Suicidi in carcere, l’ex direttore di San Vittore: “Dietro le sbarre manca la dignità della persona” di Ilaria Quattrone fanpage.it, 13 settembre 2023 Aumentano i suicidi negli istituti penitenziari in Italia. A Milano, due giorni fa, si è tolto la vita un uomo di 35 anni. È un’emergenza ignorata dalla politica: “Nel 2022 ci sono stati 85 morti. Sembrerebbe che i dati raccolti nel 2023 siano peggiori”, ha spiegato a Fanpage.it Luigi Pagano, per anni direttore del carcere di San Vittore. Alcuni giorni fa un uomo di 35 anni si è tolto la vita nel carcere di San Vittore a Milano. Il 35enne aveva problemi di tossicodipendenza e si procurava volontariamente ferite. Era stato trasferito in una sezione dedicata proprio a persone aggressive per sé e per gli altri ed era seguito dal punto di vista psichiatrico. Quello di San Vittore non è l’unico caso: qualche giorno prima si è suicidato un altro detenuto nel carcere di Busto Arsizio. Anche al carcere Regina Coeli di Roma un ragazzo di 21 anni si è tolto la vita e un altro ha tentato il suicidio a Viterbo. La situazione peggiora di anno in anno: le condizioni degli istituti penitenziari, infatti, non fanno che aumentare il rischio di gesti estremi. “Purtroppo temo che manchi una progettualità sugli istituti penitenziari sia da sinistra che da destra”, ha spiegato a Fanpage.it Luigi Pagano, per anni direttore del carcere di San Vittore e poi di quello di Bollate. Dottor Pagano, perché negli ultimi anni si è registrato un incremento di suicidi in carcere? Sono circa due anni che si registra un aumento di suicidi nelle carceri. Nel 2022 ci sono stati 85 morti. Sembrerebbe che i dati raccolti nel 2023 siano peggiori.Purtroppo temo che manchi una progettualità sugli istituti penitenziari sia da sinistra che da destra. E quando in un carcere, dove già vivi male perché ti manca la libertà e perché è sovraffollato, non sussiste la dignità della persona e non si lavora per il reinserimento sociale, i detenuti e gli operatori avvertono la determinatezza della situazione. Credo che questo non faccia che aumentare l’ansia. E, in questi casi, soprattutto tra più deboli - tra questi ci sono anche molti dipendenti - c’è chi cede. Negli ultimi giorni si sta discutendo molto del Decreto legge Caivano, ha senso inasprire le pene se poi non ci sono investimenti sugli istituti penitenziari? Credo che, nel caso di minori in carcere, la situazione sia addirittura peggiore. A mio parere, una prevenzione che passa attraverso l’aumento delle pene non sia valida. Dovrebbe essere annessa a un cambiamento sociale che passa attraverso la scuola e strumenti simili. Poi sì, portare le persone soltanto in carcere serve a poco perché potrebbe portare a replicare un crimine e a rinsaldare lo stigma. Se non sussiste un’attività trattamentale, che ripeto passa dal reinserimento sociale, si arriva all’84 per cento di recidiva. E così non si fa che spostare il problema. Soprattutto in caso di minori c’è il rischio che escano molto più addestrati al crimine di quando sono entrati. L’uomo che si è suicidato nel carcere San Vittore aveva problemi di tossicodipendenza e praticava atti autolesionismo. Servirebbero più comunità? Il carcere San Vittore è tra le strutture dove l’attività delle Asl è tra le più dinamiche. Ha sempre funzionato. Il problema è che, anche in questo istituto, manca un’azione di prevenzione e spesso anche i servizi. Non è infatti solo un problema di comunità: è necessario dare un servizio migliore e adeguato alla persona. C’è poi un altro problema che è quello della doppia diagnosi. Purtroppo mancano strutture all’esterno e queste situazioni si stanno riversando sempre più nelle carceri. Il problema è che gli istituti penitenziari amplificano queste difficoltà: se metti insieme problemi psichici, tossicodipendenza e una struttura con condizioni precarie aumenta il rischio che i più deboli compiano gesti estremi. Nonostante esistano leggi che prevedono misure alternative, sussiste sempre il problema del sovraffollamento. Spesso inoltre per coloro che vivono in carcere mancano elementi esterni sui quali appoggiarsi. Per questo bisogna dare loro la possibilità di vivere degnamente. Perché non si investe sul carcere? Il carcere non porta consensi: investirci su significa sbilanciarsi politicamente. Manca