Suicidi e disperazione, in carcere per marginalità di Eleonora Martini Il Manifesto, 14 settembre 2023 L’Oms: detenuti e giovani, i più a rischio. Due i reclusi che si sono tolti la vita negli ultimi giorni: avevano 35 e 21 anni. A Genova Marassi, un clochard ucciso dal suo compagno di cella. Anch’egli senza fissa dimora. Dentro, entrambi, per piccoli reati. Davide aveva 35 anni, gravi problemi di tossicodipendenza e alle spalle una lunga serie di episodi di autolesionismo, sintomo di un importante disagio psichico pregresso. Si è impiccato al letto della sua cella, nel carcere di Milano San Vittore, l’11 settembre scorso. Lo ha fatto con le maniche della sua felpa. Il giorno prima a Regina Coeli, nel centro di Roma, un ragazzo di 21 anni ha compiuto l’ultimo gesto con le lenzuola in dotazione nella cameretta dove era stato posto in isolamento sanitario perché gli era stata diagnosticata la scabbia. Era stato arrestato a luglio per un furto, non aveva lavoro e viveva per strada. Due vite insensatamente spezzate nelle patrie galere, le ultime due. I suicidi dall’inizio dell’anno salgono così a 51. Non un record: alla fine dell’anno scorso si era arrivati al terribile numero di 84, di cui, secondo il rapporto di Ristretti orizzonti, 59 fino al 13 settembre 2022. Eppure, malgrado l’allarme lanciato dai media, il dibattito pubblico e una serie infinita di buoni propositi e promesse, nulla è cambiato da allora. Tranne il ministro di Giustizia e il capo del Dap. Le carceri rimangono, come denuncia Antigone, “sempre più luogo di esclusione sociale e disperazione”. Di questo parla anche l’omicidio che ieri ha segnato a lutto il carcere di Genova Marassi: Roberto Molinari, un uomo di 58 anni senza fissa dimora, finito in cella per il cumulo di piccoli reati, è stato ucciso con un corpo contundente dal suo compagno di cella, anch’egli clochard, di 48 anni, sottoposto a misura cautelare per resistenza a pubblico ufficiale. Non se ne conoscono i motivi, ma è il 65esimo detenuto morto per cause diverse dal suicidio. Anche l’Oms che in un’indagine pubblicata recentemente considera i detenuti tra le persone maggiormente a rischio suicidio. Soprattutto se giovani. Secondo l’Organizzazione infatti l’1% delle morti nel mondo avviene per mano stessa della vittima: ogni anno sono più di 703 mila e muoiono dopo 20 tentativi. Per i giovani tra i 15 e i 29 anni è tra le principali cause di morte. Disagio psichico, autolesionismo, dipendenze - non solo da sostanze - sono in crescita alle nostre latitudini ed emergono sempre prima, fin dall’età puberale. E sono le minoranze a rischiare di più la morte per suicidio: secondo l’Oms l’incidenza maggiore si rileva tra le popolazioni indigene, nelle comunità Lgbtqi+, i detenuti, i rifugiati e i migranti. Stragi silenziose che, sottolinea l’organizzazione, nel mondo libero si potrebbero prevenire soprattutto riducendo lo stigma e il tabù che ancora alberga in molte società, e la criminalizzazione dell’atto stesso. Secondo l’Oms infatti almeno 23 Paesi nel mondo (in Africa e in Asia) ancora puniscono il tentato suicidio come un crimine, con il risultato di aumentare il disagio psichico e scoraggiare i familiari dal cercare aiuto. Gli Stati dell’Oms hanno sottoscritto nel 2013 un Piano d’azione sulla salute mentale per raggiungere l’obiettivo globale di ridurre di un terzo il tasso di suicidio entro il 2030. E nelle carceri? “Ogni suicidio è un fatto a sé - scrive l’associazione Antigone - ma le biografie di chi compie questo gesto estremo parlano di abbandono e di esclusione sociale. Il sistema penale, da questo punto di vista, non può essere trattato come un sostituto delle mancate politiche di welfare, né come uno strumento di prevenzione di comportamenti criminosi, cosa che ha dimostrato di non essere. In questa direzione va - sottolinea Antigone - sfortunatamente, anche il recente decreto Caivano. Per prevenire i reati servono investimenti sullo stato sociale, la tutela della salute mentale, il mercato del lavoro”. Sapete cos’è un’emergenza? 51 detenuti che si ammazzano di Alessio Scandurra* L’Unità, 14 settembre 2023 È il dato spaventoso del 2023. Nel 2022 i suicidi in carcere hanno raggiunto la cifra record di 84. Nordio l’aveva definita “una priorità”. In un anno e mezzo Dap e ministero non hanno intrapreso azioni concrete, nessun impegno, neppure una promessa. Trentacinque anni il primo, 21 il secondo. Questa l’età delle ultime due persone che si sono tolte la vita in carcere. L’ultimo suicidio in ordine di tempo è avvenuto a Milano San Vittore lunedì scorso. Per quanto se ne sa D. aveva grossi problemi di tossicodipendenza, veniva da una lunga serie di episodi di autolesionismo, manifestazioni di una pregressa condizione di disagio psichico. Si è impiccato con te maniche della felpa al proprio letto. Il ventunenne si è invece tolto la vita a Regina Coeli, a Roma, il giorno prima. Non aveva un lavoro e viveva per strada. Era stato arrestato per furto a luglio e, portato in carcere, gli era stata diagnosticata la scabbia e, per questo, era stato posto in isolamento sanitario. Qui si è impiccato con le lenzuola de] letto. Due storie diverse ma che racchiudono il senso di quello che in carcere rappresenta un’emergenza sempre più grave. Sono infatti ormai 51 le persone che si sono suicidate in carcere nel 2023. Sono state 84 nel 2022, mai così tante. Ogni suicidio è un fatto a sé, ma se si guarda alle biografie di chi compie questo gesto estremo si può spesso ritrovare un comune filo conduttore fatto di abbandono e di esclusione. Chi vive ai margini, senza vie d’uscita e senza direzione, spesso prima o poi in carcere ci finisce, e non sempre ne esce vivo. Alcune considerazioni sembrano doverose. La prima è che, se i suicidi possono essere un indicatore del livello di sofferenza che si registra tra la popolazione detenuta, non sono certo l’unico. Durante le 46 visite svolte nel 2023 dall’Osservatorio sulle condizioni di detenzione di Antigone, abbiamo registrato una media di 15 atti di autolesionismo ogni 100 detenuti e 1,7 tentati suicidi sempre ogni 100 detenuti. Si tratta di numeri spaventosi, che danno la misura anche di quanti tentativi di suicidio vengono per fortuna sventati ogni giorno dall’intervento del personale degli istituti. E sempre nel corso del 2023 abbiamo trovato che in ben 3 istituti (il 6,4% di quelli visitati) non era ancora stato adottato un Protocollo per la prevenzione del rischio suicidario, cosi come richiesto sia dall’OMS e dallo stesso Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. La seconda cosa da osservare è che, sempre alla luce della nostra esperienza diretta, durante le visite fatte nel 2023, non abbiamo avuto percezione di nuove iniziative volte alla prevenzione dei suicidi. E d’altronde, anche se si guarda ai comunicati del Ministero della giustizia dell’ultimo anno e mezzo, si scopre che di iniziative simili sostanzialmente non c’è traccia. Ad agosto del 2022 il DAP si è limitato a varare delle “linee guida” per un “intervento continuo” attraverso il quale “il Dipartimento, i Provveditorati regionali e gli Istituti penitenziari siano tutti coinvolti, in una prospettiva di rete, per la prevenzione delle condotte suicidarie delle persone detenute”. Indicazioni non vincolanti che non devono necessariamente tradursi in iniziative concrete. Mentre il neo Ministro Carlo Nordio, ad ottobre del 2022, dichiarava che i suicidi sono “una drammatica emergenza, una dolorosa sconfitta per ciascuno di noi e la conferma della necessità di occuparci da vicino del inondo penitenziario”. Mondo che, assicurava Nordio senza però assumere impegni precisi, “per me è una priorità assoluta”. In poche parole, in un anno e mezzo il Ministero della giustizia ed il DAP sul tema in concreto non hanno fatto, e a dire il vero non hanno nemmeno promesso di fare, sostanzialmente nulla. I suicidi in carcere non sono dunque un’emergenza. Lo sono i rave party, lo sono i giovani che portano in piazza le proteste ambientaliste, e ovviamente lo sono le baby gang, che paiono diventate le vere protagonista delle attività criminali in un Paese che noi erroneamente pensavamo essere in mano alle mafie e alla corruzione. E contro queste emergenze fioccano i decreti e le sanzioni. A questo punto non resta che ricordare a chi di competenza, con rabbia, tristezza ed un po’ di imbarazzo, che ogni vita conta, anche quando si parla di carcere. *Associazione Antigone Diario di prigione, vivere (e morire) come gli invisibili di Claudio Bottan* Il Dubbio, 14 settembre 2023 L’ultimo arrivato ha settant’anni, la parte destra del corpo paralizzata per un ictus che gli ha tolto l’uso della parola. Deve scontare una pena di tre mesi per un reato risalente agli inizi degli anni Novanta e l’ha scoperto quando è atterrato a Fiumicino dopo vent’anni che mancava dall’Italia. È andato ad occupare l’unica cella libera della sezione, chiusa da quando il precedente “inquilino” è stato trasferito all’obitorio. “Coma diabetico”, dice Fabrizio, che, all’ora di pranzo, avendo notato il blindo ancora chiuso, è entrato per sincerarsi che fosse tutto a posto. Eppure, nella lenta routine della galera, a quella porta avrebbero dovuto bussare in molti quella mattina, quantomeno la “conta”, l’infermiera, il portavitto. Si sarebbero accorti che da ore quel corpo era immobile, gelido. Anche la morte diventa ordinaria amministrazione in un luogo che pare un lazzaretto più che la sezione penale di un carcere. Poche celle più in là ci sono due persone che soffrono di epilessia con crisi quotidiane che le fanno stramazzare al suolo. È sempre Fabrizio, ex pugile professionista con nozioni di primo soccorso, a prestare le prime cure in attesa che - con calma - arrivi un medico che si limita a rilevare i parametri vitali. Una situazione paradossale, tanto che spesso sono gli stessi agenti a chiedere a Fabrizio di intervenire, con tutti i rischi e le responsabilità che ne derivano. Parlare di cure, visite specialistiche o comunità di recupero è utopia. Proseguendo la passeggiata lungo il corridoio si contano almeno una decina di ragazzi che assumono Metadone, Subutex o altri surrogati degli stupefacenti per placare le crisi di astinenza. Ridotti come zombie, trascorrono la giornata in attesa della “terapia” e vivono in un’altra dimensione. Come il serbo, che parla con i muri e guarda fuori da una finestra che vede solo lui. Malattie, dipendenze e povertà convivono in questo “non luogo” deputato alla riabilitazione dei derelitti che lo abitano. L’olandese, invece, trascina il peso dei suoi tumori e fatica a tenere a bada i tremori del Parkinson; continua da anni a ripetere che non vede l’ora di essere rimandato al suo Paese per potersi curare, non vuole morire in carcere. Anche il rumeno aspetta l’estradizione per scontare il residuo della pena in patria dove, dice, “almeno posso lavorare”. Turiddu, invece, dopo due decenni di galera avrebbe il diritto di chiedere un permesso di qualche ora ma non ne vuole sapere. Lì fuori non ha più nessuno e nemmeno dentro c’è stato qualcuno che si sia accorto di lui e lo aiuti a superare la paura della libertà. Proseguendo la camminata lungo il corridoio si incontra “Tapparella”, alla perenne ricerca di un ciuffo di tabacco e qualche cartina, un po’ di caffè, un francobollo, una busta. Qualcun altro si è venduto le scarpe per poter fumare e ora aspetta che il prete, sfiancato dalle suppliche, gli carichi sul conto qualche euro. In carcere si aspetta sempre. Tra “domandine” e mancate risposte, tempi che non si compiono mai, senso di impotenza e incertezza continua, la prigione che raccoglie i rifiuti umani della società rischia di restituire alla libertà uomini non pronti ad affrontarla, perché la galera insegna una sola cosa: come sopravvivere alla galera stessa. Di lavoro, formazione e studio nemmeno l’ombra. Un vuoto acuito dal doppio lockdown rappresentato da sbarre e pandemia che ha ulteriormente isolato gli abitanti del pianeta carcere ai quali non rimane altro che la briscola. In alternativa c’è la televisione, perennemente accesa e sintonizzata sui notiziari. Pare che tra le riforme imposte dall’Europa come condizione per erogare i fondi del Recovery Plan ci sia anche quella della giustizia, argomento che desta l’interesse anche di coloro che non perdono una puntata di Uomini e donne. “Ma quale riforma?”, sentenzia quello della cella 23 spegnendo gli entusiasmi di quanti prevedono cambiamenti epocali e misure straordinarie per ripristinare la legalità nelle carceri. Si dice che sia un giornalista, ma di lui non si sa molto. Pare che scriva anche per Voci di dentro. Se ne sta in disparte, parla poco e scarabocchia in continuazione, accumula appunti e legge. Un tipo strano. A lui si rivolgono in molti, italiani e stranieri che gli chiedono di spiegare il contenuto di un documento; altri hanno bisogno dello “zio” per scrivere un’istanza, un sollecito o una lettera alla morosa. Dice che non servono mirabolanti riforme per far funzionare il sistema, basterebbe applicare le norme esistenti. Protetti dalle alte mura che separano i buoni dai cattivi per non turbare le coscienze, per anni abbiamo fatto finta di non vedere quell’umanità nascosta, negata, segregata. Un giorno “quella gente” lascerà il carcere. È meglio accogliere cittadini recuperabili o relitti senza speranza? Allo stato attuale forse ha ragione il turco, che da anni insiste per essere estradato nelle galere di Erdogan e ripete come un ossesso: “Carcere italiano no buono… Turchia bene”, mimando il volo dell’aereo che, prima o poi, lo riporterà nelle spelonche di Istanbul. *Ex detenuto, attivista e redattore di Voci di dentro Dalla finestra del carcere di Santa Maria Capua Vetere. Laurearsi in carcere può servire a qualcosa? di Pierdonato Zito Ristretti Orizzonti, 14 settembre 2023 Se commettere reati ti porta in carcere, smettere di commetterli dovrebbe portarti fuori. Questo l’assioma, ma il carcere così come è strutturato sembra andare contro ogni logica. Sono stato il primo a conseguire una laurea con lode in sociologia. presso l’Università Federico II di Napoli Polo Universitario Penitenziario di Secondigliano. Titolo della tesi “Lo Studio negli istituti penitenziari: il valore educativo tra formazione, resipiscenza e recidiva”. Ho trasformato il pensiero di Victor Hugo ouvrir une école c’est fermer une prison in un interrogativo di ricerca. Mi sono chiesto può lo studio in ambito penitenziario influire positivamente sui processi decisionali degli individui? ho trasformato quindi la mia conoscenza empirica antropologica in analisi sociologica collegandole alle teorie studiate in ambito universitario. Il metodo utilizzato è stato quella auto etnografico analitico. Ma quale dovrebbe essere la finalità di tutto questo? Che in presenza di un percorso positivo di risocializzazione, (quindi di un’oggettiva metamorfosi), prenderne atto e liberarlo. A quel punto il detenuto non rappresenta più un pericolo sociale, ma una risorsa sociale, dovrebbe essere restituito alla collettività, perché diventa la sua presenza un segno positivo nella società, il quale è più utile fuori dal carcere, che dentro. Invece, in concreto, non basta cambiare si deve essere fortunati a trovare poi chi in quel cambiamento ci deve effettivamente credere. Dopo 30 anni detentivi come detenuto sono cambiato non solo nel fisico, nella mente, ma è cambiato il contesto sociale, storico, ambientale. Quindi in realtà la metamorfosi non deve riguardare solo il detenuto, ma anche chi deve decidere su di esso. La non valorizzazione del percorso rappresenta una criticità del sistema, può essere paragonabile ad un paziente in ospedale guarito, che non viene dimesso, ma che anzi gli viene applicato una sorta di “accanimento terapeutico”. A quale fine? A chi giova lasciare un frutto maturo sull’albero? Non serve a me, non serve alle istituzioni, non serve alla società. Quale è l’orizzonte di senso in tutto questo? Nel percorso risocializzante non doveva essere applicato il principio progressivo anziché quello regressivo? Di fatto si realizza uno spreco di risorse sociali, spreco di un capitale sociale. Non si capisce perché si deve scontare una pena, che non finisce mai per un reato che non commetterebbe più. È ragionevole tenere in carcere un individuo se è pericoloso, non è più ragionevole se lo stesso ha smesso di esserlo. Manca la visione in prospettiva, non viene valorizzato il percorso che ha compiuto, la traiettoria, la parabola, l’evoluzione. Il titolo accademico significa che non solo, sono stato capace di scontare la mia pena, ma anche di riflettere criticamente sul mio passato. Le testimonianze nei vari incontri/convegni ecc. rappresentano una presa di distanza pubblica, e una attività di prevenzione, e che la propria vicenda è ancorata nel lontano passato. Di aver reciso ogni collegamento. Tra Università e Magistratura di Sorveglianza sembra che manchi una sinergia tale da superare i vari ostacoli burocratici. Il 70% della recidiva sta a significare che così il sistema carcere non funziona. Le criticità sono segno di inciviltà? Formazione e lavoro detenuti: accordo Dap con Webuild di Marco Belli gnewsonline.it, 14 settembre 2023 Nuovi percorsi di formazione professionale e avviamento al lavoro in favore dei detenuti. Saranno presto attivi grazie alla collaborazione fra Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e il Gruppo Webuild, multinazionale specializzata nella realizzazione di grandi infrastrutture complesse. È quanto prevede il protocollo d’intesa sottoscritto oggi dal Capo del Dap Giovanni Russo e da Pietro Salini, Amministratore delegato dell’azienda. Presente al momento della firma, nella sede romana della multinazionale, anche il Sottosegretario alla Giustizia con delega alle attività trattamentali della popolazione detenuta, Andrea Ostellari. L’accordo, che avrà la durata di un anno, darà vita a un progetto di formazione professionale all’interno o all’esterno degli istituti penitenziari, finalizzato ad ampliare le opportunità di impiego dei detenuti nel campo delle attività del Gruppo Webuild. L’azienda si occuperà di formare professionalmente i detenuti selezionati dal Dap fra quelli in possesso di specifiche attitudini e con fine pena breve. Al termine del percorso di formazione, laddove esistano le condizioni saranno assunti nei cantieri delle società collegate al gruppo imprenditoriale. Esprime soddisfazione il Capo del Dap: “La possibilità di accedere a un lavoro o comunque a una formazione professionale che possa portare a una occupazione, in carcere o una volta espiata la pena, costituisce una - se non la principale - leva per raggiungere l’obiettivo del recupero del detenuto e del suo reinserimento nella società. In questo consiste la mission del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, in ossequio a quanto previsto dall’art. 27 della nostra