La cura penale di Luigi Manconi La Repubblica, 15 settembre 2023 Davanti a ogni crisi la risposta del governo Meloni è sempre la stessa: l’innalzamento degli anni di carcere. Panpenalismo è un termine raffinato e, in apparenza, un po’ misterioso, che definisce, tuttavia, una realtà molto concreta e immediatamente riconoscibile. È la tendenza dell’autorità pubblica e della classe politica a proporre risposte giudiziarie e sanzioni penali a tutte quelle contraddizioni sociali e forme di trasgressione e di devianza che determinano ansie collettive. Una tendenza che si traduce nell’introduzione di nuovi reati - una fattispecie penale per ogni sussulto emotivo della comunità - nell’innalzamento delle pene previste e nel ricorso al carcere. Una tendenza, infine, che se osserviamo l’ultimo anno di attività del governo di Giorgia Meloni, trascende nella psicologia politica e si manifesta come isteria. Non credo di esagerare. Prendiamo l’ultimo caso. A Caivano, dopo che vi si erano recati la presidente del Consiglio, tre ministri, un sottosegretario e, a distanza di qualche giorno, oltre quattrocento tra poliziotti e carabinieri, si sono infine appalesati i membri delle bande criminali giovanili, per realizzare quella che viene definita una “stesa”. Ovvero un’azione intimidatoria accompagnata da raffiche di armi da fuoco sparate da moto che percorrono le vie del quartiere, costringendo le persone a “stendersi” per terra. Una modalità operativa resa celebre dalle serie televisive sulla camorra, che tuttavia non introduce alcuna novità rispetto ai più consolidati comportamenti delinquenziali. E, tuttavia, scatta il cortocircuito: l’enfasi mediatico-spettacolare e l’emozione suscitata da fatti di cronaca particolarmente efferati (violenze sessuali di gruppo su bambine) producono una reazione propriamente panpenalista. Fulvio Martusciello, europarlamentare di Forza Italia, propone di rendere reato autonomo la “stesa”. Sarebbe la prima fattispecie penale scritta direttamente dagli sceneggiatori televisivi di “crime story”. Come si vede, il riferimento all’isteria - ovvero a una forma di nevrosi collegata a una angoscia - non è così fuoriluogo. E, si diceva, si tratta solo dell’ultimo episodio di una sequenza lunga un anno e che, per la verità, risale a oltre mezzo secolo fa: fu allora che prese le mosse una strategia politica giocata largamente sulla successione di emergenze sociali, che induceva a legiferare quasi si fosse sempre in “stato di eccezione”. Una politica dell’emergenza che, negli ultimi dodici mesi, ha conosciuto un’accelerazione particolare diventando compulsiva. Quello che segue è un elenco di provvedimenti adottati o di misure in discussione o di annunci. Ognuno, evidentemente, ha un peso diverso, ma l’insieme è impressionante. Tra nuove fattispecie penali e innalzamento delle sanzioni abbiamo l’organizzazione di rave illegali (pena fino a sei anni); traffico di migranti e conseguente morte (innalzamento della pena fino a trent’anni); reato universale di organizzazione della gestazione per altri (in prima lettura, aumento delle pene fino a due anni); reato di omicidio nautico (in prima lettura, innalzamento della pena fino a dieci anni); reato di istigazione all’anoressia aggravata dalla minore età (proposta reclusione fino a quattro anni); dispersione scolastica (aumento della pena fino a due anni per i genitori); reato di incendio boschivo (aumento della pena fino a due anni); reato di occupazione abusiva di immobili (innalzamento della pena fino a due anni); e ancora: criminalità minorile (pene più severe fino a cinque anni per spaccio e la conseguente possibilità di custodia cautelare in carcere). E così via fino all’evocazione della castrazione chimica. Come si vede, la logica della penalizzazione e dell’innalzamento delle sanzioni raggiunge e pervade i più diversi ambiti della società e le più diverse sfere della vita personale. Ma non è solo questa abnorme invasione della dimensione esistenziale da parte del sistema penale a preoccupare. Ancor più inquieta il fatto che questa politica sia interamente concentrata sui sintomi. Viene trascurata, fino all’annullamento, qualsiasi analisi delle cause prossime e remote per concentrarsi sulle manifestazioni patologiche più evidenti. Dice don Maurizio Patriciello, parroco di Caivano: “Se arrivano con il kalashnikov, cosa gli mandi, un insegnante di scuola elementare?”. Giusto. Ma il problema è che, quei maestri elementari, rischiano di non arrivare mai tempestivamente e in numero adeguato. Insomma, è del tutto evidente che i delinquenti armati non possono essere affrontati con la “cultura”, ma se - insieme ai poliziotti e ai carabinieri - non interviene anche la “cultura” (insegnanti, assistenti sociali, psicologi, operatori sanitari, servizi, investimenti economici…) l’attività di repressione risulterà fatalmente vana. E, invece, questo sembra essere l’approccio perseguito dal governo di Giorgia Meloni. Le radici sociali, l’ambito territoriale, le biografie familiari, insomma tutto ciò che costituisce il contesto delle diverse emergenze, viene ignorato. Accanto alle misure di controllo e repressione, non un solo provvedimento di prevenzione e formazione e di cura delle cause sociali è stato proposto e tantomeno attuato. Non per quanto riguarda la violenza a opera dei minori e non sul piano dei comportamenti e degli stili di vita degli adolescenti; non relativamente all’accoglienza dei migranti, ma nemmeno all’educazione alla sicurezza stradale; e tanto meno a proposito delle ragioni culturali e materiali dell’abbandono scolastico. Eppure, si dovrebbe ricordare, anche l’abuso dei “mezzi di correzione” è un reato. Quando il carcere minorile è un “banco di prova” per i futuri criminali di Tommaso Romeo* Ristretti Orizzonti, 15 settembre 2023 Il recente decreto legato ai fatti di Caivano e ai reati e alla violenza dei minori secondo la mia esperienza rischia di essere un regalo alla criminalità. Il criminale che è “sul campo di battaglia” ha bisogno di giovani, e se questi poi muoiono o finiscono in carcere non gli importerà più di tanto, perché non porteranno sofferenza alla propria famiglia. Si tratta infatti spesso per lui di perfetti sconosciuti, ma dove li trova questi cavalli da macello? principalmente in quei giovanissimi che finiscono in carcere per qualche piccolo reato. Perché poi il carcere minorile fa da banco di prova e una volta fuori il criminale adulto basta che si informi di che comportamento ha avuto quel ragazzino in carcere e va sul sicuro, è già pronto per fargli fare reati più gravi. Vi immaginate nelle grandi periferie, dove in molte famiglie non entra uno stipendio, ora poi senza più reddito di cittadinanza quanti di quei ragazzini cadranno nella tentazione di commettere qualche piccolo reato per comprarsi il cellulare o un paio di scarpe? E da lì può iniziare una carriera criminale. Io credo che il pensiero di questo governo di usare la spada e la punizione verso questi ragazzini mandandoli in carcere rischia di non far altro che un favore alla grande criminalità, perché quei ragazzini dopo il primo arresto si vedranno marchiati a vita, senza un futuro sociale e lavorativo perché pregiudicati. È infatti inutile nasconderci che una volta che finisci in carcere spesso sia per la società che per le istituzioni sei un criminale a vita, e allora a quel ragazzino non rimane altro che fare a tempo pieno il criminale dandosi le solite giustificazioni che ognuno di noi, che ora siamo in carcere, si è dato, del tipo “non mi hanno lasciato altra scelta”. Sono convinto che si otterrebbe di più dando una seconda possibilità e in qualche caso anche la terza possibilità, perché affidarsi alla galera significa fingere di non sapere che per la maggior parte le carceri non sono altro che una scuola di criminalità, luoghi poco rieducative fortemente punitivi e di contenimento. *Ergastolano, redazione di Ristretti Orizzonti Pinelli (Csm): “La politica si riprenda la sovranità sulle regole, ai giudici tocca applicarle” di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 15 settembre 2023 Il giorno dopo la scelta del nuovo procuratore di Napoli, Nicola Gratteri, il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura Fabio Pinelli è soddisfatto: “Il Consiglio ha nominato un magistrato di grande valore, fornendo una risposta concreta e puntuale all’esigenza dei cittadini di avere un adeguato contrasto alla criminalità organizzata. Fermo restando che la repressione penale non è la soluzione di tutti i problemi”. C’è voluto più di un anno... “Noi ci siamo insediati a febbraio e in sette mesi abbiamo fatto la nomina, oltre ad altre ugualmente importanti. In media abbiamo già ridotto di un terzo i tempi per l’attribuzione di incarichi direttivi e semi direttivi, grazie al lavoro dell’apposita commissione. E smaltito l’arretrato di oltre il 20 per cento. Sono risultati importanti, dovuti al grande lavoro di tutti i consiglieri”. Sulla Procura di Napoli vi siete divisi in modo netto: da una parte il bocco compatto dei laici scelti dal centro-destra insieme alla corrente togata di destra, dall’altra la sinistra togata e il laico di derivazione Pd... “Gran parte delle nomine di questo Consiglio è decisa all’unanimità e, quando non avviene, le maggioranze sono variabili, senza schieramenti predefiniti. Proprio su Napoli ci sono stati voti trasversali tra laici e togati”. Appena 4 su 19: i due blocchi erano evidenti... “Dividere la magistratura fra destra e sinistra è riduttivo e fuorviante, e va rivalutata l’importanza dei laici all’interno del Csm. La Costituzione li ha previsti per evitare di farne un organo autoreferenziale e garantire il governo della funzione giudiziaria, non della corporazione. E in questo Consiglio il ruolo dei laici si sta distinguendo per competenza e professionalità”. Su Gratteri e altre pratiche lei - laico indicato dal centrodestra - ha votato abbandonando la tradizionale astensione del vicepresidente. Perché? “Ritengo doveroso e opportuno dare il mio contributo nei casi di maggior rilievo, assumendomene la responsabilità. Ho verificato che dal 1998 in avanti i vice presidenti hanno votato nel 31 per cento delle pratiche, io sono ben al di sotto la media”. Il capo dello Stato, presidente del Csm, condivide la sua impostazione? “Il Quirinale è sempre doverosamente informato dei lavori del Csm”. Per la Procura di Firenze il suo voto è stato decisivo, alimentando sospetti su una scelta determinata dalle aspettative di alcuni politici... “Pensare che le decisioni del Csm siano frutto di aspettative politiche è sbagliato e offensivo. Perché il presupposto è che le iniziative delle procure non siano conseguenza di presunte violazioni della legge, bensì dell’orientamento politico di un procuratore o di un interesse politico in gioco”. Lo pensano molti politici... “Ma io respingo questa visione, perché credo che la magistratura non sia irrimediabilmente politicizzata. Credo piuttosto che i capi delle procure svolgano le loro funzioni per organizzare l’ufficio e determinare strategie investigative, dopodiché ogni singolo magistrato, nell’ambito della propria autonomia, si occupa del reato eventualmente commesso. Avendo come unico riferimento la violazione della legge”. Dice che la magistratura non è “irrimediabilmente” politicizzata perché sono necessari rimedi? “All’interno del Csm, anche nella componente togata, visioni ideali e culturali diverse sul ruolo del magistrato e della funzione giudiziaria hanno piena legittimità. Il problema sorge quando si scade nel puro esercizio di potere per spartire posti o distribuire favori: una degenerazione da contrastare, anche attraverso il ritorno alla funzione propria del Csm come organo di alta amministrazione a garanzia dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura. È ciò che stiamo facendo in questa consiliatura”. Considera fondate le accuse di politicizzazione rivolte alla magistratura? “La separazione dei poteri deve declinarsi in comportamenti concreti. Sulla magistratura si è sovraccaricato l’onere della soluzione di molti conflitti interni alla società, che ha perso i luoghi di mediazione come partiti e sindacati. Tuttavia la politica deve riprendere la sovranità sulle regole, attraverso il Parlamento che è portatore della rappresentanza sovrana”. Sta dicendo che i magistrati interferiscono sull’attività del Parlamento? “Sto dicendo che l’Associazione nazionale magistrati può dare un contributo tecnico e di competenza sulle norme in via di approvazione, ma le decisioni spettano sempre al Parlamento. A me è sembrato che a volte l’Anm si sia auto attribuita un compito di rappresentanza generale che non le appartiene; perché ad attribuirla è il voto popolare, non il superamento di un concorso pubblico”. E i politici che attaccano i provvedimenti dei magistrati solo perché sgraditi? “Il riconoscimento delle prerogative di ciascuno è necessario da parte di tutti. Solo così si può evitare il conflitto tra politica e magistratura, destinato ad acuirsi se da un lato c’è l’ambizione di intervenire su scelte che spettano a chi rappresenta la volontà dei cittadini, e dall’altro non si rispettano l’autonomia e l’indipendenza dei magistrati”. Come giudica le riforme in tema di giustizia che giacciono in Parlamento? “Non io, ma il Csm nell’ambito e nei limiti fissati dalla legge, fornirà i pareri di competenza, in tempi utili perché possano essere valutati dall’autorità politica. Che resta sovrana nel decidere se e come tenerne conto”. Prima di diventare vice presidente del Csm auspicava una “tregua” su intercettazioni, separazione delle carriere e altre materie già riformate. È ancora così? “Ero un privato cittadino, ora rivesto una carica istituzionale e non sarebbe opportuno entrare nel merito. In generale, da giurista, ritengo che dopo ogni riforma importante sia necessaria una “pausa di applicazione” per verificarne l’impatto. Altrimenti si rischia di intervenire solo per delegittimare interventi normativi precedenti, anziché per migliorarli. E dubito che l’introduzione continua di nuove norme abbia la funzione salvifica che spesso le si attribuisce. Bisogna agire sull’etica dei comportamenti piuttosto che sulle regole”. Intercettazioni, Fratelli d’Italia e Lega stoppano la “riforma” di Forza Italia di Valentina Stella Il Dubbio, 15 settembre 2023 Dai vertici del governo l’ordine ai berlusconiani: ritirate gli emendamenti al decreto sugli “ascolti”. La questione intercettazioni spacca la maggioranza e anche in modo clamoroso. Oggi alle 14 scadeva il termine nelle Commissioni Giustizia e Affari Costituzionali della Camera per presentare gli emendamenti al decreto-legge 10 agosto 2023, n. 105 che, tra le varie modifiche, estende la disciplina dell’uso delle intercettazioni per reati di criminalità organizzata anche ad altri tipi di delitti, come il traffico illecito di rifiuti e sequestro di persona a scopo di estorsione. Questo era stato richiesto da diversi Procuratori antimafia, come Giovanni Melillo, ed è stato tramutato in norma grazie al consenso del fidato consigliere di Giorgia Meloni, in materia di giustizia, Alfredo Mantovano. Ebbene, fonti autorevolissime della maggioranza ci hanno riferito che il Governo ha chiesto a Forza Italia di ritirare i propri emendamenti perché non coerenti con la volontà dell’Esecutivo. “Se il Governo ha una linea, deve essere sostenuta da tutti”, ci ha detto la nostra fonte. Come raccontato al Dubbio dal forzista Tommaso Calderone le loro proposte di modifica si muovevano in chiave garantista: far sì che nei cosiddetti brogliacci le intercettazioni irrilevanti non siano evidenziate da alcuna annotazione di contenuto, l’uso del trojan consentito solo per reati gravi e gravissimi, cioè mafia e terrorismo, imporre al giudice di indicare in modo specifico, e non per relazione, i motivi per cui le intercettazioni sono necessarie al prosieguo dell’indagine e i gravi indizi che ne sono il presupposto, l’utilizzabilità delle intercettazioni in altro procedimento consentita solo per i reati per quali è obbligatorio l’arresto in flagranza, abrogazione della parte della norma che prevede la retroattività. In pratica la mini riforma delle intercettazioni targata Fi viene repressa dal fuoco amico di Lega e Fratelli D’Italia, isolando sempre di più gli azzurri dai partiti che sostengono questo Governo. Se il no agli emendamenti fosse stato rivolto ad esempio ad un esponente del (fu) Terzo Polo sarebbe stato un contro, ma qui l’asse Mantovano - Meloni con il probabile appoggio della responsabile giustizia della Lega Giulia Bongiorno ha sbattuto la porta sul muso a una componente della maggioranza che senza Berlusconi ha forse meno potere contrattuale ma paradossalmente si sente più libera di premere l’acceleratore su riforme garantiste. Dunque quella norma, almeno sul piano delle intercettazioni, non si tocca, tanto è vero che il Carroccio, da quanto appreso, sul tema non ha presentato emendamenti. In pratica Fratelli d’Italia e Lega preferiscono tenersi la norma Bonafede - che in parte sarebbe stata abrogata con l’emendamento di Fi nella parte in cui estende ai reati contro la Pa il “virus- spia”.