Decreto Caivano, il volto forte dello Stato debole di Filippo Barbera Il Manifesto, 16 settembre 2023 Meloni: “Lo Stato ci mette la faccia”. Non lo fa però ricucendo il tessuto sociale e personale strappato, ma con il “daspo urbano” e con sanzioni collettive alle famiglie come in guerra. Periferia est di Palermo, Istituto Ics Sperone-Pertini. Dieci anni fa la dispersione scolastica era al 27%, oggi è all’1%. Risultato raggiunto grazie all’impegno di una dirigente scolastica, Antonella Di Bartolo, che ha lavorato per ricucire il legame motivazionale e materiale con le famiglie. Presentandosi come una persona che si preoccupa di altre persone; scegliendo la strada difficile del dialogo e operando per la ricostruzione della fiducia nelle istituzioni e nel futuro, che anni di abbandono hanno logorato. Caivano, comune dell’area metropolitana nord di Napoli, teatro di stupri, sparatorie, bande giovanili e camorra: qui lo Stato - dichiara la Presidente Meloni - decide di “mettere faccia anche su materie che sono molto complesse e difficili da risolvere. A Caivano abbiamo preso impegni precisi dopo l’ennesimo fatto di cronaca, che in questo caso riguarda dei minori”. Non lo fa però potenziando i servizi educativi, rafforzano il legame fiduciario con lo Stato, intervenendo casa per casa su quell’abbandono che in molte periferie urbane ha reciso alla base il rapporto tra persone e istituzioni. Lo fa con l’apparente forza del “daspo urbano” e prevedendo, come nelle guerre e nelle prigioni o in quelle che il sociologo canadese Erving Goffman chiamava “istituzioni totali”, sanzioni collettive. Colpire le famiglie per il comportamento dei figli; fucilare gli abitanti del villaggio da cui provengono i partigiani nascosti nelle montagne; togliere l’ora d’aria a tutti i detenuti per qualche azioni commessa dai singoli. Un approccio diametralmente opposto. A Palermo ci sono le persone e i ruoli pubblici che queste persone rivestono, punti di snodo cruciali dai quali passa la ricostruzione della fiducia istituzionale. Ci sono corpi nello spazio pubblico, rappresentanti dello Stato che discutono con le famiglie affacciate ai balconi o sul pianerottolo di casa. Nei cortili dei palazzoni o nei parchi senza più giochi. A Palermo ci sono gesti, sguardi, sorrisi e parole. C’è la natura relazionale della sfera pubblica, fatta di interazioni e legami. A Caivano invece c’è un Decreto orribile applicato a un corpo informe di cittadini trattati come non-persone. C’è l’assenza dello Stato, la sua drammatica e sottaciuta ammissione di debolezza, accompagnata da esibizioni muscolari e dalle immancabili telecamere, con risultati che qualsiasi pattuglia in qualunque città potrebbe conseguire senza sforzo e clamore. Una dichiarazione di impotenza, non una prova di forza. Uno Stato che non apprende e che non coglie l’innovazione spontanea nella pubblica amministrazione per renderla sistematica, intervenendo sulle competenze, rafforzando il personale allo stremo e migliorando le procedure organizzative. Uno Stato cieco, oltre che sordo. Differenze, queste, che si colgono fin dal linguaggio utilizzato in riferimento all’intervento a Caivano: “Il territorio sarà bonificato e qui verranno tutti i ministri”. La bonifica, come nelle paludi. La sfilata dei ministri, come nelle parate dove la sfera pubblica si riduce alla messa-in-scena dei ruoli istituzionali “alti”, senza mobilitare quelli che davvero servono e più vicini alle persone. L’idea, soprattutto, che i problemi si possano estirpare dai luoghi di vita come, appunto, nelle bonifiche delle paludi pontine, terre malsane da svuotare e liberare dalla malaria. Dimenticandosi in questo modo che nei luoghi feriti dall’abbandono prolungato è necessaria prima di tutto un’opera di rammendo precisa e personalizzata, che aiuti le persone a ritrovare il senso del futuro, coinvolgendo la comunità locale in nome dello Stato, non in sua vece, per potenziare le capacità di ciascuno. Con una chiamata di tutti a un’opera di sutura delle lacerazioni prodotte dalle disuguaglianze (ne scrivono Patrizia Luongo, Andrea Morniroli, Marco Rossi-Doria in “Rammendare. Il lavoro sociale ed educativo come leva per lo sviluppo”, Donzelli, 2022). Un’opera che si faccia carico non solo delle persone ma anche della cura dei contesti in cui si interviene, per ricucire gli strappi degli ecosistemi locali e lavorare non solo per la risposta alle mancanze, evidenti e ormai strutturali, ma affinché le persone siano messe in grado di raggiungere obiettivi di “vita buona”. Perché le periferie, a Napoli come a Torino, a Palermo come a Genova, non sono paludi da bonificare, ma luoghi di vita in enorme contrazione di futuro e debito di fiducia. Luoghi che hanno bisogno di recuperare senso di appartenenza nei confronti di uno Stato debole, se non assente; luoghi desertificati da una programmazione urbanistica che si è “mangiata” lo spazio pubblico; luoghi che hanno bisogno di ritrovare la fiducia nella scuola attraverso quei rappresentanti dello Stato che - come Antonella Di Bartolo - mettono in gioco la loro presenza fisica per comprendere e rammendare un tessuto sociale come nessun Decreto Caivano potrà mai fare. Giustizia e minori, il governo vuole smontare un approccio che funziona di Vitalba Azzollini* Il Domani, 16 settembre 2023 Nel commentare il cosiddetto decreto Caivano - daspo urbano agli over 14, divieto di avvicinamento a particolari luoghi pubblici, più carcere per i minori e altro - la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ha affermato che non si tratta di “norme repressive, ma di prevenzione”. Gli impatti di scelte fatte nel passato mostrano che il decreto legge va in senso opposto a quella prevenzione che Meloni vanta di perseguire, oltre a non conformarsi a princìpi sovranazionali in tema di minori. I princìpi sovranazionali - Uno dei più importanti atti internazionali sul tema è la risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni unite (n. 40/33) intitolata “Regole minime per l’amministrazione della giustizia minorile” (Regole di Pechino). Tra le altre cose, l’Onu invita gli stati a fissare una soglia di responsabilità penale non troppo bassa, in ragione della non completa maturità affettiva, psicologica e intellettuale del minore; a rendere residuale il ricorso al processo, per contenerne gli effetti stigmatizzanti; a preferire misure di integrazione sociale, educazione e prevenzione della recidiva rispetto alla privazione della liberta? del minore. Con successive risoluzioni, le Nazioni unite hanno precisato, tra l’altro, che la privazione della liberta? dei minori dev’essere una misura eccezionale cui ricorrere per una durata strettamente necessaria e che l’attribuzione a un giovane dell’etichetta di “delinquente” rischia di produrre un “effetto predittivo dell’evento”. La giustizia minorile è stata oggetto anche di raccomandazioni da parte del Consiglio d’Europa, tra le quali, nel 2008, quella in tema di “diritti e sicurezza dei minori autori di reato destinatari di sanzioni o misure”, che ne promuove “lo stato di salute psico-fisica e il benessere sociale” (08-11). Oltre a ribadire i principi espressi dall’Onu, si sottolinea che l’interesse superiore del minore, principio sovraordinato, sancito dalla Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza dell’Onu (1989), dev’essere tutelato attraverso la proporzionalità della reazione dell’ordinamento rispetto alla gravita? del reato. Tale reazione dev’essere individualizzata in considerazione dell’età, dello sviluppo, della maturità e della situazione personale del minore. Questi princìpi smentiscono quanto auspicato dal ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, Matteo Salvini, secondo cui un 14enne “se uccide, se rapina, se spaccia deve pagare come paga un 50enne”. Il superiore interesse del minore richiede che ne vada valutata la possibilità di recupero attraverso percorsi di educazione e reinserimento nella collettività, essendo il carcere un luogo inadeguato a favorire l’evoluzione di individui non ancora del tutto maturi. Anzi, la reclusione spesso ha effetti di rinforzo delle traiettorie criminali che si pretendono di contrastare. L’evoluzione normativa italiana - Fino 2018 vigeva la parificazione tra condannati adulti e minorenni, in contrasto con i principi costituzionali (artt. 27, c. 3 e 31, c. 2), nonché con i citati principi sovranazionali. Poi, l’ordinamento penitenziario si è evoluto verso un modello che “non incentri sul carcere la pretesa punitiva statale”, come si spiega nella relazione di accompagnamento alla legge di riforma (d.lgs. n. 121/2028), nonché nelle Linee di indirizzo del ministero della Giustizia. La detenzione in istituti penitenziari è prevista solo nel caso in cui altre misure - misure di comunità, come l’affidamento in prova al servizio sociale o con detenzione domiciliare e altro - non siano idonee a contemperare le istanze educative del minore con le esigenze sanzionatorie e di pubblica sicurezza. In altre parole, misure extra moenia possono essere applicate a condizione che siano atte “a favorire l’evoluzione positiva della personalità” del minore, mediante un percorso educativo e di recupero, e che non vi sia un concreto pericolo che egli “si sottragga all’esecuzione o commetta altri reati”. I dati - I dati smentiscono quanto afferma Meloni, e cioè che prevedere più reati e più carcere per i minori possa avere effetti di prevenzione. È vero l’opposto. In confronto a paesi vicini, l’Italia fa un ricorso residuale alla reclusione dei minorenni, privilegiando il piano rieducativo, e ciò ha determinato un tasso di recidiva inferiore per chi fruisce di misure alternative rispetto all’iter ordinario. Secondo il ministero della Giustizia, circa l’80 per cento dei progetti di messa alla prova si concludono positivamente, quindi con l’estinzione del reato; il tasso medio di recidiva dei minori che hanno intrapreso tali progetti è del 19 per cento, contro il 29 per cento di chi ha seguito percorsi tradizionali. Nell’analisi di impatto della riforma del 2018 si individuava nella riduzione dei casi di recidiva uno degli indicatori di efficacia dell’approccio incentrato non più sul carcere, ma sull’educazione e inclusione sociale. Dunque, l’approccio funziona. Ma l’esecutivo vuole cambiarlo. L’orientamento del governo - Dunque, con il decreto Caivano il governo sembra retrocedere rispetto a un modello di giustizia a misura di minore. E il fatto che, ai sensi del decreto, la messa alla prova potrà essere iniziata nella fase delle indagini preliminari, e non solo dopo l’inizio del processo, non è sufficiente a smentire questo cambio di rotta. Il nuovo approccio normativo è stato criticato dagli esperti. Dall’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza fino all’Associazione Antigone si è spiegato che servono interventi educativi, “valorizzando il lavoro di rete tra scuole, autorità giudiziaria e servizi del territorio, creando percorsi di presa in carico che supportino l’intero nucleo familiare”; “lotta alla dispersione scolastica, che non può passare dal carcere per i genitori”; “investimenti sociali e culturali nelle periferie urbane e in tutti quei luoghi dove i contesti economici e sociali sono difficili”. Per svolgere azioni efficaci e mirate bisognerebbe sempre partire dalla ricognizione del reale, che non si realizza con fugaci passerelle nei luoghi del degrado o provvedimenti spot per contrastare emergenze di cui poi si perde traccia. Peccato che i governi spesso mostrino di non esserne capaci. *Giurista È ora di limitare i pieni poteri dei pm. Parla Carlo Nordio di Claudio Cerasa Il Foglio, 16 settembre 2023 “La separazione delle carriere? No, non è negoziabile. C’è già un progetto in Parlamento: ci agganceremo. Entro dicembre si raddoppia sulla giustizia. La limitazione dei poteri del pm? Una volta che si è chiusa un’indagine non si riapre”. Chiacchierata con il Guardasigilli. Pene che aumentano, garanzie che saltano, riforme che slittano, populismo penale che trionfa: ma che ci fa un ministro garantista in un governo non garantista? Abbiamo passato giovedì sera qualche ora con Carlo Nordio, durante la festa organizzata a Santa Severa da Italia viva, e con il ministro della Giustizia abbiamo parlato, a lungo, di futuro e di presente. Problema: come si fa a essere garantisti in una compagine di governo che il garantismo lo difende solo quando parla e non quando governa? Carlo Nordio conosce la differenza tra alcune sue parole del passato e alcune attitudini presenti nel suo governo. Ma nonostante questo non arretra, non si cura troppo delle contraddizioni, alza l’asticella e promette che entro l’anno la maggioranza di governo sulla giustizia non si fermerà: “Raddoppierà”. “Vedrete, tra novembre e dicembre arriverà un nuovo pacchetto di riforme. In primavera ce ne sarà un altro. E nei prossimi mesi sono sicuro che il Parlamento darà seguito a ciò che il Consiglio dei ministri ha già approvato all’unanimità”. Pensa all’abuso d’ufficio, Nordio: “Vedrete che l’eventuale abrogazione non avrebbe soltanto ricadute positive per l’economia ma avrebbe anche l’effetto di aggiungere nel nostro ordinamento un elemento di garantismo vero, dato che ogni anno si celebrano migliaia di indagini nei confronti di amministratori che poi vengono regolarmente assolti, ma che intanto sono finiti sui giornali, delegittimati e vulnerati nella loro carriera”. Pensa alle intercettazioni: “In termini di garantismo significa evitare che vengano messi in piazza i pettegolezzi e le vite private dei cittadini, abbiamo per ora presentato il minimo sindacale: evitare cioè che il nome del terzo venga dato in pasto ai giornali”. Pensa all’inappellabilità delle sentenze di proscioglimento di primo grado: “Noi abbiamo introdotto nel nostro codice di procedura penale il principio che una condanna può intervenire soltanto quando le prove di colpevolezza sono al di là di ogni ragionevole dubbio. Ora, se una persona è già stata assolta, come puoi ribaltare in appello una sentenza in senso di condanna quando un giudice ha già dubitato al punto da assolvere?”