Costituzione. E oggi ringrazio il Gruppo Webuild - conclude Giovanni Russo - per aver accettato di condividere con noi un percorso comune e un importante investimento nel sociale”. “Come grande azienda di sistema, Webuild è chiamata ad interagire con un ruolo sempre più ampio con istituzioni, aziende, società civile. Con la firma di oggi, vogliamo creare nel settore nuove opportunità di reinserimento nella società civile per chi vive il carcere, cercando di combinare il supporto a chi necessita di nuove opportunità professionali con lo sviluppo del Sistema Italia delle Infrastrutture. L’assunzione di personale anche non qualificato, insieme ad un piano di investimenti in formazione, è fondamentale per creare una società sempre più coesa oltre che per l’attuazione del PNRR, per garantire una crescita duratura ed equa”, ha dichiarato Pietro Salini, Amministratore Delegato del Gruppo Webuild. “Il lavoro in carcere contribuisce ad assicurare una maggiore armonia nelle sezioni, garantisce un’opportunità di rieducazione del detenuto, abbatte il tasso di recidiva. Ringrazio Webuild, un altro partner che si affianca al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria per migliorare la qualità dell’esecuzione penale e quindi il livello di sicurezza del nostro Paese. Lavoro e formazione negli istituti penitenziari non sono un premio, ma lo strumento più utile per il recupero delle persone e il contrasto dell’illegalità, dentro e fuori dalle carceri”. Così il Sottosegretario Andrea Ostellari ha salutato la firma dell’intesa. Decreto Caivano. Che pena quelle pene ai ragazzi di Eraldo Affinati* L’Unità, 14 settembre 2023 Sanzionare i genitori che non iscrivono i figli a scuola non risolverà il dramma degli adolescenti smarriti. Come mi capita di dire spesso, anche il peggior scolaro compie comunque un passo in avanti rispetto alla famiglia da cui proviene. I recenti provvedimenti del Governo, successivi ai tragici eventi di Caivano e Palermo, dall’impronta palesemente repressiva, hanno aperto un dibattito di grande rilevanza in tutto il Paese, specie per quanto riguarda il mondo della scuola, da sempre il baricentro imprescindibile di ogni azione riformatrice, visto le ripercussioni che qualsiasi cambiamento determina nelle famiglie, nell’educazione dei ragazzi, specie di quelli fragili, in sostanza nella formazione della coscienza nazionale. In molti, pur ammettendo la necessità di una presenza costante delle Forze di Polizia nei territori più devastati del Meridione, hanno sottolineato il rischio di un intervento unicamente punitivo: non basterà certo inasprire le pene per veder scomparire i reati, specialmente se questi nascono in ambienti culturalmente poveri e degradati. Chiudere i centri di spaccio a cielo aperto resta fondamentale, ma certo, se ci limitiamo a questo, non possiamo illuderci di non vederli rinascere in breve tempo a qualche chilometro di distanza ancora più frenetici e attivi. A meno che non si voglia intraprendere una vera guerra alla camorra, cosa mai fatta, mettendo in conto una lacerazione sociale che qualsiasi esecutivo sarebbe incapace di gestire. Sanzionare i genitori che non iscrivono i figli a scuola può sembrare una misura opportuna, ma in prospettiva non risolverà il dramma degli adolescenti smarriti e privi di appoggio, dal momento che, come mi capita di dire spesso, partendo dalla mia quarantennale esperienza di docente di lettere negli istituti tecnici e professionali, il peggior scolaro compie comunque un passo in avanti rispetto alla famiglia da cui proviene. Spedire dietro le sbarre i giovani criminali a qualcuno potrà sembrare sacrosanto, ma io i ragazzi veramente irrecuperabili li ho visti solo in carcere. In qualsiasi altro luogo li incontrassi percepivo, anche nei più ribelli e indisciplinati, una scintilla di speranza. A Casal del Marmo, al Cesare Beccaria, al Ferrante Aporti, assolutamente no. Me lo dicevano in faccia: professore, noi appena usciamo torniamo a rubare. Non abbiamo altra scelta. Allora poniamoci una domanda: in questi casi lo Stato ha vinto o perso? Nell’immediatezza delle tremende violenze giovanili che abbiamo registrato contro ragazzine indifese, numerosi osservatori hanno invocato l’oscuramento dei siti pornografici ma appena i tecnici hanno provato a mettere mano alla questione, ci si è resi conto della sostanziale impossibilità di fermare la rivoluzione digitale, anche nei confronti dei bambini, i quali, specie nelle zone di cui stiamo parlando, sono in costante contatto coi più grandicelli. Detto ciò però la spina resta incisa nella nostra carne. Sarebbe troppo facile fare l’elenco delle buone intenzioni mentre la foresta brucia: dobbiamo agire in modo preventivo trasformando la scuola in un centro vitale di aggregazione, cellula propulsiva del rinnovamento, coi locali sempre aperti, il personale specializzato, gli sportelli di consulenza, le associazioni del Terzo Settore in grado di collaborare, insieme alle parrocchie e alle agenzie educative, i volontari che convincono i bimbi a non abbandonare l’aula, gli assistenti sociali pronti a entrare nelle case per individuare le mele marce, i consigli di classe che agiscono in sintonia fra di loro. Come dubitarne? La strada maestra da percorrere passa attraverso il coinvolgimento diretto dei ragazzi migliori da formare come modelli di riferimento per quelli più disastrati. È lì che dovremmo investire le energie. Eppure ogni qual volta accadono eventi come quelli da cui siamo partiti abbiamo la sensazione di avere fallito. A mio avviso bisogna dichiararlo con più forza di quanto facciamo. Prendere atto che molte azioni di recupero, pur meritevoli, non hanno modificato granché la condizione di scoramento da cui nascono certi gesti estremi. Erano troppo estemporanee e poco strutturali? Gocce di miele nell’oceano di petrolio? Lo sappiamo fin troppo bene: un insegnante, per quanto bravo e carismatico, se viene lasciato da solo, privo del sostegno corale delle istituzioni, invischiato nel groviglio delle mansioni da svolgere, è destinato a non incidere come dovrebbe. Magari non è sempre così, tante piccole vittorie quotidiane non fanno notizia. Ma i territori abbandonati esistono eccome: basta andare a Castel Volturno per comprenderlo appieno, in quella che mi è capitato di definire “una striscia di Gaza italiana”. Nascere e crescere sulla via Domiziana significa portare sulle spalle un fardello non indifferente. Vuol dire che dovremmo rinunciare a lavorare in profondità e, invece di ricostruire la vegetazione distrutta, usare il pugno di ferro? Sarebbe questa la nostra vera sconfitta. *Articolo pubblicato sul sito della Cisl scuola, intitolato “Non basta inasprire le pene per veder scomparire i reati” I numeri della delinquenza minorile mostrano che la mancata integrazione è un’emergenza di Gianni Balduzzi linkiesta.it, 14 settembre 2023 Tra i ragazzi più della metà dei detenuti è straniero, e per chi non è italiano le pene sono più severe. Ma nelle carceri non ci si possono aspettare miracoli di umanità come in “Mare Fuori”. I reati dei minorenni sono in crescita rispetto agli ultimi anni, ma non rispetto allo scorso decennio. È ciò che emerge dalla lettura dei dati ufficiali, ovvero quelli dell’Istat, del Ministero dell’Interno e della Polizia di Stato. Nel 2022 secondo quest’ultima sono stati 33.723 gli arresti e le denunce che hanno coinvolto gli under-18. Vi è stato un aumento del 13,8% rispetto al 2019, prima della pandemia, ma se il paragone è con la metà degli anni Dieci non si scorge un peggioramento: nel 2015 fu superata quota trentacinquemila, mentre nel 2016 denunce e arresti furono circa settecento in più dell’anno scorso. Vale la pena inquadrare la questione anche da un punto di vista generale per comprendere l’impatto sul tema sicurezza nella sua totalità: parliamo di poco più di trentamila casi su circa ottocentotrentunomila complessivi, la stragrande maggioranza dei quali, quindi, riguarda gli adulti. Questo ci dice innanzitutto che quello dei reati dei minori è un problema soprattutto per i suoi protagonisti, i ragazzi che delinquono, che in questo modo finiscono ai margini della società, più che per la tranquillità della comunità. Guardando la situazione più nel dettaglio si scopre dalle statistiche Istat e del Ministero dell’Interno come siano in calo denunce e arresti per reati legati agli stupefacenti o ai furti. Non vi sono dati del 2022 ma il chiaro andamento di riduzione era iniziato ben prima del Covid. Questo dovrebbe fare comprendere come non esiste alcuna emergenza legata allo spaccio da parte dei minori, nonostante l’esecutivo abbia deciso di aggravare pene che vengono inflitte per questo reato. Lo stesso non si può dire, però, per crimini violenti come le lesioni (incluse le percosse) e le rapine. In questo caso il leggero aumento pre-Covid si è trasformato in un deciso incremento dopo la pandemia. Nel 2022 vi sono stati 3.771 minori incriminati per lesioni, il trentaquattro per cento in più di dieci anni prima, e 2.968 per rapine, il sessantuno per cento in più che nel 2012. Il tutto è accaduto in concomitanza con una certa stabilità dei dati riguardanti gli adulti. Per fortuna invece rimangono piuttosto marginali e sono in calo numeri sugli omicidi, i tentati omicidi e gli attentati. Non siamo dunque il Venezuela o Tijuana, ma, certo, un problema è presente. Come reagire? Con più carcere? In realtà Eurostat ci dice che l’Italia è già tra i Paesi europei in cui vi sono più minorenni nel sistema detentivo, 12,99 ogni centomila abitanti nel 2021. Naturalmente quelli che l’istituto di statistica europeo chiama prisoners non sono per forza dietro le sbarre. Negli Istituti Penali per Minorenni (Ipm) secondo il più recente report di Antigone ve ne sono solo trecento ottantadue. La maggioranza è sottoposta a pene alternative, come per esempio gli arresti domiciliari o la permanenza in comunità. Nel complesso parliamo di 1.215 ragazzi e ragazze. Solo in Polonia tra i Paesi esaminati ve ne sono di più in valore assoluto. Nel passato l’Italia era lontana da tali primati. Nel 2011, nonostante i minori nel sistema detentivo fossero di più, 14,22 ogni centomila abitanti, i dati italiani erano in realtà inferiori a quelli di altri Paesi che oggi superiamo, come la Spagna. Nel tempo in alcuni Stati vi è stato un netto calo del ricorso a misure detentive di vario tipo, in Italia no. È interessante il fatto che, invece, nel caso degli adulti la proporzione di detenuti sia sempre stata nel nostro Paese inferiore a quella presente in realtà importanti come la Francia e la Spagna. Che fare, dunque? Posto che di ragazzi già puniti in vario modo non ve ne sono pochi, e sono mediamente più che altrove, la soluzione sarebbe, per esempio, spostarne di più dalla comunità al carcere vero e proprio? Antigone, che pressoché inascoltata raccoglie da molto tempo dati dettagliati sul tema, mostra una realtà molto peculiare che non si può ignorare se si vuole comprendere le ragioni del fenomeno e quindi le possibili azioni da intraprendere: gli stranieri rappresentano il 51,2 per cento di quanti entrano negli Ipm, è una cifra enorme in confronto alla presenza di immigrati nel nostro Paese. È chiaro come più le pene sono severe più sono coinvolti quanti provengono dall’estero (anche se qualcuno in realtà è nato in Italia): sono infatti meno, il ventidue per cento, tra quelli genericamente in carico ai servizi della giustizia minorile e il 38,7 per cento se consideriamo quelli collocati in comunità. Arrivano addirittura al settanta per cento nel caso in cui dopo l’arresto vi sia l’applicazione della custodia cautelare in carcere. A proposito di custodia cautelare, più del sessanta per cento di quanti stanno negli Ipm deve ancora ricevere una sentenza definitiva, il 28,7 per cento è addirittura in attesa di un primo giudizio. Questi numeri ci dicono che non vi è tanto un problema di percezione della possibilità di punibilità da parte dello Stato, visto che si tratta in molti casi di minori che hanno pochissima conoscenza del sistema giuridico in cui si trovano, né gioca un grande ruolo la famiglia, che spesso non esiste, come dimostra il fatto che tanti stranieri neanche possono essere posti agli arresti domiciliari. Per il Governo, così come per molti altri, è molto comodo atomizzare l’origine del comportamento criminale, pensare che possa provenire da considerazioni dell’individuo o dalla famiglia, ma qui siamo evidentemente di fronte a enormi problemi di integrazione di giovani stranieri i quali, che siano in Italia da poco o da molto tempo, ci rimarranno, e lo sappiamo. La realtà è che integrarli è maledettamente difficile, non abbiamo neanche grandi esempi disponibili all’estero da utilizzare, non ci sono ricette pronte. Possiamo però avere il sospetto che limitarci a gettarne ancora di più nelle carceri minorili, quelle vere, in cui non accadono miracoli di umanità come in “Mare Fuori”, peggiorerà ulteriormente la situazione, perché nel curriculum di ogni capo-banda un passaggio dietro le sbarre c’è sempre. Caivano, ecco perché la scuola non basta di Mario Fillioley La Stampa, 14 settembre 2023 Il cambiamento sociale deve partire dai redditi e dal benessere economico. Chiedere i miracoli all’istruzione non è mai stata una strategia efficace. C’è una parte del decreto Caivano che prevede di punire con la detenzione i genitori che non mandano i figli a scuola. Tra i compiti di chi come me insegna alle scuole medie c’è quello di segnalare i ragazzi a rischio abbandono, proprio per prevenire la dispersione scolastica: si monitorano le assenze, se è il caso ci si informa sui possibili motivi, si convocano le famiglie a scuola, si scoprono delle cose. Si scopre per esempio che uno dei motivi per cui i genitori di un ragazzo in dispersione non si occupano di accompagnare il figlio a scuola è che stanno in galera (bisogna ammettere che come scusa è buona). A volte uno, a volte addirittura tutti e due: la mamma ai domiciliari, il papà proprio in galera. L’idea di punirli con ulteriore galera forse è un po’ ridondante, però ha di buono che è a costo zero: sono già là, non c’è manco bisogno di mandarceli. In generale, sembra che i ragazzi smettano di andare a scuola per gli stessi motivi per cui smettevano di andarci a metà Novecento: che ci vado a fare? Perdo solo tempo, meglio se mi dò da fare e cerco di contribuire all’economia famigliare, mi guadagno qualcosa coi lavoretti a nero o con qualche lavoretto delinquenziale, oppure rimango semplicemente a casa a non fare nulla, così pure se non guadagno niente dò meno fastidio (nessuno deve accompagnarmi, venirmi a riprendere ecc.) e riduco i costi (libri, quaderni, zainetti, astucci, righelli, autobus, vestiti). Ora, a scuola tematizziamo tutto, in continuazione, a livello ossessivo: quasi tutti i giorni del calendario scolastico sono occupati da giornate tematiche dedicate agli argomenti più disparati, la violenza sulle donne, il cyberbullismo, la violenza minorile, la lotta alle mafie, la prevenzione dalle dipendenze e dalle droghe, l’ecologia, i libri e la lettura, la memoria, l’autismo, ci sono incontri con la polizia postale e con esperti di ogni genere, e poi giornate trascorse insieme a scrittori, giornalisti, attori, musicisti, imprenditori, influencer. Tutta questa specie di catechismo funziona? No, e ce ne accorgiamo quando capita qualcosa di eclatante: lo capisco, succede anche a me, guardo un telegiornale, leggo un articolo, mi brucia l’anima, urlo alla mia famiglia: Ma la scuola niente fa? E a quel punto i miei mi rispondono: e che ne sappiamo noi? Diccelo tu: che fate a scuola? Ah, già, penso, è vero, a scuola ci sono io. Che faccio io a scuola? Io più che altro cerco di insegnargli a distinguere tra predicativo del soggetto e predicativo dell’oggetto, penso. E mi sento in colpa. Forse allora “La scuola!”, quando succede qualche patatrac, ce la dobbiamo cominciare a immaginare tutti quanti come un punto di arrivo, e non come un punto di partenza. Magari è proprio così che fanno all’estero, dove i complementi predicativi li trovano in un attimo: all’incontrario di come facciamo noi qua. Vediamo. Dove si trovano le scuole migliori? Nel Nord Europa, cioè nei Paesi dove c’è un senso civico sviluppato, c’è (o almeno c’era, c’è stato per tanto tempo) un welfare molto sviluppato, e un tasso di delinquenza piuttosto basso: Danimarca, Finlandia, Paesi Bassi, Norvegia, Belgio, Austria, Svizzera (ultimamente si delinque di più anche da quelle parti, ma è abbastanza una novità, dice Ocse, al punto che Paesi come per esempio Svezia e Danimarca hanno scoperto solo adesso di non avere nel loro codice penale reati come quello di associazione per delinquere). Perché in quei Paesi si delinque (o quantomeno si delinquiva) poco? Boh, i motivi per cui si delinque sono un mistero dalla notte dei tempi, la teodicea, i beati paoli, ostro mastrosso & calcagnosso, il vaso di Pandora, che ne sappiamo? Al limite possiamo vedere se c’è qualche correlazione con il reddito e Ocse dice che in effetti c’è: dove c’è meno povertà c’è meno delinquenza, vale per gli Stati come per i quartieri. A voler andare per euristiche, tanto per sapere da dove bisogna partire, forse potremmo dire che se vogliamo una scuola che incida davvero sulla società, eliminandone progressivamente le sacche di ignoranza e di violenza, dobbiamo concentrarci sull’innalzamento del reddito medio. Potremmo anche tenere conto del fatto che c’è stato un periodo in cui lo abbiamo fatto, è già successo, proprio da noi, a casa nostra nel profondo Sud, nemmeno tantissimo tempo fa. La mia città, Siracusa, ha avuto un incremento notevolissimo del grado di istruzione guarda caso in concomitanza con l’arrivo del vituperato polo petrolchimico: tra la metà degli anni cinquanta e la metà degli anni sessanta, i nostri nonni e i nostri genitori passarono dall’essere contadini all’essere operai, fecero cioè un grosso passo in avanti sia come reddito che come stabilità economica, la nostra provincia si riscattò da una miseria atavica (tra i sostenitori del polo petrolchimico in Sicilia c’era Leonardo Sciascia), e Siracusa fece addirittura da richiamo, arrivò manodopera da molte altre province siciliane, vicine e meno vicine. Conquistato il miglioramento economico, i nostri nonni e genitori mandarono i figli a scuola, a diplomarsi, a laurearsi. Diminuì la microcriminalità e diminuì quella minorile, e il livello medio dell’istruzione aumentò (ci sono le serie Istat che sono così belle che viene voglia di farci un quadretto e tenerselo appeso in classe). Andò così un po’ in tutta Italia: l’innalzarsi del reddito in seguito al boom produsse un innalzarsi dell’istruzione. Meno poveri i genitori, più istruiti i figli, meno delinquentelli e meno violenti in giro, circolo virtuoso. Chiedere alla scuola di fare da motore immobile, di essere il propulsore del