- invece che ripristinare una interpretazione normativa più garantista. Preferiscono sostenere la retroattività della norma, bocciata da tutti i costituzionalisti ed esperti di diritto, rifiutano così di tornare anche a quanto previsto dalla Sentenza a Sezioni Unite Cavallo (che è la norma secondo la quale “i risultati delle intercettazioni non possono essere utilizzati in procedimenti diversi da quelli nei quali sono stati disposti, salvo che risultino indispensabili per l’accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza”, ndr). E che paradossalmente è tra gli obiettivi da perseguire nell’elenco di quelli enunciati dalla Relazione messa a punto dalla Commissione Giustizia del Senato al termine dell’indagine conoscitiva. Avete ragione: regna una certa confusione sul terreno della giustizia, soprattutto se ci aggiungiamo l’ipotesi, tirata fuori da Liana Milella su Repubblica, che Nordio per il prossimo Cdm stia preparando misure per ridurre l’uso delle intercettazioni in maniera più soft rispetto alla proposta degli azzurri ma altrettanto necessaria - diciamo noi - per far ingoiare a Fi il ritiro degli emendamenti. Abbiamo interpellato Via Arenula a cui però non risulta nulla in merito. E abbiamo cercato di capire qualcosa dai forzisti ma le bocche sono cucite. Chi invece va dritto e veloce come un Tav è il deputato di Azione Enrico Costa che ha presentato al testo sei emendamenti: il Pm al termine delle indagini preliminari deve depositare agli atti un resoconto dettagliato delle spese effettuate per le intercettazioni; le testate giornalistiche che hanno pubblicato atti di indagine coperti dal segreto perdono, per l’anno in cui si è consumata la violazione, il diritto di ottenere contributi dallo Stato; le intercettazioni col trojan non potranno essere attivate quando l’apparecchio si trova in un luogo di privata dimora, salvo che si ritenga che il quel luogo si stia consumando il reato; il trojan può essere disposto esclusivamente per reati associativi. Nel caso in cui tale emendamento non fosse accolto si propone che il trojan venga autorizzato dal Tribunale in composizione collegiale. Il trojan si può utilizzare esclusivamente per registrare conversazioni e non per altre finalità, quali ad esempio acquisire screenshot, video, files. Infine stop alle intercettazioni a strascico. Intercettazioni, l’indagine del Senato “denuncia” pesca a strascico e abusi sui difensori di Valentina Stella Il Dubbio, 15 settembre 2023 È la conclusione generale che si legge nella relazione messa a punto dalla commissione di Palazzo Madama al termine dell’indagine conoscitiva sugli “ascolti”. “Le criticità riscontrate devono condurre a una riforma che, muovendo dal presupposto della irrinunciabilità delle intercettazioni quale indispensabile mezzo di ricerca della prova, persegua l’obiettivo di elidere il rischio di abusi e compressioni delle libertà fondamentali in violazione del principio di proporzionalità”. È la conclusione generale che si legge nella relazione messa a punto dalla commissione Giustizia del Senato al termine dell’indagine conoscitiva sugli “ascolti”. Il testo, firmato dalla presidente leghista Giulia Bongiorno e dai relatori Pierantonio Zanettin (FI) e Giovanni Berrino (FdI) ora dovrà essere oggetto di confronto fra i partiti. Ecco le parti essenziali di quella che sembra concepita come una premessa per la futura riforma. “La spiccata efficacia “intrusiva” di questa modalità di ricerca della prova rende necessario prevedere rimedi al rischio di alterazione”. Come aveva rilevato il Garante per la Protezione dei dati personali, “ai fini della corretta ricostruzione probatoria, della garanzia del diritto di difesa come anche della privacy è, infatti, indispensabile disporre di software idonei a ricostruire, nel dettaglio, ogni attività svolta sul sistema ospite e sui dati ivi presenti, senza alterarne il contenuto, corrispondentemente valorizzando l’esigenza di una verbalizzazione analitica delle operazioni compiute”. Si tratta, nello specifico, di istituire una specifica blockchain per i captatori informatici. Tale meccanismo si rende particolarmente utile in considerazione dell’alto tasso di esternalizzazione delle operazioni di captazione. “L’inviolabilità delle comunicazioni fra difensore e assistito rappresenta un elemento essenziale del diritto di difesa”, dunque, sancisce la relazione, visto che il dritto di difesa è assicurato da numerose disposizioni costituzionali, è necessaria una “chiara riaffermazione - auspicata da numerosi auditi - del divieto assoluto di intercettazione e, comunque, di ascolto delle comunicazioni tra difensore e assistito”. Tale divieto, per poter essere efficace, “deve essere accompagnato necessariamente dal rafforzamento della sanzione processuale di inutilizzabilità, con l’obbligo di distruzione dell’intercettazione eventualmente realizzata”. Inoltre è stato registrato che uno dei vulnus al diritto di difesa della persona accusata di un reato riguarda “l’accessibilità agli audio delle conversazioni o comunicazioni registrate attraverso le intercettazioni”. I difensori possono estrarre copia delle sole intercettazioni ritenute rilevanti dal pm. “Tra le soluzioni prospettate per assicurare la pienezza dell’esercizio del diritto di difesa, attraverso l’accessibilità a tutto il materiale, è stata rappresentata la remotizzazione del contenuto dell’Adi (l’archivio digitale, ndr) oppure la creazione di un’udienza predibattimentale ad hoc in camera di consiglio in cui eseguire la selezione delle conversazioni rilevanti, in modo da assicurare che la gestione dell’archivio per le fasi successive sia affidata al giudice e riservare ad entrambe le parti - pubblico ministero e difesa - il medesimo trattamento”. Secondo quanto emerso dalle audizioni “il necessario collegamento della durata delle intercettazioni con il termine delle indagini preliminari, alla cui proroga peraltro la riforma Cartabia ha posto delle limitazioni, potrebbe non costituire un presidio adeguato alla effettiva proporzionalità di questo mezzo di ricerca della prova. La soluzione potrebbe essere quella che il pm, di fronte a nuovi indizi relativi ad altro reato o ad altro indagato, debba procedere a una nuova iscrizione, a un nuovo procedimento o a una nuova richiesta di autorizzazione; mentre, ove si tratti di reati collegati, che non richiedono una nuova iscrizione, il termine dovrebbe decorrere dalla prima iscrizione”. Nella relazione si esprime una sostanziale contrarietà al sistema delle cosiddette “intercettazioni a strascico”. “In materia di circolazione dei risultati delle intercettazioni autorizzate in un determinato procedimento, nel 2020 si è registrato un importante intervento delle Sezioni unite della Cassazione con la cosiddetta sentenza Cavallo, che ha chiarito l’ambito di applicazione della deroga al divieto di utilizzabilità del contenuto delle intercettazioni autorizzate in un altro procedimento”. Il Giudice di legittimità, si aggiunge, aveva “definito il concetto di “procedimento diverso”, circoscrivendo l’utilizzabilità ai risultati delle intercettazioni disposte per un ‘ reato connesso’“. In questo modo la Cassazione aveva “individuato il perimetro dell’articolo 270 cpp” (che è la norma secondo la quale “i risultati delle intercettazioni non possono essere utilizzati in procedimenti diversi da quelli nei quali sono stati disposti, salvo che risultino indispensabili per l’accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza”, ndr). Si voleva insomma che ci fosse “un rapporto di continuazione tra i reati determinato dalla riconducibilità nel medesimo disegno criminoso”. Ma poi “questa logica - si osserva ancora nella bozza - non sembra essere stata condivisa dal legislatore” che, con il Dl 30/ 11/ 2019, ha superato il concetto della connessione dei reati “riespandendo il perimetro” di azione per gli “ascolti”. “La Commissione ritiene dunque necessario riguardare la materia alla luce dei principi espressi dalle Sezioni Unite, valorizzando l’ottica del contemperamento tra interessi costituzionali tendenzialmente contrapposti”. Processo mediatico, così i giudici aggirano il divieto di Angela Stella L’Unità, 15 settembre 2023 Nordio risponde all’interrogazione di Costa sulla norma sulla presunzione di innocenza e ammette: “Violazioni a cui non sono seguite azioni disciplinari”. “Il monitoraggio al quale lei, collega, fa riferimento è già ovviamente iniziato. Sono state anche già iniziate alcune azioni disciplinari: una su segnalazione del nostro Ispettorato e tre su esercizio della procura generale della Corte di Cassazione, per violazione di quest’ultima norma”. Lo ha detto ieri alla Camera il Ministro della Giustizia Carlo Nordio, rispondendo ad un’interrogazione del responsabile giustizia di Azione Enrico Costa sullo stato di attuazione della normativa in materia di tutela della presunzione di innocenza. Il deputato ha segnalato che a suo parere ci sono violazioni rispetto alla legge: dal mancato rispetto del divieto di assegnare ai procedimenti penali denominazioni lesive della presunzione di innocenza alla violazione della norma che impone al procuratore della Repubblica di mantenere i rapporti con gli organi di informazione esclusivamente tramite comunicati ufficiali oppure, nei casi di particolare rilevanza pubblica dei fatti, tramite conferenze stampa, alla norma che stabilisce che la determinazione di procedere a conferenze stampa sia assunta con atto motivato in ordine alle specifiche ragioni di pubblico interesse che la giustificano; “enormi violazioni si sono palesate, inoltre, in merito alla diffusione di informazioni sui procedimenti penali da parte delle forze di polizia”. Costa ha ricordato che il Governo si è impegnato a prevedere che l’ispettorato generale del Ministero effettui un monitoraggio degli atti motivati dei procuratori della Repubblica in ordine alla sussistenza dell’interesse pubblico che giustifica l’autorizzazione a conferenze stampa e comunicati degli organi inquirenti. Quindi ha chiesto “quale sia lo stato di attuazione della normativa”, “se sia stato effettuato il monitoraggio” e se “siano state avviate azioni disciplinari nonché se, anche sulla base degli esiti del monitoraggio, intenda avvalersi della facoltà di adottare, entro il 14 dicembre 2023, un decreto legislativo recante correttivi e integrazioni al decreto legislativo” prevedendo persino il divieto di pubblicazione dell’ordinanza di custodia cautelare. La risposta del Guardasigilli non è stata altrettanto dettagliata perché il monitoraggio è iniziato da poco. Purtroppo, forse indirizzato dai magistrati fuori del Ministero, non ha fatto alcun accenno riguardo ai correttivi al divieto di pubblicazione dell’ordinanza di custodia cautelare: “È un discorso un po’ difficile da fare dal punto di vista tecnico, però vorrei ricordare che ancora oggi il nostro codice di procedura penale è estremamente ambiguo sul fatto che alcune comunicazioni perdano la loro segretezza, ma ciononostante non siano pubblicabili. In realtà la giurisprudenza, come sapete, ha interpretato questa norma nel senso che una volta che un atto non ha più segreto anche se non è pubblicabile, quantomeno può essere divulgato”. Nordio ha ammesso che “ci sono state effettivamente delle violazioni di questa norma a suo tempo e non sono state esercitate azioni disciplinari, in questo momento noi stiamo monitorando con grande attenzione queste eventuali violazioni così come stiamo predisponendo eventuali correttivi per correggere le ambiguità di questa normativa, e ci riserviamo di dare dei dati ulteriori e più specifici magari durante il prossimo colloquio”. Costa nella sua replica ha detto: “Avremmo voluto una puntuale affermazione in ordine all’inserimento e all’introduzione, in questo decreto correttivo, di una modifica dell’articolo 114 del codice di procedura penale, nel senso che non si può pubblicare testualmente l’ordinanza di custodia cautelare. Perché, cosa succede? Succede che, da un lato, la legge sulla presunzione di innocenza impedisce al procuratore della Repubblica di parlare dell’indagine, salvo che ci siano questioni di interesse pubblico. Cosa fanno il procuratore della Repubblica o il PM? Nella propria richiesta cautelare infilano tutto quello che vorrebbero dire, ma non possono dire. Poi, l’ordinanza di custodia cautelare viene emanata e viene pubblicata su tutti i giornali: quello che è uscito dalla porta rientra dalla finestra”. Ustica, cronistoria di una vergogna di Stato di Franco Corleone L’Espresso, 15 settembre 2023 Politica e militari hanno insabbiato le loro responsabilità. Ma è ora che la tesi del missile diventi ufficiale. Il 2 settembre Giuliano Amato ha tolto il velo al mistero di Ustica, l’abbattimento del Dc9 dell’Itavia partito da Bologna il 27 giugno 1980 e mai atterrato a Palermo, dicendo quello che molti hanno sostenuto in questo lungo tempo. Le reazioni sono state scomposte, chiedendo conto del perché improvvisamente abbia sollevato il problema e quali secondi fini lo abbiamo spinto. Nessuno ha ricordato lo scandalo vero, già individuato da Francesco Cossiga con parole come pietre: “In uno stato di diritto può accadere che 81 cittadini vengano uccisi; ma non può accadere che non si sappia come, quando, per quali negligenze, per quali responsabilità”. Nell’intervista a Simonetta Fiori su Repubblica, Amato ricorda la seduta della Camera dei Deputati nel 1986 in cui rispose a molte interpellanze e interrogazioni: già allora escluse l’ipotesi del cedimento strutturale e della bomba a bordo, ma non fu certamente netto nell’individuare la causa del disastro (tanto che Stefano Rodotà e il sottoscritto, allora deputato, ci dichiarammo insoddisfatti sostenendo l’ipotesi già evidente del missile e denunciando il ruolo di insabbiamento dei Servizi Segreti). Solo nel 1989 Amato affermò che finalmente si era rotto il muro dell’omertà e che la tesi del missile non era più una semplice ipotesi. Fu un anno importante perché la Commissione peritale su incarico del Giudice Istruttore Bucarelli, presieduta dall’ing. Blasi, consegnò una imponente relazione che dava conto delle ipotesi da scartare e da accreditare. Solo quella di un missile reggeva perché l’aereo era rimasto integro fino all’impatto con l’acqua e per la presenza di alcuni fori dall’esterno nella parte anteriore. Fu anche l’anno del recupero del relitto. Il Senato se ne occupò con un confronto con il ministro della Difesa Martinazzoli, che si trincerò dietro la attività della magistratura e il segreto istruttorio. Nel giugno dello stesso 1989 questo settimanale pubblicò un Libro bianco sulla strage di Ustica intitolato “Vergogna di Stato”, curato da Pierluigi Ficoneri e Mario Scialoja e con due editoriali di Antonio Gambino. E continuò l’impegno della società civile: Francesco Rutelli, leader dei Verdi Arcobaleno, presentò un dossier di un autorevole istituto di ricerca (IRDISP). La reazione dei militari fu durissima: il capo di Stato maggiore dipinse i giornali come la “classe verbale”. La recente ricostruzione di Amato è chiara. Quella sera vi fu una azione di guerra contro il leader libico Gheddafi, con violazione della nostra sovranità nazionale da parte della NATO e della Francia. Difficile per la politica scoperchiare questa verità. Difficile ammettere che, come dice Amato, “un apparato costituito da esponenti militari di più paesi abbia negato ripetutamente la verità… coprendo il delitto per una ragione di stato, anzi dovremmo dire “per una ragion di stati”, o per una “ragion di Nato”. E conclude: “La Nato ci guadagna oggi ad apparire ancor più disumana nascondendo ancora una tragedia del genere?” Siamo arrivati al punto. Si sa tutto ma non può diventare verità ufficiale perché verrebbe alla luce lo strapotere di apparati militari occulti - una vera casta - e la debolezza della politica e della democrazia. Per il Parlamento e la magistratura è ultima occasione. Che non vada perduta. Permessi premio, il no in prossimità del fine pena è un ostacolo al reinserimento di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 15 settembre 2023 In vista dell’uscita non può pesare in maniera decisiva la prova del ravvedimento. L’istituto è utile a coltivare interessi affettivi, culturali e di lavoro. Il no al permesso premio, per l’assenza di una prova concreta di ravvedimento, opposto al detenuto in vista del fine pena rischia di tradursi in un indebito ostacolo