelle fiere - Quando Marco ne parla, di fiere e mercati, la voce squilla. Lui e papà, sul camper, di regione in regione. Tappe milanesi: viale Papiniano, Sant’Ambrogio, Rho. Lui ventenne e una nuova compagna di viaggio: l’eroina. “Ero bravo, un mattatore, facevo le dimostrazioni, hai presente il tagliaverdure? “Signora mia, questo è super, gliele fa in tutti i modi, guardi: da questa parte alla julienne, ma se lo gira… taglio alla giardiniera. E se gratta qui, voilà, concassé! In omaggio lo spremilimone. Avevo il mio pubblico, guadagnavo. Mi chiamavano anche altri ambulanti con licenza. Ho preso un appartamento in affitto a Legnano, non distante da papà che stava in provincia di Varese. Anche mamma si era fatta un nuovo compagno”. Luci e ombre. Giù dal balcone - Luci spente dopo la morte del signor Cesardi, dieci anni fa, quel genitore sparito e poi ritrovato all’imbrunire. Muore anche Marco, il suo lato umano e ancora tangente alla salvezza, perché a 30 anni non c’è condanna definitiva. Invece lui “gioca” di sponda con il lato oscuro per consumare e consumarsi, risucchiato dalle droghe. “Mi sono lasciato andare smettendo di lavorare, e non pagando più l’affitto mi hanno sfrattato”. Nel boschetto di Rogoredo - Da Legnano a Milano, supermarket dell’eroina. Oltre la stazione di Rogoredo c’è il boschetto, quasi un vezzeggiativo: 15 “pere” al giorno. “Ho trovato una stanza a Romolo pagando due spicci a una coppia di giovani tossici, nelle popolari, con un figlio. Un giorno ha bussato il padre di lei, o di lui, per portarli via, così mi sono ritrovato in una casa tutta per me, sebbene da abusivo. Ho ospitato altri sbandati finché una sera qualcuno ha aperto il fuoco, sarà stato il 2015, e io mi son lanciato dal balcone. Capito come mi sono spaccato tutto, le gambe? I ferri dentro, una almeno si è salvata, l’altra è stata un tormento. Da quella caduta, però, mi sono rialzato, anche grazie a una ragazza, Ambra, che mi è stata vicino dopo l’ospedale”. La comunità - Su in Val Camonica, giù il metadone contro i sintomi dell’astinenza, tra le comunità bresciane di Edolo e Sonico: 28 mesi per ribellarsi alla dittatura della “roba”, diventando nel tempo un riferimento per gli ultimi arrivati. “Ho anche lavorato, sette mesi, per conto della struttura: smistamento rifiuti. E sono stato in diverse scuole a raccontarmi, far prevenzione, casomai servisse ai giovani a tenerli lontano. Dopo la comunità ho ricercato mamma, ma questa volta ho trovato un muro, allora eccomi in strada, a Milano, senza più una gamba. Sono stufo di mendicare, ho bisogno d’aiuto, magari una stanza e un lavoro part time”. Migranti, ex caserme e container: il piano del governo per raddoppiare i Centri di permanenza per i rimpatri di Rinaldo Frignani Corriere della Sera, 17 settembre 2023 Alla Difesa l’incarico per i nuovi Cpr (attualmente sono dieci), anche se poi la vigilanza sarà affidata alle forze dell’ordine. Rimpatri rapidi da strutture più snelle anche dentro gli hotspot per chi proviene da Paesi considerati “sicuri”. Lunedì il Consiglio dei ministri. La prima struttura a moduli è pronta a entrare in servizio vicino a Maganuco, nella zona industriale fra Modica e Pozzallo, in provincia di Ragusa. Muri di cemento, container, reti di protezione. Ha 84 posti e sarà utilizzata per i rimpatri veloci di chi non ha titolo per rimanere sul territorio nazionale. A fine agosto è stata ultimata dai vigili del fuoco su ordine del ministero dell’Interno: si tratta di un complesso sorvegliato dalle forze dell’ordine dal quale non è semplice evadere. Altri simili saranno costruiti nelle prossime settimane, insieme con aree riservate con la stessa funzione ma all’interno degli hotspot già esistenti. Anche se l’annuncio-video della premier Giorgia Meloni di un deciso cambio di marcia nelle procedure di espulsione degli stranieri irregolari risale all’altro ieri, in realtà la macchina organizzativa si è messa in moto da settimane. E ieri le proteste a