. Pensa a questo ma guarda avanti. E promette, con voce stentorea, che nel prossimo pacchetto vi sarà anche la separazione delle carriere. “L’Italia è l’unico paese al mondo in cui il pubblico ministero ha poteri immensi senza nessuna responsabilità: è il capo della polizia giudiziaria, ma con le guarentigie del giudice che sono scritte nella Costituzione. Allora, o cambiamo la Costituzione, o facciamo una riforma a metà. La separazione delle carriere non è negoziabile”. “Si può fare in due modi - dice Nordio: o totalmente, e bene, allora però ci vuole una riforma costituzionale. Oppure - e qui si può dire che il buono è meglio dell’ottimo - la si fa nell’ambito della Costituzione vigente, senza raggiungere i risultati permessi da una riforma costituzionale. È una valutazione che faremo nel prosieguo, politicamente e attraverso i dibattiti. Ovviamente, nel primo caso si tratta di una scelta a lungo termine. Oppure, si può fare una serie di leggi. C’è già un progetto in Parlamento su questo, a cui ci agganceremo”. Nordio, sul tema, aggiunge un passaggio interessante e ci dà una notizia. O meglio, fissa un obiettivo: ridimensionare e rimodulare i poteri dei pm. E per cambiare i poteri dei pm bisogna conoscere, dice Nordio, quali sono i trucchi con cui i pm provano a portare avanti indagini per molto tempo senza avere le prove. “Bisogna affrontare il tema a monte. Esempio. Il magistrato che dopo quattro volte che ha iniziato un procedimento archiviato ne inizia un quinto e un sesto è un problema. Il trucco che usa si chiama così: clonazione del fascicolo. Funziona in questo modo. Tu hai in mano un’inchiesta. A un certo punto non hai cavato un ragno dal buco e chiedi l’archiviazione. Lo fai ma ti tieni un pezzo, il modello 45, e lo mantieni in cassetto. Su quello costruisci una seconda indagine. Poi alla fine il modello 45 si trasforma in un modello 21, e sostieni di aver trovato un indagato, vero o falso che sia. A quel punto chiedi al gip l’archiviazione ma ti tieni un pezzetto del nuovo fascicolo. Si chiama clonazione non a caso. E lo abbiamo fatto tutti. Chi lo fa in modo sistematico lo fa perché non ha in mente un reato o un fatto. Lo fa perché ha in mente una persona che vuole colpire. Questo è inammissibile. E anche questo farà parte del pacchetto che porteremo in Consiglio dei ministri. La limitazione dei poteri del pubblico ministero significa che una volta che si è chiusa, un’indagine è chiusa. Non si può clonare il fascicolo. E se emergono altri elementi di reato, il fascicolo deve passare tutto alla polizia giudiziaria. E laddove dovesse trovare elementi di reato si rimandano gli atti alla procura della Repubblica. E in quel caso il procuratore dovrebbe designare un nuovo pubblico ministero: non quello di prima. Ma santo cielo, dateci un po’ di tempo: qui stiamo parlando di un nuovo codice di procedura penale, non è una cosa che si può fare in pochi mesi”. Approccio garantista chiaro che cozza però con l’approccio giustizialista del governo sull’aumento delle pene. Ricorda Nordio quando scriveva che “chi tende a intercettare una domanda di sicurezza degli elettori giocando con il rialzo delle pene alla fine non fa altro che ingrassare un populismo che in pochi mi sembra vogliono combattere davvero: quello penale”? “Se si guardano gli aumenti delle pene sotto il profilo dell’efficacia preventiva del reato, confermo quello che ho detto: è illusorio pensare che un aggravamento delle pene funga da deterrente. Il delinquente prima di commettere un reato non va a guardare il codice penale. C’è un secondo aspetto, però. La pena edittale, cioè prevista dal codice, è il segnale che lo stato dà della sua attenzione verso la gravità di certi reati. In alcuni momenti storici è opportuno che lo stato dia come segnale di attenzione - senza farsi l’illusione che la pena costituisca un deterrente - l’idea che lo stato c’è, è attento e intende perseguire questi reati. Sotto questo profilo, l’aumento della pena ubbidisce al principio che nessuno cita mai: l’allarme sociale”. Il fine giustifica i mezzi, sembra dire Nordio, e allora chiudiamo la nostra piccola conversazione provocando il ministro su un tema che un garantista vero non può non avere a cuore: le carceri. Tema: Riuscirà su questo il governo a non avere un approccio securitario. “È inutile che ci giriamo attorno. Da un lato abbiamo una moltitudine di detenuti che per una serie di ragioni non può essere lasciata libera di circolare, dall’altro una capienza carceraria che è incompatibile con questo numero di detenuti. Abbiamo difficoltà a reperire risorse finanziarie, come tutti ben sanno E, last but not least, se volessimo costruire un nuovo carcere, dovremmo impiegare almeno dieci anni: perché per i vincoli idrogeologici, per i vincoli archeologici, per i vincoli burocratici e, non ultimo, per il principio di not in my back yard, nessuno vuole un carcere alle proprie spalle. La mia idea è di usare le caserme dismesse, le quali hanno una struttura che è perfettamente compatibile con la sicurezza necessaria a chi è in carcere per reati non gravissimi e magari in espiazione di pena breve. Se noi avessimo la possibilità di riadattare le caserme con cinquecento detenuti a testa - imputati di reati non maggiori - rappresenterebbero già una forte deflazione per il sistema carcerario. E soprattutto sarebbero un forte stimolo rieducativo perché consentirebbero lo sport e il lavoro. Come si può fare? Con un contratto di comodato gratuito con il ministero della Difesa: li abbiamo già, sono progetti concreti. Naturalmente - conclude il ministro - accanto a questi, ci sono progetti di detenzione alternativa. Perché quando si parla di garantismo - l’ho detto in Parlamento varie volte - questo si deve intendere come esaltazione della presunzione di innocenza, ma anche come esigenza di certezza della pena una volta intervenuta la condanna. Però certezza della pena non significa carcere a tutti i costi. Il carcere sarà sempre necessario, fa parte del marchio di Caino che la persona umana porta con sé, perché la violenza, la ferocia, la stupidità - come diceva Schiller - sono dei difetti contro i quali anche gli dèi lottano invano. Ma, detto questo, c’è tutta una serie di reati - soprattutto quelli legati alla tossicodipendenza: reati contro il patrimonio, furti, piccole rapine - che può essere trattata al di fuori della sistemazione carceraria. E su questo, pensate: è d’accordo anche il nostro amico Delmastro Delle Vedove!”. Lo dice con un sorriso, Nordio, facendo riferimento al sottosegretario alla Giustizia, anche lui di Fratelli d’Italia come Nordio, con cui il ministro discute spesso e con cui sul tema delle carceri si è confrontato spesso anche in pubblico. Lo dice con un sorriso ma lo dice anche con uno sguardo serio. Come a voler dire: sulle carceri mi impegno a portare dalla parte del garantismo anche chi sul tema ha idee diverse dalle mie. Nordio dunque raddoppia. Il tempo ci dirà se alzare le aspettative è un modo per indicare una direzione ambiziosa o per deludere ancora chi oggi crede che un futuro garantista dell’Italia non sia solo un’utopia pazza, irresponsabile e romantica. Nordio e la separazione delle carriere aggirando la Costituzione di Liana Milella La Repubblica, 16 settembre 2023 Dopo Calenda il Guardasigilli vuole il consenso di Italia viva sulla giustizia e alla festa di Santa Severa incassa applausi a scena aperta. I decreti del governo con l’aumento delle pene? Servono per tenere a bada l’allarme sociale. Il contesto è di quelli favorevoli. La platea pronta all’applauso. I renziani fanno il tifo per il Guardasigilli Carlo Nordio. Non gli fanno mancare la “ola”. E alla fine dello spettacolo, alla festa di Italia viva a Santa Severa, una data da ricordare quella del 13 settembre, Matteo Renzi corre sul palco per salutare con evidente affetto il ministro della Giustizia super garantista che è stato prontissimo a muovere l’azione disciplinare contro i pubblici ministeri di Firenze che indagano giusto sul leader di Italia viva per via dei presunti finanziamenti illeciti in arrivo da Open. In un crescendo, Nordio prima ha annunciato l’invio degli ispettori pubblicamente in aula al Senato in replica a un’interrogazione dello stesso Renzi e poi ha mandato il dossier con la richiesta di mettere sotto “processo” i due pm al procuratore generale della Suprema corte. Che ci sia feeling tra i due è innegabile. Che Nordio, scoprendo la politica, voglia allargare la maggioranza sulla giustizia anche a Carlo Calenda e Matteo Renzi pure. Del resto le idee collimano. E non c’è terreno favorevole proprio come quello della giustizia per sperimentare la “maggioranza elastica”. Nordio ci mette del suo, non si risparmia proprio quando interloquisce con due garantisti come il direttore del Foglio Claudio Cerasa e il deputato di Iv Roberto Giachetti. Certo, magari un Guardasigilli scrupolosamente attento al conflitto d’interesse avrebbe dovuto evitare di andare proprio dal capo partito per cui ha mosso un’azione disciplinare da lui stesso sollecitata. Ma certo non è un caso se Nordio riproponga proprio a Santa Severa, davanti a un pubblico favorevole, un’idea che con insistenza si affaccia a più riprese in via Arenula, quella di separare le carriere dei giudici e dei pm senza ricorrere necessariamente a una legge costituzionale, ma sfruttando le possibili maglie già esistenti per rendere, se non impossibile, quantomeno difficilissimo, una sorta di chimera, passare da una carriera all’altra. Le parole di Nordio sono chiare: “La separazione è nel programma di governo, o la si fa bene con una riforma costituzionale, oppure la si fa nell’ambito della Costituzione vigente, ma non si raggiungono gli stessi risultati”. E quando Cerasa gli chiede se si potrà fare “entro l’anno” lui replica: “C’è già un progetto in Parlamento, e lì ci potremmo agganciare”. Insomma, una “via breve”, per evitare non solo un lungo percorso tra Camera e Senato, ma soprattutto l’intralcio alla premier visto che di certo il premierato preme assai di più a Giorgia Meloni della separazione tra giudici e pm. Ai puristi che da anni inseguono l’obiettivo, e con esso la discrezionalità dell’azione penale e la scissione in due del Csm, uno per i pm e uno per i giudici, l’idea della separazione “fatta in casa” non piace affatto. E già serpeggia un mormorio di protesta dalle parti delle Camere penali dove il tuttora presidente Gian Domenico Caiazza, che ha portato in Parlamento la raccolta delle firme per una legge di iniziativa popolare in materia, vede questa “mezza” separazione non solo come un segnale di impotenza, per non fare quello che si deve fare. Ma con il misero risultato del “vorrei ma non posso”. Del resto Nordio è fatto così, lui vorrebbe essere super garantista, ma poi fa il decreto Rave, il decreto Cutro, il reato universale sull’utero in affitto, il decreto Caivano. E teorizza pure, proprio come ha fatto davanti ai fan di Italia viva, che sia giusto così tant’è che dice: “In certi momenti è necessario che il governo dia il segnale che lo Stato c’è e che ha intenzione di perseguire reati odiosi, se guadiamo agli aumenti di pena sul piano dell’efficacia preventiva è illusorio che siano un deterrente perché il delinquente non va certo a vedere il codice prima di commettere un reato. Ma quell’aumento di pena obbedisce al principio dell’allarme sociale”. A Napoli la chiamerebbero “a mossa”. Basta bugie sulla separazione delle carriere di Gian Domenico Caiazza* Il Riformista, 16 settembre 2023 Se va in porto la riforma della separazione delle carriere, il Pm finisce sotto il controllo dell’esecutivo, dice l’Anm. Ma la norma in questione recita esattamente l’opposto. Quando si è a corto di argomenti, ed hai tutte le evidenze contro, non ti resta che raccontare qualche efficace bugia. Se va in porto la riforma della separazione delle carriere, dice infatti ANM, il Pm finisce sotto il controllo dell’esecutivo. Falso. Ecco come reciterebbe l’art. 104 della Costituzione, come previsto dalla legge di iniziativa popolare dei penalisti italiani, fatta propria da tutte le proposte di legge ora in Parlamento: “L’ordine giudiziario è costituito dalla magistratura giudicante e dalla magistratura requirente ed è autonomo e indipendente da ogni potere”. Come potrebbe mai una norma costituzionale, che blinda con tale inequivoca chiarezza l’indipendenza del Pm, trasformarsi nella sua stessa negazione, non dovete chiederlo a me, ma al Comitato Centrale di ANM ed agli struggenti appelli dei magistrati in pensione, guidati dagli indomabili ex Pm Caselli e Spataro. D’altronde, cosa puoi aspettarti da chi continua a ripetere, con sprezzo del ridicolo, che il mondo intero invidia il modello italiano, e spasima per replicarlo? Il sistema a carriere separate, nelle sue varie possibili articolazioni, vige in Spagna, Germania, Svezia, Portogallo, Inghilterra, Stati Uniti, Australia, Canada, Nuova Zelanda, India, Giappone, solo per citarne alcuni. Noi siamo in compagnia di Turchia, Bulgaria e Romania, con tutto il rispetto. Certo, c’è la Francia (con Pm alle dipendenze dell’esecutivo, però!), ma è l’eccezione che conferma la regola: è praticamente uno degli ultimi Paesi europei con sistema processuale inquisitorio, rispetto al quale l’ordinamento a carriera unica ha indubbiamente una sua precisa coerenza logica e sistematica. In tutti i Paesi che ho nominato vige invece il sistema accusatorio, come il nostro (quindi, Ministro Nordio, cosa stiamo aspettando?). Dicono: in tutti quei Paesi il Pm è sottoposto al Ministro di Giustizia. Non in Portogallo, rispondo, e noi abbiamo scelto il modello portoghese, che funziona magnificamente: carriere separate, Pm indipendente. Cosa c’è che non piace del Portogallo, il baccalà? L’indipendenza esterna della magistratura sarebbe dunque garantita; è di quella interna che dobbiamo parlare. Ecco perché Giovanni Leone, noto estremista liberal radicale, si batté senza successo in Assemblea Costituente perché nel CSM ci fosse parità tra membri laici e togati (come ora proponiamo noi, nei due separati CSM, sollevando l’indignazione togata): “occorre eliminare il timore…che il CSM… possa trasformarsi in organo di casta, intorno al quale si coagulano interessi, intrighi, protezioni, preferenze, tali da costituire un pericolo per l’indipendenza dei singoli giudici”. Era la seduta pomeridiana del 14 novembre 1947: gli avessero dato retta, altro che Palamara-gate! Ma facciamo ancora in tempo, sempre che questa riforma la si voglia fare sul serio. Siamo pronti a discutere ed a confrontarci, ma basta con le bugie, signori magistrati. In servizio o in pensione che voi siate. *Presidente Unione Camere Penali Italiane Decreto intercettazioni, Forza Italia chiede aiuto a Nordio ma a decidere è Bongiorno di Valentina Stella Il Dubbio, 16 settembre 2023 Gli azzurri ne uscirebbero sconfitti se non riuscissero a portare a casa almeno alcuni emendamenti, come quelli che prevedono che gli ascolti irrilevanti non siano evidenziate sui brogliacci. Avremmo pensato di titolare questo articolo così: “Forza Italia non ci sta: sulla riforma garantista delle intercettazioni andiamo avanti”. E invece non sarà possibile perché sulla faccenda la nebbia ancora non si è diradata. Ieri vi abbiamo raccontato che una nostra autorevolissima fonte di governo ci aveva detto che a Forza Italia sarebbe stato chiesto di ritirare gli emendamenti presentati al decreto legge 105/2023, quello che estende la disciplina dell’uso delle intercettazioni per reati di criminalità organizzata anche ad altri tipi di delitti, come il traffico illecito di rifiuti e sequestro di persona a scopo di estorsione. “Se il governo ha una linea, deve essere sostenuta da tutti”, è stato riferito al Dubbio. L’altolà da parte di Lega e Fratelli d’Italia deriverebbe dal fatto che la mini riforma delle intercettazioni elaborata dagli azzurri sarebbe troppo garantista. Per alcuni in Forza Italia sarebbe stato più tattico non rendere pubblici gli emendamenti prima del deposito, che comunque è avvenuto, e quindi ora è arrivato il momento di rimediare, o meglio di trattare: Fi ha chiesto per martedì prossimo un incontro al ministro Nordio. Per i forzisti è confermato, per Via Arenula ancora no. “Nulla di strano” ci spiega un colonnello di Fi, “lo hanno chiesto anche Calenda e Costa”. E ha ragione ma sul contenuto dell’incontro le bocche sono cucite. È facile però immaginare che martedì, a due giorni dal voto sugli emendamenti, la rappresentanza forzista vada a Via Arenula per definire la loro linea del Piave. Forza Italia uscirebbe sconfitta se non riuscisse a portare a casa, tra i diversi emendamenti presentati, almeno quelli che prevedono che nei cosiddetti brogliacci le intercettazioni irrilevanti non siano evidenziate da alcuna annotazione di contenuto, e quelli che impongono al giudice di indicare in modo specifico, e non per relazione, i motivi per cui le intercettazioni sono necessarie al prosieguo dell’indagine e i gravi indizi che ne sono il presupposto, anche se questo potrebbe infastidire l’Anm. FI potrebbe essere costretta a ritirare quell’emendamento che cancella la retroattività della norma, che è la richiesta più importante posta al governo dalla Procure antimafia per salvare i processi in corso. Come pure, è immaginabile, che debba rinunciare alla limitazione dell’uso del trojan e al ritorno alla sentenza a sezioni unite Cavallo secondo la quale “i risultati delle intercettazioni non possono essere utilizzati in procedimenti diversi da quelli nei quali sono stati disposti, salvo che risultino indispensabili per l’accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza”. Ovviamente anche FdI e Lega non possono pretendere dagli alleati azzurri di fare una marcia indietro totale perché Forza Italia perderebbe forza agli occhi degli elettori, ma con essa la stessa maggioranza che si professa garantista e liberale, a giorni alterni però. Intanto, avendo preso visione dell’ordine del giorno del prossimo Consiglio dei ministri di lunedì 18 settembre, è confermato che all’odg non c’è alcuna proposta del Ministero in tema di intercettazioni. La verità per alcuni è che chi tiene le redini