al reinserimento sociale. Una graduale apertura verso l’esterno, che passa anche per la possibilità di godere di alcune ore fuori dalla cella. La Cassazione, con la sentenza 37631, accoglie il ricorso contro il rigetto dell’istanza per ottenere un permesso premio di sei ore. Un rifiuto che c’era stato malgrado il richiedente avesse interamente espiato la pena irrogata per i delitti ostativi. A pesare sulla decisione erano stati soprattutto i dubbi del Tribunale sul grado di revisione critica raggiunta. Ma, per la Suprema corte, la conclusione non ha tenuto conto delle finalità di risocializzazione dell’istituto e del fatto che il permesso premio è funzionale alla coltivazione di interessi affettivi, culturali e di lavoro. A fronte di una regolare condotta del detenuto e dell’assenza di pericolosità sociale, va dunque valorizzata la “specifica funzione pedagogico propulsiva” dell’istituto. L’importanza della data del fine pena, è confermata dalla Suprema corte, con la sentenza 37626, con la quale è stato respinto il ricorso di un collaboratore di giustizia sempre teso ad ottenere il permesso premio. A richiederlo un detenuto considerato la memoria storica del clan dei casalesi. “Qualità” che il ricorrente aveva messo sul piatto della bilancia per l’importanza della collaborazione con gli inquirenti. Dalla sua il ricorrente aveva anche un parere favorevole della direzione nazionale antimafia e della direzione distrettuale che teneva conto del taglio con gli ambienti della camorra. Per il giudice di sorveglianza però il detenuto non aveva elaborato il suo passato criminale e, soprattutto il fine pena era fissato nel lontano febbraio 2052. La Cassazione respinge il ricorso e ricorda che, per i reati aggravati di mafia come per i reati di terrorismo, il requisito del ravvedimento non può essere presunto solo sulla base della collaborazione e dell’assenza di persistenti collegamenti con la criminalità organizzata. Per la concessione dei benefici è necessaria “la presenza di ulteriori, specifici elementi, di qualsivoglia natura, che valgano a dimostrare in positivo, sia pure in termini di mera ragionevole probabilità, l’effettiva sussistenza”. Nel caso esaminato il no è giustificato dalla lunga pena da scontrare, del pesante passato criminale del condannato e della sua scarsa capacità di elaborare profondamente il suo vissuto. Circostanze evidenziate da una relazione di Equipe secondo la quale era necessario un supplemento di osservazione sul cammino di revisione critica. Indagini in più che non servono invece quando le porte del carcere stanno per aprirsi. Morì di overdose in cella, la condanna di Strasburgo di Eleonora Martini Il Manifesto, 15 settembre 2023 Tossicodipendente, consumò la dose letale in questura a Milano. Il Viminale ha sempre negato. Vent’anni per avere giustizia. Ci sono voluti vent’anni per dare giustizia ai familiari di C.C., un uomo morto il 10 maggio 2001 mentre era in stato di arresto, nella camera di sicurezza della Questura di Milano, a causa di un’overdose di cocaina. Per due decenni i tribunali italiani non hanno riconosciuto alcuna violazione dei diritti del cittadino, arrestato per sospetto spaccio, morto in assenza di adeguato controllo e soccorso da parte di chi doveva custodirlo. I genitori, la compagna e la figlia dell’uomo hanno dovuto fare ricorso a Strasburgo e ieri - con sei voti favorevoli e uno contrario - la Corte europea dei diritti umani ha condannato l’Italia per “violazione del diritto alla vita” (Articolo 2 della Convenzione), e ha imposto il risarcimento della famiglia di 30 mila euro per i danni morali, più il pagamento di 10 mila euro per le spese processuali italiane (somma ben minore però a quella richiesta dai congiunti che avevano presentato il conto anche dei danni patrimoniali). Come risultò allora dagli esami autoptici, l’uomo indicato come C.C. (il cognome è noto ma il manifesto rispetta il riserbo proposto dalla Cedu) aveva fatto uso massiccio di cocaina appena prima dell’arresto. Ed era tanto evidente la sua condizione che gli agenti che avevano perquisito il suo appartamento (dove nulla venne trovato, perché le dosi e i soldi in contanti C.C. li aveva indosso) descrissero i suoi sbalzi d’umore, gli “atti di autolesionismo, battendo la testa contro il muro”, e il fatto che continuasse “a cadere come un “peso morto”“. Aveva avuto conati di vomito e si era lamentato di sentirsi male. Ma C.C. non aveva ricevuto alcuna cura né visita medica, e invece venne arrestato e portato nella stazione di polizia. Lì, non si sa come, nel bagno avrebbe ingerito altra cocaina che gli sarebbe stata fatale. Soccorso dall’ufficiale di guardia che lo trovò riverso in bagno, C.C. venne portato in ospedale; al mattino i medici del Fatebenefratelli lo dichiararono ufficialmente morto. In primo grado di giudizio, il giudice di Milano riconobbe che la polizia non aveva perquisito adeguatamente l’uomo (scartando l’ipotesi che qualcuno in questura gli avesse fornito altra cocaina), non lo aveva controllato adeguatamente e non lo aveva soccorso. In sostanza, lo aveva in qualche modo lasciato morire. Venne ritenuto responsabile civile della morte di C.C. il Ministero dell’Interno che nel 2003 venne condannato a pagare 100 mila euro di risarcimento danni alla madre e 125 mila euro a sua figlia. Ma il Ministero dell’Interno fece ricorso, in data non precisata (al Viminale in quegli anni sedettero prima il berlusconiano Pisanu fino al maggio 2006, poi il prodiano Amato). La Corte d’Appello ribaltò la sentenza nel marzo del 2008 ritenendo che C.C. al suo arresto non aveva bisogno di cure mediche immediate, e che “la crisi mortale è avvenuta all’improvviso anche perché ha trovato terreno fertile in un organismo che era stato messo a dura prova da una precedente ingestione - o ingestioni - di sostanze stupefacenti”. Sentenza confermata nel 2011 dalla Cassazione. Per gli eurogiudici invece le autorità italiane e la Questura di Milano erano a conoscenza della condizione di tossicodipendente di C.C., ed era evidente il suo stato di alterazione. Avrebbero dovuto soccorrerlo e non lo hanno fatto. Perché lo Stato deve sempre “tutelare la salute e l’integrità fisica” della persona che è sotto la sua custodia. E non c’è neppure “alcuna prova che i tre agenti menzionati nel rapporto come in servizio all’epoca dei fatti, ma che il compilatore non è stato in grado di identificare, siano stati interrogati dal pubblico ministero”. Errori, omissioni e mancanza di prove certe a discolpa delle autorità preposte, dunque. I giudici italiani non se n’erano accorti, Strasburgo sì. Ricordando Domenico Casagrande di Andreina Corso Ristretti Orizzonti, 15 settembre 2023 Ricordare tenendo stretti al cuore i valori che hanno ispirato la sua vita, il suo fare e il suo dare. È mancato lo psichiatra Domenico Casagrande lasciando intatto e indelebile il suo percorso professionale e umano sempre nutrito e abitato dall’esigenza della massima cura dei bisogni e dei diritti dei suoi pazienti. Quando muore un uomo così grande, ci si sente tutti più soli, più poveri, più fragili. Una ventata di ricordi apre le porte ad un tempo pieno di speranze, una stagione di riforme (la psichiatrica, la 180, voluta da Franco Basaglia e da chi lo ha accompagnato nel suo evolversi di civiltà, la riforma sanitaria). Con il cuore e con le gambe in cammino affinché l’utopia si riveli, il lavoro dello psichiatra al Centro di Salute Mentale, a Palazzo Boldù, ha donato alla città un’esperienza esemplare: il territorio, e non più le mura manicomiali circondate dall’acqua, le occasioni offerte ai pazienti da una équipe di professionisti e volontari, per ricominciare a vivere, a tu per tu con una Venezia, che in quegli anni ci ha donato il suo sguardo migliore, grazie al fiorire e lo svelarsi di un mondo più giusto e vero, che aveva l’esigenza di affermare una cultura di civiltà. Anni vissuti attraverso le trasformazioni culturali e sociali che hanno insistito sulla necessità di mettere al centro l’uomo, il rispetto della persona e i suoi bisogni. Primo fra tutti il superamento delle istituzioni totali, come il manicomio, che ha sepolto uomini e donne dimenticati nelle isole veneziane. In quel mondo orientato a sviluppare una cultura di riscatto dei più deboli e degli oppressi, Il dottor Domenico Casagrande, professionista instancabile e appassionato, ha voluto e saputo imprimere nel nostro tempo il sentimento di una psichiatria rivolta all’uomo, alla cura dei suoi bisogni di salute, di rispetto e di dignità della persona. Una grande lezione che rimane scolpita nelle pietre di questa città, nelle persone che hanno avuto il privilegio di conoscerlo, di apprezzarlo, nella cultura sociale che tanto avrebbe bisogno ancora della sua illuminante utopia. Genova. Omicidio in carcere, il killer era già stato giudicato seminfermo di mente di Tommaso Fregatti e Matteo Indice Il Secolo XIX, 15 settembre 2023 Dubbi sulla presenza nelle celle comuni. Luca Gervasio, che mercoledì a Marassi ha ucciso Roberto Molinari, era stato sottoposto a perizie psichiatriche in un recente processo. “Forse insofferente al compagno perché parlava spesso nel sonno”. Luca Gervasio, l’uomo di 48 anni accusato d’aver ucciso il compagno di cella Roberto Molinari, cinquantottenne, era stato giudicato “seminfermo di mente” a valle d’un processo subito di recente. Una valutazione che il tribunale aveva messo nero su bianco dopo perizie e approfondimenti, non d’una visita improvvisata. È uno dei principali elementi che emergono dall’indagine della squadra mobile, coordinata dal pm Gabriella Marino, sulla tragedia che si è materializzata ieri mattina nel penitenziario di Marassi. Gervasio è stato nel frattempo isolato, in attesa che nei suoi confronti vengano adottati altri provvedimenti. Ma uno degli elementi che i magistrati vogliono chiarire è perché si trovasse in quella sezione: la “sesta”, in cui è avvenuto il delitto, ospita detenuti che hanno avuto problemi con operatori sanitari o delle forze dell’ordine. Gervasio sembra rispondere a questo profilo, molto meno Molinari, ed è per questo che gli agenti approfondiranno anche quest’aspetto. Ieri il quarantottenne ha raccontato agli investigatori dei suoi tanti cambi di cella, particolare che deve essere vagliato. Non ha fornito una spiegazione sul movente, sebbene una delle ipotesi presa in considerazione dagli inquirenti è che fosse insofferente al compagno di cella poiché russava o parlava nel sonno I numerosi spostamenti - Gervasio si era trasferito in passato da Roma a Monterosso nelle Cinque Terre, dove due anni fa aveva aggredito una negoziante dopo averla derubata. Poi aveva raggiunto il Tigullio: qui il 3 giugno scorso era stato arrestato dagli agenti del commissariato di Rapallo ed è per questo che si trovava a Marassi. Aveva colpito un milite mentre, in ambulanza, veniva accompagnato in ospedale per un Trattamento sanitario obbligatorio. Era scappato gettandosi dal mezzo di soccorso. Poi aveva rubato un’auto ed era fuggito, sino a quando gli agenti del distretto, diretto da Giacomo Turturo, lo avevano braccato. A quel punto lui li aveva violentemente aggrediti e minacciati, ferendone una. Nessuna associazione che, in città, si occupa di persone senza dimora, sembra conoscerlo. Anche Roberto Molinari, a una prima verifica, pare essere stato quasi un fantasma. Solo qualche anno fa si era recato in un centro della Fondazione Auxilium per cercare un posto dove dormire. La vittima nelle ultime settimane si trovava in carcere per scontare una serie di piccole pene definitive, per reati contro il patrimonio. L’esito dell’autopsia - Ieri il pm Marino ha inoltrato al giudice dell’indagine preliminare la formale richiesta di custodia cautelare in carcere per Gervasio, ancorché si trovi già lì e non si profilasse in alcun modo la sua possibile uscita. Un contributo importate alle indagini potrebbe essere fornito dall’autopsia, che sarà svolta domani pomeriggio all’ospedale San Martino. Il pm ha incaricato il medico legale Francesco Ventura. Il primo obiettivo è circoscrivere con precisione l’arma del delitto, con ogni probabilità un asse presente all’interno della cella e trovato dalla polizia penitenziaria sporco di sangue. L’esperto nominato dalla Procura dovrà inoltre fissare nel modo più preciso possibile l’orario in cui è avvenuto l’omicidio. Secondo quanto emerso finora, Molinari sarebbe stato straziato nel sonno, alle prime ore della mattinata, ma il suo corpo senza vita è stato scoperto dagli agenti della Penitenziaria solo intorno a mezzogiorno. Anche i vicini di cella sono stati sentiti dalla polizia. Nessuna telecamera è collocata nella stanza, perché solo chi è ristretto al 41 bis o dev’essere sorvegliato per “motivi psichiatrici” vive con questo genere di controllo: evidentemente l’assassino, ancorché già giudicato instabile da quel punto di vista, non era stato inserito nell’elenco in cui forse doveva stare. Cagliari. In attesa di un intervento da 14 mesi: detenuto “condannato” a soffrire in cella di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 15 settembre 2023 Il caso di R.S., un detenuto di 35 anni di San Sperate attualmente recluso nella Casa Circondariale di Cagliari- Uta, suscita profonda preoccupazione e indignazione. R. S. è in lista d’attesa da ben 14 mesi per un intervento di palatoplastica presso il Policlinico di Monserrato, una procedura vitale per la sua salute che potrebbe porre fine a un’agonia durata troppo a lungo. Maria Grazia Caligaris, membro dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme ODV”, ha reso noto il drammatico stato di salute di R.S., sottolineando che “la sua situazione configura una vera e propria tortura”. La madre di R.S. ha fatto appello all’associazione, spiegando la difficile situazione di suo figlio, che attualmente convive con gravi problemi dentali e un palato fessurato, il che lo espone al rischio di gravi infezioni. La madre ha dichiarato: “Mio figlio ha commesso degli errori, che sta pagando con la perdita della libertà, ma non posso più accettare in silenzio la sua sofferenza. Il dentista non può intervenire a causa del rischio di infezione, ma lui assume antibiotici e antidolorifici da troppi mesi, con gravi conseguenze per il suo organismo. È debilitato e ha gravi difficoltà nella consumazione del cibo, che spesso passa attraverso le narici. La sua espressione vocale è alterata e spesso incomprensibile, il che rende difficile comunicare con lui al telefono. Sono preoccupata. Mi sono recata al Policlinico per sollecitare il suo ricovero, ma purtroppo non ho ottenuto risposte. Mio figlio ha bisogno di aiuto e deve essere operato d’urgenza, anche perché la fessura nel palato sta diventando sempre più grande”. La vicenda di R.S. è diventata un’emergenza umanitaria, con il detenuto che vive in condizioni di grave sofferenza, recluso in una cella e incapace di svolgere qualsiasi attività o partecipare a percorsi riabilitativi. Nonostante l’intervento della Direzione Sanitaria della Casa Circondariale e le segnalazioni della Garante dei Detenuti Irene Testa, la situazione è rimasta irrisolta per mesi. Maria Grazia Caligaris ha sottolineato l’urgente necessità di una risposta concreta per R.S., che ha subito dolori inimmaginabili senza la possibilità di gestirli adeguatamente se non attraverso l’uso continuo di farmaci analgesici. È inaccettabile aspettare così a lungo per un intervento di palatoplastica, soprattutto quando la vita di una persona è a rischio. Inoltre, Caligaris ha evidenziato il problema del mancato riconoscimento al Coordinatore Sanitario della Casa Circondariale di Cagliari-Uta dell’accesso diretto al ricovero ospedaliero quando necessario. Aspettare che le liste d’attesa si svuotino per oltre un anno mette a repentaglio la vita di una persona e rappresenta un’ingiustizia inaccettabile. È fondamentale che le autorità competenti intervengano tempestivamente per garantire l’accesso immediato all’intervento chirurgico necessario per R. S. e che si adottino misure per evitare simili ritardi e sofferenze tra i detenuti in futuro. La salute e la dignità umana devono sempre essere prioritari, anche dietro le sbarre di una prigione. Viterbo. Trovato impiccato in carcere: chiesto il rinvio a giudizio per 6 persone viterbotoday.it, 15 settembre 2023 In sei davanti al Gup per la morte di Hassan Sharaf: tre pronti a chiedere l’abbreviato, familiari parti civili. Morte del detenuto Hassan Sharaf: chiesto il rinvio a giudizio per l’ex direttore di Mammagialla, il comandante della polizia penitenziaria e due agenti e per due medici dell’ospedale di Belcolle. I sei ieri, giovedì 14 settembre, sono comparsi davanti al Gup del tribunale di Viterbo Savina Poli alla presenza del sostituto procuratore generale Tonino Di Bona in quanto le