un progetto amministrativo e non ci si interessa seriamente agli istituti penitenziari. Vengono utilizzati solo in senso di prevenzione: “Attenzione se fai il cattivo, ti mando in carcere” dimenticandosi però che, secondo la Costituzione, si deve rispettare la dignità dei detenuti e pensare al reinserimento sociale. I “rei folli” e i “folli rei”: quando due istituzioni totali si incontrano di Anna Grazia Stammati* Ristretti Orizzonti , 13 settembre 2023 Nelle Lezioni al Collège de France (novembre 1973/febbraio 1974), raccolte nel volume “Il potere psichiatrico”, Michel Foucault ritorna in maniera critica su tre nozioni già trattate nella “Storia della Follia nell’età classica”, violenza, istituzione e famiglia. A proposito del manicomio, afferma che l’importanza dell’istituzione è data, più che dalle regole “in maniera molto maggiore, dalle disposizioni di potere, dalle correlazioni, dagli scambi, dai punti di appoggio, dalle differenze di potenziale che caratterizzano una forma di potere, e che credo siano appunto gli elementi costitutivi al contempo dell’individuo e della società”, affermazione che si chiarisce partendo proprio dalla tragica vicenda dei “rei folli” e dei “folli rei” che, ad oggi, non è ancora conclusa. Un po’ di storia. È nell’ospedale psichiatrico di Reggio Emilia che, per la prima volta, nel 1886, si apre una sezione per i “rei folli”, ovvero per i detenuti che acquisiscono, in stato di detenzione, una patologia psichiatrica, distinguendoli dai “folli rei”, coloro che hanno commesso un reato, per “vizio di mente” e per questo non imputabili. Sarà il codice Rocco a stabilire, nel 1930, che entrambe le tipologie” vanno internate nei “manicomi criminali”, separati dai “manicomi comuni”, ma anche quando, con la Legge Basaglia, i manicomi verranno chiusi, tra questa legge, davvero rivoluzionaria, e l’abolizione degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (OPG, come nel frattempo erano stati rinominati “i manicomi criminali”), bisognerà aspettare 36 anni, dopo che, nel 2011, una Commissione Parlamentare fa luce sugli OPG, rendendosi conto delle terribili condizioni nelle quali erano tenuti uomini e donne, legati ai propri letti, in condizioni igieniche indescrivibili. Alla chiusura definitiva dei “manicomi criminali”, nel 2015, vengono aperte le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (REMS), strutture a carattere transitorio con un massimo di venti posti letto, che si occupano della “cura” del paziente e non della sua detenzione, costituendo una tappa di un più generale progetto terapeutico. Ma i problemi continuano, e per due motivi: 1) le REMS non sopperiscono alle richieste degli istituti di pena, visto che in carcere il 9,2% dei detenuti soffre di patologie psichiatriche gravi e il 40,4% è sottoposto a terapia psichiatrica. Nella sua ultima Relazione annuale, il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, Mauro Palma, ci dice che sono 632 le persone ospitate nelle 31 REMS esistenti e 675 sono in lista di attesa, mentre, in contrasto con la norma, il 46,7% degli attuali ospiti di REMS sono in misura di sicurezza provvisoria, quando le REMS erano, invece, destinate a persone con condanne definitive; 2) tutto ciò riguarda i “folli rei”, coloro che commettono un reato in stato di dichiarata problematica psichiatrica, ma lascia scoperti i “rei folli”, ovvero, i detenuti che sviluppano in carcere un disagio mentale e che rimangono “ristretti” in sezioni apposite degli istituti penitenziari, con conseguente abbandono per carenza di personale. Dunque, nell’incontro tra due istituzioni totali, carcere e manicomio (la prima ancora in piena attività, la seconda scardinata nella sua architettura, ma intatta nell’esercizio dell’incontrastato potere psichiatrico), si disvela il funzionamento dell’istituzione-manicomio oltre la sua esistenza concreta, nella violenza che si accanisce sul “corpo del condannato” e lo assoggetta, giustificando i propri interventi al di là dell’istituzione che rappresenta (e che teoricamente non esiste più). Se oggi, a 45 anni dalla “Legge Basaglia”, il problema dei “rei folli” non è ancora risolto e se la situazione del disagio psichiatrizzato nel mondo dei “liberi” risente di una involuzione verso la riapertura dei manicomi (in linea con