su questa faccenda è la responsabile giustizia del Carroccio, la senatrice Giulia Bongiorno, che ha sempre rivendicato l’indispensabilità delle intercettazioni. Forse qualcuno non ricorda ma nel 2011 Bongiorno, quando era in Futuro e Libertà di Gianfranco Fini, si dimise dal ruolo di relatore del ddl intercettazioni perché in contrasto con la cosiddetta “legge bavaglio” ai giornalisti, in aperta contrapposizione a Silvio Berlusconi. La conferma del peso che ha la senatrice arriva dallo stesso Nordio che dalla festa nazionale di Italia Viva ha detto: “Nel settore delicatissimo delle intercettazioni, abbiamo lavorato per evitare che vengano messe in piazza le vite private dei cittadini, abbiamo per ora presentato il minimo sindacale, evitare che il nome del terzo che finisce nelle trascrizioni venga dato in pasto ai giornali. È il minimo sindacale, perché sulle intercettazioni e sulla tutela della privacy stiamo lavorando di concerto con la commissione presieduta dalla senatrice Giulia Bongiorno, e siamo già a uno stadio avanzato”. Una fonte parlamentare criticamente ci confessa: “la tecnica della Bongiorno è quella di occuparsi di un tema, come quello delle intercettazioni e di attrarlo alla sua competenza come se lei fosse il giudice naturale di quella questione. La stessa cosa ha fatto sull’abuso di ufficio: essendo lei contraria all’abrogazione e benché ci fosse stata ampia istruttoria alla Camera sull’argomento ha convinto Nordio ad assegnare il ddl di riforma a Palazzo Madama”. Questo atteggiamento, da quanto appreso, infastidisce non poco diversi esponenti della Lega che anche alla Camera devono sottostare alle condizioni dell’avvocato di Salvini. Come farà il guardasigilli a sbrogliare questa matassa? Non dimentichiamo che essendo un decreto legge deve essere convertito entro sessanta giorni dal Parlamento quindi non ci sono molti spazi per fare manovre e compromessi. Comunque a mantenere il punto ci pensa il solito responsabile Giustizia di Azione, Enrico Costa che ci dice: “Non so come andrà a finire con Forza Italia ma sul tavolo ci sono i miei emendamenti. Cosa faranno gli esponenti di Fi? Non potranno non votarli visto che alcuni sono pressoché uguali ai loro”. Intercettazioni: stop ai trojan che registrano nelle case, la nuova stretta diventa un caso di Liana Milella La Repubblica, 16 settembre 2023 Il Guardasigilli porterà in Cdm lunedì prossimo nuove norme per ridurre gli ascolti, ma fonti del ministero frenano. Ma è già in atto il blitz sul decreto alla Camera. Peggio che ai tempi di Berlusconi. Contro le intercettazioni, nonostante la responsabile Giustizia della Lega Giulia Bongiorno le abbia appena definite “indispensabili”. Ma il Guardasigilli Carlo Nordio sta preparando misure per ridurne l’uso per portarle nel consiglio dei ministri di lunedì prossimo, anche se dal ministero frenano: “Nessuna stretta sulle intercettazioni in arrivo in Cdm”, riferiscono fonti di via Arenula aggiungendo che il “ministro ha seguito con grande interesse i proficui lavori della Commissione presieduta dalla senatrice Giulia Bongiorno, all’esito dei quali saranno concordate le future iniziative di riforma”. Intanto, in via Arenula c’è stata oggi una riunione di maggioranza. E alla Camera, Forza Italia e Azione stanno facendo a gara nel presentare emendamenti per limitare gli ascolti, soprattutto con le microspie attraverso trojan. Addirittura per decreto legge. Sicuramente le proposte, davvero osé, saranno inammissibili, ma se la maggioranza dovesse forzare grazie ai suoi numeri preponderanti, esse troveranno alla fine lo stop del Quirinale. Ma vediamo cosa succede. A partire dal ministro della Giustizia Nordio. Che ieri, proprio alla Camera, ha perfino annunciato quattro azioni disciplinari per altrettanti magistrati che avrebbero violato le norme sulla presunzione d’innocenza, il decreto legislativo Cartabia che blocca le conferenze stampa dei pm, salvo non ci siano “motivi di interesse pubblico”. Ma adesso è la volta delle intercettazioni su cui sta lavorando tutto il suo staff con l’obiettivo, anche in questo caso, di garantire la presunzione d’innocenza, quindi nessun ascolto deve finire sui giornali. In attesa del suo exploit ci pensano ad anticiparlo Forza Italia e Azione, sfruttando anche la presenza, come sottosegretario di riferimento, dell’avvocato forzista e vice ministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto che, nelle commissioni Affari costituzionali e Giustizia, seguirà l’iter del decreto Mantovano-Nordio varato il 10 agosto, dopo le sollecitazioni del procuratore nazionale antimafia Gianni Melillo, per salvare le intercettazioni sulla mafia e sui reati commessi “con il metodo mafioso”. Vogliono trasformare un decreto nato per “salvare” le intercettazioni in uno strumento per demolirle. Un decreto capestro contro gli ascolti. Basta scorrere l’elenco degli emendamenti presentati da Enrico Costa di Azione e quelli di Forza Italia, frutto del lavoro del vice presidente forzista della commissione Giustizia Pietro Pittalis e del capogruppo di FI Tommaso Calderone, di professione avvocato penalista. Ma partiamo da Azione. Il pm sarà costretto, a fine indagine, a depositare i costi delle intercettazioni. E visto che su di lui incombe anche il fascicolo biografico-professionale, magari anche un esborso eccessivo potrebbe pesare soprattutto se perde il processo. Ma questo Costa ancora non lo chiede. Altra “vendetta” invece sui giornali che hanno pubblicato atti coperti dal segreto e che “perdono il diritto di ottenere il contributo dello Stato per l’anno in cui si è consumata la violazione”. Stop ai trojan nelle case - E ancora: stop al trojan nelle case, perché la vita privato anche di un indagato va tutelata, non può essere spiato in camera da letto o nel suo bagno. “La privacy della vita familiare non può essere violata da registrazioni in momenti di stretta intimità personale” scrive Costa. Che, appunto, parla solo di “registrazioni” in quanto vieta tutte le funzioni video dei trojan limitandone l’uso alla sola possibilità di registrazione vocale. E ancora: i trojan solo per la mafia. E se l’emendamento non venisse accolto, allora sia non un solo giudice, ma un collegio ad autorizzarlo. Trojan solo per la criminalità, stop al suo uso per la corruzione voluto dall’ex Guardasigilli Alfonso Bonafede. E ancora. Trojan solo per registrare conversazioni, ma non potrà più “acquisire screenshot, documenti, video, files”. Cioè non sarà più un Trojan… E infine un’ossessione della destra, stop anche alle intercettazioni a strascico: i risultati di un ascolto autorizzato per un reato non potrà più essere usato per reati diversi da quelli oggetto dell’autorizzazione stessa, salvo che non si tratti di delitti gravissimi. Qualora dovesse emergere la notizia di un delitto il pm dovrà chiedere una nuova autorizzazione. È la stessa proposta che al Senato, in commissione Giustizia, fa il capogruppo di Forza Italia Pierantonio Zanettin, cioè un ritorno alla sentenza delle sezioni unite della Cassazione del 2020, nota come sentenza Cavallo dal nome del suo estensore. Poi stoppata durante il governo giallorosso. E sempre Forza Italia è protagonista alla Camera di richieste altrettanto tranchant. Scritte dalla coppia Pittalis-Calderone. Innanzitutto un altolà allo stesso decreto Mantovano-Nordio perché arriva il no di Fi sulla possibilità di applicarlo ai processi in corso. Cioè proprio la ragione per cui il decreto è stato fatto, quella di salvare i processi. E ancora: Trojan solo per i reati più gravi, mafia, sequestro di persona, contrabbando, traffico di droga, riduzione in schiavitù. E poi stop anche per loro alle intercettazioni “a strascico” a meno che non si tratti di reati gravi. Stop pure alla trascrizione di fatti irrilevanti ai fini dell’indagine e dei fatti personali che “hanno un’elevatissima potenzialità lesiva della reputazione e della privacy”. Perfino stop alla “trascrizione anche sommaria”. Niente nomi e cognomi delle persone estranee all’indagine. L’indagato deve perfino poter “verificare la regolarità degli impianti utilizzati per fare le intercettazioni”. E infine, quanto al Trojan, si pretende una motivazione “più stringente” per il suo uso che comunque dovrà comportare “la sussistenza di gravi indizi di reato”. Per decreto legge, ovviamente, tutto questo non è ammissibile, poiché non esistono i presupposti di necessità e urgenza per farlo. Vedremo che indicazioni darà il vice ministro Sisto. Ma forse si tratta di una precisa indicazione a Carlo Nordio che dovrà inserire le richieste di Forza Italia e quelle di Azione, soprattutto dopo la visita in via Arenula di Carlo Calenda ed Enrico Costa che hanno garantito il loro appoggio parlamentare. E un pugno di voti fa sempre comodo. Il ministro “rassicura” Costa: presunzione d’innocenza, in corso indagini sulle violazioni di Valentina Stella Il Dubbio, 16 settembre 2023 “Pronti a rafforzare le tutele”, dice il guardasigilli. Il deputato: l’ordinanza cautelare sia impubblicabile. È caccia ai quattro magistrati sotto procedimento disciplinare per una possibile violazione delle norme sulla presunzione d’innocenza. La notizia è stata resa nota due giorni fa dal ministro Carlo Nordio che, rispondendo a una interrogazione del deputato di Azione Enrico Costa, ha detto: “Sono state già iniziate alcune azioni disciplinari, una su segnalazione del nostro Ispettorato e tre su esercizio della Procura generale della Cassazione, per violazione di quest’ultima norma”. Ma i soggetti o le Procure “sospettate” restano ignoti: bocche cucite sia a via Arenula che al Csm. Evidentemente dopo il caso Donzelli- Delmastro, l’attenzione alla riservatezza è ancora più avvertita. D’altra parte, anche quei magistrati hanno diritto alla presunzione d’innocenza, quindi non sarebbe nelle inclinazioni di questo giornale farne i nomi, considerato che ancora non è intervenuta una sentenza definitiva nei loro confronti in sede disciplinare. Certo sarebbe stato interessante capire quale parte della norma sia stata violata, però anche su questo non si riesce a sapere nulla. Costa, sarcasticamente, tenuto conto che il Csm aveva appena nominato Nicola Gratteri nuovo procuratore capo a Napoli, ha esordito così in Aula: “Parliamo di presunzione di innocenza nel giorno in cui al Csm si celebra il funerale della presunzione di innocenza”. Proprio Gratteri, quando era stato audito dalla Quinta commissione del Csm, a chi gli chiese quali fossero i suoi rapporti con la stampa, aveva risposto con la sua ormai ricorrente battuta: “Faccio le conferenze stampa per dire “buongiorno, abbiamo arrestato 200 presunti innocenti”. Lo dico apposta perché io non condivido quest’ultima riforma fatta dall’ex ministra Marta Cartabia”. Tornando all’interrogazione parlamentare, il responsabile Giustizia di Azione aveva rilevato che, nel generale panorama della magistratura inquirente, sarebbero in atto diverse violazioni: dal mancato rispetto del divieto di assegnare ai procedimenti penali denominazioni lesive della presunzione d’innocenza alla violazione della norma che impone al procuratore della Repubblica di mantenere i rapporti con gli organi di informazione esclusivamente tramite comunicati ufficiali oppure, nei casi di particolare rilevanza pubblica dei fatti, tramite conferenze stampa, alla norma che stabilisce come la determinazione di procedere a conferenze stampa sia assunta con atto motivato in ordine alle specifiche ragioni di pubblico interesse che la giustificano. “Enormi violazioni si sono palesate, inoltre, in merito alla diffusione di informazioni sui procedimenti penali da parte delle forze di polizia”, ha aggiunto il deputato. Il quale ha quindi chiesto al guardasigilli “quale sia lo stato di attuazione della normativa”, “se sia stato effettuato il monitoraggio” e se “siano state avviate azioni disciplinari nonché se, anche sulla base degli esiti del monitoraggio, intenda avvalersi della facoltà di adottare, entro il 14 dicembre 2023, un decreto legislativo recante correttivi e integrazioni” alle norme sulla presunzione d’innocenza introdotte due anni fa, prevedendo eventualmente il divieto di pubblicazione dell’ordinanza di custodia cautelare. La risposta del guardasigilli non è stata altrettanto dettagliata considerato che il monitoraggio è iniziato da poco. Nordio non ha fatto alcun accenno riguardo ai correttivi al divieto di pubblicazione dell’ordinanza: “È un discorso un po’ difficile da fare dal punto di vista tecnico, però vorrei ricordare che ancora oggi il nostro codice di procedura penale è estremamente ambiguo sul fatto che alcune comunicazioni perdano la loro segretezza, ma ciononostante non siano pubblicabili. In realtà la giurisprudenza, come sapete, ha interpretato questa norma nel senso che, una volta che un atto non ha più segreto, anche se non è pubblicabile, quantomeno può essere divulgato”. Nordio ha ammesso che “ci sono state effettivamente delle violazioni di questa norma a suo tempo e non sono state esercitate azioni disciplinari: in questo momento noi stiamo monitorando con grande attenzione queste eventuali violazioni così come stiamo predisponendo eventuali correttivi per correggere le ambiguità di questa normativa, e ci riserviamo di dare dei dati ulteriori e più specifici magari durante il prossimo colloquio”. Costa ha replicato: “Avremmo voluto una puntuale affermazione in ordine all’inserimento e all’introduzione, in questo decreto correttivo, di una modifica dell’articolo 114 cpp, nel senso che non si può pubblicare testualmente l’ordinanza di custodia cautelare. Perché succede che, da un lato, la legge sulla presunzione d’innocenza impedisce al procuratore della Repubblica di parlare dell’indagine, salvo che ci siano questioni di interesse pubblico. Cosa fanno il procuratore della Repubblica o il pm? Nella propria richiesta cautelare infilano tutto quello che vorrebbero dire, ma non possono dire. Poi l’ordinanza di custodia cautelare viene emanata e pubblicata su tutti i giornali: quel che è uscito dalla porta rientra dalla finestra”. Detenuti al 41-bis: telecamera nel Wc e riscaldamenti non funzionanti sono trattamenti inumani di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 16 settembre 2023 Va risarcito un boss della camorra. La videosorveglianza dell’area senza schermatura è degradante anche se le immagini sono offuscate. Inquadrare l’area del Wc, nella cella di un detenuto sottoposto al 41-bis, con una telecamera non schermata, è un trattamento degradante, anche se le immagini sono offuscate. Contraria al senso di umanità è anche l’assenza del riscaldamento nei mesi invernali. La Cassazione ha così accolto il ricorso di un boss della camorra sottoposto al regime differenziato, contro il no del Tribunale di sorveglianza al suo reclamo, con il quale chiedeva di essere risarcito per i periodi durante i quali aveva subìto un trattamento inumano. Circostanza che il Tribunale aveva negato considerando alcuni aspetti della sua detenzione risultato dell’imposizione del cosiddetto carcere duro. La necessaria schermatura - Per i giudici di sorveglianza infatti, la presenza di una telecamera nell’area bagno, che restituiva immagini sfocate, era in linea con la giurisprudenza della Cassazione, e non poteva integrare il trattamento inumano e degradante che fa scattare, secondo quanto previsto dall’ordinamento penitenziario, il diritto al risarcimento del danno, sotto forma di uno sconto di pena, un giorno per ogni dieci trascorsi in condizioni che ledono la dignità umana, o in un ristoro in denaro. Gli effetti del decreto “svuota-carceri” - Rimedi introdotti con il decreto “svuota carceri” dopo la condanna dell’Italia da parte della Corte europea dei diritti dell’Uomo che, con la sentenza Torreggiani, ha affermato, a causa del sovraffollamento delle carceri, la violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo che vieta appunto i trattamenti inumani e degradanti. Una norma non rispettata nel caso esaminato dalla Suprema corte. I giudici di legittimità sottolineano, infatti, che la casa circondariale in cui era ristretto il ricorrente non aveva schermato l’impianto di