Lampedusa per i timori di un nuovo hotspot hanno ritardato lo sbarco della tendopoli della Croce Rossa destinata al personale delle forze dell’ordine. I lavori da avviare - Il ministero della Difesa attende per domani dal Cdm l’incarico di fornire edifici da trasformare in centri di trattenimento degli irregolari che resteranno in ex caserme e altre strutture dismesse da riqualificare - anche fra quelle a disposizione del Demanio - fino a 18 mesi (periodo massimo per le norme europee), in attesa che venga definita la loro posizione. La vigilanza non sarà affidata all’Esercito, ma a polizia e carabinieri. In caso di responso negativo alle istanze di protezione internazionale, per i clandestini scatterà il rimpatrio. Il piano è quello di raddoppiare gli attuali dieci Cpr - Bari, Brindisi, Caltanissetta, Roma, Torino (ora chiuso), Potenza (a Palazzo San Gervasio), Trapani, Gorizia (a Gradisca d’Isonzo), Nuoro (a Macomer) e Milano - con una capienza fra 50 e 200 posti. Alcuni sono in precarie condizioni, altri come Macomer in via di ristrutturazione. Ci sarà un Centro di permanenza per il rimpatrio per ogni regione grazie alle procedure semplificate previste dal decreto Cutro e le coperture finanziarie della legge di bilancio 2023. Regole e procedure - Nei nuovi centri saranno accompagnati - e non potranno uscire - gli stranieri irregolari con provvedimenti di respingimento o espulsione (esecutivi dopo la convalida del gip). Il questore potrà disporne il trattenimento nel Cpr in attesa della decisione del giudice (che deve confermare anche lo stesso ordine dell’autorità di polizia), dell’identificazione, dell’ok del Paese in cui rimpatriarli e comunque per ogni altro motivo che ne renda impossibile l’espulsione. Tutte misure dalle quali è escluso fino all’esito della domanda chi invece richiede la protezione internazionale. Procedura accelerata infine per chi proviene da Paesi “sicuri”, come la Tunisia, da trattenere negli hotspot e - se in gran numero - nei Cpr. Per loro la decisione sul rimpatrio o meno dovrebbe essere presa in una settimana, ma è più probabile che ne serviranno cinque. Il nodo dei rimpatri - Nel 2023 c’è stato un aumento di rimpatri del 20% rispetto al 2022 (da 2.663 a 3.193), soprattutto di tunisini (1.507), albanesi (482)e marocchini (264). Nei Cpr si trovano invece oltre 500 persone (fra loro 218 tunisini e 109 marocchini). Il nodo sul tema espulsioni, rapide e non, resta quello del nulla osta da parte dei Paesi d’origine ad accettare i rientro dei connazionali. E qui giocheranno un ruolo fondamentale gli accordi fra governi: a oggi i rimpatri in Tunisia sono affidati a due voli a settimana e sugli oltre 127 mila profughi approdati in Italia nel 2023, oltre 11.500 hanno dichiarato al loro arrivo di essere tunisini (15mila e 14mila circa invece guineani e ivoriani). Controlli sull’età dei migranti - Stretta anche su chi finge di essere minorenne per finire nei centri di accoglienza. In caso di soggetti sospetti scatteranno una serie di accertamenti, soprattutto medici e radiologici. Azzariti: “Nei Centri migranti reclusi per 18 mesi? Misura contraria alla Costituzione” di Liana Milella La Repubblica, 17 settembre 2023 Intervista al costituzionalista. Meloni sui migranti? “Priva di senso d’umanità”. La difesa a oltranza dei confini? “I decreti Salvini assurti a paradigma”. La premier con Von der Leyen a Lampedusa? “Ma a fare che?”