cambiamento sociale, a quanto pare non è una strategia così efficace: la scuola può coadiuvare e potenziare un cambiamento che prima di tutto dev’essere economico, devono cioè migliorare in generale i tassi di occupazione di certe aree del Paese e si devono alzare i redditi bassi, per fare sì che migliorino le condizioni abitative e di vita delle famiglie, e la scuola si trovi per conseguenza a fare principalmente la scuola, cioè a dedicarsi ai suoi due nuclei fondamentali: i complementi predicativi e il miglioramento della capacità di intendere e di volere dei ragazzi. Dei predicativi si parla sempre troppo poco, sulla capacità di intendere e di volere, invece, uno dei ministri di questo governo ha dichiarato che un ragazzo italiano, a quattordici anni la possiede già: “Possiede già la capacità di intendere e di volere” e dunque è imputabile. Sulla capacità di intendere di un quattordicenne sappiamo pochino, ma su quella dei tredicenni ne sappiamo a pacchi, abbiamo delle vere e proprie evidenze scientifiche: i test Invalsi. I test Invalsi dicono che, specialmente al Sud Italia (e Caivano è Sud Italia), parecchi studenti hanno difficoltà a comprendere un testo scritto (su quanti siano questi studenti in difficoltà è in corso un dibattito, ma anche stando alle stime più basse siamo intorno al 30%). Se per capacità di intendere si intende quella di capire cosa c’è scritto in un testo, direi che a tredici anni ci sono ancora difficoltà, spesso anche notevoli. Può darsi che a quattordici siano già risolte, il ministro potrebbe avere ragione, in fondo non è sempre durante l’estate che i ragazzi si innamorano dei complementi predicativi? La sottile intercapedine tra legalità e welfare della camorra in cui si deve scegliere di Maurizio Crippa Il Foglio, 14 settembre 2023 A Caivano non mancano i denari, né lo Stato. Ma la scelta di rompere il familismo asociale. Caivano, il carcere duro dovrebbero darlo a chi l’ha edificato, orrendo com’è. E due anni anche ai genitori che l’hanno mandato a scuola, l’architetto maledetto. Quindi ok, per fare un decreto Caivano bisogna essere più fessi che nemmeno nazisti. Poi però si deve passare alla domanda successiva, se non si voglia fare la figura dei furbetti del commentino: sarà davvero tutta colpa che “manca il welfare”, che “manca lo stato”? Risposta multipla: saremo un po’ distratti, ma bambini denutriti come nel Sahel non ne abbiamo visti, a Caivano. Né figli senza motorino (quella era una canzone di Jannacci), né tredicenni senza il quattrino per il panuozzo e la nonna a casa a scofanare maccheroni. Né fratelli maggiori senza la card o il pezzotto per attivare Dazn quando c’è il Napoli. Caivano non è morta nel fango come Derna, basta parole. La scuola farà schifo ma c’è, l’ospedale farà schifo ma c’è. È welfare scassato, ma esiste. Non è il mancato welfare a trasformare i minorenni in professionisti della stesa e dello stupro. Ma quella che potremmo invece chiamare la cultura familista asociale. Abbiamo letto ieri don Gennaro Pagano, psicoterapeuta ed ex cappellano del carcere minorile di Nisida, un’autorità di conoscenza e di morale, dire “mi viene lo sconforto, perché lo Stato non può limitarsi alla repressione. Per essere competitivo con la camorra deve sostituirla nella funzione di supplenza che i clan si sono dati. A cominciare dal welfare”. E chi siamo noi per contestare? Se non per timidamente dire che c’è un’intercapedine tra welfare della camorra e welfare legale dove lo stato deve infilarsi, ma dove sono poi cittadini e famiglie che devono scegliere “il servizio”. Ma abbiamo letto ieri anche Mario Fillioley, scrittore e insegnante, sulla Stampa, affermare che non si può scaricare tutta l’ansia miracolistica del cambiamento sulla scuola, che miracoli non ne fa, bisogna invece “partire dai redditi e dal benessere economico”. E chi siamo noi per negare? Ma, appunto, minorenni denutriti non ne abbiamo visti. Il welfare c’è, la scuola pure. Un insegnante di Caivano guadagna come uno di Treviso: se non riesce a far funzionare la sua scuola, o è perché lavora meno bene, o è perché le famiglie non chiedono alla “sua” scuola di funzionare bene. Per gli ospedali, potremmo dire con le dovute cautele qualcosa di simile. Certo, lo stato non può pensare soltanto a creare nuovi reati, a sorvegliare e punire, “viene lo sconforto”. Ma lo stato fa quel che deve, tra cui rientra la prerogativa di sorvegliare e punire, se ci riesce. Don Maurizio Patriciello, parroco di Caivano, ha detto che i minorenni che delinquono “a 17 anni sono uomini scafati”, “ho sempre pensato che bisognerebbe abbassare la maggiore età dinanzi a reati gravi”, e che “il governo ha volto lo sguardo su questa realtà”. Don Patriciello, autorità morale e di sapienza pure lui, non don Nordio. Il resto lo dovrebbero fare i cittadini, le famiglie. Non è la bruttezza di Caivano, non è il welfare che manca, è una mentalità illegale, violenta, arcaica, che nessuno vuole spezzare. L’ex camorrista che vive a Scampia: “Con la pistola mi sentivo Dio, poi ho scoperto la lettura” di Valentina Baldisserri Corriere del Mezzogiorno, 14 settembre 2023 “Qui c’è abbandono. Serve più istruzione, non il carcere”. Davide Cerullo e la sua storia di riscatto. Oggi è uno scrittore e a Scampia aiuta i bambini a uscire dal buio con il suo “Albero delle Storie”. Era un camorrista ed oggi è uno scrittore e fotografo affermato. A 14 anni gestiva una importante piazza di spaccio a Scampia, oggi gestisce un progetto per i bambini di Scampia, l’Albero delle Storie. Ha trascorso l’adolescenza con le armi tra le mani, oggi sono i libri il suo pane quotidiano. È stata proprio la cultura, la lettura del Vangelo mentre da adolescente fu recluso a Poggioreale e poi di tanti altri libri, ad aver salvato Davide Cerullo, 48 anni di Scampia. La sua è una potente storia di riscatto. Un ex camorrista che ce la fa, che si sottrae ad un destino già scritto di vita criminale è già un eroe. Se poi l’ex camorrista (nel frattempo diventato autore di libri e fotografo) decide di dedicare la sua vita proprio ai giovani di Scampia, di quel territorio così difficile e “maledetto”, allora diventa un esempio. “La cultura è l’unica forma di salvezza. Per questo credo che le misure repressive di cui tanto si parla dopo i fatti di Caivano, servano a poco. Sono la soluzione più facile ma non quella utile” Davide Cerullo a Scampia gestisce insieme ad altri volontari l’Albero delle Storie, “un laboratorio di vita alternativa dove stiamo sostenendo il cambiamento” - dice. Un fazzoletto di terra nel quale i bambini possono trovare rifugio e “nutrirsi” di bellezza. “Certo, abbiamo bisogno di risorse per crescere, ora l’urgenza è avere degli insegnanti che seguano i nostri bambini. L’analfabetismo è un grosso problema”. Quello che fa è venuto a spiegarlo in Brianza, a Vimercate, ospite dell’associazione La corte dei Girasoli. “Giro l’Italia e incontro tante persone per spiegare cos’è Scampia e cosa facciamo noi per respingere il male - dice Cerullo - quando vado nelle scuole trovo grande ascolto nei ragazzi che hanno sete di sapere ma spesso sentono il vuoto dei tempi”. La metamorfosi di Nordio, al Ministero il sosia dell’ex pm liberale che ora invoca la repressione di Iuri Maria Prado L’Unità, 14 settembre 2023 Va bene la prevenzione, ma per stroncare il cancro della criminalità giovanile quel che ci vuole è la repressione, ha spiegato l’ex pm ed ex liberale. Il ministro Carlo Nordio ha ripreso la penna opinionista che aveva mollato affiliandosi al partito di Giorgia Meloni, il partito dei “garantisti nel processo e giustizialisti nella pena”, e sul Messaggero ha risposto agli insolenti che non omaggiano la portata liberale delle norme sui rave party, sulla caccia universale ai trasgressori della filiazione secondo protocollo Family Day e sugli schiavettoni ai quattordicenni. Ha spiegato (non è uno scherzo) che d’accordo la prevenzione, d’accordo l’educazione in famiglia, a scuola e in parrocchia, ma se assistiamo al dilagare di tanto crimine significa che tutta quella roba non ha funzionato e allora ci pensa il governo con il suo “bisturi”. Perché la criminalità giovanile, dice il ministro, è un “cancro”, e contro il cancro non c’è prevenzione che tenga. Ricorda (ripete, direi) la prolusione di un famoso poliziotto che dopo aver snocciolato i punti di emergenza della società in mano al disordine spiega che “Ad altri spetta il compito di curare e di educare, a noi il dovere di reprimere! Repressione è civiltà!”. Solo che era un film e il poliziotto era un attore, mentre lui, Nordio, è proprio vero: e pare che sia ministro della Giustizia, non un celerino. Ma la chicca offerta ai lettori dal Guardasigilli in rispolvero editoriale è ancora un’altra, eminente nel castone di amenità da cui gemma sconsolante come una pietosa rivelazione: e cioè che queste riforme non sono state rimuginate in proprio e infine regalate inopinatamente al Paese bisognoso di rastrellamenti e nuove fattispecie delittuose, macché. Al contrario, dice il ministro, “i provvedimenti rigorosi da noi adottati ci erano stati in gran parte suggeriti dai magistrati di Napoli” (nonché, aggiunge Nordio, da don Patriciello, e nemmeno qui si tratta di un film). Si prenda nota, dunque, del fatto che a certificare la bontà e l’appropriatezza delle misure propinate dal governo è la matrice parrocchial-togata che esse possono vantare, altro che balle: queste politiche sono state messe in campo previe debite consultazioni con gli ex colleghi magistrati e con i sacerdoti anti-baby gang (per il prossimo decreto chiede consiglio alle guardie giurate, ai buttafuori delle discoteche e al generale Vannacci). Abbiamo scritto più volte - perché ripetutamente, purtroppo, ve ne è stata occasione - che solo chi si era illuso sulle attitudini liberali di questo governo può dirsi oggi deluso nel vederle a dir poco inespresse, quando non contraddette da un lungo corteo di scelte opposte, nel concreto sviluppo della linea esecutiva di maggioranza. Né consola appartenere ai pochi che non si sono mai illusi e avevano odorato dall’inizio che in questa materia gli intendimenti di governo sentivano di corda e sapone, lo strumentario che una volta al dunque fa pulizia di tutta la chiacchiera sulla riforma in senso garantista e liberale della giustizia. Aver previsto l’andazzo è semmai ulteriormente sconsolante, come non piace constatare quanto fossero fondati i timori che l’azione del governo fosse ispirata a non irritare, quando non a compiacere senz’altro, le sensibilità reazionarie della magistratura militante. Certo - dobbiamo confessarlo anche noialtri smaliziati - fa trasecolare apprendere che per il ministro non è solo normale, ma pure motivo di vanto, aver in questo caso lavorato su diretta delega giudiziaria, coi “magistrati di Napoli” in posizione di suggeritori delle politiche educativo-carcerarie disciplinatamente recepite dal reatificio di Palazzo Chigi. Il problema sta peraltro nel fatto che mentre è facile aggravare di figure delittuose e pene e presidi sanzionatori un ordinamento che ne è già gravido ed è assuefatto ad agghindarsene, è invece difficilissimo scrostare poi quell’accumulo che lo indurisce diventandone parte integrante: si è fatto presto a far male, e si faticherà e si tarderà a porvi rimedio quando un po’ di ragionevolezza avrà fatto comprendere che si è commesso un errore. E nel frattempo, senza nessuna contropartita di presunta sicurezza, senza nessun riscontro di ordine ripristinato, a pagare saranno sempre le solite vittime: i diritti delle persone, ora anche in adolescenza, e questa loro residenza sempre più scassata, lo Stato di diritto sempre più incappottato di sbarre. Giustizia e Csm, riforma urgente. Corre la Commissione in Senato di Aldo Torchiaro Il Riformista, 14 settembre 2023 Tre tornate di audizioni a Palazzo Madama mentre alla Camera il procuratore antimafia Melillo apre a una stretta sulle intercettazioni. Intanto, in un palazzo romano, si discute dell’ipotesi di revocare la scorta a Valeria Grasso, imprenditrice antimafia. La riforma dell’ordinamento giudiziario e del codice dell’ordinamento militare è sotto la lente del legislatore. La Commissione giustizia del Senato - la cui composizione include dal 10 luglio anche il senatore Matteo Renzi - ha iniziato ieri un ciclo di audizioni di primo piano. Esperti ed autorità che contribuiscono a definire il perimetro delle riforme giudiziarie e iniziano a tracciarne il percorso. Il Disegno di legge 808 reca “Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale, all’ordinamento giudiziario e al codice dell’ordinamento militare” ed è quindi sotto la più ampia insegna che Palazzo Madama ha iniziato ad ascoltare le indicazioni di chi vive il sistema-giustizia più da vicino. Nella sessione di ieri sono stati auditi in quattro e oggi sarà la volta di altri due autorevoli interlocutori: il Procuratore capo di Perugia, Raffaele Cantone, e l’avvocato Domenico Bruno. Ad avviare i lavori, l’audizione del prof. Francesco Morelli, Associato di diritto processuale penale presso l’Università di Bergamo. Poi è stato audito il prof. Enrico Ambrosetti, Ordinario di Diritto penale presso l’Università di Padova. Quindi il Dott. Antonio D’Amato, Procuratore aggiunto della Repubblica presso il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere già componente del Consiglio superiore della magistratura. Infine il professor Vittorio Manes, Ordinario di Diritto penale presso l’Università di Bologna. Saranno tre in tutto le tornate di audizioni della Commissione Giustizia del Senato: oltre che sul dibattito in vista del documento conclusivo sulla riforma della giustizia, il Parlamento dovrà pronunciarsi sulle intercettazioni e sulle proposte su diffamazione e lite temeraria, sequestro degli strumenti elettronici (pc, telefonini e simili), sottrazione o trattenimento all’estero di minori, modifiche al reato di tortura, legittimo impedimento del difensore per motivi familiari, elezione del Csm e delinquenza minorile. Al via inoltre l’esame degli emendamenti sul ddl sull’estensione delle esenzioni e riduzioni delle spese giudiziarie previste per le cause di lavoro, per le procedure di recupero dei crediti dei professionisti e dei decreti sui compiti del Ministero del Lavoro relativi ai minori stranieri non accompagnati. Restano infine all’ordine del giorno i dieci testi di riforma della geografia giudiziaria, su cui c’è già una prima bozza di testo unificato predisposta dal relatore Rapani (Fdi), ma prima dovrebbero svolgersi, come spiegato prima delle ferie dallo stesso Rapani, alcune audizioni “di rappresentanti politici che tecnici del ministero della Giustizia per acquisire informazioni sulla situazione della geografia giudiziaria e sugli effetti della riforma del 2012 in merito all’efficienza dell’attuale organizzazione dei distretti giudiziari, sia degli enti territoriali che hanno chiesto il ripristino di alcune sedi soppresse”, oltre a “sopralluoghi per verificare la possibilità di ripristino di queste sedi”. Non è solo Palazzo Madama a studiare il faldone della riforma della giustizia: di pari passo, a Montecitorio si esamina la materia incandescente delle intercettazioni. E per parlarne è intervenuto ieri in Commissione giustizia il Procuratore nazionale antimafia, Gianni Melillo. La sua ostilità al Far-west delle captazioni selvagge gli è valsa più di una reprimenda da parte di qualche celebrity televisiva tra i procuratori antimafia. Ha ribadito la sua posizione sulle intercettazioni: “Vi è la necessità di un intervento legislativo per limitare la discrezionalità giudiziaria correlata a clausole generali che devono essere sostituite da rigorose e tassative prescrizioni legali”, ha detto Melillo. Il Procuratore nazionale antimafia ha aggiunto: “È sempre pericoloso che la delimitazione delle aree di applicazione delle garanzie processuale sia affidata all’interpretazione del giudice al di fuori di una griglia rigorosamente delimitata”. Mentre Melillo parlava a Montecitorio, a Palazzo Giustiniani, sede di rappresentanza del Senato, su iniziativa del senatore di Fdi Marco Scurria, la sala Zuccari ospitava la presentazione del libro “Mafia una donna contro. Testimone di giustizia: una scelta difficile”, con la sua autrice, Valeria Grasso. La Grasso è l’imprenditrice palermitana la cui denuncia ha fatto arrestare esponenti di spicco del clan siciliano Madonia ed è tutt’oggi sotto protezione. Ma proprio parlando del libro, che l’autrice porta nelle scuole di tutt’Italia, che il generale dei Carabinieri, Giuseppe Fausto Milillo, rivela una voce, un rumors che sta prendendo corpo: ci sarebbero problemi per continuare a garantire la scorta fuori dalla Sicilia all’imprenditrice antimafia. “Proprio oggi, mentre siamo qui, in un altro palazzo della Capitale stanno decidendo se confermare o togliere la scorta fuori dalla regione Sicilia a Valeria Grasso. Vi ricordo che la mafia non ha confini. Colpisce dove vuole”. Anche nelle aule di via Arenula e in quelle di Palazzo dei Marescialli, sede del Csm, la giornata è stata intensa. La Sezione disciplinare del Csm ha sospeso dalle funzioni e dallo stipendio il “giudice-poeta”, il magistrato del tribunale di sorveglianza di Perugia Ernesto Anastasio, che ha accumulato un arretrato di 858 fascicoli e che da dieci anni subisce contestazioni per i suoi ritardi. “È un magistrato che sostanzialmente rifiuta il lavoro”, “gettando discredito sull’intera amministrazione giudiziaria” si legge nell’ordinanza che ha accolto la richiesta della procura generale della Cassazione. L’intervento serve a evitare “ulteriore grave pregiudizio” ai diritti dei detenuti e al funzionamento del tribunale di sorveglianza di Perugia. Lontano dai pregiudizi sembra volersi tenere anche quel giudice del tribunale di Brescia al quale era stato assegnato un caso di maltrattamento in famiglia. Sul banco degli imputati, un uomo proveniente dal Bangladesh per il quale il Pm ha chiesto l’assoluzione: “La compressione delle libertà morali e materiali della parte offesa da parte dell’imputato sono il frutto dell’impianto culturale e non della sua coscienza e volontà di annichilire e svilire la coniuge”, scrive il giudice. La prima assoluzione per tribalità di cui si abbia memoria, in Italia. Greco (Cnf): “Carriere separate, o il giusto processo è una chimera” di Valentina Stella Il Dubbio, 14 settembre 2023 “Giudice e pm siano estranei”, dice il vertice dell’istituzione forense. La Lumia e Gallo (Ocf): “Nessun attacco al pm”. Caiazza (Ucpi): “L’Anm eviti di mistificare”. Rappresentanze dell’avvocatura compatte ieri, in commissione Affari costituzionali alla Camera, a favore della separazione delle carriere. A essere audito per primo, il presidente del Consiglio nazionale forense Francesco Greco: “Oggi in Italia il processo si celebra tra due colleghi e un estraneo: i due colleghi sono il