videosorveglianza, inserito all’interno della stanza detentiva. Un’omissione che il Tribunale aveva l’obbligo di valutare. Lo stesso vale per l’assenza nei mesi invernali, dei riscaldamenti, in un altro carcere dove l’uomo era stato trasferito e in cui i termosifoni non erano funzionanti. Genova. Omicidio nel carcere di Marassi, l’ex direttore Mazzeo: “Giustizia da riformare” di Michele Varì primocanale.it, 16 settembre 2023 Per l’esperto dirigente dell’istituto di Marassi è necessario adeguare gli organici degli agenti e permettere ai responsabili dei Dipartimenti di maturare la necessaria esperienza senza essere trasferiti”. “Per prevenire i disagi e le tragedie come quella avvenuta nel carcere di Marassi bisogna rinnovare in modo profondo l’amministrazione penitenziaria, a livello centrale ad esempio, si fa l’errore di cambiare il Capo del Dipartimento dopo due anni quando inizia ad avere un minimo di esperienza”. A parlare è Salvatore Mazzeo, ex direttore storico dell’istituto di Marassi dove è rimasto per 15 anni e sino al 2015, un dirigente molto stimato ancora adesso fra il personale della Polizia penitenziaria e degli operatori delle “case rosse” di via del Piano: “Serve adeguare gli organici degli agenti - aggiunge Mazzeo ospite della trasmissione di approfondimento di Primocanale - poliziotti che sono il vero cardine di ogni istituto penitenziario, io ho fiducia che il ministro Nordio possa lavorare bene perché ha grande esperienza”. “Uno dei problemi più gravi è strutturale, è legato agli spazi mai sufficienti, visto che i soggetti psichiatrici, come ho letto sui giornali sembrano essere la vittima e l’indagato del delitto, sono sempre di più e sono ormai dislocati in ogni sezione e non solo nel centro clinico, come dovrebbe essere. Questo inevitabilmente acuisce le tensioni e può favorire tragedie come quella avvenuta a Marassi”. Ovviamente l’ex direttore non si addentra mai sull’indagine e sulle eventuali responsabilità dell’omicidio, “nella mia gestione non mi è mai capitato un omicidio, ma ci sono stati due suicidi” ricorda. “Immagino la delicata situazione che si trova a gestore ora l’attuale direttore di Marassi, ma ne conosco le grandi capacità e ho la certezza che saprà gestire al meglio questo difficile momento”. Roma. Il protocollo Raggi sulle carceri mai applicato. Comune e ministero ne firmano un altro romatoday.it, 16 settembre 2023 Annuncio dell’assessora Funari: “Il vecchio tavolo non si è mai riunito”. Verificare i servizi attivi offerti da Roma Capitale nelle carceri del territorio, coinvolgere tutti i dipartimenti competenti e migliorare le attività di reinserimento sociale. Sono gli scopi principali di un protocollo d’intesa firmato dal Campidoglio e dal ministero della Giustizia (DAP, dipartimento amministrazione penitenziaria) per favorire appunto il reinserimento dei soggetti in espiazione di pena. In particolare, con una cabina di regia volta a creare una sinergia tra tutti i Dipartimenti interessati di Roma Capitale (sociale, lavoro, servizi delegati, biblioteche) si vogliono verificare tutti i servizi attivi che Roma Capitale offre all’interno delle carceri romane. Da questo schema di protocollo nasceranno poi, per ogni singolo Dipartimento, dei protocolli operativi utili a determinare le modalità di fruibilità dei servizi. La cabina di regia servirà ad elaborare nuove modalità di reinserimento, tramite il segretariato interno al dipartimento politiche sociali che ogni giorno entra, tramite i suoi operatori, nei 5 istituti di pena romani fornendo orientamento, case di accoglienza per detenuti definitivi, una casa per mamme con bambini, servizio lavanderia a Regina Coeli e un servizio di trasporto con partenza da Rebibbia femminile o da Casa di Leda, rivolto a bambini di mamme recluse o affidate alla casa d’accoglienza. Le biblioteche sono presenti in tutti gli istituti penitenziari che permettano il servizio. “Si tratta di un passo in avanti - spiega l’assessora Barbara Funari - nell’attenzione che questa amministrazione vuole rivolgere alla popolazione detenuta. Ogni istituto carcerario dovrebbe essere considerato come un municipio di Roma Capitale. Il protocollo avrà validità 3 anni. Esiste già una versione votata dalla precedente amministrazione, ma ci risulta che a seguito della firma del protocollo che aveva validità un anno, il tavolo di coordinamento non si è mai riunito. Questa delibera è il frutto di un lavoro coordinato e costante, per questo ringrazio gli assessorati e di dipartimenti coinvolti, la garante e il provveditore che ha approvato il testo”. Vicenza. Carcere, nuovo Garante e il 18 settembre Commissioni congiunte vicenzareport.it, 16 settembre 2023 L’amministrazione mette in campo iniziative e progetti per la Casa circondariale. Il carcere come un “quartiere”, con specificità e problematiche da affrontare a tutto tondo, come si fa con il resto della città. Con questo obiettivo l’assessore alle politiche sociali Matteo Tosetto e le presidenti delle commissione consiliari Servizi alla popolazione Luisa Consolaro e Diritti e pari opportunità, Martina Corbetti, stanno affrontando un tema che nelle settimane estive ha sollevato molte preoccupazioni interne ed esterne della struttura del Carcere di Vicenza “Filippo Del Papa” di San Pio X. Un primo importante momento di confronto si terrà lunedì 18 settembre alle 17.45, quando le commissioni consiliari IV e V si riuniranno in seduta congiunta per fare il punto della situazione. Mancanza di personale per i vari progetti - “Sia la senatrice Sbrollini, artefice di un’interrogazione parlamentare al ministro Nordio, a tutti gli effetti titolare primario della gestione delle istituzioni carcerarie, sia i consiglieri comunali Maltauro, Conte e Naclerio della minoranza e Dal Pra Caputo, Pilan e Ghiotto della maggioranza - ricordano le due presidenti di commissione Consolaro e Corbetti - hanno espresso di recente preoccupazioni che condividiamo. Le problematiche denunciate e solo in parte arrivate alla cronaca locale, non sono purtroppo nuove. Riguardano le condizioni dei detenuti legate al sovraffollamento cronico, al sottodimensionamento del personale carcerario, alla carenza di educatori e di progetti di formazione, attività culturali e professionali per i detenuti, alla non sempre facile gestione delle problematiche sanitarie, oltre al disagio psichico e al rischio di suicidio”. L’assessore Tosetto - La prima richiesta che intendiamo avanzare ai componenti delle due commissioni - aggiunge l’assessore Tosetto che già a luglio ha visitato il carcere di San Pio X con il sindaco - è promuovere presso il ministero l’assegnazione di una direzione stabile e di stanza a Vicenza, visto che l’attuale dirigente deve seguire anche la casa circondariale di Venezia ed è l’ennesima persona che si avvicenda, nel giro di pochi anni, nella gestione di un’istituzione così complessa”. Nel frattempo, per puntare all’integrazione con il territorio di un “quartiere” fatto a tutti gli effetti di cittadini a cui prestare attenzione e servizi, in commissione saranno affrontate specifiche esigenze del Del Papa, come la realizzazione di un canale che semplifichi le domande del servizio anagrafico, la previsione di una fermata dell’autobus per lavoratori e familiari, progetti di reinserimento sociale, iniziative di conoscenza, sensibilizzazione e integrazione. Inoltre l’assessore ha dato mandato alla direzione dei Servizi Sociali di avviare l’iter per rivedere i compiti del Garante dei detenuti, in coerenza col nuovo protocollo del 2 agosto firmato dall’Anci e dal Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà. Nelle Linee guida, infatti, oltre ad essere indicati i requisiti per la nomina, è prevista l’estensione della competenza in tutti i luoghi dove una persona possa trovarsi privata della libertà, tra cui, oltre agli istituti detentivi: le strutture di responsabilità delle forze di polizia, i luoghi di trattenimento dei migranti irregolari, i servizi psichiatrici ospedalieri, le comunità chiuse, anche di tipo socio-sanitario o assistenziale. “Si delinea - commenta l’assessore Tosetto - la nuova figura di un garante potenzialmente a tutto campo, dei diritti delle persone limitate nella libertà personale, anche diffondendo la cultura dei diritti finalizzata alla sicurezza sociale. La figura del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale costituisce , infatti, il riconoscimento di come le persone private della libertà personale, siano parte integrante della cittadinanza dei diritti, dei servizi e della partecipazione alla comunità locale anche attraverso politiche di integrazione, di promozione della tutela dei diritti e della relazione tra società dei detenuti e società dei liberi che costituiscono il primo passo per rendere effettivo il principio costituzionale del reinserimento sociale”. Nelle scorse settimane gli amministratori hanno avuto incontri preliminari con la dirigenza e il medico del carcere, il garante, il cappellano, un responsabile dei volontari, l’associazione Antigone e preso contatti con la Camera Penale. “L’obiettivo di questo primo incontro- concludono i promotori - è quello di avere un rapporto aggiornato sull’attuale situazione della struttura di San Pio X e sui bisogni della sua popolazione. Verificare le risorse sia interne che presenti nel territorio che si occupano del sistema carcere e del suo compito principale: trasformare la detenzione in occasione di rieducazione e rinegoziazione del rapporto tra il detenuto e la società. Sappiamo che questo è uno dei principali fattori di prevenzione delle recidive. Molte sono le realtà di volontariato, terzo settore, servizi sociali e Uepe (Ufficio esecuzione penale esterna del Ministero della Giustizia) che sono impegnate in questo difficile e lungo lavoro. Si tratta di costruire, nel rispetto dei diversi ambiti di competenza, modalità e contesti che permettano di valorizzare e integrare gli interventi per poter contenere e andare oltre le emergenze”. Reggio Calabria. Tortura al carcere “San Pietro”? La Procura continua a indagare di Francesco Tiziano Gazzetta del Sud, 16 settembre 2023 Il Pm Sara Prezzan ha formalmente chiesto l’acquisizione di documentazione del plesso. Obiettivo verità. E soprattutto se la reazione della Polizia penitenziaria all’insegna delle cosiddette maniere forti abbia travalicato i confini della tortura. La Procura continua ad indagare per ricostruire il clima di tensione che si respirava all’interno delle carceri reggine nei giorni precedenti l’aggressione e il pestaggio del detenuto napoletano Alessio Peluso. Una storiaccia che risale al 22 gennaio 2022 e per la quale sono state emesse inizialmente misure cautelari e interdittive e che adesso vede davanti al Giudice dell’udienza preliminare 14 persone: nello specifico l’ex comandante della Polizia penitenziaria dell’istituto “Panzera”, 11 agenti in servizio al plesso “San Pietro”, un medico e un infermiere. I fatti oggetto del procedimento si riferiscono alla stessa giornata della visita al carcere “Panzera” dell’allora ministro della Giustizia Marta Cartabria. In quella data, il detenuto Alessio Peluso si sarebbe rifiutato di rientrare in cella dopo aver beneficiato del cosiddetto “passeggio esterno”. Secondo le indagini, coordinate dal procuratore Giovanni Bombardieri e dal pm Sara Perazzan e condotte dalla Squadra Mobile di Reggio Calabria, la reazione degli agenti sarebbe stata molto violenta. Per gli inquirenti fu tortura, reato formalmente contestato dal Pubblico ministero, fermamente respinto dall’intero collegio difensivo ed oggi all’esame del Gup. Il 31enne napoletano sarebbe stato colpito con i manganelli in dotazione agli agenti, ma anche con dei pugni. Gli agenti coinvolti, inoltre, lo avrebbero fatto spogliare lasciandolo semi nudo per oltre due ore nella cella dove era stato condotto. Vicenda gravissima immortalata anche dalle immagini della sorveglianza interna dell’istituto penitenziario. Milano. Ragazzini migranti non accompagnati, don Gino Rigoldi: “Pronti per il carcere” di Marianna Gulli milanotoday.it Sala ribatte: “Dovrebbe occuparsene lo Stato, non i comuni”. L’emergenza migranti scalda gli animi anche a Milano, con l’arrivo di circa 750 nuovi minori non accompagnati in città. Ad accendere la polemica don Gino Rigoldi, ex cappellano del carcere Beccaria, che a Giornale Radio Fm ha espresso il proprio dissenso sulla gestione: “A Milano sono arrivati circa 1.500 ragazzini, perlopiù dall’Egitto, di cui metà ricevuti dal comune, l’altra metà gira per strada pronta a essere fatta arrivare nel carcere minorile. Perché a quell’età, 14-15 anni, se vaghi per Milano da solo senza casa e lavoro, non puoi che fare quella fine”. Parla di accoglienza umana, di soluzioni nei confronti di quelli che spesso ci si dimentica di considerare come esseri umani, il noto sacerdote che da sempre si mette al servizio dei più giovani. “Davanti a queste emergenze bisogna mettere da parte il guerreggiare e iniziare a ragionare su come rispondere, aiutare queste persone, rendere umana l’accoglienza. Non si tratta di una questione di politica, di destra o di sinistra, ma di umanità”, afferma. Il commento di Sala - A dare il proprio parere sulla polemica riaccesa è anche il sindaco di Milano Sala, ospite alla presentazione della nuova stagione di concerti alla Filarmonica della Scala, che parla di responsabilità statale: “I comuni possono solo temporaneamente sostituirsi e in ogni caso senza sostenere i costi. Ora sta avvenendo il contrario, la gestione è delegata al comune e senza risorse. Le risorse non sono i 60 euro al giorno per minore: le risorse sono quelle che servono per avere centri e luoghi diversi da quello che abbiamo oggi, continuo a ripeterlo in una città dove ci sono 1500 minori non accompagnati”. “Sul tema di inasprire le pene queste vanno applicate su chi delinque, ma ci deve essere conseguenza per non raccontare solo una bella storia, qualcuno a Milano non conosce ancora il carcere minorile Beccaria, c’è posto per una decina di minori”, ha concluso il sindaco. Roma. Vita a Tor Bella Monaca tra spari, droga e miseria di Valentina Petrini La Stampa, 16 settembre 2023 Viaggio nel quartiere dopo l’omicidio, tra gli anziani in fila alla Asl: “Più della criminalità, a fare paura sono le bollette da pagare”. “Ho bisogno di scarpe ortopediche. Ho i piedi rovinati. Sa dirmi in quanto tempo la Asl può darmele?”. “A me servono 4 maschere nasali. Quelle dell’ossigeno. Sono invalido al 100%. Non le devo comprare, vero?”. “Un deambulatore e una carrozzina. Sono urgenti, non possiamo più aspettare”. A viale Duilio Cambellotti c’è la ASL Roma 2. L’anno scorso per presentare il Festival della Salute Mentale - Romens - per l’inclusione sociale contro il pregiudizio, è stata realizzata una brochure in cui si legge: “Dipartimento di Salute Mentale dell’ASL Roma 2, il più grande d’Italia con un bacino di utenza di circa 1 milione e 300 mila abitanti”. Impressionante. Forse è per questo che quando i giovani di Tor Bella Monaca escono e affrontano il viaggio verso il centro dicono: stasera andiamo a Roma. Al Poliambulatorio Cambellotti continua ad arrivare gente. Soprattutto anziani. “Devo prendere i cateteri e le traverse per il letto”. Per sua moglie? chiedo. “Per la mia nipotina, quattro anni. Non parla, non cammina. Le spetterebbe l’assistenza domiciliare, la fisioterapia a casa. Perché per trasportarla… gli fa male la macchina!”. E non gliela danno? “Solo 2 ore a settimana. Poche hanno detto i dottori. Così integriamo noi. A pagamento”. Siamo a Tor Bella Monaca, 260 mila anime vivono in questo quadrante est di Roma nei palazzi, le Torri, delle case popolari. “È la storia dei poveri! Perché le interessa?”