l’inasprimento delle pene proprio di questo governo), c’è qualcosa che impedisce di intervenire in maniera appropriata. Di fronte ad una situazione di forte disagio psicologico, dentro e fuori dal carcere, viene confermato, infatti, che la soluzione è ancora quella di reprimere e rinchiudere, prima di conoscere e capire: se la maggioranza dei detenuti ha un disagio sociale, non c’è bisogno di ricorrere alla costrizione farmacologica, ma, semmai, si deve investire in interventi specifici, che gli permettano di frequentare centri esterni adatti ad un percorso di recupero (i dati ISTAT del luglio scorso ci dicono che nel 2022 quasi un ragazzo su due, tra i 18 e i 34 anni, ovvero 4 milioni e 870 mila persone, si trova in uno stato di difficoltà ed è stato lanciato un allarme sull’ aumento degli adolescenti con problematiche psichiatriche e sul numero dei minorenni ricoverati negli stessi reparti psichiatrici degli adulti). È qui, allora, che l’affermazione di Foucault ritorna, avvertendoci che la strada dei cambiamenti deve andare oltre l’istituzione e comprendere il nesso tra “le disposizioni di potere, le reti, le correnti”, gli elementi costitutivi dell’individuo e della società. Ovvero, penetrare in profondità, costruire consapevolezza (dei percorsi e dei processi), ritessere la trama di quelle relazioni sociali che hanno portato una popolazione intera a sostenere le ragioni profonde dei cambiamenti necessari, come è stato per quelle generazioni che, immerse nel flusso incessante di discussioni e seminari, incontri e scontri, assemblee e manifestazioni, le hanno fatte proprie e sostenute, determinando una vera e propria rivoluzione culturale. Alla quale è mancata, però, un’operazione di considerevole radicamento per imporre quei servizi sociali territoriali a sostegno dei fragili e delle famiglie: perché chi commette un reato, in situazione di disagio o meno, va sostenuto, per essere riconsegnato alla società e non costretto nella camicia di forza del “manicomio farmacologico”. *Presidente Telefono Viola Educhiamo i nostri ragazzi, ma se serve usiamo il codice penale” di ?Carlo Nordio* Il Messaggero, 13 settembre 2023 Caro Direttore, dopo un anno di congedo obbligatorio, ti chiedo ospitalità per chiarire le questioni sollevate dal nostro decreto contro la delinquenza minorile in genere, e contro quella sulle donne in particolare. Lo faccio riappropriandomi del mio linguaggio giornalistico,) meno tecnico di quello usato in Parlamento, nella speranza di esser il più chiaro possibile. Dico subito che i provvedimenti rigorosi da noi adottati ci erano stati in gran parte suggeriti dagli stessi magistrati di Napoli, e da quell’eroico don Patriciello che resiste a tutto, anche alla sparatoria di ieri. Nondimeno, com’era prevedibile, alcuni magistrati e pedagoghi hanno manifestato opinioni opposte, anche in termini rudi: so let it be, erano messi in bilancio. Ma andiamo per ordine. Le critiche possono dividersi in due categorie: quelle rivolteci durante la conferenza stampa successiva al decreto, e quelle, più articolate, arrivate nei giorni successivi. Le prime possono riassumersi così: a) secondo il governo la donna non avrebbe il diritto di circolare vestita come vuole; b) se poi, indossando abiti succinti, viene molestata o addirittura, violentata “se la sarebbe andata a cercare”. Le seconde, che i provvedimenti repressivi - carcere, divieti e ammonizioni - sono inutili, e ci vuole ben altro: un “nuovo approccio culturale”, un “percorso educativo”, e altre attività preventive. Don Patriciello dice che servono entrambe le vie: severità e prevenzione. Proverò a rispondere in termini razionali, evitando le suggestioni emotive che spesso condizionano domande e risposte, sollevando polemiche inutili. Non mi faccio illusioni di essere convincente: si convince solo chi è già convinto. Ma spero almeno di farmi capire. Dunque. a) Che una persona abbia il diritto di scegliersi gli abiti con cui girare il mondo, o almeno l’Italia, è principio così banale che non meriterebbe nemmeno una risposta. Certo ci sono dei limiti, che un tempo si identificavano con l’ordine pubblico e il cosiddetto buon costume, e dipendono dai luoghi e dai momenti: ad esempio si può indossare l’uniforme della Gestapo durante una rappresentazione teatrale, ma sarebbe