giudice e il pm, l’estraneo è l’avvocato difensore. Riteniamo sia indifferibile il momento della separazione in due ordini differenti tra magistratura giudicante e requirente. Se si vuole dare attuazione al principio del giusto processo, separare le due carriere è indispensabile. Il giusto processo deve passare attraverso la differente appartenenza a tre ordini diversi del giudice, che deve essere terzo, e delle parti del processo”, ha detto il vertice di via del Governo vecchio. Che si è soffermato anche su un’altra possibile riforma: “L’allarme lanciato sull’ipotesi del sorteggio per i togati del Csm, ritenuta un ostacolo all’individuazione dei migliori, non è fondato. Il sorteggio elimina il gioco delle correnti e consente ai due futuri organi di autogoverno di scegliere i migliori sulla base delle competenze e dei criteri manageriali. L’inefficienza del sistema giudiziario si supera solo con magistrati competenti. Non sarà la legge Cartabia a risolvere la crisi della giustizia, anzi la aggraverà. È indispensabile intervenire sull’organizzazione degli uffici giudiziari, e per fare questo occorre superare il gioco delle correnti”. Il presidente Greco è tornato quindi sul punto chiave dei ddl relativi alla separazione delle carriere: “Il rischio paventato che la magistratura requirente possa perdere il regime di autonomia e indipendenza non esiste perché nei sistemi democratici più avanzati magistratura giudicante e requirente appartengono a due ordini separati”. Successivamente sono stati auditi i rappresentanti dell’Organismo congressuale forense. È intervenuto innanzitutto Accursio Gallo, che dell’Ocf è segretario: “C’è allarme in chi vede nella separazione delle carriere un attacco al pubblico ministero. Non è cosi: l’indipendenza e il prestigio del pm non sono in discussione. Il ragionamento deve essere ribaltato: il problema è esaltare la figura di indipendenza del giudice, non attaccare il magistrato inquirente. Il cittadino non deve avere il minimo sospetto che le decisioni del giudice siano state inquinate da un rapporto di vicinanza con l’altro giocatore. Queste proposte di legge devono essere il primo passo di una riforma costituzionale o con legge ordinaria per far sì che il sistema finalmente funzioni”. “C’è chi parla di questi progetti di legge - ha aggiunto Antonino La Lumia, tesoriere dell’Organismo forense e presidente del Coa di Milano - come un cavallo di Troia per poi portare a uno scontro tra politica e magistratura”. Il riferimento è al documento licenziato dall’Anm nell’ultimo “parlamentino”. “Io non vedo alcun cavallo di Troia, vedo un ponte levatoio che stiamo calando per entrare nel cuore del giusto processo”, è la chiave con cui La Lumia rovescia la metafora. “Se c’è chi dice che la separazione delle carriere esiste già di fatto, non si spiega allora perché non si vuole arrivare a una determinazione costituzionale”. È quindi intervenuto il presidente dell’Unione Camere penali Gian Domenico Caiazza: “Le proposte di legge sono mutuate nella quasi totalità dalla nostra legge di iniziativa popolare che raccolse 72mila firme, la stessa relazione illustrativa è la nostra. Ne siamo orgogliosi, è la nostra battaglia politica. Il sistema a carriere separate è presente nella maggioranza dei Paesi civili e delle democrazie occidentali: Spagna, Portogallo, Germania, Svezia, Giappone. Sono tutti Paesi il cui sistema processuale è di tipo accusatorio. La riforma è legata al tipo di processo che si fa, in cui le parti devono essere ad armi pari di fronte al giudice, la cui terzietà deve essere affidata non alla sua virtù ma a una regola ordinamentale” . Il vertice dell’Ucpi ha poi proseguito: “Se ne parla, di questa proposta, come se fosse disturbante, mentre cerchiamo semplicemente di raggiungere altri Paesi. Mi auguro che i dibattiti parlamentare, mediatico e politico si liberino dall’ipoteca di questa inaccettabile mistificazione, per cui si continua a dire che questa riforma vuole sottoporre il pm all’esecutivo: questa imbarazzante argomentazione è la confessione dell’assenza di qualsiasi discorso serio, in quanto sanno tutti cosa prevede la proposta di modifica dell’articolo 104 della Costituzione che cito testualmente: “L’ordine giudiziario è costituito dalla magistratura giudicante e dalla magistratura requirente ed è autonomo e indipendente da ogni potere” “. Caiazza ha poi concluso: “L’Anm ora sostiene che la politica vorrebbe in realtà sottoporre indistintamente giudici e pm al proprio indiscriminato controllo. Ciò avverrebbe, tra l’altro, perché nei due Csm conseguenti alla separazione delle carriere la presenza dei componenti di parte politica è prevista come paritaria e non più minoritaria. Sarà bene che si sappia che questa proposta, avanzata tra gli altri da Giovanni Leone in sede costituente, fu a lungo dibattuta, per essere purtroppo infine accantonata”. Giudici onorari, Nordio: le risorse saranno nella prossima legge di bilancio di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 14 settembre 2023 Lo ha assicurato il ministro della Giustizia Carlo Nordio rispondendo al question time a un’interrogazione di Maurizio Lupi. “La condizione dei giudici onorari in Italia è da decenni - e uso un eufemismo - inaccettabile. Nella prossima legge di bilancio sarà inserita una disposizione che porrà finalmente una disciplina sia retributiva sia previdenziale nei confronti dei giudici onorari, che sarà quantomeno decorosa”. Lo ha annunciato il ministro della Giustizia Carlo Nordio rispondendo al question time a un’interrogazione di Maurizio Lupi. Nordio ha poi ricordato che “anche grazie alla meritoria opera del sottosegretario, collega Delmastro Delle Vedove è stato fatto un lavoro ormai compiuto e in conclusione, possiamo dire che i giudici onorari finalmente hanno avuto quanto loro spettava. Questo ovviamente è solo l’inizio”. “Le risorse finanziarie sono quelle che sono - ha aggiunto Nordio -, ma abbiamo avuto assicurazioni da parte del ministro Giorgetti che saranno trovate, o si farà di tutto, per trovare le risorse necessarie affinché questi operatori di giustizia essenziali proprio per il funzionamento della giustizia abbiano il trattamento che loro compete”. Per Nordio: “lo Stato ha trattato e tratta i giudici onorari in un modo che, se fosse rivolto verso dei lavoratori privati, esporrebbe l’imprenditore a tutta una serie di sanzioni”. Il Ministro ha poi proseguito: “I 5.000 e passa giudici onorari che esistono in Italia tengono in piedi il sistema, e per chi ci segue in televisione e magari non conosce quale sia la funzione dei giudici onorari, vorrei chiarire che oramai fanno le stesse cose che fanno i giudici togati, cioè i giudici di carriera. Esercitano anche funzioni monocratiche penali, vengono inseriti nei collegi penali, senza i quali - “tres faciunt collegium” - il collegio non funzionerebbe”. Nordio ha poi ricordato che dal punto di vista fiscale il Governo “ha posto fine all’incertezza interpretativa del regime fiscale dei compensi erogati ai magistrati, con la legge di conversione del 22 giugno del ‘23”, prevedendo “l’assimilazione ai fini fiscali di quei compensi al reddito del lavoro dipendente secondo la procedura semplificata, la legge 234 del ‘21, ed è stata individuata la gestione previdenziale alla quale i magistrati onorari devono essere iscritti, e ciò ha consentito alla competente articolazione ministeriale di corrispondere integralmente attraverso il servizio gestito dal Mef i compensi spettanti”. Rispondendo ad un’altra interrogazione di Enrico Costa sullo stato di attuazione della normativa in materia di tutela della presunzione di innocenza, il ministro ha ricordato che “il monitoraggio è già iniziato”. Sono state iniziate alcune azioni disciplinari - ha aggiunto - tre su esercizio della procura generale della Cassazione e una dell’Ispettorato” e si stanno “predisponendo correttivi alla legge”. “Una delle priorità di questo Ministero è stata la tutela della onorabilità e della riservatezza dei cittadini e della riservatezza delle comunicazioni”. “Ancora oggi - ha aggiunto - il nostro codice di procedura penale è estremamente ambiguo sul fatto che alcune comunicazioni perdano la loro segretezza, ma ciononostante non siano pubblicabili. In realtà la giurisprudenza, come sapete, ha interpretato questa norma nel senso che una volta che un atto non è più segreto anche se non è pubblicabile, quantomeno può essere divulgato. Ci sono state effettivamente delle violazioni di questa norma a suo tempo e non sono state esercitate azioni disciplinari, in questo momento- ha garantito il ministro - noi stiamo monitorando con grande attenzione queste eventuali violazioni così come stiamo predisponendo eventuali correttivi per eliminare le ambiguità di questa normativa”. Gratteri conquista Napoli ma spacca il Csm: “Votiamo un simbolo” di Simona Musco Il Dubbio, 14 settembre 2023 Al magistrato calabrese 19 voti, incluso quello del vicepresidente Pinelli, 5 voti ad Amato e 8 a Volpe. Ancora polemiche per le parole del procuratore sui colleghi “lavativi”. Partita chiusa: è Nicola Gratteri il nuovo procuratore di Napoli, l’ufficio giudiziario più grande d’Italia. Il magistrato forse più famoso al mondo, il più amato e al tempo stesso il più criticato, diventato simbolo mondiale della lotta alla ‘ndrangheta, approda nel capoluogo campano con 19 voti, tra i quali quello del vice presidente del Csm Fabio Pinelli, a seguito di una polemica infuocata, prima sotterranea, poi palese, sulla sua idea di giustizia. Una polemica deflagrata con la pubblicazione della sua audizione, con la quale aveva messo a fuoco il Gratteri-pensiero: una filosofia pericolosa, secondo alcuni, genuina, per altri, in un plenum diviso tra chi tentava di resistere alla pressione mediatica e chi, invece, ha deciso di farsene carico. Ed è stata proprio la grande aspettativa attorno alla sua figura - più che attorno alla nomina in sé - a fornire uno spaccato del dibattito pubblico sul ruolo dei capi delle procure, dibattito che l’indipendente Andrea Mirenda ha invitato a riaprire. Sono state le parole pronunciate da Gratteri in V Commissione a tenere banco, anche nella trattazione dei profili degli altri due candidati, il procuratore di Bologna Giuseppe Amato (che ha raccolto 5 voti) e il procuratore aggiunto di Napoli, nonché reggente, Rosa Volpe (8 voti). Al centro delle polemiche le accuse di pigrizia indirizzate a buona parte dei pm, il sospetto di “depressione” per i magistrati fuoriusciti dalla Dda, l’atteggiamento paternalistico nei confronti dei sostituti fino alla clamorosa confessione di aver invitato un magistrato, considerato poco adeguato, a scegliere un’altra procura, pena un parere sfavorevole. Ad alleggerire il peso delle parole del procuratore di Catanzaro ci ha provato la relatrice della proposta Gratteri, Maria Luisa Mazzola, che ha evidenziato come per lui non esistano “reati di serie A e di serie B”, ma solo i “reati”. “Al di là del tratto perentorio”, dunque, quello che emergerebbe è la vicinanza ai cittadini e il tentativo di stimolare tutti i sostituti, uno sforzo concretizzatosi negli ottimi risultati ottenuti a Catanzaro. Un modello, quello applicato in Calabria, che Gratteri ha annunciato di voler portare a Napoli ma non adeguato, secondo Antonello Cosentino, relatore della proposta Volpe, alla procura partenopea. Una soluzione di continuità, quella della magistrata, rispetto alla gestione Melillo, che ha ottenuto “il consenso assoluto di tutti, prima di tutto dei colleghi, che lo hanno manifestato pubblicamente, nelle maniere più visibili”, ma anche della “società napoletana”. Un’audizione “straordinaria”, la sua, evidenziata anche da Tullio Morello, apripista della polemica contro il Gratteri-pensiero. “Non condivido l’eccessiva enfasi che sta accompagnando questa nomina”, ha evidenziato il consigliere di Area, dal momento che “la legge distingue i magistrati solo per funzioni e per il Csm tutte le nomine devono essere uguali”. Invece così non è, se è vero, com’è vero, che ogni aspetto pratico della nomina è passato in secondo piano. Un discorso accorato, il suo, che al Csm ci è arrivato proprio da Napoli, una procura che “ha lavorato bene a detta di tutti, tranne forse solo per il dottor Gratteri, che ha evidenziato la necessità di interventi radicali. Io invece ritengo che quell’ufficio abbia bisogno di continuità”. Lì, ha detto, ci sono magistrati seri, “non depressi e lavativi” e “non c’è una polizia giudiziaria da “derattizzazare”, orribile termine ascoltato in quella occasione. C’è un valido dirigente amministrativo, figura di cui lui ha espressamente dichiarato di non volersi avvalere”. E a condividere l’analisi sull’eccessiva enfasi mediatica è stato Mirenda, che pur votando per Gratteri non si è sottratto dal fare un’analisi critica. Il clamore suscitato dalla nomina, ha sottolineato, è del tutto sproporzionato, essendo tutti e tre i candidati ottimi magistrati. Ma se Gratteri ha potuto pronunciare quelle parole, in sintesi, è perché è il sistema a rendere il procuratore un vero e proprio sovrano della procura. “L’evidente supremazia gerarchica del procuratore nel conflitto con il suo sostituto” è frutto di un “problema grave di cui non è responsabile Gratteri” e di fronte al quale né il Csm né l’Anm hanno fatto nulla. E ricordando di quando ha dichiarato che dopo aver fatto l’architetto non poteva più tornare a fare il muratore, chiarendo di rinunciare alla Calabria per continuare a fare il procuratore, ha chiesto: “Ma per caso qualcuno degli altri ottimi candidati è disposto a farlo? Allora, lode alla cruda e antipatica verità che accompagna le sue parole”. Per il resto, per guidare una procura “non serve l’unto del signore”: a Napoli la gestione Volpe - da tutti lodata - ha funzionato anche perché tutti i magistrati hanno collaborato. “La rotazione interna agli uffici risolverebbe le solite menate gestionali che affliggono il sistema italiano”, ha dunque evidenziato Mirenda. Ma “le gelide regole del legislatore” non consentono la nomina di Volpe. Per cui la scelta è ricaduta su Gratteri, “avendo la maggiore attitudine allo scopo, secondo la valutazione dei titoli” ma anche perché “simbolo” della lotta alla criminalità organizzata. A stigmatizzare le parole di Gratteri ci ha pensato anche Maurizio Carbone, di Area, secondo cui “quando c’è Gratteri la discussione diventa quasi un referendum”, una forma di “condizionamento che bisogna evitare”. Per non ignorare le “criticità” della sua audizione, dalla quale emerge la figura di un procuratore “padre-padrone che deliberatamente ammette di far a meno del dirigente amministrativo, si sbarazza di personale e polizia giudiziaria e anche degli aggiunti”. Un “uomo solo al comando” che svolge il proprio lavoro “alla ricerca di un premio, per quanto apprezzabile, alla propria carriera”. A difendere il magistrato calabrese ci ha pensato un conterraneo, Antonino Laganà, che con lui ha condiviso un pezzo di strada in Calabria. Dove c’è “un prima e un dopo Gratteri”: è grazie a lui, ha affermato, che è stata riconosciuta l’unitarietà della ‘ndrangheta. “Dove passa Gratteri arriva una rivoluzione di legalità - ha sottolineato -. La gente in lui ci crede ed è un dato oggettivo”. Ma la “visione” di Gratteri preoccupa l’indipendente Roberto Fontana, inizialmente propenso a votare per lui - “pur non convincendomi l’autopromozione mediatica”, anche alla luce delle critiche “rispetto ad un tasso di smentite giudiziarie” importante -, ma poi dissuaso dalla sua audizione, dalla quale è emerso un modello di ruolo del procuratore difficilmente applicabile a Napoli. Un dubbio, ha sottolineato, “condiviso anche da molti” che hanno votato per Gratteri, “perché ne abbiamo parlato, ma dicono che è importante mandare un messaggio fuori all’esterno”. Insomma: la gente si aspetta la nomina di Gratteri e non possiamo deluderla. “Un messaggio di politica giudiziaria”, ha sottolineato Fontana, che ha predicato prudenza, “perché rischiamo di scegliere i procuratori in funzione delle aspirazioni dell’opinione pubblica”. Un’aspettativa confermata da Bernadette Nicotra, di Magistratura Indipendente: “Voto Gratteri perché è un simbolo”, ha detto. A scegliere il magistrato di Gerace anche il procuratore generale Luigi Salvato e il vicepresidente Pinelli, che però ha evidenziato l’esigenza di affrontare i fenomeni di grave marginalità sociale non solo con “l’intervento repressivo che è e deve rimanere extrema ratio”, ma soprattutto con “l’intervento educativo”, in un sistema che tutela le “prerogative individuali di tutti i soggetti coinvolti, sia delle vittime sia degli indagati”, “nel rispetto della dignità delle persone”. Un invito alla cautela, insomma. Gratteri, il pm anti ‘ndrangheta che divide politici e colleghi. “Al lavoro senza orologio” di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 14 settembre 2023 Estraneo alle correnti e conosciuto anche all’estero. “La cosa importante è il coinvolgimento di tutti”. “Mi criticano perché vado troppo in televisione o vado troppo a fare convegni e conferenze e io rispondo: “Voi avete la barca e io non ce l’ho, voi andate in barca ad agosto e io vado a parlare nelle scuole o a presentare libri”. Ognuno col suo tempo libero fa quello che vuole”. Quando lavora, invece, “dal lunedì al sabato io sono allenato a fare cinque-sei-dieci riunioni in un giorno, entro la mattina alle 8,15 ed esco la sera, mangio pure in ufficio e mentre mangio c’è quello che viene a parlarmi e io gli dico “Dì tu che poi ti rispondo”, per abbattere i tempi. La Procura è questa, non puoi lavorare con l’orologio, io non ce l’ho”. Parlava così Nicola Gratteri, nel maggio scorso, al Csm che doveva scegliere il procuratore di Napoli, e ieri l’ha nominato a grande maggioranza: il fronte laico-togato di centro-destra compatto (Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia insieme a Magistratura indipendente) più qualche voto sparso. In quelle frasi c’è l’autoritratto del pubblico ministero anticrimine (e non solo antimafia) più noto d’Italia; per via delle indagini svolte sulla ‘ndrangheta in oltre trent’anni di lavoro, ma anche per i libri pubblicati a una media di uno all’anno, le interviste e le apparizioni in tv. Un magistrato conosciuto in tutto il mondo non solo per le inchieste che lo hanno portato in ogni continente, per i blitz da decine o centinaia di arresti, per i maxi-sequestri di droga, ma anche per la sua attività di conferenziere. Oltre trent’anni di lavoro serrato in Calabria - prima a Locri e Reggio Calabria dove divenne procuratore aggiunto, e dal 2016 come procuratore di Catanzaro - che gli hanno garantito popolarità e stima, e ora gli consentono di entrare nel club delle “grandi Procure”, quelle che contano. E che però gli sono pure valsi attacchi dall’interno e dall’esterno della magistratura. Ai quali lui ha sempre risposto a tono. “Ci