. Chiusi per 18 mesi nei centri di trattenimento? “La libertà personale è inviolabile dice la Costituzione, e questo vale per tutti, migranti compresi”. Il costituzionalista della Sapienza Gaetano Azzariti ascolta il video di Meloni e dice subito: “C’è un incredibile scarto tra la consapevolezza del dramma migratorio e le misure esclusivamente sicuritarie”. Meloni va addirittura oltre Salvini? “Il modello, anzi il ‘paradigma’ che Meloni vanta, è esattamente quello sicuritario già perfezionato da Salvini che non solo non ha risolto i nodi strutturali delle politiche migratorie, ma ha fatto fare grandi passi indietro al paradigma umanitario, che è quello proprio della nostra Costituzione. E da lei adesso non è arrivata neppure una parola sui diritti umani”. La premier può chiudere con ogni mezzo le porte dell’Italia? “La sua insensibilità totale proprio sui diritti umani si evince da due passaggi. La difesa a oltranza del governo tunisino, al punto da attaccare chi parla di ‘un regime oppressivo’, cioè esattamente quello che la Tunisia è, definita invece dalla nostra premier addirittura come un ‘porto sicuro’. E poi le accuse ai governi che lei definisce ‘migrazionisti’ colpevoli di porre in essere politiche di accoglienza”. La stretta di Meloni è costituzionale? “Alcune misure sono pura retorica. Altre sono molto criticabili se rapportate alla nostra Carta. Altre ancora cercano di forzare il nostro ordinamento”. È retorica il blocco navale? “Ma certo. Lei può mai credere che si possa organizzare una missione congiunta degli Stati europei per bloccare, come ipotizza la premier, le partenze dall’Africa? Stiamo forse ipotizzando di dichiarare guerra a tutto il continente africano? Inutile che mi soffermi su quanto un’ipotesi del genere sia del tutto incompatibile non solo con la nostra Carta, ma con tutti gli accordi, le dichiarazioni, le prassi internazionali. Inviterei l’attuale governo a rendersi conto in che mondo vive”. Invece i 18 mesi nei campi sono solo criticabili? “Prolungare la detenzione amministrativa nei centri va contro il principio della libertà personale, nonché contro i doveri inderogabili di solidarietà riconosciuti e garantiti per tutti. La Consulta è intervenuta in passato con decisioni forse ancora insufficienti. Ma ciò non giustifica affatto che non ci si debba porre il problema”. Meloni dice ai migranti: “Non vi conviene venire in Italia, sarete trattenuti e rimpatriati”. Ma lo può fare? “I rimpatri non dipendono né da lei, né dalle sole leggi italiane, sono necessari accordi coi singoli Stati, che oggi in gran parte mancano, tant’è che questo strumento nei fatti è poca cosa. Ma forse Meloni pensa ad altro, ad allargare i casi di espulsioni, cioè l’obbligo di lasciare il Paese se un migrante viene sottoposto a un procedimento penale, tradendo così l’idea che tutti sono dei delinquenti. Ma anche in questo caso i diritti di difesa garantiti dalla Costituzione non consentirebbero mai di abusare oltremodo di queste misure”. Lei cosa consiglierebbe a Meloni? “Di abbandonare l’idea che, per usare le sue parole, soluzioni “strutturali” del problema migratorio si possano fare a colpi di decreti legge sulla base dell’emozione del momento. Pensi invece a un disegno di legge che garantisca, oltre alla sicurezza, anche i diritti umani e la dignità della persona”. Emergenza migranti a Lampedusa, residenti in piazza: “Non possiamo accoglierli tutti” di Lodovico Poletto La Stampa, 17 settembre 2023 Una neonata muore tra le braccia della madre dopo la traversata dalla Tunisia. Ma sull’isola c’è la grande rivolta. Si può morire anche così, restando vivi. Tenendo in braccio per due giorni un corpino senza vita, pur di non affidarlo al mare. Si può morire dentro mentre la tua Terra Promessa, Lampedusa, cambia linguaggio e gesti e si ribella dopo settimane di pressione degli sbarchi. Blocchi stradali proteste, inseguendo voci e indiscrezioni. Ma giù al molo Favaloro c’è chi piange. La donna del Camerun che ha partorito su un barchino la stanno portando in ospedale con un elicottero. Lei è viva, tutto sommato sta bene. La sua bimba, nata su quella carretta del mare, le è invece spirata tra le braccia qualche ora dopo il parto. E lei l’ha custodita per tutta la traversata. L’ha protetta come si protegge un sogno, anche se ti sta andando in pezzi tra le mani. C’è un’aria strana oggi su quest’isola. Ed è come se qualcosa si fosse rotto in quel meccanismo di solidarietà ad ogni costo che s’era visto e raccontato per giorni. Blocchi stradali al