quantomeno improprio portarla in piazza il 25 Aprile. Così come è lecito un perizoma in spiaggia, mentre sarebbe sgradevole in chiesa. Più che la legge, sono, o dovrebbero essere, il buon senso e l’estetica a suggerire l’abbigliamento. Ma ci sono anche altre circostanze. E qui siamo al punto successivo. b) L’espressione “andarsela a cercare” non solo è grossolana, ma sotto un profilo strettamente logico non significa nulla. Essa è usata in molti ambiti, per evocare un nesso causale che in realtà non esiste automaticamente, ma che sarebbe troppo complicato spiegare. Ad esempio si dice che il fumatore è andato a cercarsi il cancro polmonare, il bevitore la cirrosi epatica, l’alpinista la frana, e il maturo libertino l’infarto, come accadde al presidente francese Felix Faure che rimase stecchito all’Eliseo durante un incontro galante. Ma la realtà è diversa. Ci sono forti fumatori e bevitori che muoiono, come Churchill, quasi centenari, mentre ci sono salutisti convinti, astemi e vegetariani, fulminati da un’epatite o con i polmoni devastati da un microcitoma. Qual è allora la risposta razionale? Che si tratta di un fattore di rischio, che vale sui grandi numeri. Come stare al volante: più corri, e più rischi un disastro. Non è detto che tocchi a te. Ma le probabilità che ti capiti aumentano in modo esponenziale rispetto al guidatore prudente... Chiedo scusa per la digressione epistemologica e per le brevi note filosofiche che sto per fare. Molti pensano, come Rousseau, che l’uomo nasca buono, e venga corrotto dalla società. Altri, al contrario, condividono l’idea di Hobbes: homo homini lupus, il nostro codice genetico è malvagio, tra noi siamo prede e predatori. Più o meno quello che dice Darwin, con la selezione naturale, e la stessa Bibbia, che inizia con il figlio di Adamo che ammazza il fratello Abele. Probabilmente la verità sta nel mezzo: i nostri avi erano sicuramente feroci, ma nei millenni si sono lentamente, e parzialmente, moderati. Guerre e stragi continuano, occasionalmente ingigantite da strumenti più efficaci e da regimi meglio organizzati, che creano lager e gulag. Viviamo un po’ meglio del neolitico, ma rimangono ancora molte isole di ferocia bestiale. E qui arriviamo alla nostra risposta: queste isole di aggressività nei confronti delle donne esistono, e purtroppo sono spesso incontrollabili: non possiamo mettere un carabiniere vicino ad ogni ragazza, come non possiamo mettere una guida alpina accanto ad ogni scalatore. Ognuno deve conoscere il rischio che corre quando beve, quando fuma, quando si inerpica e via discorrendo. Non vale solo per la “provocante” minigonna, ma per tutto, a cominciare dai semplici accessori. Una preziosa collana, (anche falsa, come nella deliziosa novella di Maupassant) o un costosissimo orologio, possono andar bene a una cena di gala, ma non sono consigliabili se devi attraversare di notte la stazione di una metropoli. Non è detto che ti taglino il collo o il braccio, ma il rischio aumenta. Così è per la donna e il suo modo di vestire: certo che può farlo come le pare, ci mancherebbe. Ma deve sapere che, malgrado l’ottimismo omiletico delle anime belle, la cattiveria, l’aggressività e la stupidità, contro la quale anche gli dei - diceva il saggio - lottano invano, stanno in agguato. Tutto qui. E veniamo alla terza obiezione, la più seria di tutte. È verissimo che per questi reati odiosi l’attività preventiva è fondamentale. E, diciamola tutta: scuole, parrocchie, psicologi ed educatori sono certamente utili, ma tutto dipende dalla famiglia, perché è lì che si forma il software del bambino, Personalmente sono stato chiamato a decine di incontri con gli studenti. Per educarli alla legalità. Ci sono andato, ma avrei preferito farli con i loro genitori. Ma la prevenzione, per quanto sacrosanta, non è tutto. Per restare nell’ambito medico, ogni oncologo la predica come essenziale: niente fumo, poco alcol, dieta corretta, attività fisica ecc. Ma quando il cancro arriva, la prevenzione cede il posto al bisturi e alla chemioterapia. Con la delinquenza minorile è lo stesso. Ha ragione don Patriciello: prima di tutto educhiamo. Ma purtroppo la prevenzione, ammesso che ci sia stata, non ha funzionato. Allora deve intervenire il chirurgo, che in queste circostanze è la giustizia