sono diffamatori di professione, ma ci sono anche migliaia di persone a cui abbiamo dato speranza, e ora la gente denuncia. Io ho due o tre giornali che mi diffamano quotidianamente - ha detto ancora al Csm -, ma c’è una certificazione del 2022 dove si attesta che non c’è nessuna ingiusta detenzione, dal 2016, attribuibile alla Procura di Catanzaro. Ovviamente non posso rispondere ad avvocati, indagati o imputati agli arresti domiciliari che chiamano in Parlamento e dettano interrogazioni parlamentari”. Parole che hanno suscitato la protesta di alcuni deputati (di Italia viva, +Europa e Forza Italia), rimasta senza effetti nell’aula del Csm. In cui ha prevalso, traslato dalla maggioranza di governo, il significato legalitario e per certo securitario della nomina. In relazione al contrasto alla criminalità nelle sue varie forme (tornata d’attualità in questi giorni a Caivano), e per le idee più volte espresse dal neo-procuratore sulle carceri o altre questioni, o per i giudizi poco teneri sulle correnti della magistratura, alle quali è sempre stato estraneo. “Simbolo” della lotta al crimine e “vera essenza di servitore dello Stato che ha sacrificato la propria libertà personale”, l’hanno definito i sostenitori laici e togati. Sottolineandone le “attitudini” non solo alle indagini antimafia ma pure in quelle sulla pubblica amministrazione; e a Napoli e in Campania dove da anni governano Giunte appoggiate dalla sinistra, al centrodestra non può certo dispiacere un procuratore abituato a guardare in tutti i cassetti. La sinistra giudiziaria, raccogliendo qualche preoccupazione proveniente proprio dalla Procura (e dall’avvocatura, in verità), ha paventato il rischio di affidare l’ufficio inquirente più grande d’Europa (9 aggiunti e 102 sostituti) a un “capo-padrone” uso ad allontanare investigatori e collaboratori non graditi. Sebbene lui stesso abbia spiegato al Csm di sapere e volere fare il gioco di squadra: “La cosa importante è il coinvolgimento di tutti, se dobbiamo lavorare un punto di incontro sull’indagine lo troviamo, l’importante è che tutti devono lavorare. L’unica cosa che non consento è che nell’ufficio ci sia un venti per cento di magistrati che non lavora, che qualcuno arrivi in ufficio alle 10 di mattina, o che arrivi martedì mattina e se ne vada giovedì pomeriggio. Questo non lo consento a nessuno”. Sembra di sentire la premier Giorgia Meloni quando ha detto ai suoi parlamentari: “So chi di voi lavora e chi no, chi sostituisce i colleghi in commissione e chi sta sempre con il trolley in mano, quando voi avete fatto una cosa io ne ho già fatte due”. Invece è il nuovo procuratore di Napoli. La lezione della Corte Ue sulle intercettazioni che l’Italia dovrebbe finalmente apprendere di Giuseppe Benedetto* Il Dubbio, 14 settembre 2023 La Corte di Giustizia della UE (nella causa C-162/22) pochi giorni fa ha affermato un principio di grande civiltà giuridica negando che possano essere utilizzate al di fuori del processo penale le captazioni di comunicazioni telefoniche, intercettazioni e registrazioni eseguite nell’ambito di un’indagine penale. Secondo questa pronunzia, lo Stato lituano ha violato il diritto comunitario per aver utilizzato nel procedimento disciplinare avviato nei confronti di un magistrato sospettato di corruzione, le intercettazioni disposte nell’ambito dell’indagine penale a carico di quest’ultimo. Secondo la CGUE, infatti, le captazioni possono essere utilizzate solo all’interno di procedimenti penali perché, secondo l’art. 15 par. 1 direttiva 2002/ 58, il diritto alla riservatezza può essere sacrificato sull’altare delle intercettazioni solo ed esclusivamente in presenza di reati particolarmente gravi e, in ogni caso, mai per procedimenti disciplinari. Anzi, la Corte specifica altresì che, le intercettazioni acquisite nell’ambito di un procedimento penale non possono neppure essere trasmesse ad altre autorità a fini disciplinari perché “se è vero che le indagini amministrative vertenti su illeciti disciplinari o condotte illecite di natura corruttiva possono svolgere un ruolo importante nella lotta contro tali atti”, tuttavia “una misura legislativa che prevede siffatte indagini non risponde in modo effettivo e rigoroso all’obiettivo del perseguimento e della sanzione dei reati, di cui all’articolo 15, paragrafo 1, prima frase, della direttiva 2002/ 58, il quale riguarda solo azioni penali”. In Italia accade esattamente il contrario. La Corte di Cassazione, infatti, ha sempre ammesso in sede disciplinare l’utilizzo di intercettazioni disposte in un procedimento penale, persino a prescindere dall’esito di quest’ultimo. Si veda ad es. Cass. sez. lav. Ord. n. 36861/ 2022, che ha confermato il licenziamento disciplinare di un dipendente dell’Enel deciso sulla base di intercettazioni disposte in un’indagine penale a suo carico nonostante il fatto che poi tale indagine fosse alla fine sfociata in un’archiviazione. Ma v’è di più. In Italia in tema di intercettazioni la confusione regna sovrana posto che, in materia di art. 68 Cost., la stessa Corte Costituzionale a luglio ha dapprima accolto una visione, per così dire, “giustizialista” delle intercettazioni per poi nello stesso mese sposare viceversa una visione più “garantista” della libertà parlamentare. Con la sentenza n. 157/ 2023 (caso Ferri), infatti, il giudice delle leggi ha affermato che è lecito disporre una captazione anche quando il PM sia consapevole che, intercettando un indagato, probabilmente ascolterà anche un deputato ancorché totalmente estraneo all’indagine penale. La stessa Corte Cost. però, pochi giorni dopo, con la pronunzia n. 170/2023 (caso Renzi), ha dichiarato illegittimo, senza la previa autorizzazione del Parlamento, il sequestro di chat di un parlamentare rinvenute in un cellulare di un indagato. Con ciò ponendosi culturalmente in totale contrasto con la pronuncia n. 157/2023 poiché con la prima sentenza la libertà di comunicazione del parlamentare viene radicalmente sacrificata in favore dell’Autorità inquirente, mentre con la sentenza n. 170/2023, al contrario, le comunicazioni del parlamentare risultano pienamente garantite. Visioni sostanzialmente tra loro inconciliabili e che probabilmente spiegano anche l’assoluta anomalia rilevabile nel fatto che la prima sentenza ha visto una dissociazione tra il relatore della causa e il redattore della sentenza, con ciò evidenziandosi un profondo contrasto all’interno della Corte (si legge infatti nella sentenza: ‘ udito nell’udienza pubblica del 4 aprile 2023 il Giudice relatore Franco Modugno, sostituito per la redazione della decisione dal Giudice Stefano Petitti’). In conclusione, è evidente che il diritto italiano delle intercettazioni come interpretato dalla giurisprudenza è in parte in netto contrasto con il diritto dell’UE, mentre per altra parte, è del tutto privo di certezze, persino in materia di libertà e guarentigie parlamentari. E’ allora auspicabile che il Parlamento intervenga quanto prima, facendosi finalmente consapevole che oramai non solo la libertà del mandato parlamentare di deputati e senatori rischia di diventare un lontano ricordo, ma anche la stessa libertà dei cittadini è a rischio, come ho avuto modi di approfondire nel mio libro “L’eutanasia della Democrazia”. Genova. Detenuto ucciso dal compagno di cella nel carcere di Marassi di Giuseppe Filetto La Repubblica, 14 settembre 2023 Sia il morto che l’assassino sarebbero due ex clochard. La notizia confermata dalla Procura e da fonti interne alla casa circondariale. Il sindacato Uilpa solleva il problema della sicurezza dentro gli istituti di pena. Lo avrebbe ammazzato con il piede di un tavolino di legno, sfondandogli la faccia e la testa, mentre era ancora a letto, nella cella che entrambi condividevano. I due ex clochard - sia la vittima che l’assassino - a quanto pare non avrebbero litigato, al momento non si evidenzia una colluttazione, tantomeno una difesa. Il corpo ormai senza vita è stato scoperto dagli agenti della Polizia Penitenziaria stamani in tarda mattinata. Il deceduto si chiamava Roberto Molinari (di 58 anni), il presunto omicida Luca Gervasio (di 48). Il primo era originario di La Spezia, il secondo della Sardegna. Entrambi con vari precedenti penali, soprattutto per resistenza a pubblico ufficiale, erano stati messi nella stessa sezione dedicata a soggetti con particolari problemi. Non si conoscono le ragioni del gesto, si sa soltanto che i due sono due disperati, due che prima di finire in carcere erano senza fissa dimora. Gervasio non avrebbe confessato di essere l’autore del delitto: né al magistrato di turno (Gabriella Marino) che è arrivato a Marassi, tantomeno alla Polizia Penitenziaria che conduce le indagini fin dal primo momento. La notizia è stata data anzitempo dalla stessa Polizia Penitenziaria, poi è stata confermata dalla Procura di Genova. Stando a quanto riferisce l’Uilpa, uno dei sindacati della polizia penitenziaria, “gli agenti lo avrebbero trovato con evidenti tumefazioni sul volto e sul capo, tanto da far sospettare l’aggressione del compagno di cella, dunque, l’omicidio”. Anche se sono in corso ulteriori indagini e sul posto sta arrivando, sempre secondo quanto comunica l’Uilpa, il Provveditore dell’Amministrazione Penitenziaria. “Dopo quello del giugno scorso avvenuto nel carcere di Velletri - commenta il segretario generale dell’Uilpa, Gennarino De Fazio - se confermato si tratta del secondo omicidio nelle nostre carceri, che per il dettato costituzionale dovrebbero rappresentare il tempio delle regole e della risocializzazione ma che evidentemente si confermano palestre del crimine. Il morto di oggi si unisce ai 51 suicidi e ai 64 decessi per altre cause già avvenuti nel corso del 2023”. Roma. La Garante dei detenuti: “Chiudere Regina Coeli? Trasformiamolo in un carcere museo” di Simone Matteis fanpage.it, 14 settembre 2023 Il suicidio di un ragazzo di 21 anni a Regina Coeli riaccende i riflettori sulle condizioni degli istituti penitenziari a Roma, vittime del sovraffollamento e carenti di personale specializzato. Il punto con Valentina Calderone, garante dei detenuti di Roma. Due vittime in due dei principali istituti penitenziari del Lazio. È il bilancio, drammatico, dello scorso fine settimana: al Mammagialla di Viterbo un uomo è morto per un malore ed un altro è stato salvato dagli agenti mentre tentava di suicidarsi, a Roma invece un ragazzo di 21 anni si è tolto la vita a Regina Coeli mentre si trovava da solo in cella per il sospetto che fosse affetto da scabbia. Dopo aver raccontato la cronaca di quanto accaduto, facciamo il punto sulla situazione assieme a Valentina Calderone, garante dei diritti delle persone private della libertà personale della città di Roma. Due morti e un suicidio sventato solo nell’ultimo fine settimana: come si commentano fatti del genere? Commentare ogni suicidio in carcere è una sensazione di gigantesco fallimento per un sistema che non riesce a prevenire ma che, anzi, probabilmente amplifica il senso di disagio, soprattutto quando succede a una persona di vent’anni. Nel momento in cui c’è una così alta percentuale di persone che si tolgono la vita all’interno dei penitenziari rispetto a quanto poi succede per le persone libere, questo dato non può essere sottovalutato. Quali sono le cause di questi avvenimenti, divenuti ormai sempre più frequenti? Io punto il dito sull’amministrazione penitenziaria e su che cos’è l’organizzazione del sistema carcerario nel nostro Paese, che sicuramente bene non fa: sappiamo che i momenti più complicati per un detenuto sono i primi mesi dall’ingresso e, paradossalmente, quelli che anticipano l’uscita, perché la disabitudine a pensarsi al di fuori e a ricostruirsi una vita può generare momenti di grande stress che possono portare a decisioni estreme. Esistono poi gravi problemi di organico e una grande difficoltà ad attrarre risorse che abbiano voglia di lavorare all’interno del carcere: la carenza di personale è un grave tema per tutte le professioni mediche, che inevitabilmente si riversa anche sugli istituti penitenziari. Nei giorni scorsi il PD ha presentato al sindaco di Roma, Roberto Gualtieri, una mozione per valutare l’idea di chiudere definitivamente Regina Coeli, proprio in concomitanza con la decisione del Governo di inasprire le pene per i minori fino ai 14 anni d’età nell’ambito del tanto discusso decreto Caivano. Chiudere un carcere e, contemporaneamente, allargare la cerchia di coloro che possono entrarci: com’è possibile conciliare queste due visioni? Chiudere Regina Coeli e pensare di aprire delle caserme mentre ci si inventa nuovi reati: le cose sono inconciliabili. Il sistema penitenziario è al collasso e scoppia: carceri ultra affollate, in cui il malcontento e le tensioni aumenteranno a causa del ritorno ad alcune “strettoie” dell’era pre-Covid, come quelle sulla limitazione alle telefonate verso i propri familiari. D’altro canto, ne esce intaccato anche il sistema carcerario minorile che ci era invidiato da tutti i paesi europei perché riuscivamo a evitare nella maggior parte la carcerazione: insomma, uno sfacelo su tutta la linea. Cosa ne pensa, in definitiva, della proposta di chiudere Regina Coeli? Anche se sono consapevole delle sue forti criticità, penso che chiudere Regina Coeli non sia la cosa giusta da fare: la soluzione proposta non mi convince perché c’è bisogno di un ragionamento più complesso se vogliamo veramente arricchire il percorso di reinserimento delle persone. Credo, piuttosto, che sia importante mantenere Regina Coeli come un presidio culturale: le celle storiche di Pertini e Saragat potrebbero costituire il fulcro di una sezione museale con cui dare nuovo slancio vitale al territorio attorno all’istituto penitenziario, fondamentale per ricordarci che il carcere è parte integrante della nostra città. Ci serve per non dimenticarlo, ma riconosco come si tratti di una serie di valutazioni sempre un po’ faticose da affrontare collettivamente. Secondo i dati del rapporto Antigone, Regina Coeli conta una popolazione di 1009 detenuti a fronte di una capienza massima di 615: in attesa delle mosse della politica, cosa si può fare nell’immediato per migliorare le condizioni di vita dei detenuti? Fare uscire 15mila detenuti in tutta Italia che sono sotto i due anni di pena: bisogna evitare che il carcere sia la pena fino all’ultimo giorno e, soprattutto, bisognerebbe trovare dei modi un po’ più intelligenti per evitare il carcere a chi ha meno di due anni di pena proprio perché i detenuti che devono scontare una pena più breve non vengono praticamente neanche presi in considerazione data la carenza di personale e finiscono per restare nell’invisibilità. Come si può pensare di fare un lavoro mirato sulle persone avendone in carico 150? È impossibile e quindi vengono fatte delle scelte, che nella maggior parte dei casi derivano dal tempo a disposizione per impostare un percorso insieme. E chi non ha tempo aspetta che la sua condanna finisca, in totale abbandono. Frosinone. Il Garante dei detenuti visita il carcere dopo gli ultimi gravi episodi di Cesidio Vano tg24.info, 14 settembre 2023 “Farà incontri periodici con i reclusi”. Dopo gli ultimi due gravi episodi registrati nel carcere di Frosinone (il suicidio di un recluso di Ceccano e la tentata evasione di un detenuto sventata dalla polizia penitenziaria) il Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, Stefano Anastasia, ha visitato la casa di reclusione ciociara incontrando sia la direttrice Teresa Mascolo che il comandante della Polizia penitenziaria dell’istituto, il dirigente Rocco Elio Mare. Proprio i due recenti episodi riportati dalla cronaca sono stati le questioni principali affrontate durante l’incontro con il Garante. Relativamente al suicidio, il Garante ha riferito che la sorella del detenuto ha inviato, tramite l’avvocato, Marco Maietta, una PEC anche al suo ufficio, segnalando quanto accaduto e chiedendo un intervento. Anastasìa, inoltre, si è intrattenuto anche con alcuni detenuti per ascoltare le loro richieste con la promessa di incontri periodici con rappresentanti delle sezioni detentive e per raccogliere eventuali problematiche e criticità. “Sono in corso indagini sul suicidio avvenuto la scorsa settimana - ha dichiarato il Garante - Ho incontrato la direttrice, il dirigente sanitario e il comandante, i quali sostengono che sono stati adottati tutti i protocolli relativi al rischio suicidario, e all’assistenza di cui aveva bisogno il trentacinquenne. Purtroppo, il fenomeno dei suicidi in carcere è frequente. Episodi che accadono maggiormente nelle carceri piuttosto che fuori, legati anche alla situazione di disagio e spesso alla disperazione che si vive nel carcere e su cui, naturalmente, gli operatori devono fare tutto il necessario per evitarli. La sorella del detenuto deceduto ha fatto benissimo a chiedere che vengano fatti tutti gli accertamenti per chiarire ogni dubbio. È giusto verificare le condizioni effettive di detenzione del ragazzo e se sia stato fatto tutto il possibile per prevenire quel tragico gesto”. “In occasione della visita - ha proseguito Anastasìa - ho incontrato il detenuto che aveva tentato di evadere e che è stato subito bloccato dagli agenti della penitenziaria. Anche queste sono cose che, purtroppo, capitano e che spesso gli operatori riescono a risolvere con professionalità, prima che la situazione possa degenerare, anche con conseguenze gravi per gli stessi detenuti. Il sovraffollamento è presente in diversi istituti del Lazio, come la carenza di organico. Neanche la casa circondariale di Frosinone è esente da tali problematiche. Anche comprendendo gli agenti impegnati in altri servizi, a Frosinone mancano almeno una cinquantina di unità di polizia penitenziaria. Un altro problema emerso durante l’incontro e portato all’attenzione dalla direttrice, è quello della mancanza di educatori. Sugli otto previsti, attualmente sono cinque gli operatori, uno dei quali ha chiesto di andare via. E questa situazione pesa sulla gestione dei percorsi di reinserimento dei detenuti”. “Sono stato nella sezione isolamento dove ho potuto incontrare il giovane che ha tentato di evadere mercoledì. Sono stato in visita, inoltre, in un paio di altre sezioni dove ho incontrato un gruppo di detenuti che mi ha illustrato problematiche di carattere generale, ad esempio sulla disponibilità di risorse per attività lavorative interne che in questo secondo semestre non riescono a coprire l’attività. Tra le altre problematiche portate all’attenzione - ha concluso Anastasìa -, le difficoltà di accesso a misure alternative. Siamo rimasti d’accordo che farò periodicamente un incontro con rappresentanti delle sezioni detentive per raccogliere le problematiche dei detenuti”. Viterbo. Detenuto suicida, il processo a tre imputati per omicidio colposo si aprirà nel 2024 Corriere di Viterbo, 14 