indagini sono state coordinate dalla procura generale di Roma. Per l’ex direttore di Mammagialla Pierpaolo D’Andria, i medici del reparto di medicina protetta di Belcolle Roberto Monarca (responsabile) ed Elena Niniashvili e il poliziotto della penitenziaria Massimo Riccio (responsabile della sezione di isolamento) l’accusa è di omicidio colposo. Per D’Andria c’è anche quella di omissione di atti di ufficio per il mancato trasferimento di Sharaf in un carcere minorile. Accusa che “condivide” con gli agenti Daniele Bologna (comandante della penitenziaria) e Luca Floris. Gli avvocati di D’Andria, Bologna e Floris alla prossima udienza, a ottobre, sono pronti a chiedere il rito abbreviato per i loro assistiti. Per Monarca, Niniashvili e Riccio si procederà, invece, con il rito ordinario. Questi ultimi hanno chiesto la citazione del ministero della giustizia e della Asl in qualità di responsabili civili. Ammessi come parti civili i familiari di Sharaf: madre, sorella e cugino. Il detenuto 21enne, egiziano, è morto dopo essersi impiccato nella cella di isolamento. Era fine luglio 2018. Neanche due mesi dopo, a inizio settembre, sarebbe tornato in libertà. Sulla vicenda di Sharaf la procura di Viterbo aveva aperto un’inchiesta per istigazione al suicidio che ha poi archiviato. Gli avvocati della famiglia del giovane hanno ottenuto però la riapertura del caso e l’avocazione. La procura generale di Roma, infatti, ha tolto le indagini ai magistrati viterbesi e le ha portate avanti in autonomia. Viterbo. La direttrice di Mammagialla: “Necessario evidenziare i nostri sforzi e le difficoltà” tusciaweb.eu, 15 settembre 2023 Riceviamo e pubblichiamo la versione integrale della risposta della direzione della Casa circondariale di Viterbo all’articolo: “Qui è un gulag staliniano”, il grido dei detenuti di Mammagialla finisce sul Dubbio. Con riferimento ai fatti riportati nell’articolo in oggetto a firma Damiano Aliprandi ed in ottemperanza a quanto previsto dalla normativa vigente in tema di stampa, si chiede di pubblicare le seguenti precisazioni. Il detenuto cui si fa riferimento nella prima parte dell’articolo, è stato ricoverato presso il reparto di medicina protetta nei mesi di maggio e luglio dove ha eseguito tutti gli esami previsti i cui risultati hanno dato esito negativo. Il 7 settembre scorso ha rifiutato di essere condotto in infermeria pretendendo di essere trasferito direttamente in Ospedale senza la necessaria preventiva valutazione medica. Il decesso avvenuto in data 10 settembre ha riguardato un detenuto, assolutamente estraneo alla protesta messa in atto poco prima in un’altra sezione dell’istituto, che dall’atto del suo ingresso (settembre 2022) non aveva mai manifestato problematiche sanitarie ad eccezione di un diabete trattato farmacologicamente, per il controllo del quale in data 25/7 u.s. era stata fissata visita specialistica di controllo rifiutata dallo stesso. Quanto all’altro episodio riportato e relativo al detenuto deceduto “nonostante avesse pochi mesi di pena residua e non fosse quindi socialmente pericoloso”, si precisa che il predetto aveva fatto ingresso in questa struttura in data 30/6/23, a seguito di aggravamento della misura degli arresti domiciliari, ed essendo portatore di patologia vascolare era stato sin da subito ubicato in infermeria sino al 5/7/23, data del suo ricovero presso il locale ospedale dove in pari data è stato raggiunto dal provvedimento di differimento pena concesso dal magistrato di sorveglianza. Con riferimento alle “troppe morti” che si sarebbero verificate in questo istituto, si precisa che l’ultimo suicidio risale all’anno 2018 e che dal novembre 2020 ad oggi, periodo di direzione dell’istituto da parte della scrivente, ci sono stati 4 decessi per cause naturali. Su un piano più generale del diritto alla salute, è doveroso evidenziare lo sforzo congiunto di questa direzione e dell’azienda sanitaria locale per migliorare gli standard qualitativi attraverso misure specifiche: l’attivazione dei servizi di telemedicina per le branche di cardiologia e radiologia - sono in corso i lavori di estensione alle altre branche -, incontri mensili del tavolo paritetico permanente, con la presenza del Garante regionale, per l’esame delle problematiche e la individuazione di soluzioni condivise, la messa in atto di tutte le misure previste dal protocollo locale per la prevenzione del rischio suicidario, le riunioni quindicinali finalizzate alla individuazione delle priorità e delle prese in carico dei detenuti dal punto di vista socio-sanitario, gli incontri periodici sul tema della educazione alla salute destinati alla popolazione detenuta - come quello svoltosi nel mese di maggio ad oggetto il programma di screening per la diagnosi dell’epatite C cui hanno aderito oltre 350 detenuti - . È opportuno inoltre fare rilevare che le difficoltà di reperimento del personale medico sono relative a gran parte degli istituti penali e non specifiche di questa sede. Con riferimento, poi, alle condizioni detentive è doveroso citare solo alcuni degli interventi che la scrivente ha messo in atto in questi ultimi due anni per il miglioramento del benessere dei detenuti: la manutenzione straordinaria dell’impianto di riscaldamento di tutto l’istituto, la installazione nelle camere di socialità di termo-ventilconvettori, l’adeguamento dell’impianto elettrico propedeutico all’utilizzo dei ventilatori, concesso nei mesi scorsi, la installazione di cabine telefoniche in tutte le sezioni dell’istituto finalizzate al miglioramento delle relazioni familiari, la installazione di 6 congelatori in altrettante sezioni, la installazione di distributori automatici di bevande e snack all’interno delle aree verdi destinate ai colloqui. Da ultimo, segnatamente le affermazioni dell’avv. Paolo Labbate, corre l’obbligo di precisare che, contattato personalmente dalla scrivente in data 11/9/23, lo stesso ha riferito che in data 8 settembre è stato presente in istituto per incontrare due detenuti diversi ed estranei alla protesta, effettuando con gli stessi regolare colloquio. Il direttore, Anna Maria Dello Preite Pubblichiamo integralmente le precisazioni inviateci dal direttore della casa circondariale di Viterbo Anna Maria Dello Preite, in relazione all’articolo a firma Damiano Aliprandi apparso sul quotidiano Il Dubbio in data 12 settembre e da noi ripreso, solo in parte, citando la fonte. Ci teniamo a sottolineare che alcune puntualizzazioni da parte della direzione del carcere, sono relative a episodi e denunce che non appaiono nell’articolo di Tusciaweb dal titolo “Qui è un gulag staliniano”, il grido dei detenuti di Mammagialla finisce sul Dubbio. Quali: la morte di un altro “detenuto deceduto nonostante avesse pochi mesi di pena residua e non fosse quindi socialmente pericoloso”, le “troppe morti che si sarebbero verificate in questo istituto” e le affermazioni dell’avvocato Paolo Labbate. Sarebbe opportuno nell’inviare precisazioni che l’articolo in questione venisse prima letto. Roma. “Più attenzione alle persone detenute”, manifestazione sotto il Ministero della Giustizia politica7.it, 15 settembre 2023 Per domani, sabato 16 settembre, è stata annunciata una manifestazione in forma statica in piazza Cairoli a Roma, nei giardini del ministero della Giustizia. Stefano Anastasìa, garante dei detenuti del Lazio e portavoce della conferenza nazionale dei Garanti territoriali, spiega: “Il ministro Carlo Nordio aveva annunciato più possibilità di comunicazione per i detenuti. Invece, si sta tornando alla situazione pre Covid. Ancora una volta, saremo al fianco dell’associazionismo e del volontariato penitenziario nella giusta rivendicazione di una maggiore attenzione al carcere e alla dignità delle persone che vi sono detenute”. La manifestazione, come detto, si terrà sabato 16 settembre, dalle 9 alle 12, nei giardini adiacenti al ministero della Giustizia ed è stata organizzata da Ristretti Orizzonti, Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia e l’Associazione Sbarre di Zucchero, nell’ambito della campagna “Direttore, concedimi una telefonata”. “Anche quest’anno - prosegue il portavoce Anastasìa - sta lasciando una tragica scia di morti in carcere, mentre la popolazione detenuta aumenta costantemente. In questo contesto, il ministro Nordio nel mese di agosto aveva annunciato una modifica regolamentare che consentisse più possibilità di comunicazione dei detenuti con i loro familiari. Una proposta - secondo quanto anticipato alla stampa dal sottosegretario Ostellari - insufficiente, ma in queste settimane, invece, in molti istituti si sta addirittura ritornando al regime pre-covid, con una telefonata alla settimana di dieci minuti per i detenuti comuni e due al mese per i detenuti di alta sicurezza”. “Come abbiamo detto molte volte, ed è stato ripreso anche in una proposta di legge maturata nell’ambito della Conferenza dei Garanti territoriali e fatta propria dal Consiglio regionale della Toscana nella scorsa legislatura, le comunicazioni telefoniche dei detenuti andrebbero moltiplicate nella durata e nelle occasioni (“quotidianamente” si diceva in quella proposta di legge). Se si vogliono affrontare effettivamente il sovraffollamento e il disagio che porta tanti detenuti a gesti estremi, bisogna moltiplicare le relazioni familiari e le modalità di comunicazione dei detenuti con l’esterno e ridurre effettivamente la carcerazione a extrema ratio della giustizia penale. Su questi temi - conclude Anastasìa - speriamo che Governo e Parlamento vogliano rispondere alle istanze dell’associazionismo e del volontariato penitenziario”. Torino. “Essere dentro”: all’Ipm incontri tra studenti e giovani detenuti sui temi della legalità torinoggi.it, 15 settembre 2023 L’iniziativa fa parte del progetto Game Over nato dall’impegno sociale del Fondo Alberto e Angelica Musy, con il sostegno e la condivisione di Fondazione Compagnia di San Paolo “Essere dentro”: al Ferrante Aporti incontri tra studenti e giovani detenuti sui temi della legalità. “Essere dentro” è la suggestione che sarà offerta agli insegnanti e agli studenti alle scuole Superiori della città Metropolitana di Torino nel corso dell’anno scolastico per riflettere sulle diverse implicazioni che le due parole suggeriscono: essere “dentro” il carcere, “dentro” le relazioni, “dentro” la scuola e più in generale “dentro” la collettività per capire la qualità e l’efficacia della nostra partecipazione alla vita pubblica. A proporlo è il progetto Game Over con il laboratorio annuale presso l’Istituto Penale minorile Ferrante-Aporti, nato dall’impegno sociale del Fondo Alberto e Angelica Musy, con il sostegno e la condivisione di Fondazione Compagnia di San Paolo e condotto da un team composto dalla compagnia Teatro e Società, dall’Associazione Sulleregole e dal Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Torino. “Essere dentro” nasce a seguito del percorso di dialogo e confronto tra studenti e giovani detenuti svolto nell’ultimo anno e attraverso cui è stato possibile comprendere e stimolare alcune dinamiche sul loro coinvolgimento sociale e civico. Si pone l’obiettivo di rendere i giovani protagonisti di un modello di società, contenuto nella nostra Costituzione, in cui le regole sono intese come indicazioni essenziali per raggiungere il benessere con gli altri e non come obblighi o divieti. Un percorso che utilizza linguaggi differenti per creare il legame sociale tra i giovani, nella consapevolezza che saranno loro, con il loro protagonismo, a fare la differenza. Nel contesto attuale, in cui preoccupanti incertezze, lacerazioni e conflitti sembrano convogliare molti, non solo le giovani generazioni, verso un senso di frammentazione e smarrimento di fronte al futuro crediamo che le parole come umanità, dignità, diritti e doveri, solidarietà e giustizia, cardini dell’ordito costituzionale democratico, debbano riempirsi di significato per contrastare l’insicurezza e la paura, nell’abitudine a pensare per “mondi separati” rifuggendo dalla fatica della complessità - spiegano Franco Carapelle e Elisabetta Baro di Teatro e Società - a questo aggiungiamo il tema delle “seconde possibilità”, fondamentale per cercare di dare alla pena un senso più adeguato, in cui centrale è la ricostruzione della relazione con chi commette il reato: senza la volontà a riaccogliere nella collettività chi ha sbagliato, il tessuto sociale strappato dalla trasgressione della norma non si ricucirà mai”. Il laboratorio affronta i temi della giustizia, della pena, della risocializzazione, attraverso la modalità “learning by doing”, un metodo che propone ai giovani di diventare protagonisti “positivi” del loro vissuto e della trasmissione della loro esperienza, stimolata anche dalla produzione di parte dei contenuti per il teatro-conferenza, momento aggregativo che favorisce il dialogo “tra pari” su temi complessi e su cui, troppo spesso, i ragazzi rischiano di rimanere spettatori. Il percorso nell’anno scolastico 2023-2024, si articolerà in fasi successive e integrate: la prima, rivolta per la loro fondamentale importanza agli insegnanti, prevede alcuni momenti formativi con l’obiettivo di coinvolgerli a sensibilizzare i loro studenti agli incontri con i loro coetanei ristretti del Ferrante Aporti grazie ad un lavoro didattico preparatorio. La seconda sarà rivolta ai giovani con gli spettacoli-conferenza. Sono previsti: un incontro di presentazione del prodotto video realizzato al Ferrante Aporti con i minori detenuti presso le scuole che ne faranno richiesta; 10 incontri di teatro-conferenza all’interno del Ferrante-Aporti con le scuole che avranno aderito al progetto co-realizzato da Teatro e Società e Associazione Sulleregole. Concluderà il percorso il Teatro-conferenza aperto a tutte le scuole con personalità del mondo della cultura e della società, forma di intrattenimento che unisce varie forme artistiche quale strumento per sensibilizzare il pubblico su temi complessi. Crotone. “Voci dall’interno”, concluso il laboratorio rivolto ai detenuti della Casa circondariale crotoneok.it, 15 settembre 2023 Con la consegna degli attestati, martedì 12 settembre 2023 si è concluso il Laboratorio interculturale di scrittura e lettura creativa “Voci dall’interno”, rivolto ai detenuti della Casa Circondariale di Crotone, organizzato dal Comune di Crotone Ufficio Cultura, nell’ambito del progetto “Frequenze bibliotecarie” Bando Cepell città che legge 2021, e realizzato dalla Società Dante Alighieri Comitato di Crotone. Il laboratorio reso possibile dal partenariato tra Ufficio Cultura, Cepell, Casa Circondariale e Società Dante Alighieri Comitato di Crotone, è iniziato il 18 luglio e concluso il 5 settembre. La Società Dante Alighieri di Crotone ha potuto proporsi e attivarlo grazie alle professionalità specializzate in Lingua italiana L2 presenti al suo interno e alle esperienze maturate in questi anni attraverso i corsi di lingua italiana per stranieri e quelli di preparazione alla Certificazione Plida. Gli incontri sono stati curati dalla professoressa Eleonora Stellatelli, docente di Italiano specializzata in L2, delegata dalla Associazione a realizzare le attività presso la Casa Circondariale. Per la Dante si è trattato non solo di supportare il progetto ideato dall’Ufficio Cultura comunale quanto anche di cogliere un’occasione per andare incontro alle esigenze di chi ha più bisogno. Un modo per essere presente tra quelli che vivono condizioni di estrema marginalità e per offrire, a quanti subiscono una drastica perdita di libertà, reali possibilità comunicative e relazionali. Il progetto ha visto la partecipazione di un gruppo di giovani adulti di diversa provenienza e nazionalità, che hanno frequentato il laboratorio di scrittura creativa. La programmazione iniziale ha naturalmente subito alcune modifiche anche per i cambiamenti che si sono verificati nel corso dei primi incontri ma a metà del percorso le attività laboratoriali hanno preso forma e si sono strutturate. Importante per superare le difficoltà dei detenuti nella comunicazione in lingua italiana il ricorso ad un lessico essenziale e in particolare alla poesia, alla sua funzione evocativa ed emotiva. Milano. Don Burgio, un sacerdote in missione nel carcere minorile chiesadimilano.it, 15 settembre 2023 Non esistono ragazzi cattivi, ma solo giovani in difficoltà in cerca di aiuto e conforto: ne è convinto il cappellano del “Beccaria”, fondatore della Comunità Kayros. La sua storia in occasione della Giornata nazionale delle Offerte per il sostentamento dei sacerdoti. “Tu devi per forza venire da me, perché noi abbiamo una squadra e dobbiamo vincere il campionato. Mi serve uno come te”. È da qui che comincia il cammino di rinascita di Daniel all’interno della Comunità Kayros. Il riscatto di Daniel - Nata nel 2000 in una parrocchia della periferia milanese, su iniziativa di don Claudio Burgio e di alcune famiglie del territorio, l’associazione è impegnata ad aiutare ragazzi in difficoltà conducendoli verso nuove prospettive di vita. Come Daniel, 31 anni, che ha conosciuto il sacerdote tra le mura dell’Istituto penale per minori “Cesare Beccaria” di Milano. Un incontro avvenuto grazie alla passione comune per il calcio, proseguito con l’ospitalità offerta a Daniel che, dopo quasi tre anni di carcere, in affidamento in prova, ha vissuto prima in comunità un anno e mezzo, terminando di scontare la pena. Qui ha consolidato il rapporto con il don e, dopo un nuovo incidente di percorso che lo ha condotto da maggiorenne a San Vittore, ha potuto fare affidamento su di lui per riprendere gli studi conseguendo il diploma da privatista. Supportato dal sacerdote e dalla comunità ha potuto contare su una borsa di studio per iscriversi all’università dove si è laureato in scienze dell’educazione. Nel frattempo, ha cominciato a lavorare nella stessa comunità di cui è stato a lungo ospite e, terminato il percorso penale, è tornato in Kayros in qualità di educatore per altri tre anni. Una storia di riscatto resa possibile dall’impegno del ragazzo e dal sostegno del sacerdote insieme alla rete solidale da lui messa in campo. La Giornata, riconoscenza e sensibilizzazione - Preti come don Claudio non si rivolgono solo ai più abbandonati, ma a ognuno di noi. Quotidianamente ci fanno spazio, ci offrono il loro tempo, dividono volentieri un pezzo di strada e ascoltano le nostre difficoltà. “I sacerdoti, donando sé stessi, ci insegnano che Dio è la realtà più bella dell’esistenza umana”. Sono circa 32 mila in Italia i sacerdoti che - come evidenziato da papa Francesco - si dedicano agli altri. Per richiamare l’attenzione sulla loro missione, torna domenica 17 settembre la Giornata nazionale delle offerte per il sostentamento del clero diocesano, celebrata nelle parrocchie italiane. La Giornata - giunta alla XXXV edizione - permette di dire “grazie” ai sacerdoti, annunciatori del Vangelo in parole ed opere nell’Italia di oggi, promotori di progetti anticrisi per famiglie, anziani e giovani in cerca di occupazione, punto di riferimento per le comunità parrocchiali. Ma rappresenta anche il tradizionale appuntamento annuale di sensibilizzazione sulle offerte deducibili. Uno strumento di grande valore come spiega il responsabile del Servizio per la promozione del sostegno economico alla Chiesa, Massimo Monzio Compagnoni: “La Giornata è un appuntamento importante per dire ancora una volta ai fedeli quanto conti il loro contributo. Non è solo una domenica di gratitudine nei confronti dei sacerdoti, ma un’opportunità per ricordare che fin dalle origini le comunità si sono fatte carico di sostenere la Chiesa e questo dovrebbe essere, ancora oggi, il principio di base che spinge a farsi carico del sostentamento dei sacerdoti. Come allora l’impegno dei membri della comunità nel provvedere alle loro necessità è vitale. Le offerte da sempre, quindi, costituiscono un mezzo per sostenere tutti i sacerdoti, dal proprio parroco al più lontano. Basta anche una piccola somma ma donata in tanti”. Kayros, un nuovo inizio - Ne è una dimostrazione concreta la Comunità di accoglienza Kayros, promossa e fondata da don Claudio Burgio, milanese, classe ‘69, con un progetto rivolto ai minori in difficoltà. L’intento è quello di mettere i ragazzi in condizione di sperimentarsi all’interno di un sistema di relazioni vicine a una normalità di vita che per molti diventa un nuovo inizio. Partita come progetto di accoglienza per minori stranieri non accompagnati, l’iniziativa è cresciuta nel corso degli anni e oggi rappresenta un importante riferimento, con quattro comunità di accoglienza per adolescenti e due appartamenti per l’autonomia. “La solitudine e la sfiducia nel mondo adulto - spiega Burgio - segnano profondamente la storia di questi ragazzi che cercano di cavarsela da soli, ed è per questo che poi facilmente tendono a delinquere, e magari intraprendono percorsi devianti. Abbiamo visto in questi anni che un ragazzo quando ritrova la verità, quando sa misurarsi anche con i propri sbagli, poi effettivamente riemerge e intraprende percorsi virtuosi”. Gli strumenti a disposizione per raggiungere questi obiettivi sono molti come la musica, lo sport, il teatro. Percorsi formativi che don Claudio conosce molto bene dopo essere stato coinvolto in qualità di parroco per dieci anni nella pastorale giovanile degli oratori e, successivamente, affiancando don Gino Rigoldi come cappellano del “Beccaria”. “Ascoltiamo il loro grido” - Ordinato sacerdote l’8 giugno 1996, nel Duomo di Milano, dal cardinale Carlo Maria Martini, don Claudio coniuga l’attività pedagogica, che lo vede impegnato quotidianamente con i ragazzi delle comunità, a quella di esperto del mondo giovanile, come protagonista di numerosi interventi in dibattiti e incontri pubblici su temi sociali di attualità. “Noi adulti dobbiamo ascoltare il grido degli adolescenti di oggi - conclude don Burgio -. La cattiveria diventa uno strumento inconsapevole a volte per cercare di farsi notare, per tentare di essere visibili di fronte al mondo adulto”. Sui muri delle case della comunità si legge una frase di don Claudio: “Non esistono ragazzi cattivi”, titolo del racconto-testimonianza dei primi anni vissuti a fianco dei ragazzi del carcere minorile e delle comunità Kayrós (Edizioni Paoline, 2010). È un’espressione forte che sintetizza il pensiero del sacerdote, fautore di percorsi di riscatto di decine di giovani che in don Claudio hanno trovato un amico e una mano tesa, accettando la sfida della libertà e vincendola, come Daniel. Come lui, molti altri - Questa è solo una delle tantissime storie di salvezza e aiuto portate avanti sul territorio da sacerdoti, impegnati in prima linea, e dalle loro comunità. I sacerdoti sono sostenuti dalle offerte liberali dedicate al loro sostentamento. Nonostante siano state istituite nel 1984, a seguito della revisione concordataria, le offerte deducibili sono ancora poco comprese e utilizzate dai fedeli che ritengono sufficiente l’obolo domenicale; in molte parrocchie, però, questo non basta a garantire al parroco il necessario per il proprio fabbisogno. Da qui l’importanza di un sistema che permette a ogni persona di contribuire, secondo un principio di corresponsabilità, al sostentamento di tutti i sacerdoti diocesani. Nate come strumento per dare alle comunità più piccole gli stessi mezzi di quelle più popolose, le offerte per i sacerdoti sono diverse da tutte le altre forme di contributo a favore della Chiesa cattolica, in quanto espressamente destinate al sostentamento dei preti al servizio delle 227 diocesi italiane; tra questi figurano anche 300 preti diocesani impegnati in missioni nei Paesi più poveri del mondo e 2.500 sacerdoti ormai anziani o malati, dopo una vita spesa al servizio degli altri e del Vangelo. L’importo complessivo delle offerte nel 2022 si è attestato appena sopra gli 8,4 milioni di euro in linea con il 2021. È una cifra ancora lontana dal fabbisogno complessivo annuo, che ammonta a 514,7 milioni di euro lordi, necessario a garantire a tutti i sacerdoti una remunerazione pari a circa mille euro mensili per 12 mesi. In occasione della Giornata del 17 settembre in ogni parrocchia i fedeli troveranno locandine e materiale informativo per le donazioni ed avranno la possibilità di ricevere un “dono speciale”: le riflessioni di Papa Francesco. Basterà inquadrare il Qr code, presente sulla locandina con l’immagine del Santo Padre e lasciare i propri dati per ricevere via e-mail ogni settimana i commenti del Papa al Vangelo. L’esperienza della “giustizia riparativa” e gli orizzonti di una esistenza che “rinasce” di Niccolò Nisivoccia Il Manifesto, 15 settembre 2023 A proposito di “Io ero il milanese”, di Mauro Pescio e Lorenzo S. per Mondadori. “Ogni storia nasce da un incontro”, leggiamo all’inizio di Io ero il milanese. La storia dei miei errori e della mia rinascita (Mondadori, pp. 266, euro 18,50). A dirlo è Mauro Pescio, autore del libro insieme a Lorenzo S., che del libro è invece il protagonista: è infatti quella della sua vita la storia che ci racconta Pescio, assumendo l’io dello stesso Lorenzo (fatta eccezione appunto per le pagine iniziali, e poi per quelle finali). Quando scrive che “ogni storia nasce da un incontro”, quindi, Pescio vuol fare riferimento innanzitutto a quello fra lui e Lorenzo, evidentemente consapevole del fatto che, se raccontare la propria vita equivale sempre, almeno in parte, anche a scoprirla o addirittura a inventarla, raccontare una vita altrui implica una fatica ulteriore, rappresentata dalla necessità di trovare un punto di contatto, come minimo, se non di immedesimazione, fra la vita raccontata e quella di chi la racconta. La vita di Lorenzo è divisa in due: è una vita di “errori”, perché segnata dalla criminalità e da lunghissime detenzioni in carcere, per molti anni; ma è anche una vita di “rinascita” da un certo momento in avanti, perché quegli errori appartengono al passato di Lorenzo, il cui presente è costituito piuttosto dall’esatto rovescio di una vita criminale - e cioè non solo da una vita oggi libera, fuori dal carcere, nutrita “di natura e relazioni umane”, a cominciare da quelle con una compagna e con una figlia piccola, ma anche da un lavoro nell’ambito della giustizia riparativa e della mediazione penale e sociale, il cui fine è proprio quello di superare le conseguenze generate da un conflitto o da un reato attraverso il confronto diretto fra le parti stesse del conflitto o, nel caso di un reato, fra l’autore e la vittima del reato (al di fuori del processo). È lecito allora chiedersi quale sia il punto di contatto fra la vita di Pescio, che è un autore radiofonico e teatrale e un attore, e che della criminalità non aveva mai fatto esperienza neppure indirettamente, e quella di Lorenzo. Anzi, in realtà lui stesso se lo chiede, anche nei confronti di chi legge, e la sua risposta è molto chiara e convincente: “come non occorre aver promesso vendetta al fantasma del proprio padre, per identificarsi in Amleto, così non è necessario aver esperienza di rapine, latitanza e carcere per riconoscere, nella storia del Milanese, qualcosa di noi stessi”. Ha ragione Mauro Pescio: è questo l’angolo visuale dal quale dovremmo apprestarci a leggere la storia, guardandoci bene dal credere che fra il mondo di una persona che abbia commesso atti criminali e quello di una persona che non ne ha mai commessi, né pensa che ne sarebbe capace, esista una netta cesura. È vero il contrario, per quanto possa risultarci difficile ammetterlo: fra i due mondi esiste una zona di ambiguità, di incertezza, perfino di possibile confusione - ed è anche questa possibile ambivalenza di ogni vita a conferire alla storia di Lorenzo un carattere di “universalità”. Ma in cosa consiste la storia? Perché Lorenzo era chiamato “il Milanese”? E com’è diventato la persona di oggi, uguale e diversa rispetto a quella di ieri? Rivelarlo significherebbe fare un torto al contenuto del libro, la cui bellezza è anche nel racconto in sé stesso, per come viene svolto e per quella dose di mistero che vi si nasconde dietro ogni curva, dietro ogni episodio. A poter essere svelato è dunque appena il minimo indispensabile, il che significa limitarsi a dire che Lorenzo era un rapinatore, di banche in particolare; e che era chiamato “il Milanese” perché a Milano ha vissuto i primi anni della sua vita, prima di tornare a Catania, da dove veniva la sua famiglia. A questo si può aggiungere solo che anche la sua stessa vita, nella propria interezza, sia nel male che nel bene, sembra incarnare benissimo la verità di quel medesimo principio da cui il libro prende avvio, secondo il quale “ogni storia nasce da un incontro”: perché, così come l’ingresso nella criminalità era stato un tutt’uno con il contesto nel quale Lorenzo si era trovato subito catapultato al suo arrivo a Catania, ancora bambino, in ugual modo la sua “rinascita” potrebbe simbolicamente assumere il volto delle persone che l’hanno accompagnata. Da Ornella Favero, la direttrice della rivista del carcere di Padova, Ristretti Orizzonti, nell’ambito della quale Lorenzo aveva maturato le prime riflessioni critiche su di sé, a Maurizio De Nardo, l’avvocato che gli ha procurato la scarcerazione definitiva; da Giorgia, l’educatrice con la quale Lorenzo ha vissuto la prima relazione sentimentale estranea agli ambienti criminali, a Francesca, che oggi è la sua compagna e la madre della loro bambina, fino ad Adolfo Ceretti e Federica Brunelli, protagonisti di quell’incontro con la giustizia riparativa e con la mediazione a sua volta non meno decisivo nella costruzione della “rinascita”. O meglio ancora: nella fondazione di nuovi orizzonti di senso dentro cui questa “rinascita” potesse inscriversi, e possa continuare a farlo. Corpi reclusi di Andrea Pugiotto L’Unità, 15 settembre 2023 Da oggi a Firenze il seminario della Società della Ragione. Dai processi riproduttivi al fine vita, dalle carceri al 41 bis, ai centri per i rimpatri dove i migranti scontano una pena senza reato né colpa. Il “corpo pensante”, libero e autodeterminato, è perennemente aggredito su più fronti. Ognuno di noi è una singolarità incarnata in un “corpo pensante”, ambito di nostra signoria. Come ho già ricordato a proposito del tentativo di governare dall’alto i processi riproduttivi (L’Unità, 4 luglio), è questo dato esistenziale a collocare le questioni del corpo al centro di tutti i conflitti per le libertà e i diritti. E non da ora: risale alla Magna Charta del 1215 l’introduzione dell’habeas corpus, regola cruciale costruita attorno all’indisponibilità e all’inviolabilità del corpo del cittadino da parte del sovrano. Incapacitarlo, infatti, significa togliere al soggetto, insieme alla libertà personale, l’autonomia nell’agire. Il nostro “corpo pensante” (dunque libero e autodeterminato) è una cittadella perennemente aggredita, da più versanti. Persino i più indicibili e impensabili, fi no a ieri: dal velleitario reato universale a punire la pratica della gestazione per altri (anche se solidale), all’idea di introdurre la castrazione chimica a carico dei rei per delitti di violenza sessuale (addirittura in forma coatta “nei casi di recidiva e qualora tali reati sono stati perpetrati a danno di minori”: AC n. 272, XVIII Legislatura). Ben vengano, dunque, due concomitanti iniziative promosse da realtà associative tra le più impegnate sui temi del “corpo recluso” e dei suoi più drammatici risvolti, testimoniati dall’impennata estiva di suicidi in carcere. Il primo appuntamento è alle ore 9.00 di domani, a Roma, presso i giardini adiacenti al Ministero della Giustizia, dove si terrà la manifestazione nazionale “per il rispetto della Costituzione, per il rispetto della dignità dei detenuti, della dignità degli operatori penitenziari tutti e per ricordare le tante, troppe morti all’interno degli istituti penitenziari”. Convocata da Sbarre di Zucchero, Ristretti Orizzonti, Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia e appoggiata da molte altre sigle, la manifestazione è concepita nel segno della massima inclusione, rivolgendosi ad associazioni di volontariato, sindacati di Polizia penitenziaria, singoli cittadini; “corpi pensanti”, individuali e collettivi. L’altro appuntamento si apre oggi a Firenze e proseguirà nelle giornate del 16 e 17 settembre: è il seminario promosso dalla Società della Ragione, in collaborazione con CRS Archivio Ingrao e Associazione Luca Coscioni, dedicato a un tema uno e trino: “Corpi, diritti, soggettività”. L’area di intersezione tra i tre lemmi del titolo è il “corpo imprigionato”, privato del diritto fondamentale alla libertà personale. Da qui, a raggiera, muovono le relazioni seminariali dedicate alle forme di incapacitazione del soggetto, ridotto - attraverso la progressiva erosione dei propri diritti - “a pura corporeità, a “corpo in sé”, mutilato di soggettività”. La cornice comune a tutti i carotaggi tematici sarà fissata nelle riflessioni introduttive su “corpi e autonomia”, condotte da prospettive differenti: quella etica; quella del contesto politico- parlamentare attuale; quella del processo storico di affermazione del principio di intangibilità del corpo da altrui espropriazioni. Della perdita di questa originaria autonomia, l’attualità offre esempi copiosi: saranno l’innesco di tutti gli interventi programmati. Del “corpo recluso” si parlerà a partire dall’ipotesi di un minus di diritti giustificato dalla responsabilità dell’istituzione che lo ha in custodia. Problema, questo, emerso nel “caso Cospito” attraverso il controverso parere espresso dal Comitato Nazionale