penale, anche a tutela delle vittime, che davanti all’impunità del criminale sono tentate di farsi giustizia da sé. Come purtroppo abbiamo visto proprio a Roma, con un tentativo di linciaggio per fortuna sventato, pochi giorni fa. *Ministro della Giustizia Ragazzi “esclusi” anziché reinseriti: le assurde misure di prevenzione nel decreto Caivano di Fabrizio Costarella e Cosimo Palumbo* L’unità, 13 settembre 2023 Foglio di via e Daspo equivalgono ai “bandi per gli oziosi” di 150 anni fa. Quando lo Stato fa ricorso ai mezzi della coercizione giuridica, rinuncia alla propria liberalità, ricadendo nello stesso totalitarismo da cui aveva tentato di uscire. Scriveva Carl Schmitt che, nelle situazioni di emergenza, lo Stato tende a tutelare se stesso a scapito degli individui. Per questo, auspicava che l’assunzione dei pieni poteri da parte del Governo fosse sempre limitata nel tempo sino alla risoluzione della crisi che l’aveva giustificata. In ciò, distingueva la “dittatura commissaria” che, delegata dal popolo, sarebbe cessata al termine del pericolo collettivo, da quella “sovrana”, che, travalicando il mandato popolare, si candidava invece a diventare stabile forma di governo autoritario. Il nostro Legislatore forse conosce poco il pensiero di Schimtt, ma dimostra una particolare predisposizione per il diritto penale emergenziale, tanto che, ormai, ad ogni evento di risonanza sociale, prima ancora che la giurisdizione possa dare la sua risposta in termini di applicazione delle norme vigenti, puntualmente ricorre alla decretazione d’urgenza, per “confezionare” una Legge adatta al caso particolare. O meglio, per introdurre una nuova sanzione o inasprirne una esistente, in base non alla gravità dell’offesa arrecata a un determinato bene giuridico, ma alle reazioni popolari rispetto a un fatto che è già previsto dalla Legge come reato. Eppure, il diritto penale è governato, tra gli altri, dai principi di frammentarietà e sussidiarietà, che ne delineano la funzione di extrema ratio, sicché questa “corsa” a strumenti sempre nuovi e diversi di compressione delle libertà individuali appare contraria a pressoché tutti i principi generali dell’ordinamento. Sulle pagine di questo giornale abbiamo più volte denunciato come la logica dello “stato d’assedio” stia consentendo l’introduzione di disposizioni legislative dal sapore liberticida, con aumento delle pene per reati già previsti dal codice e creazione di nuove figure di reato. E mentre aspettiamo, certo, il “decreto Brandizzo” (e abbiamo già visto il decreto “Willy”, il “Cutro”, il “rave party”…), il Governo approva il “decreto Caivano”, che rappresenta una summa davvero significativa di quello che è, oggi, l’esprit des lois in materia penale (ma non solo). La risposta dello Stato alla delinquenza (e, quindi, al disagio) giovanile è, come sempre, in termini di più massiccio ricorso a strumenti di privazione della libertà personale. Solo soglie minori per l’applicazione di misure cautelari e, soprattutto, misure di prevenzione personali. Disposizione che segna l’ennesimo passo verso la stabile sostituzione del diritto e del processo penale con il diritto ed il processo di prevenzione. Si tratta, a ben vedere, di una contraddizione sistematica tra il fenomeno che si intende reprimere e lo strumento di repressione prescelto. I provvedimenti di prevenzione, infatti, tranne quelli ablativi, sono misure di bando, di esclusione, di emarginazione, conformemente alla loro primitiva natura. Centocinquanta anni fa, servivano a tenere le città “pulite”; ad allontanare oziosi, vagabondi, mendicanti; a ghettizzare il “lumpenproletariat” nelle degradate periferie urbane; a confinare gli oppositori politici, i sediziosi, gli anarchici. Ma come si può pensare, oggi, di risolvere il problema minorile con il daspo urbano o con il foglio di via, cioè isolando e scacciando ragazzi, che sarebbe invece necessario recuperare e reinserire nel tessuto sociale “sano”, prima che costituiscano un problema ancora più radicalizzato? Come si può trattare un adolescente sbandato (spesso non per sua colpa) come un adulto pluripregiudicato? Si rischia soltanto di rendere definitivo lo scollamento tra devianti e “società civile”, di creare distanze non più colmabili, di costruire una generazione antagonista, come