mattino, presidio al porto la sera. I migranti che spariscono dalla piazza davanti alla chiesa di San Gerlando, quella dove ogni giorno vengono distribuiti, a pranzo e cena, centinaia di pasti. Ed è tutto diverso perché qui, dopo giorni di fatiche, adesso si pretendono risposte. Si annuncia una lettera aperta alla presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Si parla della fatica di andare avanti. Poi scatta un gesto che non ti aspetti. È un attimo. La gente scende in strada davanti al municipio. Blocca il passaggio di un grosso autocarro della Croce Rossa carico d’acqua. Il vicesindaco indossa la fascia tricolore. La gente che urla: “Da qui non passa più nessuno”. E Nunzia, Lina e Tracy prendono in prestito tre sedie da un bar e si siedono davanti al paraurti: “Se vogliono andare avanti devono farlo sui nostri corpi”. Com’è inconcepibile Lampedusa in fiamme. Che anomalia quella rabbia che monta. Che è montata nella notte appena passata quando qualcuno ha saputo che, nei programmi della Prefettura, c’è la realizzazione di un maxi accampamento nell’area un tempo adoperata dalla base militare americana. E si fanno i calcoli. “Conterrà almeno 8 mila persone: non dobbiamo diventare l’Alcatraz d’Italia”, urlano in piazza. Telefonate. Mediazioni. Il questore di Agrigento che chiama uno dei ribelli di questa piazza in fiamme, Giacomo Sferlazzo. Tranquillizza: “Nessun nuovo centro per migranti appena sbarcati. Sarà un polo logistico”. Fischi. Cambia tono e registro il questore. Urla al telefono, minaccia: “Se vengo lì succede un casino”. Poi, cerca di sdrammatizzare con una citazione ironica del film di Antonio Albanese, “Cetto La Qualunque”: “Oltre che una camomilla pi tutti, pilu pi tutti”. Ma non è con le minacce che calmi gli animi di chi, da giorni, diceva di sentirsi abbandonato. Dallo Stato prima di tutto. Non è per quella minaccia, inutile, che ad un certo punto Nunzia, Lina e Tracy spostano le sedie. E il camion bianco può finalmente arrancare verso l’hot spot. Succede perché vince la solidarietà E le liti in piazza rischiano di degenerare. I migranti nell’hotspot di Lampedusa tenuti “come animali” e le proteste dei residenti di Lidia Ginestra Giuffrida Il Manifesto, 17 settembre 2023 Situazione esplosiva sull’isola. Morta una neonata. Trasferimenti, nuovi arrivi e il “no alla tendopoli”. Oggi von der Leyen e Meloni in visita. A Lampedusa riprendono gli sbarchi, continuano i trasferimenti e sale la tensione. E si deve registrare l’ennesima vittima: una neonata. “Non mangio da ieri mattina, nell’hotspot siamo come animali lì, la spazzatura ci arriva alle costole. Continuiamo a dormire fuori perché dentro non si può neanche respirare”, racconta Alì, ragazzo tunisino. Fuori dal centro di Contrada Imbriacola la gente continua a dormire accasciata a terra o in qualche brandina. È stanca, affamata e ha bisogno di andare in paese. La tensione sale a ogni annuncio di pasti o trasferimenti. Ma lo stress è alto anche tra i lampedusani. Ieri un gruppo di loro si sono ritrovati in piazza per protestare dopo l’annuncio di due nuove tensostrutture in arrivo sull’isola. Alcune donne hanno bloccato un tir della Croce Rossa che trasportava acqua e cibo. “Abbiamo pagato e trasportato merendine e bevande per non creare disagio ai migranti, ma con la nostra azione abbiamo fatto capire di non aver paura di fermare un tir, di ricevere il questore, Meloni o von der Leyen. Bloccheremo la costruzione della tendopoli e finché l’isola non sarà bypassata noi resteremo qui”, esorta l’attivista lampedusano Giacomo Sferlazzo, durante la protesta in cui era presente anche il vice sindaco leghista Attilio Lucia. “Lampedusa in questi giorni ha dato grande prova della sua umanità. Ma è assurdo far arrivare e concentrare qui più di 11mila persone in quattro giorni. È ovvio che questo trasforma l’isola in un carcere a cielo aperto, come avvenuto nel 2011”, dichiara Giusi Nicolini, ex sindaca Pd che si rifiuta di prendere parte