per la Bioetica. Davvero, l’asserita vulnerabilità del soggetto detenuto può giustificare un limite alla sua autodeterminazione? Come può accadere che la pratica nonviolenta dello sciopero della fame “venga rovesciata nel suo opposto: atto violento di ricatto contro lo Stato che lo autorizzerebbe, perfino, a ricorrere al trattamento sanitario obbligatorio” (Maria Luisa Boccia)? Quello del detenuto è anche un “corpo castrato” dal divieto, operante in ambito penitenziario, all’esercizio della sua affettività-sessualità con il partner. Un’amputazione comunemente derubricata a mero pregiudizio di fatto, consequenziale allo stato di reclusione, come tale giuridicamente non apprezzabile, quindi trascurabile. Non è questa, però, la posizione della Corte costituzionale che inquadra il diritto all’affettività tra le libertà inviolabili della persona garantite dall’art. 2 Cost. (sent. n. 561/1987). E che, già dieci anni fa, ammonì perentoriamente il legislatore a “permettere alle persone sottoposte a restrizione della libertà personale di continuare ad avere relazioni affettive intime, anche a carattere sessuale” (sent. n. 301/2012), come già accade in tanti paesi europei. Qui l’attualità bussa alle porte di Palazzo della Consulta: è a ruolo il prossimo 10 ottobre l’udienza pubblica per decidere la pertinente quaestio promossa dal Magistrato di sorveglianza di Spoleto (ord. n. 5, in G.U. dell’8 febbraio 2023). La dimensione del “corpo violato” chiama in causa, innanzitutto, il reato di tortura. Dalla sua tardiva introduzione (legge n. 110 del 2017) ad oggi, tante sono le indagini e i processi per violenze perpetrate contro detenuti: dai fatti avvenuti nel carcere “Le Vallette” di Torino (ottobre 2018), a quelli del carcere di Santa Maria Capua Vetere (aprile 2020) e del carcere di Bari (aprile 2022). Si spiega così la regressiva proposta legislativa di Fratelli d’Italia (AC n. 623, XIX Legislatura) mirante alla sostanziale abrogazione dell’aggravante comune di tortura prevista all’art. 61 c.p. Non rientrano giuridicamente in tale fattispecie le reclusioni estreme del carcere duro (41-bis ord. penit.) e dell’ergastolo ostativo (art. 4-bis, ord. penit.). Eppure, entrambe, sono assimilabili a un trattamento inumano e degradante ed anche alla tortura giudiziaria, se concretamente finalizzate alla collaborazione coatta con la giustizia. Della loro conformità a Costituzione è lecito continuare a dubitare. In penombra rispetto al carcere, esistono altri regimi di reclusione che riducono il soggetto a un “corpo emarginato”, la cui incapacitazione è frutto di stigma sociale. Vale per l’internato nella casa di lavoro: vera e propria “detenzione sociale” per soggetti imputabili che, scontata la propria pena, vi sono rinchiusi sulla base di prognosi (l’”inclinazione al delitto”, l’”indole particolarmente malvagia”) ereditate dal codice Rocco. Mai abrogate, sono l’espressione di una contemporaneità illiberale che si vorrebbe abolire per legge (AC n. 158, Magi, XIX Legislatura). Vale anche per il folle-reo: fi no a ieri destinato a un OPG perché socialmente pericoloso, oggi internato in una struttura finalmente a vocazione terapeutica, la REMS, che vive però una perenne instabilità ordinamentale, ora messa criticamente sotto osservazione anche dalla Consulta (ord. n. 22/2022, sent. n. 131/2021). Corpi ai margini sono, infine, quelli degli extracomunitari reclusi nei Centri di Permanenza per Rimpatri: una galera amministrativa senza reato o colpa; regime separato e peggiore della detenzione perché privo delle garanzie comunque previste nell’ordinamento penitenziario e nel codice penale. Da oggetto di coercizione il corpo può diventare strumento di oppressione, a causa di una grave patologia o di un coma irreversibile: un “corpo- prigione”. Da condizione di libertà si fa cella di quanto sopravvive della persona in esso ristretta: è allora che ritorna insidiosa la tentazione altrui di signoreggiare sul suo corpo. È il tema dell’agevolazione al suicidio e dei tanti ostacoli frapposti all’attuazione della nota sent. n. 242/2019 sul “caso Cappato-DJ Fabo”. Anche in questa prospettiva capovolta la centralità del corpo esce confermata: bene fa il seminario a dedicarvi attenzione. Corpi, dunque: pensanti, reclusi, castrati, violati, emarginati, fino a farsi prigione. Il ricco catalogo dei temi in discussione è questo: lo si potrà consultare in diretta streaming (societadellaragione.it). Da segnare in agenda. C’è una battaglia da fare: per il diritto universale al respiro di Frank Cimini L’Unità, 15 settembre 2023 “Respiro”, 92 pagine, 12 euro, editore “Derive Approdi” è l’ultima opera di Barbara Balzerani che a sentirsi definire scrittrice quasi si offende: “Io non sono una scrittrice, racconto storie”. Balzerani una lunghissima militanza politica tra Potere Operaio e Brigate Rosse, sei ergastoli, 26 anni scontati libera dal 2011, mai pentita o dissociata, ha rivisitato criticamente il suo passato al fine di rafforzare, come dimostra anche questo lavoro, la necessità di criticare lo stato di cose presenti che è molto peggio della realtà di circa mezzo secolo fa. “Achille Mbembe filosofo camerunense ha scritto che l’umanità era già in pericolo di soffocare prima del virus, che se si parla di guerra dovrebbe essere contro tutto ciò che il capitalismo usa per condannarci a una respirazione difficile, una guerra in nome del diritto universale al respiro… Ma poi basta il mantra dell’andrà tutto bene a ogni balcone per tornare a un po’ bambini che si incantano per il buon finale di felici e contenti. Basta rispettare le regole mentre la casa brucia, la sanità agonizza, la scuola è perduta, i redditi sprofondano”. “Non ci tornavo da molti anni a Venezia dopo esserci andata in gita scolastica. Mia madre aveva messo insieme a fatica i denari affinché potessi andarci, lei emigrata da una valle vicentina, non l’aveva mai vista e ne parlava come una delle privazioni a cui una vita faticosa l’aveva destinata. Con un ‘almeno tu potrai vederla’. Adesso solo bar che sembrano salotti tutt’altro che popolari ma almeno non c’è più traccia dei patiboli con i corpi dei condannati appesi a testa in giù. Magnificenza e ignominia della Serenissima”. “Un compagno a Parigi dove sconta l’esilio e un cancro mi mette a disposizione il suo sapere, vive da anni il cambiamento del suo fragile stare in piedi e si incuriosisce del mio, mi ha ispirata e accompagnata negli incontri per un mio libro tradotto, mi dice che a battagliare in nome di una storia, la nostra, lo aiuta a vincere i dolori della sua malattia, che a fi ne giornata non ha bisogno di prendere i pesanti sedativi. Insieme affrontiamo giornalisti e lettori in verità molto più accoglienti di quelli che avremmo trovato nel nostro bel paese. A conferma che nessuno è profeta in domo sua”. Barbara Balzerani racconta anche la sua malattia. Al tempo del Covid ma non è Covid. “Dopo un mese di ospedale sono più io, non sto in piedi, i muscoli sono andati, la faccia gonfi a, ma sono a casa, torno per i controlli. Un ospite tiranno con cui dovrò convivere”. “Non è vero che andrà tutto bene che tutto tornerà come prima. Il gioco semantico sembra di un’innocenza disarmante se non contenesse la forza di evocare un salvifico ritorno alla vita di prima, quella che ci ha buttato nel precipizio di neutralizzare l’opportunità di un cambiamento che le crisi portano con sé. D’altra parte chi non desidera la fine di una guerra anche a condizioni poco felici?”. “Faccio l’andirivieni con l’ospedale, nel reparto delle visite ci arrivo con le mie gambe le trascino un po’, il rituale è sempre lo stesso, mi sono chiusa a riccio, ripiegata sulle mie sensazioni malate, affidata alle mani altrui, come se non volessi sapere, capire, intromettermi. La sofferenza come uno scudo a protezione da ciò che non posso cambiare”. “Il Covid ci renderà tutti migliori, una delle dicerie di successo meno riuscite perde qualche tono. Spettacolare la smentita come solo una guerra di eserciti può fare, sembra che nulla possa interrompere la sequenza di morte che fa parte del nostro quotidiano, la morte per crisi climatiche, sanitarie, per lavoro, per stupri del territorio”, si legge nel penultimo capitolo dal titolo “Sopravvivere”. “Sabotare e disertare” il titolo dell’ultimo capitolo. C’è chi tace di fronte alla pretesa di vita di un militante anarchico, voce potente che attraversa le spesse mura del buco in cui è stato rinchiuso, i tanti nessuno ammazzati o suicidati per non essere scesi a patti con un sistema che li ha scaraventati in un abisso di esclusioni. Chi si illude pensando di salvarsi facendo finta di non sentire, in complicità con un sistema che tortura, ammutolisce e uccide per il reato di non asservimento alle sue regole disumane. C’è chi non comprende quanto deve agli inadatti, agli sbagliati, ai cattivi esempi se può continuare a mantenere i propri tratti umani”. Lo sgradevole sentore della guerra di religione di Lucetta Scaraffia La Stampa, 15 settembre 2023 “Dobbiamo difendere Dio e gli elementi della nostra civiltà”: sono queste le parole sfuggite alla nostra presidente del Consiglio dopo il colloquio con Orban e sono parole che a dir poco lasciano perplessi. Sappiamo bene come sia difficile rispondere all’impronta su qualunque argomento e per giunta in un momento di grande tensione interna e internazionale, ma quando si tratta di dire cosa si vuole difendere sarebbe senz’altro meglio stare un po’ più attenti e cercare di spiegarsi meglio. Difendere Dio, oltre che affermazione teologicamente dubbia - semmai è Dio che ci difende - è un obiettivo molto vago, che non corrisponde in nulla al problema che dobbiamo affrontare, cioè la crescente ondata migratoria di giovani maschi - in prevalenza - provenienti da Paesi di tradizione islamica. Costoro infatti potrebbero rispondere che anche loro difendono Dio, e forse con molto maggiore entusiasmo e molta maggiore convinzione di noi europei. Il fatto che il Dio che difendono è diverso da quello della maggior parte di noi non va certo dimenticato, ma le parole di Meloni sembrano alludere a un Dio che invece è solo nostro, quasi che solo da queste parti si creda in un Dio e si lasciano dietro uno sgradevole, sgradevolissimo, sentore di guerra di religione. Si può supporre, naturalmente, che Meloni, dicendo quello che ha detto, intendesse parlare di difesa della nostra tradizione cristiana davanti a una ondata migratoria che porta in Europa tanti musulmani spesso assai rigidi nel modo di vivere la loro identità religiosa. Il che, è bene dirlo subito, rappresenta un problema reale, un problema che esiste, e si fa sempre più grave. In una società quasi totalmente secolarizzata come è la nostra, infatti, si è creato un vuoto religioso e in gran parte anche etico che è facile sia riempito da chi ha idee forti e una fede molto sentita. Sappiamo per esempio che in molti Paesi europei dove è stata forte la migrazione islamica - come l’Olanda, la Gran Bretagna, la Svezia e perfino la Germania - si sta discutendo se addirittura accettare i principi della sharìa anche nei tribunali locali, creando in tal modo una sorta di sistema giuridico parallelo. Un sistema che, ricordiamolo sempre, non riconosce la libertà delle donne, il diritto di convertirsi a un’altra religione e altri diritti che noi consideriamo giustamente fondamentali. Ma le nostre società, la nostra civiltà così intrisa d’incertezza sul senso e il valore della propria identità ha non poche difficoltà, con il suo relativismo diffuso, a resistere all’ondata di certezze che ci viene rovesciata addosso dall’immigrazione islamica. Viviamo infatti in un contesto culturale che non ha chiarito quali siano “gli elementi della nostra civiltà” da difendere. Ammettiamolo: chi di noi si sentirebbe così sicuro, ad esempio, nel redigere un elenco dei suddetti “elementi”? Allora sarebbe stato opportuno che magari Meloni avesse chiarito meglio quali sarebbero a suo avviso gli elementi da “difendere”, e magari cercasse su un tale elenco il consenso più vasto dell’opinione pubblica. Solo con la chiarezza e la consapevolezza di chi siamo, cioè della nostra tradizione culturale, possiamo avviare un confronto con quel mondo così diverso che, nel sentire di molti, ci sta accerchiando, e avviare un confronto vero, che permetta di uscire dall’utopia di un multiculturalismo impraticabile ma anche dalla prospettiva di un inevitabile scontro di civiltà. Perché la linea dell’Italia sui migranti è in piena crisi di Gianluca Mercuri Corriere della Sera, 15 settembre 2023 Tra tecnicalità spesso astruse, norme che si accavallano e idiosincrasie politiche all’apparenza invincibili, gli aggiornamenti sulla questione dei migranti. Un altro scontro sui migranti con Germania e Francia. Il nuovo Patto europeo abbozzato in giugno e atteso ora da una complicata approvazione. Una maggioranza di governo sempre più sensibile al richiamo della foresta antieuropeista e che grida al tradimento. La questione immigrazione necessita di aggiornamenti continui, tra tecnicalità spesso astruse, norme che si accavallano e idiosincrasie politiche all’apparenza invincibili. Punto per punto. Lo stop franco-tedesco - Il quotidiano Die Welt ha rivelato che, dalla fine di agosto, il governo Scholz ha comunicato di avere sospeso il cosiddetto “meccanismo volontario di solidarietà” con l’Italia a causa “della forte pressione migratoria verso la Repubblica federale”. Alla base della decisione c’è il mancato rispetto del Regolamento di Dublino, che impone ai Paesi di primo approdo non solo di accogliere i richiedenti asilo, ma di riprendersi quelli che si spostano poi in altri Paesi Ue, i cosiddetti movimenti secondari. Il meccanismo di solidarietà - Concordato nel 2022 con Germania, Francia e altri 11 Paesi, prevedeva che Berlino accogliesse in un anno dall’Italia 3.000 migranti e Parigi 3.500. La Germania ne ha poi accolti poco più di mille, la Francia ha smesso dopo lo scontro con l’Italia sulla nave Ocean Viking, cui in novembre fu impedito lo sbarco nei nostri porti e che fu poi accolta a Tolone. In più, Parigi ha appena deciso di blindare ulteriormente il confine tra Mentone e Ventimiglia, da dove, secondo il ministro dell’Interno Gérald Darmanin, nelle ultime settimane si è registrato un aumento del 100% dei flussi. La reazione italiana 1 - C’è il detto e il non detto. Nel detto, sono significative le parole della vicecapogruppo al Senato della Lega, Mara Bizzotto: “Ancora una volta la Germania, governata da socialisti e verdi compagni di partito di Schlein e Bonelli, e la Francia, guidata dal liberale Macron amico di Renzi e Calenda, hanno sbattuto le porte in faccia all’Italia sul’emergenza immigrazione. Altro che solidarietà europea. Per l’ennesima volta Scholz e Macron, che in Europa fanno parte delle stesse famiglie politiche del Pd e di Italia Viva-Azione, hanno scandalosamente deciso di lasciare sola l’Italia. Come mai i falsi buonisti del Pd e del Terzo Polo non aprono bocca sulle vergognose decisioni del governo tedesco e francese? Forse sono d’accordo con i loro amici Scholz e Macron? Resta un mistero come, anche all’interno del centrodestra italiano, ci sia ancora qualcuno che preferisca fare inciuci in Europa con i socialisti e i liberali che, lo vedono tutti, agiscono contro gli interessi del nostro Paese. Solo la Lega, in Italia e in Europa, è garanzia di coerenza e difesa degli italiani”. Perché è importante - Perché la reazione leghista spiega che tipo di campagna elettorale avremo: un centrodestra sempre più incline a polemizzare con l’Europa, la Francia e la Germania e ad additare tutte le opposizioni come nemiche dell’interesse italiano. Ma anche a dividersi al suo interno tra chi rivendica una purezza sovranista incontaminata (la Lega) e chi con l’estabishment europeo non può rompere o per vocazione e necessità di sopravvivenza (Forza Italia) o perché ha constatato, guidando il governo, che senza compromessi con i due Paesi più forti l’Italia va a sbattere (Fratelli d’Italia). La reazione italiana 2 - È quella, non ufficiale, del ministero dell’Interno, che ammette che quella tedesca è una contromossa, rispetto a precedenti decisioni italiani. Fanno sapere le fonti del Viminale: “È vero, non accettiamo più riammissioni di migranti da altri Paesi in virtù dello straordinario afflusso a cui l’Italia è chiamata a far fronte da mesi. La vecchia logica della responsabilità del Paese di primo ingresso del regolamento di Dublino è ormai superata dalla bozza del nuovo Patto approvato a giugno a Lussemburgo con una prospettiva assolutamente diversa di politica continentale”. Quindi è l’Italia che non ha rispettato le intese? Risposta in una parola: sì. La risposta più articolata è nelle ammissioni del Viminale. Ma anche nelle repliche esplicite dei tedeschi, attraverso