. La verità? Hanno sparato e ucciso un uomo a pochi passi da qui, in pieno giorno e di colpo i riflettori si sono accesi su questo pezzo di terra, una città nella città. In rete c’è un video di pochi secondi girato da un balcone: si vede una donna a terra, urla, chiede aiuto, accanto il corpo di Daniele di Giacomo è a terra, senza vita, la Mercedes su cui viaggiavano è crivellata di colpi. Sono le 17 di pomeriggio. Via Paolo Ferdinando Quaglia è la via dello spaccio, dei bar, della farmacia. A pochi passi dal punto esatto in cui è avvenuta la sparatoria c’è un’area giochi per bambini, con tanto di giostre e gonfiabili. Nel video in rete si sente l’uomo che l’ha girato dire: “Mamma mia, infatti mi sembravano strani ‘sti botti”. Ai botti qui sono abituati. “Per voi è un circo, per noi la normalità. All’alba hanno fatto le perquisizioni. Cani, elicotteri, volanti. E chi crede hanno arrestato? I boss della malavita? Quattro scemi della manovalanza”. Da qualche parte bisogna iniziare. “Hanno fatto pure i controlli nelle case per le irregolarità delle utenze. C’erano i tecnici della società Acea e pure quelli dell’Italgas credo. Qui è vero che siamo metà e metà, però ‘sti ghetti li hanno voluti loro e a non pagare bollette e affitti non sono solo i criminali”. Lei? “Eh… Io per esempio sono tra quelli che ha molte bollette arretrate. Non mi vergogno. Non le posso pagare”. Torno all’ASL, è un punto privilegiato per conoscere la popolazione che ogni giorno si mette in fila dall’alba per conquistare un numeretto vincente e ottenere la prestazione sanitaria di cui ha bisogno e diritto. È la storia dei poveri, mi ha detto il nonno di quella bimba di quattro anni che non parla e non cammina. E poi dei malati cronici, che non guariranno mai. Sono soprattutto anziani! Molti dei quali vivono incastrati in queste torri di 15 piani. Tor Bella Monaca è così: un quartiere popolare abituato all’immagine di se stesso. C’è anche un Teatro, l’associazionismo funziona, i volontari che fanno il doposcuola ai bambini. C’è una scuola di atletica. “Io vengo ogni giorno da Ponte di Nona per allenarmi laggiù”. Indica un posto dietro le Torri. Quanti anni hai. “Diciotto”. Hai sentito della sparatoria? “Anche il mio quartiere non è il paradiso terrestre”. Non hai paura quindi. “Sono allenata a guardarmi intorno, cammino sempre in allerta”. E poi c’è l’ospedale. Il policlinico di Tor Vergata è il presidio medico pubblico di riferimento degli abitanti di Roma est. È nato nel 2001 ed è costato 60 milioni di euro. L’ultima volta che ci sono entrata di sera con una microcamera anni fa, dei nove piani della torre numero 6, solo 2, quelli accesi, erano funzionanti. C’è poi il Pronto soccorso, come tutti i presidi d’emergenza ospedalieri, terminale di ogni disservizio. Vi descrivo la scena ripresa spesso in passato sempre con una microcamera. Anziani ovunque, parcheggiati su sedie, carrozzine e barelle. Corridoi talmente pieni, che infermieri e medici non riescono a muoversi. Anche nelle stanze super affollate, i malati accuditi senza alcuna privacy. Barelle parcheggiate persino davanti ai bagni. Non accade solo in questo ospedale. Non è colpa dei medici o degli infermieri certamente, che più di una volta hanno subito brutali aggressioni. Ma non è colpa nemmeno dei pazienti. È la fotografia del welfare italiano. “Dello Stato che mostra i muscoli di tanto in tanto non ce ne facciamo niente. Non so più quante volte sono stata svegliata dagli elicotteri di notte. Per fortuna che sono vedova e sola. Pensa a chi ha le creature piccole. Che spavento poveri cuccioli”. Che dovrebbero fare: lasciare tutto così? La donna alza le spalle e si infila nel suo portone. C’è una zona grigia tra i 260mila abitanti di questo quartiere. Molti cedono alle proposte della mafia e ai soldi dello spaccio. “Ma tanti no. Io no. Lei no. Lui no. E che cambia? Sempre 800 euro porto a casa. Non mi danno un premio fedeltà”. Sono alla fermata dell’autobus sulla superstrada, sotto il sole cocente. Tutti stranieri tranne tre persone che mi parlano. È l’esercito di chi vive sotto la soglia di povertà. Legalità è anche dignità, poter star sopra quella maledetta linea che divide ricchi e poveri che anima la diseguaglianza. “Qui il reddito più solido è la pensione. Guardati intorno”. Via Paolo Ferdinando Quaglia, dove hanno sparato, è un buon punto di osservazione per guardarmi intorno. Per fotografare la popolazione di Tor Bella Monaca. Anziani ovunque, seduti ai bar o alle panchine. Molti che camminano spingendo un carrello, altri che si poggiano su un bastone, qualcuno spinto in carrozzina da una badante. E poi tanti migranti che qui hanno trovato case a basso prezzo. Non è rimasto tutto fermo in questi anni. Non sarebbe giusto dirlo. La facciata della Torre della Legalità non è più bucherellata come fosse stata presa di mira dalle mitragliatrici, oggi è gialla. La Torre dopo è verde, quella dopo ancora è blu. Via Santa Rita da Cascia: le case Ater sgomberate, comprese quelle in cui abitavano i Moccia, secondo diverse indagini, famiglia punta di diamante dello spaccio di zona, sono state assegnate. Finalmente. Le hanno presidiate notte e giorno però con le guardie giurate per non farle occupare di nuovo. Tiziana Ronzio abita lì. È un’operatrice sanitaria, vive da due anni sotto protezione proprio per aver subito minacce da Giuseppe Moccia. Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, le ha conferito l’onorificenza dell’ordine al merito della repubblica italiana. Le chiedo al telefono mentre è indaffarata a organizzare un evento per i bambini del quartiere, se il giallo delle facciate delle Torri e i lavori di rifacimento della nuova piazza di Tor Bella Monaca, cantiere di rigenerazione educativa, sono il simbolo di un cambiamento effettivo. “Per me si sta sempre peggio - dice - Siamo noi famiglie per bene ad essere ostaggio dei cattivi. Ora scusami ho da fare”. Sabato scorso mentre lei e altri volontari realizzavano interventi di pulizia sotto casa e tra i cortili delle Torri, una donna è stata aggredita da un uomo con una bottiglia di vetro. È un appuntamento settimanale per pulire il quartiere perché i marciapiedi e l’area verde sono ricoperti di immondizia. Come in tutte le zone di spaccio le vedette non vogliono essere disturbate, ne vale dei guadagni della giornata. Poi c’è stata anche l’aggressione a Don Coluccia, il prete simbolo della lotta allo spaccio e alla criminalità. L’ha raccontato lui stesso in tv. Un ragazzo in moto con casco ha cercato di investirlo. L’ha salvato la scorta. Sia a Tiziana Ronzio che a Don Coluccia è stata rafforzata la protezione. È la storia dei clan, dello spaccio di droga, delle famiglie di mafia, del racket delle case occupate. Ma è anche la storia dei poveri, ci hanno detto all’inizio di questo viaggio. Chissà quanti decreti speciali serviranno a rimuovere il fango. Firenze. Una via intitolata al giudice Margara. Nardella: “Sollicciano tra le carceri più inadeguate” firenzetoday.it, 16 settembre 2023 Il Sindaco Nardella: “Il carcere non funziona, Sollicciano tra i più inadeguati” Taglio del nastro ieri mattina con il sindaco e le assessore Giuliani e Funaro, nell’occasione il sindaco torna a parlare del carcere: “Così com’è non funziona”. Da oggi Firenze ha via intitolata al giudice Alessandro Margara, tra gli ispiratori della riforma penitenziaria del 1986 nota anche come ‘legge Gozzini’. Questa mattina il sindaco Dario Nardella, l’assessora alla toponomastica Maria Federica Giuliani e l’assessora al welfare Sara Funaro hanno inaugurato il passaggio pedonale che unisce via dell’Agnolo con via Ferdinando Paolieri, a poca distanza dal complesso giudiziario de Le Murate. Subito dopo c’è stata la scopertura della targa realizzata in collaborazione con Università di Firenze e l”Archivio Margara’ che è stata collocata sulla parete antistante. “Sollicciano tra le carceri più inadeguate” - “La via che intitoliamo oggi a Margara è in luogo significativo della città, tra l’ex carcere delle Murate riqualificate e l’ex aula bunker, vicino all’Università, luogo dunque che inspira innovazione, socialità, giustizia, tutti valori che hanno ispirato la sua vita” ha detto Nardella. “Il giudice Margara è stato protagonista del grande impegno a favore del sistema carcerario italiano, anche grazie a tante leggi che ha promosso. Ma oggi c’è ancora molta strada da fare. Intitolando a lui questa strada vogliamo ancora una volta accendere i riflettori sul tema delle carceri in Italia. Se ne parla solo in occasione di suicidi o violenze, e invece dovremmo davvero occuparcene perché è un pezzo importante del sistema giudiziario italiano. Senza rieducazione non c’è vero reinserimento nella società al termine della pena e così abbiamo un tasso di recidiva altissimo. Rischiamo di buttare via milioni di soldi pubblici perché il carcere non funziona come dovrebbe. Basta pensare a Sollicciano, tra i più inadeguati. Speriamo che anche con questo gesto simbolico di oggi possiamo tornare a parlare in maniera decisiva di questo tema”. Non è la prima volta che il sindaco richiama sulle “vergognose” condizioni nelle quali versa il carcere fiorentino. Nel 2021, durante il governo di Mario Draghi, aveva invitato l’allora ministra della giustizia, Marta Cartabia, a venire a sincerarsi della situazione. La ministra arrivò nel gennaio del 2022 e non poté far altro che dar ragione al sindaco. “Sollicciano - disse -, è in condizioni indecorose”. Da quel momento, però, nulla è stato fatto, e le parole di oggi di Nardella sono sicuramente da leggere come una stilettata al governo e al ministero della giustizia (oggi guidato da Guido Crosetto di Fratelli d’Italia), dal quale dipende il sistema carcerario. “È stato un grande giurista e grazie al suo lavoro il nostro Paese può vantare uno dei più avanzati ordinamenti carcerari al mondo - ha sottolineato, tornando al giudice Margara, l’assessora Giuliani - la riforma del 1986 rese più umano il carcere: senza la tenacia, la passione e la cultura giuridica di Margara il principio del reinserimento sociale dei detenuti prescritto dall’articolo 27 della Costituzione sarebbe rimasto inattuato”. “Oggi è un giorno speciale per Firenze perché con questa intitolazione finalmente dedichiamo un riconoscimento ad Alessandro Margara - ha aggiunto l’assessora Funaro - magistrato illuminato che con la sua azione ha messo in pratica il dettato costituzionale. Ricordo che la nostra Costituzione, all’articolo 27, dispone che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e che devono tendere alla rieducazione del condannato. L’impegno di Margara sulle misure alternative al carcere è sempre andato in questa direzione”. Originario di Massa, in magistratura dal 1958, Margara fu giudice istruttore a Ravenna e Firenze, poi magistrato di sorveglianza a Bologna e poi a Firenze dove guidò il tribunale di sorveglianza. Dal 1997 al 1999 fu direttore generale del Dipartimento di amministrazione penitenziaria (Dap), poi rientrò al tribunale di sorveglianza di Firenze dove concluse come magistrato fino alla pensione. È stato anche garante dei diritti dei detenuti della Regione Toscana. Margara, nato a Massa il 23 giugno 1930, è morto il 29 luglio del 2016 all’età di 86 anni. Fermo. Detenuti e studenti: ecco il giornale strumento di dialogo Il Resto del Carlino, 16 settembre 2023 È stato diffuso in questi giorni il secondo numero dell’anno 2023 del giornale “Altra chiave news”, il giornale elaborato nel Carcere di Fermo dagli stessi detenuti. Questo numero è molto importante, perché come evidenzia la direttrice della Caritas Diocesana di Fermo, che è partner operativo del progetto promosso dall’Ambito Sociale XIX e dal Carcere, Barbara Moschettoni, “in questo numero del giornale elaborato dalla redazione composta da detenuti della Casa di Reclusione di Fermo, è il frutto del coinvolgimento degli alunni dell’istituto Tarantelli di Sant’Elpidio a Mare, che dopo la sospensione causata dal Covid, hanno riattivato la collaborazione con il Carcere, per un progetto formativo dal grande valore educativo, sia per gli alunni sia per gli stessi detenuti coinvolti nelle attività. Il confronto e lo scambio con l’esterno sono molto importanti e molto utili per il percorso di riflessione e di riabilitazione da parte dei detenuti, ma è utile anche per i giovani alunni, che hanno l’occasione di confrontarsi con l’esperienza di chi ha commesso errori”. Nel giornale spazio anche per il racconto da parte dei detenuti, come sottolineato dalla direttrice Daniela Valentini nel suo editoriale: “Le testimonianze sincere e accorate dei detenuti avevano questo obiettivo, trasmettere ai ragazzi la bellezza della vita, della libertà, di una storia che ha il coraggio di compiersi, nei valori veri, nel rispetto degli altri. Andiamo avanti, dunque, con questo nostro giornale, strumento di dialogo tra dentro e fuori, perché abbiamo bisogno di un tessuto sociale che sappia capire e provi a ricostruire anche sulle macerie di un errore”. L’elaborazione grafica è opera della cooperativa sociale Tarassaco, mentre la stampa è assicurata dalla tipografia Elpis, cooperativa sociale attiva nel campo della stampa e grafica. I limiti di una scuola che non educa di Vincenzo Trione Corriere della Sera, 16 settembre 2023 È necessario insegnare ai ragazzi anche a coltivare il dubbio e a vivere la cultura come domanda aperta. Lo scorso 17 agosto, nell’edizione milanese del Corriere, è stata pubblicata la lettera di uno studente di un liceo classico, che quest’anno ha conseguito la maturità. Vi si parla, con toni duri, di un’esperienza segnata da delusioni. La speranza. E la realtà. Da un lato, il desiderio che la scuola sia il luogo dove si impara a stare con gli altri e a fare comunità, dove si diventa adulti, responsabili dei propri gesti. Dall’altro lato, alcuni falsi miti: merito, performance, eccellenza. Ma, soprattutto, il disinteresse nei confronti della costruzione della persona. “Ciò che conta è il risultato, non il percorso, quello che sei è il voto, non la tua crescita, l’importante è andare avanti fino a quando non raggiungi il burnout: tutto il resto viene dopo”. Alla base di queste degenerazioni, secondo il giovane liceale, c’è una pericolosa filosofia: “Se non raggiungiamo certi standard siamo un fallimento, (...) va data più importanza al risultato, non alla salute mentale o alla nostra felicità”. Spesso alimentata da famiglie inclini ad assecondare la retorica di una vuota e spietata competitività, questa filosofia viene replicata in maniera più esasperata in tante aule universitarie. Nell’interrogarci, le parole dello studente milanese chiedono di essere lette come un j’accuse contro un intero sistema formativo in parte ancorato a inadeguati modelli novecenteschi e, insieme, alla vigilia dell’inizio del nuovo anno scolastico, come un invito ad avviare un urgente, serio e radicale ripensamento di questo stesso sistema, muovendo dalla classica distinzione tra istruzione ed educazione. Occorre dirlo con fermezza: una scuola adeguata ai nostri tempi inquieti non istruisce, ma educa. Certo, offre gli strumenti per leggere un testo letterario o filosofico e per risolvere un problema o un’equazione. Ma insegna anche a coltivare il dubbio e a vivere la cultura come domanda aperta. E, soprattutto, ha il compito di prendersi cura della condizione emotiva e morale degli studenti, nella convinzione che, come diceva Platone, “la mente non si apre se prima non si è aperto il cuore”. Dunque, dedica energie alla pratica maieutica, per far affiorare sempre più frequenti malesseri individuali e disagi sociali. E, senza farsi ingabbiare nel culto ipermoderno della prestazione, del merito e del successo, sa misurarsi con lo spazio dei fallimenti. Sì, i fallimenti (un termine che ho ritrovato nella lettera dello studente al Corriere). Non si tratta di un tabù. La formazione di un ragazzo non è una retta, ma un intreccio di linee. Non conta tanto l’approdo quanto il camminare. È come una scorribanda tra pause, deviazioni e sentieri laterali. Ci si lascia sorprendere da incontri imprevedibili, da rivelazioni, da inciampi. Ma, spesso, sono proprio le sbandate a determinare la rotta, a fare di noi ciò che siamo. È quel che scriveva Walter Benjamin: nel labirinto si nasconde “la via giusta per chi arriverà comunque in tempo alla meta”. Insuccessi, sconfitte, atti mancati, errori, perdite, ripensamenti, dubbi, insicurezze, entusiasmi convertiti in disillusioni, allora. La volontà di potenza e la consapevolezza di non poter raggiungere certe mete. La gioia e la