alla protesta. “Lampedusa è teatro di un’emergenza creata ad hoc. Le reazioni dissennate del contesto sociale dove quest’emergenza impatta sono funzionali alla propaganda politica delle destre, servono a far partire la campagna elettorale per le europee. Il fatto che per 11mila persone si invochi l’Ue e si continui a usare questa retorica della mancanza di solidarietà europea è una vergogna. Il governo Meloni avrebbe dovuto chiedere scusa a quest’isola già da tempo. Lampedusa non può essere un’arma di ricatto contro l’Europa”, conclude. Nel pomeriggio di ieri la protesta è continuata con un corteo capitanato dal vicesindaco che si è recato al porto commerciale per fermare il presunto arrivo delle tensostrutture. “I lampedusani sono stanchi. Sono 30 anni che assistiamo a questo scenario. Vogliamo due semplici navi in modo che questi arrivino e se ne vadano”, dice Lucia prendendosela con il governo del suo stesso colore politico. Intanto sempre al porto le persone migranti attendevano da ore di essere trasferite: “Non so bene cosa stia succedendo, ma sto male psicologicamente. Noi vorremmo solo partire, non vogliamo neanche rimanere in Italia. Siamo tutti stanchi, non ce la facciamo più, siamo senza scarpe, senza niente. Abbiamo fame e sete, siamo grati a Dio di essere vivi ma ora vogliamo partire”, raccontano Hamed e Mohammed, entrambi sudanesi e da sette giorni nell’hotspot di Lampedusa. Ieri tra mattina e primo pomeriggio sono state portate via dall’isola circa 1.500 persone. Per un altro migliaio il trasferimento era programmato in serata. Nell’hotspot rimanevano in 1.796. Durante la giornata sono sono sbarcati in 818 da 18 barchini partiti principalmente da Sfax. I numeri, comunque, sono in costante aggiornamento. Ad arrivare sull’isola anche il corpo senza vita di una neonata. La madre ha partorito durante il viaggio ma la bimba non ce l’ha fatta. Nella stessa imbarcazione c’erano 24 uomini, 5 donne, di cui due in gravidanza e sei bambini. Oggi sono attese sull’isola la presidente del consiglio Giorgia Meloni, la presidente della commissione europea Ursula von der Leyen, la commissaria Ue degli affari esteri Catherine Ashton e il presidente della regione Sicilia Renato Schifani. Congo. Dietro la morte di Luca Attanasio potrebbe esserci il racket dei visti Schengen di Antonella Napoli* L’Espresso, 17 settembre 2023 L’ambasciatore italiano in Congo voleva vederci chiaro. “Non è stato un sequestro. Bisogna indagare sul traffico all’interno dell’ambasciata di Kinshasa”, accusa un testimone. Non posso più tacere perché i responsabili della morte dell’ambasciatore Luca Attanasio, del carabiniere Vittorio Iacovacci e dell’autista Mustapha Milambo sono ancora liberi”. A parlare, per la prima volta, è un imprenditore italo congolese, “sponsor” dell’ambasciata italiana nella Repubblica democratica del Congo. La sua è una denuncia precisa che getta una nuova luce sul contesto dell’agguato a Goma, il 22 febbraio 2021. Un racconto che disegna uno scenario, un contesto, già acquisito dalla magistratura romana e che coinvolge direttamente alcuni personaggi che gravitavano intorno alla rappresentanza italiana, interessati a un racket di rilascio dei visti Schengen e a una serie di stranezze contabili. Un vero e proprio sistema che vedeva nell’ambasciatore un nemico. Secondo la giustizia congolese, autori dell’agguato sono stati sei cittadini del Paese, componenti di una banda dedita a sequestri a scopo di estorsione. “Fa male sentire che Attanasio e Iacovacci sono morti per un tentativo di rapimento. Il marcio lo avevano vicino. Nessuno si è posto finora il dubbio che tutto sia scaturito da quello”, dice la fonte. Il testimone che ha rotto il silenzio ripercorre le verità contenute negli esposti presentati al tribunale di Kinshasa, e arrivati, tramite la Farnesina, alla Procura di Roma. Collaboratori e funzionari della nostra ambasciata, ora non più operativi nella capitale congolese, avrebbero rilasciato