il portavoce del ministero dell’Interno Maximilian Kall: “Da tempo”, ha ribadito Berlino, l’Italia non accetta più persone provenienti dalla Germania che secondo le regole di Dublino dovremmo essere noi a rimpatriare perché siamo noi il primo Paese Ue in cui sono approdate. Persone, cioè, inizialmente registrate nell’Ue in Italia, ma che poi si sono trasferite illegalmente in Germania: in tutto 12.400, di cui soltanto 10 sono state ri-trasferite in Italia. Per questo motivo è stato interrotto l’invio di “squadre in Italia per condurre colloqui e preparare il trasferimento di migranti nell’ambito del meccanismo di solidarietà volontaria”. Insomma: tu non ti riprendi i migranti che dovresti riprenderti per legge e io non mi prendo i migranti che potrei prendermi per solidarietà. Il nuovo Patto in discussione - Ora la faccenda si complica. Perché? Perché nelle prossime settimane i governi europei devono chiudere il negoziato sul nuovo Patto per la migrazione e l’asilo. Tra le intese raggiunte in giugno, spicca il fatto che neanche questa volta la redistribuzione obbligatoria dei migranti è passata. Gli Stati membri dovranno in teoria partecipare alla ricollocazione di almeno 30 mila migranti all’anno, che diventerebbero 60 mila l’anno successivo, poi 90 mila e infine 120 mila dal quarto anno in poi. In alternativa si potrà scegliere di pagare 20 mila euro per migrante al fondo comune per la gestione delle frontiere esterne. Polonia e Ungheria hanno però già detto che si rifiuteranno sia di ricollocare sia di pagare (in Polonia si terrà in proposito un referendum il 15 ottobre, insieme alle elezioni politiche). Movimenti secondari ancora più blindati - Sono, come si è visto, quelli dei migranti da un Paese Ue all’altro, da sempre motivo di malcontento dei Paesi del Nord, a cominciare dalla Germania. Da questo punto di vista, il nuovo accordo rappresenta per loro un chiaro successo: i Paesi di primo ingresso come il nostro, infatti, mentre finora erano tenuti a riprendere in carico i richiedenti asilo che si erano spostati in un altro Paese Ue fino a un anno dal momento del loro arrivo in Europa, ora hanno accettato di raddoppiare questo obbligo, estendendolo a due anni. E dovranno farlo anche con procedure più rapide e semplificate. Per i Paesi mediterranei, a cominciare dall’Italia, si tratta insomma di un evidente peggioramento rispetto alle regole di Dublino. Ma non basta. E la regola di primo approdo blindatissima - L’Italia ha rinunciato a contestare l’obbligo di farsi carico dei migranti in quanto Paese di primo sbarco (come Malta, Cipro e Grecia). Ma qual è la presunta convenienza? La scelta del governo Meloni è stata annunciata dalla premier fin dall’inizio del suo mandato, quando, parlando in Senato a metà dicembre, fu esplicita: “Non credo che la soluzione al tema dell’immigrazione siano le ridistribuzioni, il tema non è rivedere il Regolamento di Dublino. La soluzione è fermare le partenze, difendere i confini esterni dell’Ue”. La linea italiana è dunque chiara: accettare di accollarsi i migranti e perfino di riaccollarseli senza problemi se sono riusciti a spostarsi entro due anni in altri Paesi Ue, nella convinzione di potersene liberare in termini ragionevolmente rapidi, dopo avere “processato” le loro richieste in modo molto più veloce di prima e averli tenuti nel frattempo in luoghi “sicuri”, da cui non possano scappare e rendersi clandestini. Con la variante emersa ieri: l’obbligo di riassorbire i movimenti secondari è accettato sulla carta ma non applicato nella realtà, con la conseguente reazione tedesca. L’obiettivo: meno arrivi e più rimpatri - È questa, in sostanza, la linea italiana, che il governo spera di rendere concreta grazie all’allargamento dei Paesi considerati “sicuri” in cui rimpatriare i migranti e la possibilità di spedire i richiedenti asilo respinti non solo verso il loro Paese di origine, ma anche verso un Paese con cui abbiano altri tipi di legami, nel quale per esempio siano transitati, o siano stati trattenuti durante la loro rotta migratoria. Per questo il nostro governo ha puntato tutto sull’accordo con la Tunisia, nella speranza che faccia entrambe le cose che gli stanno a cuore - arginare le partenze e riprendersi una grande quantità di migranti, non solo tunisini - in cambio di cospicui finanziamenti europei. Il patto, però, non è ancora decollato, per l’ambiguità del regime del presidente Saied, incline a prendere più soldi e meno migranti possibili. Tanti profughi, ma meno degli altri - È la realtà delle cifre che, nelle stanze di Bruxelles, rende gli argomenti italiani meno consistenti di quanto sembrino generalmente a noi. Neanche l’enorme aumento registrato durante il governo Meloni, con quasi 120 mila sbarchi nel 2023, ci colloca tra i Paesi che devono sopportare più arrivi: siamo anzi quarti dietro a Germania, Francia e Spagna per numeri assoluti, e addirittura settimi in rapporto alla popolazione, superati anche da Grecia, Olanda e Cipro. Il che non toglie che gli altri, soprattutto la Francia, abbiano l’interesse a fare dell’Italia, come dice Lucio Caracciolo, la principale “carta assorbente” dei migranti. Il punto è che siamo sfavoriti da molti fattori: quello geografico, quello economico - i tanti dossier in cui qualunque governo italiano che sbatta i pugni sul tavolo poi se li deve fasciare - e quello politico, con l’avvicinarsi di elezioni che inducono tutti, non solo noi, a irrigidirsi e a curare i rispettivi elettorati. Tutto questo, però, dovrebbe consigliare anche a questo governo quello che hanno sperimentato tutti gli altri: senza accordi con la Germania e la Francia non si va da nessuna parte. Sono tre i fronti possibili per gestire l’immigrazione di Mauro Magatti Corriere della Sera, 15 settembre 2023 Oltre l’emergenza sbarchi: occorre rispetto per le esigenze umanitarie; accogliere le richieste sempre più pressanti dalle imprese; avere la capacità sociale e politica di assorbimento dello straniero. Il contrasto ai flussi migratori è una bandiera identitaria del centro destra. Ma un conto sono i proclami elettorali, un conto i risultati di governo. Il numero di migranti e richiedenti asilo arrivati in Italia nel 2023 è in deciso aumento rispetto a 12 mesi prima: a settembre sono arrivati in Italia più di 116.000 persone (di cui circa il 10% minori non accompagnati) il doppio rispetto dello stesso periodo del 2022 e quasi 3 volte il 2021. La vera differenza sta nella più limitata percezione del problema da parte dell’opinione pubblica. A differenza di quanto accadde ad esempio nel 2015-16 - quando i numeri erano paragonabili - l’allarme sociale è stato molto inferiore. Probabilmente perché l’opposizione di centro sinistra non ha voluto (o saputo) calcare la mano su questo punto. E se non fosse stato per la protesta dei sindaci che si sono trovati a dover gestire i tanti migranti trasferiti direttamente da Lampedusa nelle città di tutta Italia, in molti non si sarebbero accorti di nulla. L’inefficacia dell’azione di governo ha riguardato tre diversi piani. In primo luogo, l’accordo con la Tunisia - che avrebbe dovuto portare a una riduzione dei flussi - non ha funzionato: il grosso degli arrivi nel 2023 viene proprio da questo paese (passati nel giro di un anno da 12.000 a 60.000). Oltre a porre serie questioni dal lato dei diritti umani (fare accordi per fermare il flusso di migranti senza chiedere garanzie sui modi utilizzati significa, in sostanza, chiudere gli occhi su quello che poi concretamente accade e che fonti indipendenti riescono a documentare). Come già in passato, questo tipo di iniziative si limita a mettere una toppa su una falla che diventa sempre più grande. Nella situazione in cui siamo, la pressione migratoria è così forte che, se si chiude un varco, se ne apre un altro. Si arriva così al secondo punto di debolezza, che è di natura strettamente politico. Più volte la premier ha insistito sulla necessità di una strategia europea. Ma al di là degli appelli non si è andati. Soprattutto non si è riusciti a spingere la UE ad avviare un programma strategico di cooperazione economica e istituzionale che aiuti i paesi di partenza ad affrontare le loro questioni interne. Al contrario, tutta la regione sub sahariana è andata incontro a un processo di ulteriore destabilizzazione che non lascia presagire nulla di buono per gli anni a venire. Anche su questo come su altri tavoli, servono alleanze e concretezza. Infine, le politiche di gestione dei migranti giunti sul territorio nazionale. Per accontentare il proprio elettorato, il governo ha approvato il decreto Cutro (ironia della storia, visto che il nome fa riferimento a uno dei più gravi naufragi avvenuto nel Mediterraneo) che prevede la drastica riduzione della protezione speciale. Nell’ipotesi, non realistica, di riuscire a rispedire indietro i migranti. Il risultato, come già ricordato, è stato di creare problemi alle città dove i sindaci si trovano a dover gestire senza mezzi e risorse numeri molto elevati di immigrati. Con rischi sulla sicurezza che non è difficile immaginare. Salvo l’ipotesi (mai esplicitamente ammessa) che molti nuovi arrivati filtrino velocemente - in un modo o nell’altro - verso altri paesi, alleggerendo così il carico italiano (ma anche creando malumori nei paesi di arrivo finale che accusano l’Italia di slealtà). Oltre a ciò, l’assenza di misure di sostegno e di presa in carico fa sì che, in un paese come l’Italia che non fornisce alcun aiuto e percorso di integrazione si fermi la parte meno preparata (e sempre più spesso addirittura analfabeta). E quindi più difficile da integrare. A vantaggio solo della parte più degradata del mercato del lavoro, se non addirittura della criminalità organizzata. Insomma se tutti e tre i fronti (interventi di limitazione dei flussi in entrata, sviluppo di una azione politica europea sul piano internazionale, politiche interne di integrazione), i risultati ottenuti nel 2023 dal governo Meloni non sono stati quelli annunciati. Per fare qualche passo in avanti è necessario superare le ideologie confrontandosi con la realtà. Di fronte ad un problema tanto grande e di natura strutturale - conseguenza del disordine portato dalla forte crescita globale degli ultimi decenni - non serve a nulla dividersi tra chi è pro e chi è contro l’immigrazione. Aprire indiscriminatamente le frontiere è insostenibile; ma anche pensare di chiudere ermeticamente i confini non regge. Si tratta piuttosto di costruire un equilibrio sensato tra tre dimensioni, tutte rilevanti benché tra loro molto diverse: le esigenze umanitarie affermate nella nostra Costituzione: l’Italia non può accettare che i diritti fondamentali delle persone siano esplicitamente calpestati; le esigenze sempre più pressanti dal mondo delle imprese (ha fatto scalpore l’iniziativa sollecitata dalla Confindustria di Brescia, andata a verificare le competenze dei nuovi arrivati ed ad offrire percorsi formativi per avere rapidamente il personale mancante); la capacità sociale e politica di assorbimento dello straniero, da sempre tema che solleva paure e fantasmi. E con essi, resistenze e reazioni. Siamo ancora lontani dall’aver raggiunto un equilibrio accettabile. Partendo dagli insufficienti risultati finita ottenuti, il governo provi a rivedere la sua strategia per il prossimo anno. Migranti. L’imbroglio del governo oltre la propaganda di Fulvio Vassallo Paleologo Il Manifesto, 15 settembre 2023 Le politiche europee e italiane di esternalizzazione dei controlli di frontiera con il coinvolgimento di paesi terzi, ritenuti a torto “sicuri”, sono definitivamente fallite. La tragedia umanitaria in corso a Lampedusa, l’ennesima dalle “primavere arabe” del 2011 ad oggi, dimostra che dopo gli accordi di esternalizzazione, con la cessione di motovedette e con il supporto alle attività di intercettazione in mare, in collaborazione con Frontex, come si è fatto con la Tunisia e con la Libia (o con quello che ne rimane come governo di Tripoli), le partenze non diminuiscono affatto, ed anzi, fino a quando il meteo lo permette, sono in continuo aumento. Si sono bloccate con i fermi amministrativi le navi umanitarie più grandi, ma questo ha comportato un aumento degli “arrivi autonomi” e l’impossibilità di assegnare porti di sbarco distribuiti nelle città più grandi della Sicilia e della Calabria, come avveniva fino al 2017, prima del Codice di condotta Minniti e dell’attacco politico-giudiziario contro il soccorso civile. La caccia “su scala globale” a trafficanti e scafisti si è rivelata l’ennesimo annuncio propagandistico, anche se si dà molta enfasi alla intensificazione dei controlli di polizia e agli arresti di presunti trafficanti ad opera delle autorità di polizia e di guardia costiera degli Stati con i quali l’Italia ha stipulato accordi bilaterali finalizzati al contrasto dell’immigrazione “clandestina”. Se Salvini ha le prove di una guerra contro l’Italia, deve esibirle, altrimenti pensi al processo di Palermo sul caso Open Arms, per difendersi sui fatti contestati, senza sfruttare il momento per ulteriori sparate propagandistiche. Mentre si riaccende lo scontro nella maggioranza, è inutile incolpare l’Unione europea, dopo che la Meloni e Piantedosi hanno vantato di avere imposto un “cambio di passo” nelle politiche migratorie dell’Unione, mente invece hanno solo rafforzato accordi bilaterali già esistenti. Le politiche europee e italiane di esternalizzazione dei controlli di frontiera con il coinvolgimento di paesi terzi, ritenuti a torto “sicuri”, sono definitivamente fallite, gli arrivi delle persone che fuggono da aree geografiche sempre più instabili, per non parlare delle devastazioni ambientali, non sono diminuiti per effetto degli accordi bilaterali o multilaterali con i quali si è cercato di offrire aiuti economici in cambio di una maggiore collaborazione sulle attività di polizia per la sorveglianza delle frontiere. Dove peraltro la corruzione, i controlli mortali, se non gli abusi sulle persone migranti, si sono diffusi in maniera esponenziale, senza che alcuna autorità statale si dimostrasse in grado di fare rispettare i diritti fondamentali e le garanzie che dovrebbe assicurare a qualsiasi persona uno Stato democratico quando negozia con un paese terzo. Ed è per questa ragione che gli aiuti previsti dal Memorandum Tunisia-Ue non sono ancora arrivati e il Piano Mattei per l’Africa, sul quale Meloni e Piantedosi hanno investito tutte le loro energie, appare già fallito. Di fronte al fallimento sul piano internazionale è prevedibile una ulteriore stretta repressiva. Si attende un nuovo pacchetto sicurezza, contro i richiedenti asilo provenienti da paesi terzi “sicuri” per i quali, al termine di un sommario esame delle domande di protezione durante le “procedure accelerate in frontiera”, dovrebbero essere previsti “rimpatri veloci”. Come se non fossero certi i dati sul fallimento delle operazioni di espulsione e di rimpatrio di massa. Se si vogliono aiutare i paesi colpiti da terremoti e alluvioni, ma anche quelli dilaniati da guerre civili alimentate dalla caccia alle risorse naturali di cui è ricca l’Africa, occorrono visti umanitari, evacuazione dei richiedenti asilo presenti in Libia e Tunisia, ma anche in Niger, e sospensione immediata di tutti gli accordi stipulati per bloccare i migranti in paesi dove non si garantisce il rispetto dei diritti umani. Occorre una politica estera capace di mediare i conflitti e non di aggravarne gli esiti. Vanno aperti canali legali di ingresso senza delegare a paesi terzi improbabili blocchi navali. Per salvare vite, basta con la propaganda elettorale. Migranti. I rimpatri non risolvono i problemi della destra. Lo dicono i numeri di Giansandro Merli Il Manifesto, 15 settembre 2023 Quest’anno non sono aumentati, nonostante le promesse del governo. Nei primi otto mesi del 2023 l’Italia ha rimpatriato forzatamente 2.770 persone. 