fatica: la gioia delle scoperte e la fatica degli esami. Oltre a essere la stagione nella quale gli orizzonti si allargano sempre più, la giovinezza è l’età delle ansie, delle decisioni sbagliate, delle false partenze. I ragazzi sono esperti nell’arte del sentirsi fuori posto, del perdersi e del ritrovarsi. Ma, proprio per ritrovarsi, è fondamentale la presenza degli adulti e di una scuola animata da insegnanti che non si comportino come i secondini di un prigioniero evaso da decenni né si limitino a trasmettere contenuti e nozioni, ma, ogni giorno, sappiano accendere il fuoco della conoscenza. E ricordino quel che amava dire Beckett: “Ho provato, ho fallito. Non importa, riproverò. Fallirò meglio”. Meloni, guerra ai migranti: giro di vite su accoglienza e arrivi di Niccolò Carratelli La Stampa, 16 settembre 2023 La premier annuncia la permanenza nei centri fino a 18 mesi. Alla Difesa il controllo sui rimpatri. Un video di poco più di sei minuti, per dire che sull’immigrazione “non abbiamo cambiato idea” e il governo è pronto a intervenire. Giorgia Meloni prova a uscire dall’angolo. Di fronte all’emergenza di Lampedusa, alla palese inefficacia degli accordi firmati con le autorità tunisine, al difficile coordinamento con Bruxelles e agli attacchi politici che arrivano anche dall’ala leghista della sua maggioranza, la premier decide di mandare segnali chiari. All’Europa, innanzitutto, chiedendo alla presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, di andare con lei a Lampedusa (la visita potrebbe avvenire già domani) “per rendersi personalmente conto della gravità della situazione e per accelerare immediatamente la concretizzazione dell’accordo con la Tunisia, trasferendo i 250 milioni di euro concordati”. Non solo, Meloni rilancia la proposta di “una missione europea, anche navale se necessario, in accordo con le autorità del Nord Africa - spiega Meloni - per fermare la partenza dei barconi, verificare in Africa chi ha diritto o meno all’asilo, accogliere in Europa solo chi ne ha effettivamente diritto, secondo le convenzioni internazionali”. Un’iniziativa che la premier vorrebbe discutere con gli altri leader nella prossima riunione del Consiglio europeo di ottobre. È un’operazione di difficile realizzazione, ma con un chiaro risvolto comunicativo, visto che richiama il totem elettorale del blocco navale, ormai chiuso in un cassetto di Palazzo Chigi. D’altra parte, Meloni ha bisogno di mostrarsi reattiva di fronte all’oggettiva situazione di crisi, davanti agli italiani, ma anche ai suoi rumorosi alleati politici. “La pressione migratoria che l’Italia sta subendo dall’inizio di quest’anno è insostenibile, dall’Africa potrebbero arrivare decine di milioni di persone - sottolinea la premier - il governo italiano intende adottare misure straordinarie per fare fronte al numero di sbarchi che abbiamo visto sulle nostre coste”. E, allora, lunedì in Consiglio dei ministri verranno introdotte regole più stringenti, con l’obiettivo di scoraggiare le partenze di chi non ha diritto all’asilo. “Porteremo una modifica del termine di trattenimento nei centri di permanenza per i rimpatri di chi entra illegalmente in Italia - annuncia Meloni - limite che verrà alzato al massimo consentito dalle attuali normative europee, ovvero 18 mesi”. Un inasprimento che non riguarderà i richiedenti asilo, per i quali oggi il termine massimo di trattenimento è già di 12 mesi e non sarà modificato. Una mossa che rende necessario il “potenziamento dei centri per i rimpatri, in modo che chiunque entri illegalmente in Italia sia effettivamente trattenuto in queste strutture - aggiunge Meloni -. Sarà dato mandato alla Difesa di realizzare nel più breve tempo possibile le strutture, in località a bassissima densità abitativa e facilmente perimetrabili e sorvegliabili”. Una definizione molto simile a quella di un carcere. Ma se ci si trova costretti a procedere in questo modo, è il ragionamento di Meloni, è “perché altri anni di governi immigrazionisti ci hanno consegnato una situazione per la quale i posti nei centri sono scandalosamente esigui”. Insomma, secondo la leader del governo a metterci in questa situazione sono gli stessi che ora criticano: “Penso al quotidiano tentativo di alcune forze politiche e influenti realtà di sostenere che la Tunisia sarebbe un regime oppressivo, con il quale non si possono fare accordi - si infervora Meloni - e di dichiarare persino che la Tunisia non sarebbe un porto sicuro, dove non è possibile rimpatriare gli immigrati irregolari o impedire la partenza dei migranti da quelle coste”. Invece, assicura lei, “la strategia del governo italiano è la più seria per risolvere il problema in modo strutturale, però richiede tempo, soprattutto se quel lavoro viene intralciato da interessi ideologici”. In chiusura, Meloni ha due messaggi urgenti. Il primo ai migranti pronti a imbarcarsi verso le nostre coste: “Non conviene affidarsi ai trafficanti di esseri umani e, in ogni caso, se entrate illegalmente in Italia sarete trattenuti e rimpatriati. La nostra situazione non consente di fare nulla di diverso”. Il secondo agli italiani, soprattutto a quelli che hanno votato Fratelli d’Italia e il centrodestra: “Non abbiamo cambiato idea, lavoriamo ogni giorno per mantenere gli impegni che abbiamo sottoscritto con voi”. La prima a reagire è la segretaria del Pd, Elly Schlein, convinta che “Si stanno scatenando in una gara a chi è più cattivo. Serve una missione europea di ricerca e soccorso, non per bloccare i barconi” attacca, mentre il leader di Sinistra italiana Nicola Fratoianni parla di “propaganda”. Plaude invece la Lega, con il sottosegretario all’Interno Nicola Molteni: “Bene l’annuncio della premier, il governo continuerà a lavorare con serietà e compattezza”. Tutti i migranti sbarcati nei Centri di detenzione. Meloni replica a Salvini di Giansandro Merli Il Manifesto, 16 settembre 2023 Videomessaggio della premier. Lunedì in Cdm le nuove misure. E a Bruxelles chiederà una missione congiunta contro le partenze. Nelle carceri italiane ci sono poco meno di 60mila detenuti, ma nel Paese che sogna Giorgia Meloni tutte le 127mila persone sbarcate quest’anno sarebbero dovute finire dietro le sbarre. Lo ha detto ieri la premier con un video che risponde alle bordate degli ultimi giorni partite da Salvini e dalla Lega sul terreno delle politiche migratorie. Secondo la leader FdI a causa dei precedenti “governi immigrazionisti” i posti nei Cpr sarebbero “scandalosamente esigui”. Per questo nel Consiglio dei ministri di lunedì darà mandato alla Difesa di realizzarne rapidamente degli altri - in località a bassa densità abitativa e in luoghi perimetrabili e controllabili - per rinchiuderci “chiunque entri illegalmente in Italia per tutto il tempo necessario alla definizione della sue eventuale richiesta d’asilo e per la sua effettiva espulsione nel caso in cui sia irregolare”. Tra le misure straordinarie ci sarà anche l’innalzamento al massimo consentito dalle normative comunitarie del periodo di detenzione nei centri di permanenza per i rimpatri (Cpr): 18 mesi. Una misura che potrà usare a fini propagandistici ma che non avrà alcun effetto reale. A parte privare inutilmente della libertà personale migliaia di persone. Perché i rimpatri sono comunque fermi sui numeri degli scorsi anni (meno di 3mila finora) e perché chiunque abbia avuto a che fare con un Cpr sa che se una persona non è stata identificata nei primi tre mesi non lo sarà dopo. La sua detenzione è dunque inutile: non si può espellere in nessun modo. Nel videomessaggio la leader di FdI, che teme di perdere consensi a destra nella corsa alle europee di giugno, ha anche annunciato che chiederà una missione europea. Non per fare ricerca e soccorso, limitare le morti in mare ed evitare che tutti i migranti che partono da Tunisia e Libia arrivino a Lampedusa, ma per “bloccare le partenze dei barconi”. La proposta sarà avanzata nel prossimo Consiglio europeo di ottobre. Non è chiaro se Meloni voglia una missione navale - dunque una sorta di blocco navale realizzato insieme alle autorità nordafricane, ammesso che queste siano d’accordo - o altro. Magari pattugliamenti congiunti sulle coste di partenza. In entrambi i casi si tratterebbe di azioni militari in territorio estero. In paesi instabili come Libia e Turchia. La strada è in salita, per non dire senza via d’uscita, ma con uno stop da parte dei partner europei la premier avrebbe una carta in più per scaricare su qualcun altro le responsabilità dei suoi fallimenti, di politiche e retoriche sull’immigrazione che non vogliono confrontarsi con la realtà. La carta del vittimismo, che contraddistingue questo governo dal suo insediamento, è stata giocata anche ieri. Meloni ha dato la colpa a una parte d’Europa che rema contro il suo memorandum e vorrebbe “addirittura” sostenere che la Tunisia sia una dittatura e non costituisca un porto sicuro. Due elementi che è difficile contestare dopo il colpo di stato di Kais Saied e le immagini dei pogrom contro i migranti, poi lasciati morire nel deserto. Secondo Meloni il difficile quadro internazionale crea il rischio che “diverse decine di milioni di persone” vogliano muoversi verso l’Europa. Delle tante cifre agitate in questi anni dalle autorità, e sempre smentite, questa è di gran lungo la più alta con almeno due zeri di vantaggio rispetto al solito. Migranti. Piantedosi: “Basta miopi calcoli politici, sia nella maggioranza sia nell’opposizione” di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 16 settembre 2023 “L’immigrazione irregolare, con i grandi problemi che comporta, pone in questi giorni il Paese e l’intera Europa di fronte a una sfida difficilissima. Sono situazioni e momenti in cui si misura la responsabilità. Da parte di tutti. Di chi per definizione ha responsabilità di governo. Di chi deve sostenerlo come forza di maggioranza, di chi fa opposizione: ognuno senza fare miopi calcoli politici”. L’appello del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi arriva nel momento più drammatico della gestione dei flussi. Ministro, in 48 ore sono arrivate quasi 8.000 persone. Che sta succedendo? “Siamo di fronte a uno scenario inedito con fattori straordinari che stanno determinando una impennata di partenze, in particolare da alcuni Paesi africani. In Africa vi sono molti Paesi alle prese con il caro prezzo sui cereali, gravi crisi politiche ed economiche, tutti elementi che creano un quadro molto complesso e difficile da affrontare”. Lampedusa è al collasso, la situazione sembra fuori controllo. “Lampedusa è sottoposta a una forte pressione. Rispetto a quasi 10 mila arrivi in quattro giorni, gli apparati dello Stato hanno fatto appieno il loro lavoro e hanno dato prova di grande impegno e capacità. Prefettura, Croce Rossa, Forze di polizia, Capitanerie di porto, Vigili del fuoco, personale sanitario. Io ne sono fiero. Stiamo trasferendo i migranti in maniera ordinata dall’isola nelle altre regioni italiane, nonostante la situazione sia estremamente difficile. Stiamo facendo uno sforzo straordinario, non c’è né collasso né perdita di controllo. Anzi, se non ci fossimo organizzati per tempo, con iniziative criticatissime come quella dello stato di emergenza o alcune norma approvate a Cutro, non ci saremmo riusciti. Altro che improvvisazione”. In campagna elettorale avevate promesso di fermare gli sbarchi. Cosa risponde all’opposizione che vi accusa di fallimento? “L’opposizione più responsabile è consapevole della delicatezza della situazione e che la stessa non possa essere affrontata se non con soluzioni stabili e durature. Anche a costo di avere momenti difficili come questo. Sono quelle a cui stiamo lavorando e che, sono certo, ci porteranno al più presto a risultati meno urlati ma più solidi”. La premier Giorgia Meloni annuncia misure straordinarie e urgenti. Quali? “La discussione è in corso, ma vanno sicuramente rafforzati alcuni strumenti normativi per affrontare alcuni problemi legati all’immigrazione irregolare: i falsi minori non accompagnati, i cpr da aumentare, le norme per agevolare il rimpatrio di chi ha commesso reati. Si tratta comunque di azioni che possono e devono essere adottate nell’ambito di una cornice europea e nel rispetto della normativa internazionale. Lo stesso vale inevitabilmente per le iniziative finalizzate a bloccare le partenze da altri continenti”. C’è un problema di sbarchi e un problema di accoglienza. Come pensate di affrontarli? “Abbiamo completamente stravolto la gestione di Lampedusa e degli altri hotspot in Sicilia e Calabria. In pochi mesi abbiamo aumentato del 10 per cento i posti disponibili in accoglienza sul territorio nazionale. Pur tra innegabili criticità posso dire che stiamo garantendo soluzioni dignitose a più di centomila persone sbarcate. Per il tema degli sbarchi come detto stiamo lavorando su una prospettiva articolata che vada finalmente alla radice del fenomeno”. Molti sindaci e governatori si dicono indisponibili ad accogliere i migranti. Avete un piano per la distribuzione? “Certo, e proprio per attenuare l’impatto e le legittime preoccupazioni dei territori stiamo provvedendo alla più capillare distribuzione. È la soluzione migliore. Stiamo lavorando anche per aiutare i sindaci sugli oneri che comporta l’accoglienza dei minorenni o presunti tali”. Lei è stato indicato al Viminale dalla Lega, eppure il ministro Roberto Calderoli sostiene che se ci fosse stato Salvini al Viminale non saremmo in questa situazione. “Se me lo permette, su questo tema il tratto comune, la linea di congiunzione tra le due esperienze di governo sono proprio io. A quel tempo ebbi l’onore di collaborare con Salvini condividendo scelte importanti e decisive. Oggi, su uno scenario diverso e complesso, ho la responsabilità di contribuire ad una rinnovata stagione di contrasto ai traffici internazionali di esseri umani la cui organizzazione, nel frattempo, è cambiata e cresciuta. Sono più che convinto che la strada intrapresa ci porterà ai risultati attesi quanto prima”. Secondo la Lega le missioni diplomatiche hanno fallito. È così? “No, al di là delle dichiarazioni tutti crediamo che sia un problema europeo e dell’intera comunità internazionale”. Pensa di utilizzare la Marina come suggerisce il ministro Matteo Salvini? “La Marina è già attiva nel contrasto in alto mare. E c’è un impegno diretto in tal senso del ministro della Difesa Guido Crosetto insieme alle altre forze dello Stato. Se riusciremo a convincere i Paesi d’origine a bloccare le partenze, la Marina potrà svolgere un ruolo ancora più importante”. In realtà la Tunisia mostra di non collaborare... “I contatti con Tunisi sono quotidiani e non solo del Viminale. La Tunisia va aiutata a sostenere la difficile situazione socioeconomica che sta vivendo. E vanno accelerati gli aiuti previsti dall’attuazione del memorandum tra l’Ue e la Tunisia che non è ancora operativo e quindi non ha prodotto i suoi positivi effetti”. L’Alto commissario Joseph Borrell chiede di non siglare accordi non condivisi dall’Ue. Andrete avanti comunque? “Certamente. E comunque tutte le iniziative, come ho già detto, sono condivise con le istituzioni europee. Sono affermazioni che rientrano nella normale dialettica politica di una campagna elettorale già iniziata”. Il presidente francese Emmanuel Macron si è appellato all’Europa per proteggere le frontiere. Pace fatta? “Nessuna guerra e ne ho avuto ieri ed oggi la riprova: sono stato cercato dalla Commissaria europea Johansson e dal ministro dell’Interno francese Darmanin che, con toni assolutamente inediti, mi hanno rappresentato la loro preoccupazione. Per la prima volta li ho sentiti fermi sulla prioritaria esigenza di aiutarci a bloccare le partenze dalla Tunisia. Non era mai successo: finora le discussioni si erano sempre attestate sulla regolazione dei movimenti secondari”. Migranti. Mauro Palma: “Puntare sui rimpatri volontari assistiti” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 16 settembre 2023 I rimpatri forzati sono l’epilogo di una questione molto più ampia e non vanno considerati come elemento risolutivo del problema migratorio. Inoltre è