settembre 2023 La prima udienza del procedimento a carico di due sanitari e un agente della penitenziaria slitta alla prossima primavera. I tre furono rinviati a giudizio dal Gup Giacomo Autizi a ottobre 2022, con l’accusa di omicidio colposo per la morte del detenuto 36enne Andrea Di Nino, che il 21 maggio del 2018 si impiccò in una cella di isolamento di Mammagialla. Un anno fa l’unico ad aver scelto il rito abbreviato e che fu assolto, dopo un interrogatorio fiume reso davanti al Gup, fu l’ex direttore del penitenziario sulla Teverina. Il dibattimento a carico dei tre imputati si aprirà a marzo del 2024 davanti al giudice monocratico del Tribunale di Viterbo. Bari. Torture in carcere, il teste: “Violenze compiute non erano consone” Gazzetta del Mezzogiorno, 14 settembre 2023 Lo ha detto in udienza il vice comandante della Polizia penitenziaria. “Dalle immagini delle telecamere di sorveglianza si vedono gli agenti bloccare il detenuto a terra e poi colpirlo, anche con alcuni calci. Un intervento così non è assolutamente consono, non va fatto. Esistono varie forme di contenimento a seconda delle esigenze, ad esempio se un detenuto è particolarmente agitato, ma non mi sembra che in quel caso fosse così”. A testimoniarlo è Nicola Colucci, vice comandante della polizia penitenziaria del carcere di Bari, sentito oggi in Tribunale - come teste delle difese - nel processo a carico di undici tra agenti e infermieri per il violento pestaggio avvenuto nel carcere, il 27 aprile 2022, a danno di un detenuto psichiatrico. La vittima, 41enne, aveva poco prima dato fuoco alla propria cella, costringendo gli agenti ad evacuare e mettere in sicurezza il piano, e fu violentemente picchiato (come testimoniato dalle immagini delle telecamere di sorveglianza riprodotte in una precedente udienza) nel percorso dalla propria cella all’infermeria. Colucci in quel momento era fuori servizio. “L’evacuazione è stata portata a termine in maniera efficace - ha continuato Colucci - considerando la grande quantità di fumo che si era diffusa e i pochi agenti in quel momento in servizio. Sapevamo che il detenuto era problematico, eravamo stati messi al corrente dai colleghi del carcere di Lecce in cui si trovava precedentemente. Mi è stato detto che dopo l’incendio ha provato ad aggredire alcuni agenti intervenuti”, ha aggiunto, prima di confermare che le violenze successive ai suoi danni non andavano “assolutamente” commesse. “Una volta che il detenuto viene bloccato - ha detto ancora -, è fermo e fa capire di non essere più un pericolo, ci si deve limitare a contenerlo”. Sono cinque gli agenti di polizia penitenziaria attualmente sotto processo per tortura. Un altro indagato, un sovrintendente, ha scelto di essere giudicato con rito abbreviato e lo scorso 12 luglio è stato condannato a tre anni e sei mesi di reclusione. Gli altri ancora a processo sono imputati, a vario titolo, di violenza privata, abuso d’ufficio e omessa denuncia. L’esame dei testi della difesa proseguirà nelle prossime udienze dell’11 e del 25 ottobre. Cagliari. La denuncia di Sdr: “Detenuto in lista attesa da 14 mesi per intervento palatoplastica” Ristretti Orizzonti, 14 settembre 2023 “Da un anno e due mesi è in lista d’attesa per un intervento di palatoplastica nel Policlinico di Monserrato. È il dramma di R.S., 35 anni, di San Sperate detenuto nella Casa Circondariale di Cagliari-Uta che ha limitazioni nell’assunzione del cibo ma soprattutto convive da diversi mesi con un feroce mal di denti. Una situazione che configura una vera e propria tortura”. Lo rende noto Maria Grazia Caligaris dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme ODV” a cui si è rivolta la madre. “Mio figlio ha commesso degli errori - ha detto la donna - che sta pagando con la perdita della libertà ma non posso più accettare in silenzio la sua sofferenza. Il dentista non può curare i denti perché a causa della fessurazione del palato rischia una grave infezione ma lui da troppi mesi sta assumendo antibiotici e antidolorifici con conseguenze sull’intero organismo. È fortemente debilitato e oltre ad avere gravi difficoltà nella consumazione del cibo, che spesso passa attraverso le narici, lamenta continui disturbi intestinali. È diventato anche difficile parlare con lui al telefono. La sua espressione vocale è alterata e spesso incomprensibile. Sono preoccupata. Mi sono recata al Policlinico per sollecitare il suo ricovero ma purtroppo non sono riuscita ad avere notizie. Mio figlio ha bisogno d’aiuto, deve essere operato con urgenza anche perché la fessura nel palato sta diventando sempre più grande”. “La vicenda di R.S. - sottolinea Caligaris - sta andando avanti senza soluzione da diversi mesi nonostante l’intervento della Direzione Sanitaria della Casa Circondariale, che ha sollecitato la presa in carico dal Nosocomio, e nonostante la segnalazione della Garante dei Detenuti Irene Testa. Insomma è arrivato il momento di dare una risposta concreta a una persona che in queste condizioni di afflizione, chiuso in una cella, non può svolgere alcuna attività né partecipare a percorsi riabilitativi. Del resto appare anche del tutto immotivata un’attesa così lunga per un intervento di palatoplastica. Quattordici mesi senza poter gestire il dolore, se non con continui ricorsi a farmaci analgesici, sono davvero troppi. Resta il problema del mancato riconoscimento al Coordinatore Sanitario della Casa Circondariale di Cagliari-Uta, dov’è ubicato un SAI (servizio assistenza Intensiva - cioè un reparto di assistenza per persone malate), dell’accesso diretto al ricovero ospedaliero qualora il caso lo richieda. Aspettare lo scorrimento delle liste d’attesa per oltre un anno, mettendo a rischio la vita di una persona, non è accettabile”. Napoli. A Nisida nasce il progetto “For Mare”, per ragazzi a rischio e detenuti di Pierluigi Frattasi fanpage.it, 14 settembre 2023 Sull’isola di Nisida, dove si trova il carcere minorile, nasce il progetto “For-Mare” con la possibilità di poter coinvolgere giovani a rischio in corsi di formazione tecnica, educazione ambientale, canoa e immersione subacquea. Il Protocollo d’Intesa, già operativo per i detenuti di Nisida, mira a promuovere attività sportivo-formative per favorire l’inclusione sociale dei giovani a rischio e dei minori sottoposti a procedimenti penali. Il progetto discusso al Comune di Napoli - L’obiettivo è estendere l’accordo già in vigore tra il Centro Giustizia Minorile di Napoli - CDP Di Nisida e diverse organizzazioni, tra cui Fick (Federazione Italiana Canoa Kayak), ISFORM, Marevivo Onlus e R.S.A. Srl anche ai centri che accolgono minori a rischio di reato. Se ne è discusso in Commissione Politiche Sociali del Comune di Napoli, presieduta del consigliere Massimo Cilenti. Il consigliere Demetrio Gennaro Paipais (Manfredi Sindaco) ha sottolineato l’importanza di rafforzare le attività educative destinate ai minori e giovani a rischio, specialmente alla luce degli eventi recenti verificatisi a Piazza Municipio il 31 agosto scorso, dove il musicista 24enne Giovanbattista Cutolo è stato ucciso a colpi di pistola. Per l’omicidio è indagato un 17enne reo-confesso. Paipais ha suggerito l’opportunità di effettuare valutazioni tecniche approfondite sul protocollo d’intesa al fine di coinvolgere il Comune di Napoli, consentendo così di rafforzare attività educative attraverso lo sport-formazione non soltanto agli autori di reato ma anche ai minori a rischio. I promotori del progetto For-Mare, hanno spiegato che il progetto prevede una serie di attività multidisciplinari, tra cui formazione tecnica, educazione ambientale, corsi di canoa e immersione subacquea presso l’isola di Nisida. Tuttavia, uno dei principali ostacoli riscontrati è la difficoltà nel coinvolgere i giovani interessati. Massimo Cilenti ha sottolineato il suo impegno nell’assicurare una maggiore diffusione del progetto presso i servizi sociali e ha evidenziato che il protocollo d’intesa in questione è di notevole interesse per l’amministrazione comunale. In questo contesto, Cilenti ha proposto di avviare un dialogo con gli assistenti sociali al fine di elaborare un percorso che includa attivamente i giovani a rischio, con l’obiettivo di estendere il protocollo d’intesa al Comune di Napoli. Crotone. I detenuti ricordano i morti di Cutro di Rosario Capomasi L’Osservatore Romano, 14 settembre 2023 Un reliquiario della famiglia Ulma appena beatificata in Polonia, una tela realizzata dai detenuti di Crotone per ricordare il naufragio dei migranti a Cutro e la prima pietra di un nuovo seminario in Ucraina: tre simboli di storie diverse che sono stati consegnati nelle mani del Papa durante l’udienza generale. E così la testimonianza dei coniugi Ulma e dei loro sette figli è stata riproposta stamani in piazza San Pietro. Un’intera famiglia uccisa in odio alla fede, il 24 marzo 1944 a Markowa, e beatificata dal cardinale Marcello Semeraro lo scorso 10 settembre. Al Papa sono state donate una scultura contenente le reliquie - Francesco l’ha teneramente baciata - e una tela che raffigura la famiglia. A presentare questi significativi doni è stata una delegazione polacca, guidata dall’arcivescovo di Przemy?l dei Latini, monsignor Adam Szal, che ha chiesto al Pontefice di benedire un quadro del Sacro Cuore di Gesù che sarà portato in tutte le parrocchie dell’arcidiocesi. “Siamo venuti principalmente per ringraziare il Papa della sua decisione di beatificare Józef e Wiktoria Ulma - ha spiegato il postulatore don Witold Burda - sperando che questo straordinario evento porti frutti duraturi e numerosi nella vita della Chiesa. Confidiamo che a tale scopo sarà di grande aiuto anche il pellegrinaggio del quadro del Sacro Cuore di Gesù che inizia il 18 settembre e che toccherà anche la Francia. Con un particolare affidamento a santa Margherita Maria Alacoque”. Il 26 febbraio scorso, a Steccato di Cutro, il caicco “Summer love”, stipato all’inverosimile di migranti, naufragò a pochi metri dalla spiaggia con 94 morti accertati, di cui 35 minori. Per ricordare una delle più grandi tragedie dell’immigrazione i detenuti della Casa circondariale di Crotone hanno voluto donare a Papa Francesco una tela, contenuta in una teca di vetro, in cui è riprodotto proprio il drammatico evento. “La realizzazione dell’opera è anche un modo per dar voce ai detenuti - ha raccontato il cappellano del carcere di Crotone, don Oreste Mangiacapra - che sono sensibili a tematiche come queste, dimostrando di voler cambiare e prepararsi, una volta scontata la pena, a un vero reinserimento sociale, umano e lavorativo come ha sempre auspicato il Pontefice”. L’opera, ha aggiunto Federico Ferraro, garante comunale dei diritti dei detenuti, “rappresenta tutto il sentimento di condivisione dei reclusi per le vittime e di vicinanza ai sopravvissuti e alle famiglie. Ciò evidenzia come nelle strutture carcerarie ci siano persone che conservano il senso di partecipazione sociale”. “Un segno di pace e un’espressione del desiderio di ricostruire”: così don Francesco Andolfatto, rettore del seminario Redemptoris Mater di Uzhgorod, ha descritto la prima pietra della nuova struttura - “che stiamo costruendo in questa città ucraina al confine con Slovacchia e Ungheria” - benedetta stamani da Francesco. “Il tempo che stiamo vivendo in Ucraina è molto duro - ha spiegato - e siamo qui grazie a un permesso speciale per fare uscire dal Paese tutti i seminaristi e i formatori, cosa che, per via della coscrizione, non è possibile per gli ucraini dai 18 ai 60 anni. Così, abbiamo intrapreso un pellegrinaggio anche per festeggiare i dieci anni della fondazione del seminario”. All’udienza era presente anche un gruppo di educatori seguiti da Scholas Occurrentes - rete di quasi 450 mila scuole ed agenzie educative nel mondo ideata da Papa Francesco - i quali partecipano al progetto Etica e Ring, in collaborazione con la Federazione pugilistica italiana. Il programma, rivolto in modo particolare ai ragazzi delle scuole medie inferiori e superiori di Italia, Romania e Spagna, ha come scopo quello di accrescere le competenze necessarie in campo etico-sportivo per operare nel settore dello sport sociale, di comunità e di base, mettendo al centro la tutela dell’atleta e del team di lavoro. “Essere qui è senz’altro un momento di celebrazione - ha sottolineato María Paz Jurado, direttrice di Scholas Italia - ma anche un modo per far conoscere la nostra organizzazione in tutto il mondo, con i nostri progetti che sono una ricarica sempre grande di energia, con lo scopo di portare ovunque speranza e umanità. Abbiamo programmi attivi in America latina, sopratutto ad Haiti, Paese devastato da tanti problemi e spesso dimenticato e dove siamo presenti da cinque anni con una squadra composta interamente da operatori locali”. L’esperienza con Scholas ha segnato anche l’ex pugile Emanuele Blandamura, due volte campione europeo dei pesi medi, nonostante la diversa fede abbracciata. “Sono buddista ma sto vivendo questa collaborazione con Scholas arricchendomi quotidianamente. Aiutare i ragazzi a crescere coordinandomi con gli altri operatori dimostra come il credo differente non impedisce di convergere tutti verso lo stesso traguardo solidale”. A far da festosa cornice a piazza San Piero anche i rappresentanti dell’associazione di volontariato “Nasi rossi con il cuore” di Rosarno, guidata dalla fondatrice e presidente Luana Corica e formata da circa 60 volontari clown di tutte le età che hanno deciso di condividere con il prossimo il loro tempo. Questa arte della cura viene praticata dagli operatori nelle strutture ospedaliere di Santa Maria degli Ungheresi a Polistena, G. Jazzolino a Vibo Valentia e Giovanni Paolo ii a Lamezia Terme. Milano. “Carcere e transizione energetica: tra comunità energetiche e opportunità lavorative per le persone detenute” comune.milano.it, 14 settembre 2023 A Bollate un nuovo incontro dedicato all’economia carceraria. Appuntamento per giovedì 21 settembre, alle ore 10.30, alla Casa di Reclusione di Bollate. Iscrizioni per partecipare entro domenica 17 settembre. La transizione energetica e il carcere al centro di un nuovo incontro - aperto agli addetti ai lavori, a imprese e a cittadini e cittadine - dedicato all’economia carceraria, in programma giovedì 21 settembre, alle ore 10.30, alla Casa di Reclusione di Bollate. E’ “Carcere e transizione energetica: tra comunità energetiche e opportunità lavorative per le persone detenute”, il quarto appuntamento del ciclo di incontri promosso dal Comune di Milano e realizzato in collaborazione con il Consorzio VialedeiMille, costituito da cooperative sociali che impiegano detenuti negli istituti penitenziari di San Vittore, Opera e Bollate. Partendo dalla testimonianza della cooperativa sociale Bee4, nata proprio all’interno della Casa di Reclusione di Bollate, sarà approfondita la tematica della transizione energetica esplorando le opportunità che questa può rappresentare sia per gli istituti penitenziari in termini di autosufficienza energetica, sia per i detenuti in termini di occasione di inserimento lavorativo. L’installazione di impianti fotovoltaici, ad esempio, può contribuire all’efficientamento energetico degli istituti e rappresenta un importante incentivo per le attività lavorative interne: oltre ai vantaggi per il bilancio dell’Amministrazione Penitenziaria, una scelta di questo tipo potrebbe aprire la strada a percorsi formativi per le persone detenute come installatori e manutentori di impianti fotovoltaici, professioni sempre più richieste. Ne parleranno, tra gli altri, il direttore della casa di reclusione di Bollate Giorgio Leggieri, Roberto Bezzi, responsabile area educativa Casa di Reclusione di Bollate, il presidente della cooperativa Bee4 - Altre Menti Pino Cantatore, Luigi Di Marco coordinatore di Asvis - Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile, il direttore Galdus Academy Stefano Bertolina, Massimo Garbagnoli, responsabile scientifico del progetto educativo di Cidiesse, Paolo Bonifati, responsabile Area Business Lombardia ENEL, Niccolò Cerulli, presidente di Insula Net, Sara Capuzzo, presidente della cooperativa ‘E’ nostra’, Gianni Castelli del collegio di ARERA, Enea Moscon, responsabile dello sviluppo business nella Business Unit Mercato di A2A e Fabio Gerosa, presidente della cooperativa Fratello Sole. La partecipazione è gratuita, ma è richiesta la registrazione entro il 17/09 a questo link. Per completare l’iscrizione è richiesto anche l’invio del documento di identità all’indirizzo: comunicazione@consorziovialedeimille.it. L’evento rientra nel ciclo di “Incontri sull’economia carceraria” promosso dall’Amministrazione nell’ambito delle attività a sostegno delle realtà imprenditoriali che operano nel campo dell’economia carceraria, dentro e fuori dagli istituti di pena milanesi, e del “Patto per il lavoro”. Ad oggi sono stati realizzati tre incontri dedicati a tre differenti settori produttivi: la filiera produttiva del vino, della birra e delle bevande, i servizi di ristorazione e catering e quello dedicato alla filiera di produzione e recupero di biciclette. La rivoluzione si chiama pace, la nonviolenza abbatte i muri di Andrea Riccardi L’Unità, 14 settembre 2023 La guerra è la sconfitta della politica e dell’umanità. Si dice che serve realismo. Ma Havel diceva che “la politica non può essere solo l’arte del possibile. Deve essere anzi l’arte dell’impossibile”. Pubblichiamo qui di seguito il discorso che Andrea Riccardi, fondatore della Comunità Sant’Egidio, ha pronunciato in apertura dell’incontro internazionale “L’audacia della pace” che si è tenuto a Berlino dal 10 al 12 settembre. È significativo - per donne e uomini di religioni differenti, pensosi sulla pace- trovarsi a Berlino. In questa città, la storia non tace. Parla di grandi dolori, quelli del conflitto mondiale, del totalitarismo, della Shoah, della guerra fredda. Gli stessi deportati sapevano quanto fosse decisivo ricordare la guerra. Abram Cytryn, ebreo nel terribile ghetto di Lodz, morto a Auschwitz, animo di poeta, spiega perché cominciò a scrivere la storia di quel recinto di dolore: “Vivendo nell’inferno del ghetto -dice- e vedendo colare il sangue dei miei fratelli, ho deciso di fissare sulla carta la mia testimonianza… Vorrei che il sangue schizzasse sulla carta per trasmettere alle generazioni future la memoria di questi anni impietosi”. Il sangue schizzato da quegli anni impietosi, la voce dei testimoni, hanno consolidato la cultura della pace, fondata sull’orrore della guerra e la coscienza di quanto male gli uomini possono fare in guerra. Questa cultura della pace è divenuta, specie in Europa orientale, anche una forza pacifica che ha colpito la violenza del potere. Il passare del tempo, la scomparsa della generazione della guerra e dei testimoni della Shoah hanno indotto alla dimenticanza dell’orrore per la guerra. Fino