abbiamo visto nelle banlieue parigine, che sarà messa a vivere fuori dal recinto del benessere della borghesia urbana, illusa di essere al sicuro e invece perennemente assediata, come il forte Bastiani. Si tratta di scelte legislative dannose, rispetto allo scopo dichiarato. Utili solo a placare la sete di giustizialismo (e non di giustizia) delle masse votanti. È allora necessario recuperare il senso autentico del diritto penale, tenendo sempre presente la lezione di Bockenforde, secondo il quale “lo Stato liberale secolarizzato vive di presupposti che non è in grado di garantire. Questo è il grande rischio che esso si è assunto per amore della libertà”. Quando lo Stato fa ricorso ai mezzi della coercizione giuridica e del comando autoritativo, rinuncia alla propria liberalità, ricadendo nello stesso totalitarismo da cui aveva tentato di uscire dopo la caduta dei regimi autocratici. Per tale motivo, si dice che ogni privazione della libertà personale è una violazione della nostra Costituzione, che si giustifica solo nel rispetto di quei principi naturali che regolano l’ordinamento. *Avvocati “Custodia in carcere da ridurre”, dicono: intanto la ampliano per i minorenni di Consiglio direttivo della Camera Penale di Milano Il Dubbio, 13 settembre 2023 Dopo un’estate segnata da tragiche conferme circa il fallimento delle politiche che pongono il carcere al centro del sistema penale, dobbiamo registrare, con grande preoccupazione, un nuovo intervento che, nei contenuti che lo caratterizzano, nelle forme che lo contraddistinguono e nei presupposti da cui muove, risponde a logiche populiste e securitarie e, quel che è peggio, rischia di trascinare anche il sistema della giustizia minorile, fino ad oggi risparmiato da interventi demagogici e disorganici, verso una deriva panpenalista e carcerocentrica. Con la scelta della decretazione d’urgenza, che dovrebbe conseguire ad alcuni fatti assurti alle cronache nelle ultime settimane, si pretende d’individuare l’ennesima emergenza, alla quale, dunque, sarebbe lecito rispondere con strumenti d’eccezione, comprimendo il dibattito, impedendo di ragionare sui principi e, non ultimo, trascurando numeri, dati statistici, competenze specialistiche, che dovrebbero rappresentare il punto di partenza per ogni intervento di riforma. Ancora una volta si pretende di delegare alla giustizia penale, che dovrebbe occuparsi dei fatti e non dei “fenomeni”, la soluzione di problemi che, mai come nel caso del “disagio giovanile e della povertà educativa” evocate nel testo del decreto, meritano risposte diverse e meditate. La nostra critica, però, non è solo di natura culturale rispetto a interventi emergenziali adottati sull’onda dell’emozione, ma ancor prima tecnica. Al netto delle forti perplessità circa la ricorrenza dei requisiti di necessità e urgenza, sempre più spesso invocati per intervenire nel sistema penale e in quello processuale, è il merito del decreto, nella bozza in circolazione illustrata nella conferenza stampa del Governo, che desta preoccupazione. La decisione di ampliare in modo significativo la custodia cautelare e la facoltà di adottare misure pre-cautelari (attraverso l’abbassamento dei parametri edittali di riferimento, l’aggiunta di specifiche ipotesi di reato nonché l’introduzione del pericolo di fuga tra le esigenze che la giustificano), mira a una sostanziale equiparazione degli indagati minorenni (anch’essi assistiti, almeno lo si spera, dalla presunzione d’innocenza e tutelati dal “garantismo”, spesso usato come vessillo da questo Governo) a quelli maggiorenni e rischia di consegnare all’esperienza carceraria un numero crescente di giovani. Ciò in una fase del procedimento in cui ogni forma di detenzione dovrebbe rappresentare, per gli adulti e a maggior ragione per soggetti in fase evolutiva, l’extrema ratio, senza considerare l’interesse preminente del minore, che ha rappresentato da sempre il paradigma cui si ispira la legislazione, anche penale, minorile. Addirittura, con l’aumento di pena introdotto per l’ipotesi attenuata in tema di cessione di sostanze stupefacenti, si reintroduce la possibilità della misura custodiale inframuraria anche per fatti di limitata offensività, con il rischio di determinare un ulteriore aumento della popolazione carceraria, in un momento