importante incentivare i rimpatri volontari e di costruire una rete di tutela per le persone espulse, anche una volta tornate in patria. Questo è ciò che emerso durante il convegno internazionale “La tutela dei diritti fondamentali nelle operazioni di rimpatrio forzato in una dimensione europea”; organizzato dal Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale nell’ambito del Progetto “Implementazione di un sistema di monitoraggio dei rimpatri forzati”, finanziato dal Fondo asilo migrazione e integrazione (FAMI). L’obiettivo principale di questo importante convegno, tenutosi presso l’Aula del Palazzo dei Gruppi parlamentari della Camera dei Deputati, è stato quello di affrontare le questioni fondamentali legate alle garanzie per le persone destinate a essere oggetto di provvedimenti di rimpatrio nella fase di esecuzione di tali decisioni. È stata un’occasione unica in cui tre figure di spicco hanno potuto discutere insieme: il Garante nazionale Mauro Palma, la Presidente del Sottocomitato ONU per la prevenzione della tortura, Suzanne Jabbour, e il Presidente del Comitato europeo per la prevenzione della tortura, Alan Mitchell. Queste tre personalità guidano le tre Autorità indipendenti che, in base alla legge, vigilano su tutti i luoghi di privazione della libertà e sui diritti delle persone private della libertà in tali contesti. Durante il corso della conferenza, il Garante nazionale ha presentato dati forniti dal Ministero dell’Interno riguardanti i rimpatri forzati in Italia nel 2023. Sorprendentemente, l’andamento al 31 agosto mostra che siamo in linea con quanto osservato nel 2022, con un totale di 2.293 rimpatri forzati. Nonostante l’incremento significativo degli arrivi registrati quest’anno, il numero di persone rimpatriate dovrebbe attestarsi intorno a quello dell’anno precedente. Interessante è anche il dettaglio sui paesi di destinazione dei rimpatri forzati, con la Tunisia che ha registrato il maggior numero di persone rimpatriate al 31 agosto 2023 (1.441 persone), seguita dall’Albania (362 persone) e dall’Egitto (212 persone). Il Garante nazionale, Mauro Palma, ha sottolineato che i rimpatri forzati rappresentano solo una parte di una questione molto più ampia e complessa. In effetti, questi rimpatri non possono essere considerati come una soluzione definitiva per le problematiche causate da regimi autoritari, cambiamenti climatici ed economie instabili. Palma ha enfatizzato l’importanza di incentivare politiche più attive nei confronti dei rimpatri volontari, prendendo ad esempio alcuni paesi europei in cui oltre il 50% dei rimpatri sono volontari. Si tratta - secondo il Garante - di un elemento culturale e politico di grande importanza. Inoltre, ha sottolineato che la vigilanza del Garante nazionale sui rimpatri forzati non si limita al momento dell’espulsione ma si estende alle fasi di reinserimento. Ha evidenziato l’importanza degli accordi bilaterali con organismi omologhi in Georgia e Albania per garantire la tutela delle persone espulse anche dopo il loro ritorno nei rispettivi paesi d’origine. Un aspetto che Mauro Palma ha tenuto a sottolineare è stato il dialogo con il ministero dell’Interno, mantenendo al contempo la totale indipendenza dei ruoli. Il Garante ha ricordato il suo impegno per la creazione di una rete di tutela che copra l’intero percorso dei rimpatri, dimostrando la determinazione nell’assicurare il rispetto dei diritti fondamentali delle persone coinvolte in queste delicate operazioni di rimpatrio. Migranti. Mauro Palma: “I numeri dei rimpatri uguali a quello dello scorso anno, ma gli arrivi sono molti di più” di Youssef Hassan Holgado Il Domani, 16 settembre 2023 Le criticità sulle carceri sono sempre le stesse, sui rimpatri gli annunci del governo si sono scontrati con la realtà. Il bilancio dell’ultimo anno di attività di Mauro Palma, garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale. Le strategie politiche del governo di Giorgia Meloni in tema migratorio al momento si sono rivelate fallimentari. Le promesse fatte in campagna elettorale non sono state rispettate e gli accordi bilaterali come quelli siglati con la Tunisia in ambito europeo, ma di cui Meloni è stata grande sponsor, non hanno portato ai risultati sperati. I migranti continuano ad arrivare mentre sullo stato dei rimpatri i numeri sono come quelli dello scorso anno secondo i dati del Viminale. A confermarlo è Mauro Palma, il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale. Lei ha condiviso alcuni dati forniti dal Viminale sul numero dei rimpatri. Cosa è cambiato realmente con il nuovo governo viste le promesse fatte in campagna elettorale da Giorgia Meloni? Non è cambiato nulla se non nel numero degli arrivi che sono aumentati. Dall’inizio dell’anno quasi 124mila persone sono arrivate in Italia. Di queste, oltre 84mila sono arrivate con i barchini, oltre 39mila sono stati recuperati dai mezzi di soccorso e circa 5579 sono state salvate dalle ong. Eppure, noi abbiamo focalizzato tutto il dibattito politico sui soccorsi delle ong (additate come pull factor ndr), ma i dati evidenziano come i problemi siano altri. Noi nel 2022 in tutto l’anno abbiamo rimpatriato 3275 persone, al 31 agosto del 2023, invece, siamo a 2293. Se proiettiamo i numeri sul resto dei mesi che mancano otteniamo quasi lo lo stesso valore del 2022, ma siamo in una situazione in cui gli arrivi sono drasticamente aumentati. La Tunisia continua a rimanere comunque il paese con il maggior numero dei rimpatri. A Tunisi sono volati 46 voli charter su 69 totali. A livello europeo, invece, i numeri sono diversi? I dati Frontex dicono che l’anno scorso nei paesi dell’Unione europea più quelli dell’area Schengen sono stati emessi 515 documenti di rimpatrio, ma di questi ne sono stati eseguiti 85761. Quindi meno di un quinto. Tuttavia, c’è un maggior numero di rimpatri volontari, circa la metà sul totale. Noi lo scorso anno ne abbiamo avuti 500 su 3275, una quota minimale. C’è tuttavia una nota positiva, per esempio l’Italia non rimpatria i minori non accompagnati, cosa che invece altri paesi fanno. Tra le sue funzioni c’è anche il monitoraggio delle procedure di rimpatrio. Più volte ha evidenziato varie criticità, è cambiato qualcosa nell’ultimo anno? Noi monitoriamo tre fasi dei rimpatri. Nella prima verifichiamo come le persone vengono portate via dai centri e se sono adeguatamente informati di dove stanno andando. La seconda fase è quella in aeroporto, che comporta i controlli di sicurezza, il riconoscimento consolare e l’imbarco dove spesso ci sono momenti di tensione con persone che vengono legate con le fascette ai polsi. La terza fase, invece, è quella del volo vero e proprio ma è meno problematico perché una volta imbarcate, le persone hanno preso atto del fallimento della loro permanenza in Italia. Noi stiamo cercando di stringere accordi bilaterali con altri accordi per continuare a monitorare una quarta fase, cioè quella del land over, per accertarci delle tutele riservate alle persone. Ma è un lavoro complicato, finora siamo riusciti a farlo solo con la Georgia e l’Albania, è in via di definizione con il Marocco. A marzo il ministero della Giustizia ha siglato un accordo con le autorità del Marocco per rimpatriare i detenuti irregolari presenti nelle carceri italiani. Funzionerà? In Italia i detenuti possono scegliere se tornare su base volontaria nel loro paese di origine, questa come una misura alternativa alla pena quando mancano due anni. Personalmente sugli accordi su base involontaria ci credo poco, i paesi di origine tendono a non prendersi i detenuti. Lo scorso anno si è parlato molto delle violazioni che accadono all’interno dei Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr). Ci sono stati cambiamenti anche alla luce delle denunce della società civile? Per i Cpr la situazione è uguale: non ci sono tutele di tipo giurisdizionale, c’è un vuoto del tempo con le persone che non fanno nulla durante la loro permanenza e c’è il caso della non relazionalità con l’esterno. Sono tre difetti che ancora si tenta a stento di superare. Eppure il commissario all’emergenza migranti, Valerio Valenti è convinto che i Cpr siano un modello giusto da seguire. Ha annunciato l’intenzione di costruirne altri, così come per gli hotspot… Per ora non ne vedo. Sui Cpr credo che il modello in quanto tale vada rivisto, se non hai un accordo con lo stato di destinazione che possa dare una prospettiva di rimpatrio perché con quel paese non hai un accordo di riammissione il Cpr è un luogo dove si sottrae tempo a una persona, dove si dilungano i tempi e si spera che questa persona se ne vada. Sugli Hotspot, invece, mi sento di dire che altre strutture servirebbero, Lampedusa non può accogliere tutti. Qual è invece lo stato delle carceri in Italia alla luce del nuovo cambio al vertice del Dap? Gli istituti penitenziari sono in situazioni che mantengono tutte le stesse criticità, quello che è cambiato in peggio sono i numeri. Siamo arrivati a oltre 58600 detenuti, mentre abbiamo chiuso il 2022 a oltre 56mila. È un buon aumento che però non ha portato parallelamente a nuovi posti. Quello che spero rispetto al dipartimento è che ci possa essere uno sguardo più di lungo profilo. Prima ancora di avere impostazioni ideologiche, dico che il sistema deve avere una sua capacità di funzionare. Lo dico anche per chi opera, per la polizia penitenziaria, che deve credere che ci sia una progettualità sul tema. I nuovi provvedimenti del governo, però, rischiano di facilitare la detenzione minorile. Cosa ne pensa? Attualmente ci sono 427 detenuti minori e giovani adulti su 428 posti. Se questi provvedimenti introdotti, come si pensa rischiano di portare a una maggiore carcerazione, non vedo dall’altra parte che si sia progettato contestualmente un aumento di spazi e di personale. Cioè, dove li metti i nuovi detenuti? Al momento la maggior parte dei nomi che sono stati fatti per la sua successione riguardano persone che hanno militato nei partiti di maggioranza. Non pensa che figure di questo tipo rischino di minare l’indipendenza dell’istituzione che lei attualmente ricopre? Sui nomi non rispondo perché non mi compete. Mi preme, però, che ci sia una continuità di indipendenza e che venga chiamata una persona di alto profilo e multidisciplinare per questa istituzione. Migranti. Macron sprona l’Ue ad aiutare l’Italia. Ma a Calderoli non basta di Rocco Vazzana Il Dubbio, 16 settembre 2023 La soluzione a un esodo mai visto prima, per la Lega rimane il ritorno integrale ai decreti sicurezza del “Capitano” e magari l’intervento della marina militare. “C’è una regia dietro gli sbarchi, quando c’era Salvini era diverso”. “Quando c’era lui certe cose non succedevano”. È riassumibile così la visione del fenomeno migratorio secondo Roberto Calderoli, il ministro per gli Affari regionali leghista che prova a soffiare sul fuoco della polemica. Lì dove per “lui” si intende chiaramente Matteo Salvini, ex ministro dell’Interno e dei porti chiusi, che oggi invoca l’intervento della Marina militare per fermare i profughi: il blocco navale, promesso da Meloni in campagna elettorale, in salsa leghista. Calderoli scegli di sposare la linea dell’intransigenza, seguendo l’esempio del suo leader e del vice segretario Andrea Crippa, che il giorno prima si era spinto fino criticare apertamente la via diplomatica imposta da Meloni per affrontare la questione. E a nulla vale nemmeno la clamorosa retromarcia del presidente francese Emanuel Macron, che pochi istanti prima aveva parlato del dovere di tutti gli europei a “non lasciare l’Italia sola dinanzi a quello che sta vivendo”, annunciando la collaborazione tra Roma e Parigi per prendere delle “decisioni” comuni. A Calderoli evidentemente non basta, come non basta sapere dell’arrivo di una delegazione della Commissione Ue a Lampedusa, e torna a martellare con una delle parole d’ordine storiche del Carroccio: “Invasione”, anche se “pacifica”, concede. “Ma comunque un’invasione”, insiste. “Perché trattandosi di persone che in larga parte non hanno i requisiti per ottenere l’accoglienza umanitaria, e trattandosi di arrivi che contrastano con le nostre vigenti leggi italiane in materia di immigrazione, di invasione si tratta a tutti gli effetti”, aggiunge Calderoli avendo presumibilmente effettuato d’ufficio ogni controllo di frontiera e verificate una a una tutte le richieste d’asilo. Non solo, il ministro per le Autonomie è convinto che dietro l’esodo biblico di esseri umani dall’Africa non ci siano guerre, persecuzioni, fame ma una “regia” occulta non meglio specificata. L’Italia dunque dovrà fare per conto proprio, è il Calderoli pensiero. “Quando Matteo Salvini era ministro degli Interni tutto ciò non si verificava, per cui a buon intenditor poche parole. Pensiamoci bene, prima che possa accadere veramente una catastrofe in termini di ordine pubblico e sicurezza”. L’unica soluzione, dunque, per la Lega è il ritorno integrale ai decreti sicurezza del “capitano”. Magari non funzioneranno a fermare gli sbarchi, ma saranno utilissimi in vista della campagna elettorale per le europee durante la quale il Carroccio spera di recuperare almeno un po’ dell’enorme gap che lo separa da Fratelli d’Italia. E che sulla questione migranti si stia giocando anche una partita politica tutta interna alla maggioranza lo dimostrano anche le parole di Paolo Barelli, capogruppo alla Camera di Forza Italia, che ad Affaritaliani.it dichiara: “Forza Italia ritiene che i problemi che ha oggi l’Africa, tra crisi economica, terremoti, inondazioni e colpi di Stato, incidono su un continente con quasi un miliardo e mezzo di persone ed è una questione che non può essere risolta da un singolo Paese come l’Italia, con o senza i decreti Salvini del Conte I”. L’avvertimento alla Lega è chiaro, ma l’impressione è che il governo al momento brancoli nel buio. Se Salvini invoca l’intervento militare italiano, l’azzurro Antonio Tajani - che a breve volerà a Berlino e a Parigi per affrontare la questione - chiede quello dell’Onu, puntando di nuovo il dito contro una possibile strategia destabilizzante messa in atto della Wagner in Africa per mettere in difficoltà l’Europa. Meloni, dal canto suo, potrebbe avere in mente dei nuovi provvedimenti per tentare di contenere il fenomeno migratorio da sottoporre già al Consiglio dei ministri di lunedì prossimo. Ma è chiaro che qualunque intervento esclusivamente italiano e di natura puramente repressiva rischia di rivelarsi un enorme buco nell’acqua, utile a contenere solo l’attacco della Lega nei confronti della premier. Salvini intanto, che ieri era a Palermo per una nuova udienza del processo Open Arms, è stato accolto da uno striscione retto da alcuni deputati leghisti all’ingresso del carcere Pagliarelli con su scritto: “Unico a fermare i clandestini, giù le mani da Salvini”. Resta solo da capire a chi fosse indirizzato il messaggio. Se dopo secoli di emarginazione gli africani sfidano l’Occidente di Lucio Caracciolo La Stampa, 16 settembre 2023 Negli ultimi tre anni l’ex impero coloniale della Francia è stato colpito da un’epidemia golpista. Parigi deve ridurre le basi o sarà cacciata, mentre Putin trionferà nel Continente Nero. Noi europei guardiamo l’Africa dall’alto in basso. Se la guardiamo. Non solo perché il canone cartografico disegna l’Africa sotto l’Europa. È che ci pretendiamo superiori agli africani in ogni senso. Verità che non merita spiegazione. Postulato che può al meglio volgere in esotismo - hic sunt leones - al peggio in sfruttamento bestiale di popoli e risorse, quasi gli africani fossero cose a disposizione. Complesso di superiorità strutturato attorno all’essenzialismo più sfrenato: noi siamo nella Storia, voi non ci siete mai entrati; noi benestanti evoluti voi poveri arretrati; noi nazioni voi tribù. Insomma: noi bianchi voi neri. Razzismo istintivo, talmente immediato e spontaneo che stentiamo a percepirlo tale. Inasprito dal politicamente corretto che vorrebbe mascherarlo mentre perpetua il sentimento da velare. Niente da fare: “Il Nero non è un uomo, il Nero è un uomo nero”. Così Frantz Fanon, genio martinicano, settant’anni