alla sua riabilitazione come strumento per risolvere i conflitti o affermare i propri interessi. La guerra è la negazione del destino comune dei popoli. È la sconfitta della politica e dell’umanità. Resuscita incubi e inferni della storia, oggi peggiori per la potenza di armi e tecnologie, ignote nel passato. Berlino però dice molto anche in altro senso. Rinnovata capitale della Repubblica Federale, parla forte delle grandi conquiste della libertà: la riunificazione della Germania, la fine della divisione del mondo in blocchi, la solidarietà e il valore della democrazia, l’accoglienza a persone di altra origine. Qui l’eredità della guerra è durata quasi mezzo secolo oltre il ‘45, così difficile per questa città. È stata cancellata -lo sottolineo- non con un’altra guerra, ma con un movimento, che è stato pressione pacifica della gente (che ha sacrificato se stessa), diplomazia, dialogo, audacia. L’audacia dell’89! In un certo senso, il 1989 in Europa ha ribaltato il paradigma del 1789, per cui una rivoluzione vera si fa sempre con la violenza. Berlino racconta come si può far cadere il Muro a mani nude e far rinascere una città libera e unita. Dopo l’89, una generazione ha sperato in un mondo più unito, pacifico, democratico. Ma qualcosa non è andato nel senso sperato, forse per il modo provvidenzialistico di credere nel processo di globalizzazione, tanto economico. La globalizzazione dei mercati non si è accompagnata a quella della pace, della democrazia, dello spirito. Tensioni, contrapposizioni, fratture hanno reagito al mondo globale. Non ripercorrerò il trentennio trascorso. Ma l’odierna situazione internazionale è lontana dalle speranze alla caduta del Muro. Segnata com’è, non solo da nuovi muri, ma da aspri conflitti. Da culture del muro e del conflitto. Sappiamo molto del mondo contemporaneo. Non manchiamo di informazioni, anzi. Ma -come dice il filosofo coreano, Byung-Chul Han, “le informazioni da sole non spiegano il mondo”. Non è facile capire e agire. Bisogna incontrare, anche il dolore. Ci raggiunge il grido di milioni di donne e uomini che soffrono per la guerra, per le crisi da essa innescate, per il disastro ecologico, per l’abbandono cui sono condannati. Queste grida spiegano il lato doloroso del nostro mondo. Non si riesce a liberare l’umanità dalla guerra: in Ucraina, in Africa e in tante altre parti del mondo. Guerre, crisi violente aumentano. In qualche modo, pur credendo di reagire o agire, siamo prigionieri, pur senza dirlo. Per i potenti armamenti e le tecnologie belliche, i conflitti spesso si eternizzano, non trovano via d’uscita, nemmeno con la vittoria di una parte. Durano e intanto consumano i popoli, le vite e il tessuto d’interi paesi. I profughi inondano il mondo, esposti a sofferenze incredibili. Paesi potenti, responsabili di governo, colossi economici, si trovano impotenti di fronte a questo scenario o soggiogati da una logica che spesso altri hanno messo in movimento, senza pudore di praticare l’aggressione. Le guerre sono come incendi: c’è chi li appicca irresponsabilmente, ma alla fine nessuno li controlla e si sviluppano di forza propria, talvolta bruciando aggressori e aggrediti, ma anche paesi terzi. Sono parole non ispirate a un romanticismo pacifista, ma all’esperienza storica dei conflitti del secolo scorso e di questo, dall’incontro con le ferite dei popoli, dall’accoglienza dei profughi, veri testimoni e ambasciatori del dolore della guerra. Come donne e uomini di religione, ci muoviamo da anni sul difficile crinale tra la guerra e le speranze di pace. Abbiamo mosso i primi passi ad Assisi, in tempo di guerra fredda, nel 1986, quando Giovanni Paolo II convocò le religioni a pregare per la pace. Il 1 settembre 1989, a cinquant’anni dall’inizio del secondo conflitto mondiale, eravamo a Varsavia, mentre il Muro sembrava ancora tenere, per proclamare insieme come credenti dell’Est e dell’Ovest, del Sud: War never again! Mai più una guerra così! Basta con le conseguenze della guerra mondiale! Di anno in anno, abbiamo monitorato i conflitti, cercato vie di pace (pure riuscendo a trovarle in alcuni paesi), lavorato per la cultura del dialogo e dell’incontro, coscienti che la pace è al fondo delle grandi tradizioni religiose. Parlando lo scorso anno, ai leader religiosi, riuniti nello spirito di Assisi a Roma, papa Francesco ha detto: “Qui trova ascolto la voce di chi non ha voce; qui si fonda la speranza dei piccoli e dei poveri: in Dio, il cui nome è Pace”. Le religioni non possono non ascoltare la voce dei senza voce e farsi loro voce. La storia delle religioni non è stata sempre espressiva di questa pace, eppure -in questi anni- grandi figure di spirituali, gente di dialogo, audaci e pazienti mediatori, sapienti, ci hanno accompagnato. Non abbiamo smesso, ogni anno, di darci appuntamento, di città in città, per invocare la pace, pur nella diversità delle tradizioni religiose, per evitare che il sogno di pace sia seppellito. Non lo è, perché è scritto nelle fibre profonde dell’essere umano, nel profondo della fede dei credenti, nei desideri dei disperati. Ringrazio quanti oggi si uniscono a questo incontro di dialogo, di pace, di preghiera. Le nostre visioni non debbono essere coincidenti, come le nostre letture della realtà complessa del nostro tempo: non è quello che conta! Tuttavia c’è un punto decisivo, espresso dal titolo del nostro incontro, “l’audacia della pace”. In questa difficile situazione, non basta più la prudenza, pur necessaria, non più il realismo o la lealtà, pur decisive: occorre l’audacia, che ci porta oltre il muro dell’impossibile di fronte a cui ci siamo arrestati. Scrive un uomo che si è consumato sulle Scritture, Walter Brueggemann: di fronte alla guerra “ci riesce difficile credere alla possibilità dello schiudersi di una realtà nuova. Il futuro sembra stanco, atroce, replica del passato”. Audacia della pace significa credere che c’è un’alternativa. Che si deve investire di più nel dialogo e nella diplomazia, nell’incontro per soluzioni giuste e pacifiche. Parlare di pace non è intelligenza con l’aggressore o svendita dell’altrui liberà, ma coscienza profonda e realista del male della guerra su i popoli. Audacia della pace, che è perseguire visioni alternative senza rassegnarsi ai binari obbligati della realtà. Audacia della pace, per noi credenti, è invocazione della pace e fiducia in Dio che ha disegni di pace che guidano la storia. Diceva Václav Havel, un uomo che ha portato il suo paese alla libertà: “la politica non può essere solo l’arte del possibile, ossia della speculazione, del calcolo, dell’intrigo, degli accordi segreti e dei raggiri utilitaristici, ma piuttosto deve essere l’arte dell’impossibile, cioè l’arte di rendere migliori se stessi e il mondo”. Le risorse spirituali, quelle dell’umanesimo, la partecipazione al dolore di tanti per la guerra, generano audacia per una pace vera, giusta, che non può essere più negata a troppi popoli. Migranti. Perché mostrare i muscoli è un errore di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 14 settembre 2023 Lampedusa è ormai allo stremo, i centri di accoglienza sparsi in Italia sono stracolmi, il numero dei rimpatriati continua a scendere perché la maggior parte degli Stati non completa le procedure per il rientro. C’è un numero che più di ogni altro fa ben comprendere che cosa abbia scatenato l’emergenza migratoria di questi giorni: 84.827. Sono gli stranieri sbarcati sulle coste italiane con mezzi propri dall’inizio dell’anno. Barchini, pescherecci, gommoni utilizzati per la traversata da Libia e Tunisia da persone disposte a tutto pur di arrivare in Italia e in molti casi proseguire verso altre destinazioni. Partono di notte uomini e donne spesso con bimbi al seguito, ma anche minorenni soli, sfidano talvolta condizioni del mare proibitive pur di lasciare il proprio Paese. Altri 39.036 sono stati recuperati in mare dai mezzi di soccorso e soltanto 5.579 erano a bordo delle navi delle Ong. In totale fa 123.863 migranti. È una cifra da record, è possibile che alla fine di quest’anno si supererà quella del 2016 quando si arrivò a 181.436 presenze. Lampedusa è ormai allo stremo, i centri di accoglienza sparsi in Italia sono stracolmi, il numero dei rimpatriati continua a scendere perché la maggior parte degli Stati non completa le procedure per il rientro. La situazione è ormai fuori controllo e rischia di aggravarsi nel giro di poche settimane. Ecco perché è urgente affrontare il problema lasciando da parte slogan, interessi di parte, campagne elettorali. La gestione dei flussi non può e non deve diventare uno dei terreni di scontro in vista delle Europee. La promessa di fermare gli sbarchi fatta dalla coalizione di centrodestra prima di vincere le elezioni, si è infranta di fronte alla realtà. Perché un conto è ipotizzare soluzioni quando si è all’opposizione, un altro è gestire i problemi e trovare rimedi quando si governa. La necessità di far ripartire il sistema di accoglienza per chi ne ha diritto e individuare un percorso per far tornare a casa chi invece non ha i requisiti per rimanere, è ormai un’urgenza. Deve diventare priorità. Anche perché l’emergenza climatica, le catastrofi naturali, le guerre e i colpi di Stato che stanno fiaccando molti Stati africani, renderanno più imponente il numero di persone in fuga verso l’Italia. Credere che la Tunisia rispetti gli accordi - peraltro non ancora sottoscritti - per fermare le partenze, si sta rivelando un’utopia. Degli oltre 8.000 stranieri giunti nelle ultime 48 ore a Lampedusa, più di 6.000 arrivavano proprio da spiagge e porti di quel Paese. Il vicepremier Matteo Salvini, che è stato al Viminale e ben conosce questa realtà, sostiene che “i 42 sbarchi di questi giorni sono un atto di guerra”, ma senza spiegare a chi si riferisca. Invece in questo momento così drammatico è indispensabile essere chiari, non generare confusione. “Siamo stati lasciati soli”, aggiunge e qui il riferimento all’Europa è evidente. È vero, ma non sono le ultime decisioni di Francia e Germania a dimostrarlo. Anche perché - come ha riconosciuto la stessa premier Giorgia Meloni - l’annuncio di Parigi di potenziare i controlli alla frontiera e quello di Berlino di non accettare richiedenti asilo dall’Italia sono la conseguenza della scelta che proprio il nostro Paese aveva comunicato mesi fa di non accettare ricollocamenti. Come se si fosse deciso unilateralmente di cambiare il trattato di Dublino. A lasciare sola l’Italia è stata l’Unione europea, hanno voltato le spalle gli Stati del gruppo di Visegrád - Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia - sui quali faceva affidamento proprio il centrodestra. Bisogna dunque cambiare passo. È giusto pretendere che la commissione Ue si faccia carico di mediare con i Paesi di provenienza dei migranti, ma l’approccio del governo deve essere diverso. A Bruxelles si deve trattare evitando di mostrare i muscoli con i partner alimentando una battaglia che non può portare nulla di buono. A Roma si deve chiedere la collaborazione di sindaci e governatori per riattivare i centri di accoglienza, distribuire i migranti in tutto il Paese, regolarizzare chi possiede i requisiti. Soltanto governando davvero l’emergenza migratoria e garantendo i diritti, si potrà ottenere il rispetto dei doveri da parte di chi arriva. E ottenere quella distribuzione in tutta Europa da anni invocata e mai realizzata. Per chi parte dall’Africa, l’Italia continuerà ad essere la porta di accesso. Difficile credere che a impedirlo saranno nuovi decreti sicurezza. Se non si vuole rimanere soli, bisogna mettersi nelle condizioni di collaborare con gli altri. Sui migranti l’Unione dimentica l’Italia di Marina Della Croce Il Manifesto, 14 settembre 2023 Governo sempre più isolato in Europa. Non è sfuggito a nessuno che ieri, nel suo ultimo discorso sullo Stato dell’Unione, affrontando il capitolo migranti Ursula von der Leyen non ha citato l’Italia. Forse è perché il vento delle elezioni - europee e locali - ormai comincia a soffiare sempre più forte e quindi ogni Stato gioca la sua partita. Oppure perché quello sulle migrazioni è un dossier spinoso e quindi, al di là delle dichiarazioni ufficiali, la possibilità di raggiungere un accordo su una gestione comune delle decine di migliaia di persone che arrivano in Europa - come il Patto su migrazioni e asilo - è ancora molto lontana dal diventare realtà. Fatto sta che la decisione presa dalla Francia di blindare la frontiera con l’Italia e dalla Germania di sospendere le ammissioni volontarie di richiedenti asilo dall’Italia (e la stessa cosa starebbe per fare anche la Norvegia) per il governo Meloni sono una tegola che va ad aggiungersi alle tensioni già esistenti con Bruxelles. Non è sfuggito a nessuno che ieri, nel suo ultimo discorso sullo Stato dell’Unione, affrontando il capitolo migranti Ursula von der Leyen non ha citato l’Italia, uno dei paesi maggiormente sotto pressione per il numero degli sbarchi ma soprattutto partner fondamentale nel Memorandum siglato dall’Ue con la Tunisia per fermare le partenze dei barconi. Nonostante a difendere quell’intesa sia ormai rimasto il solo Ppe, la presidente della Commissione Ue l’ha rivendicata proponendola come modello da adottare anche con altri paesi. Difficile pensare che, a pochi mesi dalle elezioni europee, potesse fare diversamente. Stessa cosa per il Patto su migrazioni e asilo, che von der Leyen ha dato praticamente per fatto dopo anni di stallo. “Un accordo non è mai stato così vicino”, ha detto. Il problema è che le cose sono un po’ più complicate di come le ha presentate la presidente della Commissione. Se sulla maggior parte dei capitoli in discussione c’è infatti un accordo di massima, due questioni importanti proprio per l’Italia come la redistribuzione obbligatoria dei migranti e la gestione delle fasi crisi dividono ancora gli Stati membri. E se sulla prima a fare muro sono i soliti paesi dell’Est (la Polonia, dove non a caso si vota per le politiche il 15 ottobre, ne ha fatto l’oggetto di un referendum), sulle fasi di crisi a mettersi di traverso è proprio la Germania, con i Verdi soprattutto che spingono per avere maggiori garanzie per i diritti dei migranti. Tanto da rendere incerto il raggiungimento di una maggioranza in sede di Consiglio Ue, passaggio fondamentale per l’approvazione del Patto. Le decisioni prese due giorni fa da Francia e Germania sono quindi un messaggio chiaro al governo Meloni, che invece il Patto l’ha votato anche scontrandosi con gli alleati di Visegrad. Il motivo di fondo sono i movimenti secondari per i quali Parigi e Berlino da sempre accusano l’Italia non solo di non fare abbastanza per fermarli ma di non riprendere quanti, dopo essere sbarcati sulle nostre coste, hanno raggiunto il Nord Europa. “Anche noi siamo sotto pressione”, ha detto ieri un portavoce del ministero dell’Interno ricordando come su “oltre 12 mila” richieste presentate quest’anno all’Italia, “sono stati effettuati finora dieci trasferimenti”. Anche in Germania però si vota. Tra tre settimane saranno chiamati alle urne i cittadini dell’Assia e la ministra dell’Interno Nancy Faeser corre alla carica di governatore per la Spd che i sondaggi danno in flessione, assediata dalla Cdu e a soli tre punti di distanza dall’estrema destra della Afd. Non molto diverso il discorso per la Francia. Elezioni europee a parte, la decisione di raddoppiare i controlli alla frontiera con l’Italia arriva a ridosso dell’annunciata partecipazione di Marine Le Pen al raduno che la Lega terrà domenica a Pontida. Difficile che Matteo Salvini parlerà ai militanti del Ponte sullo Stretto, mentre è sicuro che approfitterà dell’occasione per tornare a battere sui migranti mettendo in difficoltà Giorgia Meloni. Argomento cavalcato anche dall’ospite francese. Aumentare il numero di poliziotti al confine è quindi un modo per Parigi per provare a smorzare almeno in parte gli attacchi della leader dell’estrema destra francese. “Gli sbarchi sono un atto di guerra”: Salvini archivia la Giorgia d’Europa di Federico Capurso e Francesco Grignetti La Stampa, 14 settembre 2023 Dall’asse con Von der Leyen ai rapporti con Tunisi: il Capitano all’assalto dell’alleata. La Lega spera nel Viminale tra nuove norme e il ritorno dei decreti sicurezza: “Siamo soli”. Che la Lega sia entrata in modalità “combat” è evidente da giorni. E se il bersaglio apparente è l’Europa che “ci lascia soli”, come da copyright di Matteo Salvini, in tutta evidenza quel che i leghisti vogliono terremotare è il feeling, già difficile di suo, tra Giorgia Meloni e Ursula von der Leyen. Il gran vanto della premier, per dire, ovvero l’accordo stretto con la Tunisia per contenere la spinta migratoria verso l’Italia, ecco, per Salvini è solo un clamoroso fallimento. È uno schiaffo durissimo, quello del leader della Lega, alla propaganda della premier e alleata: “Seimila migranti, con 120 barconi arrivati nelle ultime ore, sono il segno che il problema arriva dalla Tunisia - sottolinea Salvini parlando alla sede della stampa estera -. Manca il controllo del territorio, mi sembra evidente”. Dice anche di più: “Quello che sta succedendo a Lampedusa e a Strasburgo è solo il fallimento dell’Europa e dell’accordo con i socialisti. Quando ti arrivano 120 mezzi non è un episodio spontaneo, ma un atto di guerra”. E, aggiunge, alludendo al regime tunisino e a informazioni di intelligence: “Sono convinto che ci sia una regia dietro questo esodo. Ne parleremo pacatamente in seno al governo, ma non possiamo assistere ad altre scene simili. Credo che dietro gli sbarchi ci sia un sistema criminale organizzato a cui si deve rispondere con tutti i mezzi a disposizione. Nessuno escluso”. Ora, che il governo italiano sia sgomento sotto l’ondata di arrivi dalla Tunisia è evidente. Persino un moderato come Antonio Tajani alza la voce. “Von der Leyen - spiega il ministro degli Esteri - ha detto che siamo vicini a un accordo, ma non c’è più tempo. Bisogna implementare tutti gli accordi che sono stati fatti, applicare il memorandum sottoscritto con la Tunisia”. Non è solo rabbia, però, quella leghista. È anche un cambio di paradigma. Se è fallito l’accordo con la Tunisia, il fiore all’occhiello di Meloni, allora tutta la politica migratoria della premier può essere archiviata. Anzi, sostituita. “L’Europa ci ha lasciato da soli e dobbiamo ragionare su come affrontare il problema da soli. Lo abbiamo già fatto in passato e se la strada da percorrere è quella, la ripercorreremo”. Né poteva mancare un accenno alla “sua” ricetta alternativa, che passa per una fusione di tutte le forze sovraniste. “Con Marine Le Pen all’Eliseo sarebbe molto più facile trovare una soluzione alla questione dei migranti. Il problema è difendere i confini a Sud, non se prendere in carico o meno in carico i migranti”. Insomma, si può e si deve tornare alla politica dei porti