3.275 in tutto il 2022. Praticamente come nel biennio 2018-2019, quando al Viminale c’era Salvini e il dato aveva superato leggermente i 3.400. Insomma, anche con la destra al governo questi numeri cambiano poco, nonostante le rituali promesse di tolleranza zero e pugni di ferro. L’ultima l’ha fatta l’attuale ministro dell’Interno Matteo Piantedosi che durante la presentazione del dossier Viminale di Ferragosto aveva annunciato “entro settembre” un nuovo pacchetto sicurezza per aumentare i rimpatri. Vedremo che succederà, anche se il tema riguarda più i rapporti politici e diplomatici con i paesi terzi che la politica interna. Non si modifica per decreto. Intanto, però, si può notare che per il governo Meloni le cose non vanno bene neanche con il partner su cui ha insistito di più, cioè la Tunisia di Kais Saied. I tunisini rappresentano la terza nazionalità degli arrivi via mare: 11.402 persone su un totale di 125.928. Ma sono la prima per numero di rimpatri forzati: 1.441 al 31 agosto scorso. Alla fine di dicembre 2022 le persone riportate nel paese nordafricano contro la loro volontà erano state 2.308. Su per giù il dato resta costante in termini assoluti, ma quest’anno gli sbarchi sono raddoppiati: proporzionalmente dunque è molto più basso. Le seconde e terze nazionalità di rimpatriati sono Albania ed Egitto, ma qui si parla di spicci: 362 persone a Tirana e 212 al Cairo. “I rimpatri forzati sono molto complicati, non sono risolutivi”, ha detto ieri il garante nazionale dei diritti dei detenuti Mario Palma, durante una conferenza in cui ha presentato questi numeri. Secondo Palma “serve una politica che incentivi i rimpatri volontari”. Soprattutto: “bisognerebbe spendere per includere quello che oggi si spende per respingere”. Migranti. Salvini: “Difenderemo le frontiere. Non escludo l’utilizzo della Marina militare” di Cesare Zapperi Corriere della Sera, 15 settembre 2023 Il vicesegretario Crippa: la via diplomatica? Nessun risultato. Interviene il leader: ok Giorgia. E attacca Berlino. “Stiamo lavorando come governo tutti insieme, senza nessuna differenziazione e nel rispetto del lavoro gli uni degli altri per un nuovo decreto sicurezza e visto che l’Europa è clamorosamente assente, lontana, distratta, ignorante e sorda. Dovremo muoverci per conto nostro e difendere le frontiere per conto nostro”. Tocca a Matteo Salvini, al culmine di una giornata convulsa che poteva segnare una profonda crepa nei rapporti tra Lega e Fratelli d’Italia proprio sul fronte caldo dell’immigrazione, metterci una pezza e rilanciare. Il vicepremier difende il lavoro fatto dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni e nega divergenze di vedute, correggendo in modo plateale le dichiarazioni rilasciate nella mattina di ieri dal vicesegretario della Lega Andrea Crippa a Affaritaliani.it. Alla domanda sull’efficacia della strategia adottata finora dalla premier, il deputato brianzolo, di solito parco di esternazioni, aveva risposto con un sorprendente “a occhio no”. Aggiungendo: “La via diplomatica non ha portato a niente. Il governo della Tunisia (con cui Meloni ha stretto un accordo, ndr), è evidente, ha dichiarato guerra all’Italia. Non è possibile che un Paese come l’Italia sia sotto ricatto degli Stati del Nord Africa”. Parole pesanti, che hanno mandato in fibrillazione i vertici di FdI ma anche il gruppo dirigente leghista (anche se qualcuno, malizioso, lascia trasparire la possibilità che si tratti di un’uscita concordata in un classico gioco delle parti). Che, sarà un caso, non appena le dichiarazioni di Crippa sono apparse su tutte le home page dei siti di informazione, sono piombati in un silenzio assoluto. Silenzio rotto all’ora di cena da Salvini appena arrivato a Caltanissetta per tenere a battesimo la prima festa della Lega in Sicilia. “Io penso - spiega il ministro - che Giorgia abbia fatto un lavoro eccezionale a livello internazionale, andando ovunque e raccogliendo consensi da tutti”. Chiarito il concetto, ecco il contrattacco: “Se poi nei fatti a Bruxelles, Berlino e Parigi si voltano dall’altra parte ne dobbiamo prenderne atto e difendere le nostre donne, i nostri uomini, le frontiere con ogni mezzo necessario che la democrazia mette a disposizione”. Come? “Avrete una risposta nei prossimi giorni”, risponde sibillino il vicepremier a Stasera Italia su Rete 4. “L’Italia metterà in mare e a terra tutti i mezzi necessari. Non escludo l’utilizzo della Marina militare”. Che chiude con un velenoso riferimento alla Germania: “Ci sono istituzioni tedesche che danno milioni di euro a Ong per portare i migranti in Italia. È un fatto”. Sull’attacco di Crippa, da Palazzo Chigi arriva una nota relativa all’esito dell’incontro con Viktor Orbán a Budapest: “La migrazione è una sfida comune per l’Unione che richiede una risposta collettiva” (ma Salvini, come si è visto, propende per il fai da te). E se da FdI filtra solo una polemica del deputato europeo Carlo Fidanza contro la sinistra che lavora “per affossare l’accordo con la Tunisia”, le opposizioni si scatenano. Il presidente del M5S Giuseppe Conte annuncia che mercoledì andrà a Lampedusa e attacca Meloni: “Mentre l’Italia è in crisi per il carovita e gli sbarchi dei migranti ormai raddoppiati, Meloni corre in Ungheria ad abbracciare Orbán, proprio lui, il presidente che ha sbattuto la porta in faccia all’Italia sulla redistribuzione dei migranti”. La segretaria del Pd Elly Schlein se la prende invece con Salvini e sul suo sospetto che ci sia una regia occulta dietro gli sbarchi: “Sono campioni di scaricabarile. Evocano un complotto internazionale per nascondere quelle che sono le proprie responsabilità e quelle dei loro alleati nazionalisti”. L’ultimo affondo è di Matteo Renzi, leader di Italia viva: “È inaccettabile che l’Ue non gestisca l’immigrazione ma il nostro governo deve fare gli accordi in Europa, perché se rimane isolato il conto lo pagano i cittadini”. “Serve attenzione per tutelare la difesa dei migranti”, dice Consolo di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 15 settembre 2023 Il Garante siciliano diritti dei detenuti ha visitato il Cpr di Trapani. Nel centro di permanenza e rimpatri (Cpr) di Trapani è emersa la problematica della mancata nomina tempestiva dei difensori per gli immigrati trattenuti nella struttura. Gli avvocati si sono anche lamentati della mancanza di locali adeguati per condurre attività difensive preliminari alle udienze, così come emerge la problematica di diversi migranti con evidenti disabilità mentali, spesso dovute a gravi traumi cranici subiti in passato. Santi Consolo, Garante dei Diritti dei Detenuti per la Sicilia, la settimana scorsa ha quindi effettuato una significativa visita al Cpr di Trapani per sondare e cercare una risoluzione di questi problemi. All’arrivo, il Garante è stato accolto presso gli uffici della Presidenza del Tribunale di Trapani dalla Presidente Daniela Galazzi, insieme all’avvocato Pietro Longo, Presidente dell’Ordine degli Avvocati di Trapani, e all’avvocato Marco Siragusa, Presidente della Camera Penale di Trapani. La presenza di numerosi avvocati ha sottolineato l’importanza delle questioni relative ai diritti legali degli immigrati trattenuti nel CPR. Durante l’incontro, gli avvocati hanno enfatizzato la necessità di garantire nomina tempestiva dei difensori per gli immigrati detenuti nel CPR. Hanno anche richiesto locali adeguati per condurre attività difensive preliminari alle udienze e la trasmissione puntuale degli atti di nomina dei difensori ai giudici preposti alle udienze. I rappresentanti della Camera Penale di Trapani hanno anche sollevato la questione dell’; accoglienza all’interno dell’Istituto Penitenziario di Trapani, chiedendo condizioni migliori per svolgere il loro compito difensivo in modo efficiente e tempestivo. L’incontro si è svolto in modo costruttivo, con gli avvocati che si sono mostrati fiduciosi riguardo agli sviluppi futuri delle discussioni con il Garante. Quest’ultimo, vistando il CPR di Trapani, ha incontrato i rappresentanti della Prefettura, della Questura, delle Forze dell’Ordine e la direttrice dell’Ente gestore del centro. Tutti hanno garantito la massima cooperazione e fornito al Garante tutta la documentazione richiesta. Il confronto sulle problematiche legate all’immigrazione è stato costruttivo, con impegni diretti per affrontare le criticità dovute anche alle complesse operazioni di gestione del centro, che è stato notevolmente ridotto a seguito di un incendio avvenuto l’anno precedente. Nonostante le sfide, il flusso di immigrati in arrivo è in costante aumento, rendendo urgente la garanzia dell’informazione legale e dell’orientamento per gli immigrati, al fine di consentire loro la nomina tempestiva di un difensore e la comunicazione con le autorità giudiziarie competenti. È importante sottolineare che queste richieste sono in linea con la direttiva 2013/ 33/ UE, che stabilisce l’obbligo di fornire informazioni scritte in una lingua comprensibile al richiedente e di comunicare tali informazioni anche oralmente, se necessario. La direttrice dell’Ente gestore del CPR ha accolto positivamente le richieste del Garante e ha promesso di evitare disagi e inconvenienti futuri per i difensori. Successivamente, Santi Consolo ha incontrato gli immigrati nel CPR, verificando personalmente le loro condizioni. È emerso che alcuni presentavano evidenti disabilità mentali, spesso dovute a gravi traumi cranici subiti in passato. In un caso particolare, un’ernia inguinale di notevole entità non aveva portato al ricovero in strutture esterne, perché - a detta degli immigrati - i sanitari avrebbero sostenuto che non necessitasse di un intervento urgente. Le condizioni di pernottamento nel CPR erano di notevole interesse. Letti, tavoli e sedili erano realizzati in cemento armato per prevenire incendi e danneggiamenti, mentre i servizi igienici e le docce erano anch’essi costruiti seguendo standard di sicurezza elevati. Santi Consolo ha inoltre valutato la qualità del cibo fornito da un servizio di catering esterno, raccomandando alla direttrice di tenere in considerazione le tradizioni e le preferenze alimentari dei paesi di origine delle persone ospitate. Il Garante ha concluso la sua visita con saluti cordiali alle autorità presenti, sottolineando l’importanza della collaborazione reciproca per migliorare le condizioni dei detenuti e garantire i loro diritti. Medio Oriente. Khaled El Qaisi resta in cella ma Israele continua a non formulare accuse di Michele Giorgio Il Manifesto, 15 settembre 2023 Al termine dell’udienza di ieri il giudice ha prolungato la custodia cautelare per altri sette giorni. A sostegno del ricercatore italo-palestinese oggi si terrà una assemblea pubblica all’Università La Sapienza. Khaled El Qaisi resta detenuto e ancora non si conoscono i motivi per cui le guardie di frontiera israeliane, lo scorso 31 agosto, l’hanno arrestato al valico di Allenby. Il ricercatore italo-palestinese ieri è comparso di nuovo davanti al giudice. L’udienza che si è chiusa con la decisione della corte di rimandarlo in cella per altri sette giorni in parziale accoglimento della richiesta di 11 giorni fatta dalla procura. Khaled ieri, dopo due settimane, ha potuto finalmente parlare con l’avvocato. Quest’ultimo ha ribadito di non poter rivelare alcun particolare poiché sul caso del giovane, figlio del sindacalista palestinese Kamal Qaisi e dell’italiana Lucia Marchetti e in possesso di una carta d’identità della Cisgiordania, il giudice israeliano ha imposto il riserbo assoluto. Non è detto che alla prossima udienza si conosceranno le accuse, ammesso che ne esistano. Il giovane palestinese resta sotto indagine. Ieri è stato trasferito di nuovo nel Centro di detenzione di Petah Tikwa. Si tratta della struttura dove sono portati i palestinesi dei Territori occupati per essere interrogati dallo Shin Bet, il servizio di sicurezza israeliano. Su questo centro le ong per i diritti umani, tra cui B’Tselem e HaMoked, hanno scritto rapporti per denunciare i metodi di interrogatorio e gli abusi subiti dai detenuti palestinesi. A sostegno di Khaled El Qaisi oggi si terrà una assemblea pubblica all’Università La Sapienza. La mobilitazione in Italia per la liberazione del ricercatore cresce con il passare dei giorni. Sono state anche presentate interrogazioni parlamentari e lunedì l’eurodeputato Massimiliano Smeriglio depositerà a Bruxelles una richiesta urgente alla Commissione europea per avere delucidazioni sul caso di Khaled. Non è chiaro come e quanto si stia muovendo la Farnesina. A leggere un comunicato diffuso dall’Ufficio Rapporti con il Parlamento del ministro Tajani, gli Esteri seguono con attenzione la vicenda e avrebbero “sensibilizzato” le autorità israeliane affinché siano tutelati i diritti di Khaled El Qaisi. Tuttavia, è difficile immaginare che il governo di destra italiano faccia pressioni vere sul governo amico di Benyamin Netanyahu mentre Israele, si è letto su un giornale italiano, afferma di essere impegnato in una ampia indagine per “terrorismo”. Senza dimenticare che Giorgia Meloni il prossimo 23 ottobre sarà in visita ufficiale in Israele. Iran, un anno dopo. La rivoluzione delle ragazze non è finita di Barbara Stefanelli Corriere della Sera, 15 settembre 2023 I regimi, ci ha insegnato Liliana Segre, contano sulla nostra indifferenza. A noi il compito di non dimenticare le storie delle ragazze, cadute sotto i colpi dei bastoni. Quelle dei giovani impiccati alle gru gialle. Quelle di chi è stato costretto all’esilio professionale. Il 16 settembre 2022 moriva Mahsa Jina Amini, una ragazza poco più che ventenne, nata a Saqqez, nelle regioni del Kurdistan iraniano. Era stata arrestata da cinque agenti della polizia morale a una fermata del metrò di Teheran, accusata di indossare il velo “impropriamente”, caricata su uno dei camioncini bianchi che girano per la città, portata in caserma, picchiata fino a perdere coscienza. Dopo due giorni in coma, Mahsa aveva smesso di respirare. Ed è a quel punto che è successo qualcosa di straordinario, qualcosa che ha cambiato la storia della Repubblica islamica a 44 anni dalla sua fondazione, nel 1979. Una giornalista ha fotografato la ragazza in agonia attaccata alle macchine e, poco dopo la comunicazione del decesso, i genitori abbracciati nel corridoio dell’ospedale. Il suo nome è Niloofar Hamedi, ha 30 anni, e si è sempre occupata di diritti, di calcio (denunciando la chiusura degli stadi al pubblico femminile), di ambiente. “Il nero del lutto è diventata la nostra bandiera nazionale”, ha scritto postando le immagini di una storia che poteva spegnersi nel silenzio come tante altre. Una seconda giornalista, Elaheh Mohhamadi, 35 anni, è andata nel villaggio curdo a raccontare i funerali della giovane Mahsa tra la sua gente: è stata lei a usare per prima quelle tre parole che sono diventate una chiamata alla sollevazione nazionale. “Zan, Zendegi, Azadi”. Donne, Vita, Libertà. È cominciata così la controrivoluzione delle donne iraniane che hanno trascinato con sé - nelle strade, nelle case - tre generazioni di uomini. I padri, i compagni, i fratelli minori. (continua a leggere dopo la foto e i link) Un anno dopo, la tomba di Mahsa Jina Amini è stata profanata e il suo giovane zio, Safa Aeli, trentenne fratello della madre, è “sparito” dopo essere stato prelevato dalle forze di sicurezza. Le due reporter si trovano invece in un carcere purtroppo noto, quello di Evin, nella capitale, dove sono stati rinchiusi migliaia e migliaia di “nemici” del regime. Hanno entrambe subito un processo e una condanna senza senso, respingendo sempre le accuse e invocando inutilmente il proprio diritto a difendersi. È finita così la speranza di un movimento che avrebbe dovuto cambiare l’Iran, abbattere gli argini dell’apartheid di genere, avvicinare città e campagne, colmare le distanze sociali tra la maggioranza e le minoranze etnico-religiose? Nei cortei, si alzava uno slogan che nessuno aveva mai sentito: “Da Zahedan a Teheran, siamo un solo Iran”. Lungo i viali, si vedevano i primi manifesti e cartelli arcobaleno. Dalle finestre alte delle case, nelle notti metropolitane, si univano voci anonime che auguravano “morte al dittatore”. Tra le tante immagini arrivate a noi in questi anni dal fronte delle proteste che a ondate hanno attraversato la Repubblica islamica, ce n’è una scattata nel 2009 da Pietro Masturzo, vincitore al World Press Photo, alla quale resta aggrappato lo sguardo. Si intitola Sui tetti di Teheran. Si distinguono tre donne tra le luci basse della sera. Una vestita di nero, con il foulard, è seduta con le mani in grembo. Un’altra, al centro dell’inquadratura, ha il velo nero appoggiato sulle spalle e, sotto, un abito bianco: ha le mani ai lati della bocca, sta gridando. Una terza, tra loro, è una figura sfuocata perché è corsa dall’una all’altra: è più piccola, forse la più giovane ed è in movimento. Quel movimento è ancora lì. Le donne, e gli uomini con loro, stanno sempre correndo. Il regime le teme, teme l’anniversario. Arresta i familiari delle vittime, presidia le università e i cimiteri, mette a tacere gli intellettuali e gli artisti. Come Saeed Roustaee, il regista di Leila e i suoi fratelli, film che rende omaggio a tutte le sorelle. A noi, in questo settembre 2023, il compito di non dimenticare, come chiede Azar Nafisi, autrice di Leggere Lolita a Teheran. Non dimenticare le storie delle ragazze, cadute teenager sotto i colpi dei bastoni. Quelle dei giovani impiccati alle gru gialle. Quelle degli sportivi, delle attrici e degli artisti costretti all’esilio professionale. I regimi, come ci ha insegnato Liliana Segre, contano sulla nostra indifferenza.