fa si lacerava sulla nevrosi della persona di colore davanti allo sguardo bianco del colono che lo rendeva prigioniero. Sicché aspirava alla “lattificazione”. Avrebbe voluto sbiancarsi, coprire pelle nera con maschera bianca. Fanon aspirava a liberare l’uomo nero da sé stesso. Essere riconosciuto dall’uomo bianco e così riconoscerlo. Dialettica della condizione umana: il razzismo cancella la persona, che il colono riduce al valore d’uso che può estrarne. Oggi i coloni non ci sono più, o almeno non si ostentano tali. Eppure la mentalità coloniale resiste, come la discriminazione per razza. Anche fra africani bianchi e africani neri. Nel Maghreb arabo i primi usano definirsi ahrar (uomini liberi) mentre applicano ai neri il peggiorativo abid (schiavi). E spesso li trattano di conseguenza, non ricambiati, nella piena coscienza dei governi europei che remunerano i “pelle chiara” perché impediscano con ogni mezzo ai subsahariani di imbarcarsi verso l’Italia. Gheddafi e Ben Ali ne avevano fatto un triste commercio, alcuni loro epigoni una mattanza trasferita dalle coste mediterranee alla linea della palma. Vera frontiera tra Africa ed Europa. Su questo sfondo, i rapporti fra africani e occidentali stanno peggiorando al galoppo. Specie fra ex colonie francesi e Parigi. Negli ultimi tre anni l’ex impero africano della Francia è stato colpito da un’epidemia golpista. Della Françafrique, sistema postcoloniale di influenza francese nel Continente Nero, resta l’ombra. Sono cambiati uno dopo l’altro sette regimi fra Ciad, Mali, Guinea, Burkina Faso (colpo doppio), Niger e Gabon. Tutti nell’Africa ex francese. Il primo coperto e pilotato da Parigi, gli altri contro. Con prevalenza di dittature militari “transitorie”. Gli ultimi due, specie il nigerino, hanno suscitato un’eco internazionale senza precedenti. Eventi che un tempo sarebbero stati registrati nelle pagine interne o nei servizi di coda dei media “globali” - a eccezione dei francofoni (empire oblige) - stanno concentrando un fascio di luce non troppo effimera su entità di cui la maggioranza degli occidentali ignorava l’esistenza. In Francia, poi, è emergenza nazionale. “Viviamo in un mondo di pazzi”, ha sovranamente stabilito Macron davanti ai suoi ambasciatori. Che cosa è cambiato? Il contesto, anzitutto. Insomma il mondo (non Macron). La crisi strutturale dell’impero americano eccita i protagonismi dei massimi avversari, Cina e Russia, le inquietudini degli ambigui occidentali di periferia quali noi italiani e altri europei appariamo alla torre di controllo di Washington, le aspirazioni di potenze medie e piccole, rivalutate dall’autunno della massima. Dopo secoli di emarginazione, gli africani scoprono il gusto del protagonismo. L’Italia non ha alcun interesse all’umiliazione della Francia. Siamo semplicemente troppo legati da prossimità, dossier incrociati e memorie comuni per immaginare che la disgrazia dell’uno non sia, entro variabile misura, anche la propria. L’incontrollabile francofobia delle nostre élite è poco intelligente e molto autolesionista. Specie in questo frangente, quando abbiamo bisogno del supporto francese contro il ritorno all’austerità germanica nell’Eurozona, grave per Parigi, disastrosa per Roma. Invece di massacrarci sulla questione migratoria, su cui coltiviamo interessi opposti - da gestire perché non tralignino in guerrigliette di frontiera attorno a Ventimiglia - possiamo ad esempio renderci utili sul fronte militare. Parigi deve ridurre drasticamente le basi africane, se non vuole esserne cacciata. Servirà un piano di disimpegno graduale ma non troppo, già oggetto di negoziati informali con la giunta nigerina. L’Italia potrebbe contribuire a “europeizzare” (si fa per dire) lo schieramento francese in alcuni paesi africani insieme a tedeschi, spagnoli e altri soci Nato/Ue. Però sul serio, non come finora accade, per cui ciascuno si trincera nella sua monade per non far quasi nulla (noi) o troppo (i francesi, che nemmeno ci avvertono del golpe nigerino di cui sapevano quasi tutto prima salvo poi cercare di arruolarci nel loro fantastico controgolpe). Purché nel contesto di un approccio collaborativo con i governi africani - quelli effettivi, “legittimi” o meno - sui principali dossier economici, a cominciare dalla remissione del debito. Attento a umori e necessità delle comunità locali, esistenzialmente interessate alla sicurezza dei propri territori. Chissà che un giorno i caporioni del neo-antimperialismo africano non ci scoprano più affidabili dei russi. Se invece la Francia punterà i piedi, o vorrà cavarsela con qualche evacuazione simbolica, dal Sahel sarà espulsa. Sconfitta sul campo. Ingloriosa catabasi dagli effetti strategici forse paragonabili alla ritirata di Russia. Con Putin trionfante nel Continente Nero come Alessandro I a Parigi. Solo che questo “zar”, meno mistico di quello vero, non ama la Francia. E ciò che prende non lo molla. Specie se glielo regaliamo. Iran. Un anno fa il martirio di Mahsa Amini fece esplodere l’urlo “Donna, vita, libertà” di Simona Musco Il Dubbio, 16 settembre 2023 La 22enne fu ammazzata di botte dalla polizia morale di Teheran per non aver indossato a dovere il velo. Una ciocca di capelli fuori dal velo. Tanto è bastato alla polizia morale di Teheran per dimostrare tutto il proprio fanatismo, arrestando e riempiendo di botte una giovane donna curdo- iraniana, Mahsa Amini, fino a farla morire. Una morte che ha rappresentato l’inizio di una rivolta che ha cambiato il volto dell’Iran, sceso in piazza al giro di “Donna, vita, libertà” per spezzare le catene. Mahsa avrebbe compiuto 22 anni il 21 settembre, ma il destino - suo e dell’intero Paese - le è piombato addosso il 13 settembre 2022, quando si trovava con i genitori a Teheran. La giovane donna è stata fermata a un posto di blocco, all’ingresso dell’autostrada Haqqani, dalle “Guidance Patrol”, la famigerata polizia morale custode della Sharia. La sua colpa: indossare l’hijab, il velo islamico, in maniera “non appropriata”, per via di quella ciocca di capelli che sfuggiva al tessuto. Mahsa è stata così arrestata - per un “ripasso di moralità” - e picchiata durante il tragitto in carcere, tanto da rendere necessario il ricovero in ospedale. Ma lì ci è arrivata in stato di morte cerebrale, fino alla morte, esattamente un anno fa, il 16 settembre, dopo tre giorni in terapia intensiva nell’ospedale di Kasra. “L’hanno trascinata via dicendo che la portavano a fare una “lezione di moralità” - aveva raccontato al Corriere della Sera Kiarash Amini, fratello della giovane - intanto io ho avvisato i miei genitori. E siamo andati davanti al commissariato della polizia morale a Vozara. Lì davanti ci hanno detto che l’avrebbero rilasciata in poche ore. E invece…”. E invece Mahsa è finita in ospedale, da dove è uscita cadavere. La polizia ha negato ogni responsabilità, sostenendo che ad ucciderla è stato un problema cardiaco, nel chiaro tentativo di insabbiare la vicenda. Ma la situazione era già sfuggita di mano, complice anche il post pubblicato su Instagram il giorno della morte della 22enne dalla clinica dove si trovava ricoverata, che attestava che la giovane era arrivata in ospedale già in stato di morte cerebrale. E diversi medici dichiararono la presenza di una lesione cerebrale, tra cui sanguinamento dalle orecchie e lividi sotto gli occhi, con fratture ossee, emorragia ed edema cerebrale. “Mi hanno fatto vedere il suo corpo, aveva lividi sul volto - aveva spiegato il fratello - ma non mi hanno permesso di fotografarlo, chissà come mai. Poi due giorni dopo la polizia della moralità ha detto che mia sorella era morta a causa di un infarto. Ma lei era sana, completamente sana e non soffriva di cuore”. Le autorità hanno continuato a nascondere la verità, con un’autopsia farsa eseguita dall’Organizzazione di medicina legale di Teheran: secondo il rapporto, a provocare la morte di Mahsa sarebbe stata una “insufficienza multiorgano causata da ipossia cerebrale”, causata da un’improvvisa perdita di conoscenza con “caduta a terra”. Il funerale, celebrato due giorni dopo, ha dato il via all’ondata di protesta che ha travolto l’Iran: le donne presenti hanno tolto il velo, intonando per la prima volta inno della rivolta, quel “Donna, vita e libertà” diventato simbolo di lotta in tutto il mondo. In strada sono scese donne di ogni età, ma anche uomini, tutti pronti a sfidare l’autorità dell’Ayatollah Ali Khamenei, al grido “Morte al dittatore”. Una protesta che ha fatto il giro del mondo e che ha spinto molte donne a filmarsi nell’atto di tagliare simbolicamente una ciocca di capelli, per dichiarare solidarietà ma anche la propria sfida alle autorità iraniane. La cui risposta è stata feroce: la ribellione è stata soffocata nelle violenze, con l’uccisione di centinaia di manifestanti, circa 500, soprattutto donne. Tra loro Hadis Najafi, 23 anni, uccisa con sei colpi di arma da fuoco al collo, al petto, al viso; Hananeh Kia, 23 anni, colpita da un proiettile; e Ghazale Chelavi, 32 anni. A finire nelle mani del regime anche diversi minorenni. E sono stati migliaia di arresti illegali - oltre 22mila - accompagnati da torture, stupri e intimidazioni. Iniziative sfociate, in alcuni casi, in processi irregolari e condanne a morte per impiccagione: a oggi, sono sette le persone per le quali è stata eseguita la condanna a morte. Tra le persone finite in carcere anche lo zio di Mahsa e l’avvocato della famiglia, Saleh Nikbakht, accusato di “propaganda” per le interviste rilasciate ai media stranieri sul caso. A un anno da quegli eventi, le donne in Iran sono ancora sotto minaccia: il Consiglio dei guardiani della Costituzione - un organismo composto di soli uomini - sta infatti esaminando un nuovo disegno di legge per punire le donne che non indossano il velo, con il carcere fino a 10 anni. Prevista, inoltre, la chiusura dei negozi che accettano clienti che non indossano il velo. Al momento, l’articolo 638 del codice penale islamico iraniano punisce qualsiasi atto ritenuto “offensivo” per la pubblica decenza con la reclusione da dieci giorni a due mesi o 74 frustate. Insomma, un inasprimento abnorme, rispetto ad una legge già inaccettabile, che rappresenta un vero e proprio “gender apartheid”, secondo ll’Onu e alcune organizzazioni non governative come Human rights watch. Le autorità iraniane sono ora preoccupate dai possibili disordini che potrebbero accompagnare le proteste di oggi, anniversario di quella morte assurda. E la macchina della repressione non ha mai smesso di lavorare: in alcune città come Saqqez, dove viveva Mahsa Amini, aumentano i checkpoint di polizia per controllare l’abbigliamento delle donne e l’attenzione per le manifestazioni attese oggi. Ma in Iran “c’è una maggiore adesione alle proteste e una maggiore coesione tra la popolazione”, ha detto all’Adnkronos Ghazal Afshar, portavoce dell’Associazione Giovani Iraniani in Italia, con “giovani e anziani, uomini e donne, ricchi e poveri” che “non ne possono più del regime teocratico assassino che è il loro vero nemico. Da fonti interne sappiamo che il regime ha schierato 15mila uomini dei Pasdaran e delle forze paramilitari Basij nelle università sotto copertura, come studenti o professori, per monitorare la situazione”. E “il regime sta cercando di tutelarsi aumentando la repressione interna e il numero di pattuglie per le strade”. Ma anche “inviando agenti nelle zone maggiormente interessate dalle proteste” e “trasferendo numerosi prigionieri politici dal carcere di Evin”. Iran. La repressione di una società ormai cambiata di Paola Rivetti* Il Manifesto, 16 settembre 2023 A un anno di distanza dalla morte di Mahsa Jina Amini, la società iraniana si trova a fare i conti con grandi cambiamenti socio-culturali in un contesto di forte repressione da parte dello stato. Quali conseguenze avrà questa impasse? Le immagini di donne, più o meno giovani, che si muovono apertamente senza velo nella capitale Teheran e nelle altre città iraniane ci raccontano di una trasformazione culturale e politica ormai già avvenuta nella società, e che ha a che vedere con l’indiscutibile diritto delle donne a controllare il proprio corpo e a scegliere per sé stesse in autonomia. Inoltre, queste immagini ci raccontano anche della diffusione senza precedenti di un sentimento di ribellione e audacia che, sebbene da sempre presente nella società, non si era mai espresso con tanta evidenza nello spazio pubblico. Sono state tante, l’anno scorso, le testimonianze di chi rimaneva sorpresa dal fatto che, invece di riprenderle e insultarle, gli uomini alle manifestazioni applaudissero e sostenessero le donne che si toglievano il velo e lo davano alle fiamme. E in tante, oggi, dicono che non si torna più indietro: il rapporto tra la società e lo stato è irrimediabilmente cambiato. Complice il protagonismo di una generazione che non ha conosciuto la delusione per il fallimento del movimento riformista negli anni 2000 e la repressione decennale seguita al cosiddetto Movimento Verde del 2009, oggi sono in tanti a non avere paura. Lo stato, dal canto suo, ha negli ultimi 12 mesi agito con violenza per recuperare il controllo su quegli spazi pubblici, ma anche privati, attraversati da tanta voglia di cambiamento e di resistenza. Per farlo, si è mosso su diversi fronti. Non solo ricordiamo, nel corso dello scorso anno, le repressioni violente, le condanne e le esecuzioni di giovani manifestanti, il misterioso avvelenamento di migliaia di studentesse, l’assedio alle università e la persecuzione di colleghe, colleghi e studenti perché considerati vicini al movimento contestatario o bollati come “agitatori”. Ricordiamo anche le leggi restrittive che sono state approvate e che hanno rafforzato l’obbligo del velo sui posti di lavoro e nelle università, e che hanno reso difficile l’accesso ai metodi contraccettivi e all’interruzione di gravidanza, col chiaro scopo di rafforzare un potere di stampo patriarcale; ricordiamo anche la riabilitazione della cosiddetta polizia morale, tornata a pattugliare le strade, e l’installazione di telecamere per il riconoscimento facciale che servono, tra le altre cose, a individuare e punire coloro che non sono coperte in maniera appropriata. A tutto ciò, va aggiunta l’azione repressiva dello stato nelle aree di confine del paese come il Kurdistan e il Sistan-Baluchistan, non a caso abitate da minoranze etniche e religiose, che in queste ultime settimane hanno visto molti arresti. Eppure, la società sembra attraversata da processi di cambiamento inarrestabili, nonostante gli sforzi del governo centrale. Con quali prospettive? Dal 1979, la società iraniana è stata sottoposta a un processo di politicizzazione quasi totalizzante. La perenne mobilitazione, rivoluzionaria prima e nazionalista in seguito, e le continue commemorazioni dei martiri e del loro estremo sacrificio “per la patria e la rivoluzione”, hanno forgiato una società ben conscia dell’importanza di valori quali la giustizia e la libertà, coscienza rafforzata da una grande opera di alfabetizzazione, scolarizzazione e modernizzazione portata avanti dallo stato. In molti, in questi anni, mi hanno fatta riflettere su come sia paradossale che lo stato pretenda che la popolazione non si accorga della mancanza di giustizia e libertà in Iran, vista la socializzazione politica imperniata su questi valori. In tante mi hanno anche detto che, se i martiri fossero vivi, starebbero dalla nostra parte. La repressione dello stato difficilmente riuscirà ad arrestare le trasformazioni politiche e culturali che vediamo in Iran, anche se le proteste sono diventate ormai sporadiche o si sono spostate dalle piazze fisiche a quelle virtuali. Tuttavia, in un contesto globale caratterizzato da un arretramento dei valori progressisti e democratici, e nel quale le politiche autoritarie e repressive sono normalizzate, lo sviluppo del movimento Donna Vita Libertà dipende anche dal sostegno che sarà in grado di raccogliere dagli altri movimenti femministi e anti-razzisti, veri attori della resistenza all’autoritarismo neoliberale che caratterizza la nostra epoca. *Docente associata alla Dublin City University