chiusi, amarcord dei fasti salviniani, e ai decreti sicurezza. Dice il fedele deputato leghista Igor Iezzi, che al mattino aveva interpellato il ministro Matteo Piantedosi su che cosa intenda fare con i minori stranieri non accompagnati: “Ci era stato promesso un decreto ad hoc entro settembre. Io ci conto ancora”. È quel decreto che dovrebbe rovesciare le norme sui giovanissimi stranieri non accompagnati, presumendo la loro maggiore età e non il contrario. Oppure il rimpatrio di quelli sotto processo, cancellando il loro diritto ad essere presenti al dibattimento (sostituito da una ipotetica videoconferenza). Salvini stesso, al Tg1, allude al decreto tanto atteso, che è in buona parte farina del sottosegretario leghista Nicola Molteni, un altro suo fedelissimo: “Dobbiamo organizzarci, tornare a decreti sicurezza che siano ancora più rigorosi. Io, più che andare a processo per aver bloccato gli sbarchi da navi straniere non sono riuscito a fare. Vedremo di essere ancora più incisivi”. Ma la nuova postura leghista era chiara già dal giorno precedente, quando l’europarlamentare leghista Annalisa Tardino aveva descritto a Bruxelles il Memorandum con Tunisi in questi termini: “Oggi ci illudiamo che sia un’azione degna di nota, ma nel frattempo dalla Tunisia arriva l’invasione. Per ora, tante passerelle e zero risultati”. Ieri Salvini, parlando alla stampa estera, era stato addirittura irridente nei confronti della premier e dei suoi risultati in politica estera: “Penso che Giorgia stia facendo il possibile e l’impossibile. Sta contattando Von der Leyen, il G7, il G20, il G35. Se l’esito delle vie diplomatiche è Francia e Germania che dicono “tanti saluti e io chiudo”, siamo effettivamente da soli”. La questione, insomma, va molto al di là di quel decreto che non è più in cima all’agenda del governo Meloni e dell’emergenza migranti, su cui pure Salvini avrebbe le idee chiare. Il nodo è strategico. E dato che il coordinamento della politica migratoria è stato avocato a palazzo Chigi e sottoposto alla regia dell’odiato Alfredo Mantovano, è ancora più chiaro qual è l’obiettivo dell’assalto leghista. Di cui discuteranno in un prossimo consiglio dei ministri. Ma “pacatamente”, chiaro. Migranti. Hotspot al collasso, Lampedusa è nel caos. Il Pd: “Meloni ha fallito” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 14 settembre 2023 Tensione nell’isola per i ritardi nel collocamento dei migranti, ammassati sul molo sotto il sole cocente. Oltre 7mila le persone sbarcate nelle ultime ore. Corsi e ricorsi storici con il loro carico di disperazione. Due giorni fa il procuratore di Agrigento, Giovanni Di Leo, ha paragonato gli ultimi sbarchi a Lampedusa agli arrivi nell’agosto del 1991 di migliaia di persone provenienti dall’Albania, a bordo della nave “Vlora”. Nell’hotspot dell’isola siciliana la situazione è ormai insostenibile. Ospitare dignitosamente i migranti è diventato impossibile. Oggi la tensione è aumentata per i ritardi legati alla collocazione degli ultimi arrivati sull’isola. Un centinaio di migranti, ammassati sul molo Favoloro, hanno atteso molte ore prima di essere accompagnati nel centro di contrada Imbiracola. A causa delle temperature ancora alte di questi giorni alcuni si sono gettati in mare per rinfrescarsi. I soccorritori hanno distribuito migliaia di bottigliette d’acqua. Altri momenti di tensione si sono avuti al momento della distribuzione dei pasti. “Il governo Meloni - afferma l’europarlamentare del Pd Pietro Bartolo - ha fallito su tutta la linea. I tanti barchini in lamiera approdati a Lampedusa negli ultimi giorni partono tutti dalla Tunisia, il paese con cui il governo italiano e la commissaria Ursula Von der Leyen hanno siglato il memorandum”. Ida Carmina, deputata del M5S, rileva che “nonostante l’impegno di tante persone che lavorano giorno e notte, non si riesce a garantire a Lampedusa la dovuta assistenza e imperversa il disagio fisico e psicologico”. Inoltre, il Movimento 5 Stelle ha presentato un’interrogazione al ministro della Salute per chiedere al governo che venga allestito un vero presidio ospedaliero a Lampedusa. L’iniziativa è partita dai senatori siciliani Dolores Bevilacqua e Pietro Lorefice. “A Lampedusa e Linosa - spiegano - è attivo solamente un poliambulatorio, nel quale è attiva una guardia medica e operano specialisti interni, che si trovano però sul posto solo in alcuni giorni della settimana, perché non si tratta di medici residenti sull’isola ma provenienti dalla Sicilia. Questo mette a rischio il diritto alla salute dei cittadini di Lampedusa, già schiacciati dal peso degli sbarchi dei migranti che arrivano sull’isola, che necessitano a loro volta di assistenza sanitaria. Alla già disastrosa situazione si aggiunge il fatto che il punto nascita di Lampedusa e Linosa è stato, come tanti altri, soppresso”. A Lampedusa 7.000 migranti: “Siamo allo stremo, dovete aiutarci” di Felice Cavallaro Corriere della Sera, 14 settembre 2023 Flusso continuo di sbarchi: 45 in meno di 24 ore. L’allarme del sindaco Mannino. Altro che “collina della vergogna”, come fu chiamata l’altura sul porto nuovo nel 2011, quando più di 4 mila tunisini dovettero appollaiarsi per giorni al freddo, senza un tetto, senza un bagno. Niente rispetto a quanto sta accadendo dodici anni dopo in quest’isola-spugna dove di migranti ieri ne hanno contati 7 mila. Più degli abitanti di Lampedusa, che scoppia e si specchia nell’urlo del sindaco Filippo Mannino: “Siamo allo stremo, aiutateci, servono personale e mezzi”. Non ce la fanno più i disperati che sbarcano ammaccati e feriti su un molo senza spazi. Più di 1.600 in una notte. I bambini in lacrime, tanti minori senza genitori, adolescenti che viaggiano da soli, tante donne con le mani sul pancione. E poi chi sta in fila col cuore a pezzi pensando ad amici e parenti annegati fra le onde dopo la traversata affrontata sui barchini di latta. Ma non ce la fanno più nemmeno volontari, medici e infermieri del piccolo Poliambulatorio, della Croce Rossa, della Protezione civile, tutti ormai senza turni, svegli ogni notte. Come gli impiegati comunali, i carabinieri, i poliziotti e i finanzieri, sempre con guanti e mascherina, manganello e scudo protettivo. Sperando di imporre così l’ordine, di arginare la pressione di masse che, a ondate, si muovono improvvise perché c’è chi non beve un sorso d’acqua da un giorno, da due giorni. Ogni volta con i militari a fare cordone e spingere un’umanità incrostata di acqua salata e carburante. Alzando i manganelli, senza mai abbassarli, vaga minaccia di “cariche di alleggerimento” come le chiamano in gergo. Non si arriva allo scontro, tutti decisi con il questore Emanuele Ricifari a tenere i nervi saldi. Ma è difficile quando manca perfino l’acqua, come dice don Carmelo Rizzo, il parroco che spalanca il portone della chiesa e i saloni della “Casa della fraternità”: “Non bastiamo più noi per affrontare il caos”. Un amaro richiamo ad “una frontiera europea dimenticata dall’Europa”, a ritardi ed assenze che sono già materia di polemica politica, mentre non c’è più un angolo disponibile nella gabbia dell’hotspot di contrada Imbriacola dove l’assalto a quattrocento materassini provoca spintoni e risse. Stesse scene per accaparrarsi il pasto distribuito dalla Croce Rossa o il turno al gabinetto, meta spesso irraggiungibile per gran parte dei nuovi arrivati. È un flusso di barchini inarrestabile: ben 45 tra martedì notte e ieri sera. Tranne quando scatta la tragedia. Rimbalza da Sfax la notizia di un naufragio con quattro tunisini morti e 21 salvati dalla Guardia costiera. Ma dalla stessa fonte si conferma la partenza ad ogni ora di decine di gruppi. E nessuno sa se tutti approdano in questo scoglio europeo al collasso. Non tutti hanno la fortuna di intercettare sulla rotta una motovedetta che prende a bordo i naufraghi. Com’è accaduto l’altra notte alla barca su cui viaggiava una giovanissima donna partita dalla Guinea e arrivata con il suo bebè di appena 5, ieri letteralmente perduto fra le onde. Fortunati invece i 13 naufraghi intravisti per caso l’altra sera dal presidente dell’associazione per i diritti degli anziani, Giorgio Lazzara, di ritorno dopo una gita a bordo del suo gommone con moglie e figlia: “Erano tutti in acqua a gridare aiuto, schiantati con un barchino su uno scoglio. Due donne e una bambina le abbiamo recuperate con cime e salvagente. Poi l’allarme e l’arrivo della Guardia costiera...”. Così come sono stati fortunati i 4 naufraghi salvati da Francesca Martina, 31enne lampedusana, e dal suo fidanzato: la coppia si è gettata in acqua per soccorrerli. Lieto fine e plauso del sindaco che non ne può più. Deciso a prendersela con l’Europa. Ma Filippo Mannino, sostenuto dalla Lega, ringrazia il governo per “i 45 milioni destinati a opere infrastrutturali”. Al contrario del suo predecessore Totò Martello, un tempo comunista, che accusa il governo Meloni “di abbandonare Lampedusa a sé stessa”. Tutti divisi nello scoglio troppo piccolo per replicare ed ampliare la vergogna di dodici anni fa. Lampedusa, i volontari di fronte a un disastro umanitario: “Mai visto nulla di simile” di Eleonora Camilli La Stampa, 14 settembre 2023 Oltre 7 mila migranti, tensione e cariche della polizia: l’isola è al collasso. C’è chi si stende a terra stremato per riprendersi dal lungo viaggio. Chi cerca un riparo per i bambini in mezzo agli altri migranti ammassati, mentre in fila sulla banchina altri barchini, pieni di persone, sono in attesa di poter sbarcare. Il viavai è continuo e la tensione palpabile. Solo nelle ultime ore almeno cinquemila migranti sono approdati a Lampedusa, facendo saltare il sistema di accoglienza e ogni garanzia di protezione. Una situazione insostenibile e mai vista prima. Che ha fatto già la sua prima vittima innocente: una bambina di appena cinque mesi, caduta in mare mentre l’imbarcazione di fortuna su cui viaggiava si stava avvicinando all’isola. La giovane madre, una ragazza di 17 anni, ha provato a proteggerla invano. Gli altri migranti si sono sporti in avanti per chiedere di essere salvati e la piccola è caduta in mare. Morte per annegamento, dirà il certificato del medico legale. La mamma, ancora in stato di choc, è stata portata all’hotspot di Contrada Imbriacola per essere assistita dagli psicologi della Croce Rossa. Ma anche il centro è ormai stracolmo di persone: in queste ore ha raggiunto la cifra record di settemila presenze, oltre dieci volte la sua capienza regolamentare. Qui non si entra più e così, in attesa dei trasferimenti verso la terraferma, alcuni passano la notte sul molo, altri fuori dal centro, altri ancora in ripari di fortuna che la comunità di Lampedusa sta allestendo per far fronte all’emergenza. Il sindaco Filippo Mannino ha chiamato a raccolta i cittadini, il parroco e i commercianti per trovare insieme una soluzione. La Chiesa ha messo a disposizione il centro parrocchiale di preghiera. Qui passeranno la notte nei prossimi giorni almeno un centinaio di migranti, tra i più vulnerabili: donne con bambini ma anche minori non accompagnati e persone con patologie. “È una situazione fuori controllo, non riusciamo neanche più a contare il numero di arrivi - spiega don Carmelo Rizzo, il sacerdote di Lampedusa -. In questi momenti di disorganizzazione e confusione abbiamo deciso di dare tutti una mano. E la Lampedusa solidale sta rispondendo”. Ad assicurare i pasti sono le parrocchiane della Chiesa di San Gerlando. Ognuna cucina quello che ha in casa: una pasta, un secondo o una crostata per i più piccoli. Anche i turisti, ancora presenti in maniera massiva sull’isola in questa coda d’estate, sono andati a bussare alla parrocchia per chiedere cosa si può fare. Ma la situazione resta insostenibile. Il numero dei migranti arrivati negli ultimi tre giorni ha doppiato quello della popolazione residente. Il rischio è che la rete dei servizi possa non reggere. Non nasconde la sua indignazione il sindaco Mannino, che da settimane fa appelli al governo centrale chiedendo una gestione programmata degli arrivi e dei trasferimenti. Richieste finora cadute nel vuoto, come l’invito alla presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, a recarsi di persona a Lampedusa per verificare la situazione. “Le ultime 36 ore hanno messo a dura prova il sistema di accoglienza e i soccorsi. Ora per noi la priorità è fornire assistenza e aiutare le persone, ma appena superata questa fase non sarà più rinviabile una soluzione strutturale e stabile per Lampedusa”. Secondo il primo cittadino delle Pelagie il caos di questi giorni rende necessario un ripensamento, “bisogna tornare al sistema Mare nostrum”, ripete, cioè all’operazione di soccorso in mare nata dopo la strage del 3 ottobre 2013. “Servono navi di soccorso al largo dell’isola che una volta operati i salvataggi trasportino le persone in altri porti siciliani. Non possiamo reggere più in questo modo”. Mannino ricorda che nel 2016 i numeri degli arrivi erano pari a quelli di questi giorni, ma grazie a un coordinamento in mare dei salvataggi e degli sbarchi la piccola isola siciliana non era sotto pressione. Oggi, invece, questa situazione crea una sorta di imbuto che ha ripercussioni sul tessuto sociale e sul territorio: “Abbiamo un piccolo pronto soccorso che garantisce le prime cure, ma non abbiamo così tanti medici per tutte queste persone, che si sommano agli abitanti e ai turisti”. E inoltre la rete idrica e quella fognaria con un sovrannumero di abitanti potrebbero avere dei problemi. “Nell’imminenza di queste ore vanno attivati i trasferimenti - aggiunge - poi il governo dovrà ascoltarci”. Anche Giusi Nicolini, che sindaca di Lampedusa lo è stata negli anni del picco degli sbarchi, parla di una “situazione drammatica ma prevedibile”, un disastro umanitario non dovuto ai numeri ma a una malagestione del fenomeno. “Lasciano le persone per intere giornate al molo con temperature che sfiorano i 40 gradi, spesso senz’acqua, se non fosse per i volontari starebbero senza beni di prima necessità”. E ieri proprio sul molo Favaloro si sono registrati momenti di grande tensione con cariche della polizia sui migranti che chiedevano di poter lasciare la banchina. “Sono scene che non avevamo mai visto a Lampedusa, non degne di un Paese civile” aggiunge. Increduli sono anche i volontari che operano sull’isola. “Sono tanti anni che lavoro qui ma sinceramente non ricordo una situazione simile”, sottolinea Giovanna Di Benedetto di Save the chidren. In queste ore l’organizzazione sta cercando di assicurare protezione ai più piccoli insieme a Unicef e Unhcr, ma la situazione è talmente fuori controllo che le organizzazioni umanitarie stanno moltiplicando gli appelli per una corretta protezione delle persone. “C’è il rischio di separazione dei nuclei familiari ma anche che i minori finiscano in situazioni di promiscuità, non solo qui a Lampedusa ma anche dopo i trasferimenti. In questa situazione bisogna vigilare che tutto proceda per il meglio”. La Croce Rossa assicura che nelle prossime ore la situazione dovrebbe migliorare. Ai primi trasferimenti iniziati ieri sera ne seguiranno altri oggi e le presenze nel centro dovrebbero essere dimezzate a 3.500 persone. Un numero che resta elevato ma più gestibile. Ieri durante la distribuzione dei pasti c’è stata addirittura una rissa tra i migranti per il timore che il cibo non fosse sufficiente. “La situazione è subito rientrata - assicura Ignazio Schintu, responsabile Cri - e siamo sicuri che nelle prossime ore andrà meglio. Tutti stiamo facendo il massimo per assicurare protezione ai migranti”. Al poliambulatorio anche i medici fanno ormai turni massacranti. “Non contiamo più le ore - dice il responsabile medico Francesco D’Arca -. Ci siamo giorno e notte, abbiamo triplicato il personale addetto agli sbarchi ma le strutture non sono in grado di assorbire un numero così alto. I migranti che arrivano hanno bisogni sanitari di ogni tipo. Per fortuna ogni tanto c’è anche una buona notizia. Ieri una donna appena sbarcata ha dato alla luce una bambina. È al sicuro e sta bene”. Allarme povertà e malnutrizione di Danilo Taino Corriere della Sera, 14 settembre 2023 Nel Madagascar, il 97,8% degli abitanti non rientra tra coloro che possono avere una dieta sana; in Nigeria il 93,5%, nel Niger il 92%, nel Mozambico il 92,5%, nel Congo il 91,5%, nella Repubblica Centrafricana il 94,6%. Questi tre miliardi di persone sono malnutrite (a diversi gradi), soffrono di “fame nascosta” e naturalmente hanno anche difficoltà a sviluppare una vita pienamente attiva. C’è la povertà assoluta, c’è la fame, c’è la cattiva nutrizione. Si sa che gli assolutamente poveri del mondo (coloro che vivono con meno di 2,15 dollari al giorno, livello posto dalla Banca Mondiale) sono diminuiti drasticamente dal 1990, quando erano 1,9 miliardi; a fine 2020 (primo anno di Covid) erano scesi a 719 milioni. La previsione è che il numero cali a 600 milioni nel 2030. Quando si analizza l’alimentazione, c’è però una parte di popolazione che non riesce nemmeno a permettersi di raggiungere il livello di calorie quotidiane necessarie. Uno studio realizzato dalla Fao e pubblicato da Ourworldindata.org ha calcolato che una dieta con calorie sufficienti sostanzialmente a stare in piedi costa in media mondiale 0,83 dollari al giorno. E ha stabilito che questo costo è abbordabile se non supera il 52% del reddito dell’individuo. Il risultato è che - dati al 2017 - 381 milioni di persone non raggiungevano quel livello, che cioè di fatto non potevano cibarsi con sufficienti calorie. Se però si è più ambiziosi e si passa a considerare una dieta sana - che oltre alle calorie apporti proteine, grassi essenziali e micronutrienti - il costo medio minimo globale sale a 3,54 dollari al giorno. Sempre considerano che la quota che rende abbordabile l’alimentazione è il 52% del reddito, risulta che tre miliardi di persone non possono permettersi una dieta sana. In Italia, è l’1,5% degli abitanti, negli Stati Uniti l’1,2%, in Germania e in Francia lo 0,2%, in Cina il 10,9%, in India il 74,1%. È nell’Africa subsahariana che la situazione è drammatica, però. Nel Madagascar, il 97,8% degli abitanti non rientra tra coloro che possono avere una dieta sana; in Nigeria il 93,5%, nel Niger il 92%, nel Mozambico il 92,5%, nel Congo il 91,5%, nella Repubblica Centrafricana il 94,6%. Questi tre miliardi di persone sono malnutrite (a diversi gradi), soffrono di “fame nascosta” e naturalmente hanno anche difficoltà a sviluppare una vita pienamente attiva. È un vincolo straordinario alla loro partecipazione all’economia dei Paesi ed è una delle ragioni, non l’unica, della bassa produttività e dell’insufficiente creazione di ricchezza in molti Paesi, in particolare in Africa. La distribuzione attenta di micronutrienti alle popolazioni che li necessitano è probabilmente uno degli utilizzi più efficienti degli aiuti internazionali.