visti dietro pagamento di cifre che oscillavano tra i 5 e i 6 mila dollari. Somme astronomiche in un Paese in cui lo stipendio medio mensile si aggira intorno ai 200 euro. “Sono anni che sento di brogli per i visti in quella ambasciata, ma nessuno ha mai fatto niente. Perché nessuno ha collegato la morte di Attanasio a ciò che aveva scoperto? Era risaputo che esisteva un business intorno al rilascio di un centinaio di visti illegali al mese. Per non parlare dei soldi del budget per le gare di fornitura all’ambasciata fatti sparire negli anni. C’era chi, pagate le fatture, chiedeva al fornitore, una quota, uno sconto che finiva nelle sue tasche. E ci sono stati maneggi anche sui soldi di noi sponsor della Festa della Repubblica del 2 giugno e della Festa della cucina”. La fonte fa nomi e cognomi di persone sul cui conto sono state aperte indagini. Si tratta, in particolare, di un funzionario il cui nome ricorre in vari esposti e in una relazione dei carabinieri dell’ambasciata di Kinshasa che lo avevano sorpreso mentre lasciava il Consolato con una borsa piena di passaporti. “La magistratura italiana - dice il testimone - dovrebbe andare a fondo. Questo personaggio ha sempre preso soldi dalla vendita illegale dei visti. Sono a conoscenza anche di una truffa al capo dei Servizi congolesi: venticinquemila dollari per dei visti promessi ma mai rilasciati. Il funzionario si è volatilizzato, ma i suoi complici in ambasciata hanno coinvolto un italiano molto in vista in Congo che ha risarcito il truffato per fargli ritirare la denuncia”. Ma sul conto del funzionario c’è molto altro. “Dopo la morte di Attanasio ha ricevuto a Goma una busta piena di soldi davanti ad altre persone. E sempre lui ha preso il denaro che era in possesso di Attanasio quando è stato ucciso, denunciandone lo smarrimento”. Di sicuro, ricostruisce la fonte, Attanasio poco prima di partire per la missione durante la quale è stato ucciso, aveva promesso di indagare a fondo. “Attanasio non avrebbe ammesso illeciti, ma voleva acquisire altre informazioni. Era un diplomatico intransigente e aveva affrontato anche il funzionario al centro dei sospetti. Ne aveva parlato con persone vicine dicendo: quello gioca troppo con i visti”. La persona in questione è stata oggetto di denunce inoltrate alle autorità congolesi e acquisite anche dalla Farnesina che, contattata da L’Espresso, non ha fornito ulteriori elementi. Di sicuro a segnalare anomalie è stata anche la moglie dell’ambasciatore Zakia Seddiki. Entrando nella posta elettronica istituzionale del marito aveva notato che erano state cancellate le mail dell’intero 2020, fino a pochi giorni prima dell’agguato. Un elemento non sufficientemente valutato all’epoca. A non accontentarsi della versione ufficiale sono stati anche il padre del diplomatico, Salvatore Attanasio e il fratello del carabiniere ucciso, Dario Iacovacci, sottufficiale di Marina. “Da tempo si rincorrono voci ma anche notizie circostanziate su azioni poco limpide di alcuni soggetti che operavano in ambasciata. Perché il ministero degli Esteri non è intervenuto?”, si chiede Dario Iacovacci. “E poi - prosegue - c’è la storia della scorta dimezzata”. Ovvero del secondo uomo che avrebbe dovuto vigilare sulla sicurezza di Attanasio lasciato a casa, come dell’intero dispositivo di tutela del diplomatico anche in sede. Ma anche del giallo sull’intera organizzazione del viaggio di Attanasio, circostanza per la quale ci sono già due indagati in Italia. Si tratta dei due funzionari del Programma alimentare mondiale, Rocco Leone e Mansour Rwagaza, accusati di omesse cautele e omicidio colposo, già arrivati al giro di boa dell’udienza preliminare che riprenderà il 14 settembre. Il ministro congolese - spiega Dario Iacovacci - sostiene di non aver mai ricevuto nessun documento che diceva che l’ambasciatore e mio fratello sarebbero andati in missione nel Kivu”. Ma le stranezze non si esauriscono qui: c’è anche “l’uccisione del procuratore che indagava sull’agguato. Noi - dice - andremo avanti fino in fondo. Per questo ci siamo costituiti parte civile in Italia, mentre lo Stato dal quale ci sentiamo traditi non si è mai presentato davanti al Gup”. *Autrice del libro inchiesta “Le verità nascoste del delitto Attanasio”, Edizioni All around Un anno dopo la morte di Mahsa Amini, in Iran la protesta contro il velo è diventata quotidiana di Chiara Sgreccia L’Espresso, 17 settembre 2023 Le manifestazioni delle prime settimane sono cessate, ma il cambiamento dei costumi e la ribellione a questa imposizione sono entrate nel sentimento comune e nella vita di tutti i giorni. Più di 500 persone sono morte. Quasi 20 mila sono state arrestate: a un anno dalla morte di Mahsa Amini, il 16 settembre 2022, che ha dato il via all’enorme ondata di proteste che ha scosso l’Iran, forse le più pericolose per la tenuta Governo dalla Rivoluzione islamica del 1979, il bilancio della repressione è triste. Ma controverso. Non c’è stato alcun cambiamento politico, la polizia morale è tornata a perseguire le donne che non rispettano il codice di abbigliamento, centinaia di nuove telecamere sono state installate lungo le strade delle città per scovare chi non indossa l’hijab. Oltre agli arresti e alle esecuzioni che sono cresciute del 75 per cento in un anno, le autorità iraniane hanno utilizzato altre misure coercitive per inibire i cittadini, fermare le manifestazioni. Per schiacciare il desiderio di libertà di un popolo costretto da anni a vivere una doppia vita, una privata e l’altra in società: intimidazione via sms, negazione dei dritti civili, chiusura delle attività commerciali che fanno entrare le donne senza il velo. Eppure il grido “donna, vita, libertà”, non si è spento. Con la morte della 22enne curda arrestata a Tehran per aver indossato in modo improprio l’hijab, avvenuta mentre era in custodia della polizia morale, quello slogan è diventato un movimento che si è diffuso in tutto il mondo. E le proteste scoppiate il giorno del suo funerale si sono trasformate nel simbolo della lotta per la libertà del popolo iraniano. In piazza e su internet. Se da un lato a un anno dall’uccisione di Amini le grandi manifestazioni di piazza non ci sono più - e la repressione da parte del governo della guida suprema Ayatollah Ali Khamenei aumenta di pari passo con gli arresti, i posti di blocco, il controllo - dall’altro la protesta ha permeato la società iraniana, si è fatta quotidiana. Con decine di azioni di disobbedienza civile che trasformano la realtà di tutti i giorni. Soprattutto grazie alla resistenza delle donne. “Non riesco a rimettere il velo dopo così tante vite perse. Le ragazze adolescenti ci hanno insegnato quanto sia ridicolo accettare i dettami di chi detiene il potere riguardo al nostro abbigliamento. Dire no alla sottomissione inizia con il rifiuto del velo”, spiega una nota attrice che preferisce restare anonima, intervistata dal quotidiano francese Le Monde. La repressione non è stata in grado di fermare il cambiamento culturale in atto: le donne cantano, ballano in pubblico. Bruciano il velo, non si arrendono. Sciolgono i capelli e camminano fiere lungo le strade, come si capisce anche dalle immagini scattate dall’artista Gaia Light che da un anno cattura la vita quotidiana nelle principali città iraniane, accedendo ai circuiti delle telecamere di videosorveglianza che il regime implementa per controllare la popolazione. “Iran Unveiled costruisce una riflessione sulla smania di controllo che caratterizza la contemporaneità per mostrare le falle e le ambiguità del sistema della sorveglianza di massa, rivelandone la debolezza. Evidenziando l’ipocrisia di un regime che vuole sorvegliare e finisce per essere sorvegliato”, chiarisce Gaia Light. Così un sistema pensato per opprimere diventa uno strumento utile nelle mani di chi lotta per abbatterlo. Mette sotto gli occhi di tutti la realtà di un Paese che cambia: migliaia di donne che ostinatamente resistono. E promuovono la trasformazione sociale giorno dopo giorno entrando a scuola, in un centro commerciale, in ufficio, camminando per strada senza velo. Con coraggio. La Corte dei diritti umani condanna la Russia per le purghe contro gli omosessuali in Cecenia di Simone Alliva L’Espresso, 17 settembre 2023 Strasburgo ha deciso per un risarcimento di 52mila euro per danni morali a Maxim Lapunov: “Le prove dimostrano chiaramente che le accuse di gravissime violazioni”. All’Espresso aveva dichiarato: “È un male che ti entra dentro e non esce più”. “La pelle mi si è completamente staccata. A distanza di sei anni balbetto, ho attacchi di panico. È un male che ti entra dentro e non esce più”. Maxim Lapunov due mesi fa ricordava così, in un’intervista esclusiva a L’Espresso, gli effetti dei giorni dell’orrore. Quelli delle torture inflittegli dai funzionari dello Stato russo per la sua omosessualità. In una stanza di albergo di Milano, il ragazzone russo di origini serbe, ha raccontato di Grozny, della Cecenia e di quel marzo 2017 fatto di unghie strappate e percosse, scosse sui genitali e sedie elettriche. Oggi la Corte europea dei diritti umani ha condannato la Russia per le torture inflitte da funzionari dello Stato e per non aver impedito e indagato gli attacchi omofobi subiti da persone della comunità lgbt. Finalmente la Cedu ha riconosciuto che i fatti rientrano in una politica di “epurazione” di persone omosessuali o presunte tali nella Repubblica cecena da parte delle autorità locali. Ha evidenziato che Maxim ha fornito un resoconto convincente di quanto subito dagli agenti dello Stato - che i togati di Strasburgo qualificano come tortura - e che il Governo non ha confutato. Inoltre critica come “gravemente carente e priva di indipendenza” l’indagine svolta dalle autorità russe per accertare la verità. Ora Mosca dovrà risarcire a Lupunov 52 mila euro per danni morali. Troppo tardi, troppo poco. Maxim non potrà più ritornare in Russia, vive in un luogo segreto, la sua sopravvivenza, come ha raccontato lui stesso, è il risultato di una serie di coincidenze: l’essere un cittadino russo, soprattutto accettato e amato dalla propria famiglia che ha fatto di tutto per rintracciarlo: “Prima di rilasciarmi mi hanno forzato a toccare e imbracciare delle armi. Adesso le mie impronte digitali sono lì. C’è un report che mi accusa di omicidio. Un falso reato costruito a hoc, così se provo a denunciare o a tornare in Cecenia rischio la morte. Mi hanno liberato dopo due settimane. Durante quelle notti ho promesso che avrei fatto una cosa se fossi sopravvissuto: avrei sposato il mio compagno”. Lo ha fatto ad agosto. Da qui riparte con una nuova vita. La Cedu, intanto, ha condannato la Russia anche per l’aggressione subita da delle persone lgbti tra il 2012 e 2013 mentre partecipavano a manifestazioni autorizzate e il fatto che la polizia non è intervenuta per impedirli. La Corte rileva, in particolare, che le autorità non avevano adottato misure efficaci per prevenire gli attacchi motivati dall’odio, e che le autorità inquirenti avevano ripetutamente respinto le accuse dei ricorrenti di motivazioni omofobiche dietro gli attacchi. La Cedu “osserva con grande preoccupazione che questa sembra essere una pratica comune nel trattare i crimini d’odio contro le persone lgbti in Russia”. Un balsamo momentaneo per la comunità Lgbt russa, mentre la mattanza continua, come raccontano i volontari di Crisis Group “Nc Sos”, l’organizzazione che dal 2017 aiuta la comunità Lgbt del Caucaso del Nord (tra queste la Cecenia) inserita nel registro degli “agenti stranieri”, la lista di oppositori che Mosca ritiene ricevano sostegno dall’estero. “Non c’è un numero esatto di morti. Molti vengono restituiti alle proprie famiglie affidandosi all’arma antica e brutale del delitto d’onore. Facciamo di tutto per salvare queste persone ma il Paese è avvolto in un silenzio disumano. L’Europa non continui a scegliere l’indifferenza”.