di forte allarme per la crescita significativa dei detenuti e per l’incessante dramma dei suicidi. L’estensione ai minorenni di misure di prevenzione, la cui inosservanza è presidiata da sanzioni penali identiche a quelle previste per i maggiorenni; la previsione dell’ammonimento anche per i minori di 14 anni (purché almeno dodicenni); l’ampliamento, attraverso l’abbassamento del parametro edittale di riferimento (da 5 a 3 anni di reclusione), delle ipotesi che consentono l’accompagnamento del minorenne colto in flagranza presso gli uffici di polizia; sono interventi che, ancora una volta, tendono ad ampliare la risposta penale e quella prevenzionale (quest’ultima caratterizzata, come da tempo denunciamo, da garanzie ridotte rispetto a quelle presenti nel processo penale). Con l’occasione, poi, secondo una consuetudine che ormai caratterizza tutti gli interventi di riforma, si prevede l’innalzamento dei minimi e massimi edittali per alcune fattispecie in tema di armi e, appunto, droga. Dulcis in fundo, s’istituisce una nuova ipotesi di reato, l’art. 570- ter c. p., che sanziona penalmente chiunque, rivestito di autorità o incaricato della vigilanza sopra un minore, omette, senza giusto motivo, d’impartirgli o di fargli impartire l’istruzione obbligatoria. Non possiamo non essere allarmati. Lo siamo in particolare per la nostra città, dove l’Ipm Beccaria è tuttora alla ricerca di un equilibrio tra una struttura perennemente in ristrutturazione e la necessità (alla quale vanno incontro più i numerosi volontari che non interventi strutturali) di effettivi progetti educativi e di reinserimento. In questo contesto e in una città dove mancano comunità idonee a costituire una valida alternativa all’espiazione inframuraria, ci pare evidente il pericolo che l’ulteriore incremento dei detenuti minorenni (che inevitabilmente deriverebbe dall’approvazione di questo provvedimento) comporti, quale conseguenza ulteriore, il loro trasferimento in istituti lontani e, dunque, lo sradicamento di ragazzi dal proprio territorio e dai propri affetti. Il decreto non è ancora stato pubblicato. Ci auguriamo che il Presidente della Repubblica possa condividere almeno in parte le nostre preoccupazioni. Ci auguriamo in ogni caso che anche il Parlamento rifletta prima di stabilizzare norme che introducono una brusca virata rispetto ai principi di un sistema penale minorile moderno, frutto di decenni di elaborazione e di interventi di studiosi, esperti, giudici ed operatori, che anche in tempi recenti hanno censurato scelte di penalizzazione ed automatismi rispetto a tale categoria di autori di reato, non certo irresponsabile ma evidentemente particolarmente vulnerabile, sol che si consideri l’art. 31 Cost. La galera “università del crimine” di Daria Bignardi vanityfair.it, 13 settembre 2023 Le bozze del decreto per trattare i delinquenti ragazzini come i criminali adulti sono solo propaganda: in Italia le leggi sui minori che delinquono ci sono già e sono ottime. Se non fosse che poi magari lo fanno davvero, le bozze del decreto per trattare i delinquenti ragazzini come i criminali adulti farebbero sorridere tanto sono smaccatamente pensate e promulgate sull’onda dell’emotività e della solita voglia di propaganda. In Italia le leggi sui minori che delinquono ci sono già e sono ottime, basta applicarle. Il comportamento del governo, col solito ministro che “parlando da papà” dice che 50enni e 14enni si meritano di “marcire in galera” allo stesso modo, è di un tale infantilismo che - se le cose dovessero davvero andare come strombazzano - dovrebbero cominciare ad aver paura loro per primi. Sono ragionamenti da adulti questi? L’ultimo Paese dove l’età imputabile è stata abbassata dai 14 ai 12 anni è stata la Cina, un paio d’anni fa, per dire a quali esempi di democrazia si ispirano i nostri. I bambini a questo punto dovrebbero organizzarsi: pretendere la patente, il diritto di votare, di sposarsi, di consumare alcolici e di giocare d’azzardo. Niccolò Ammaniti potrebbe scriverci un bel romanzo. Me li immagino questi bambini, col sigaro in bocca, mentre guidano l’auto coi cuscini sotto al sedere litigando al telefono col commercialista che non gli fa scaricare la Playstation dal 730. La maggioranza dei detenuti che ho incontrato mi ha raccontato la stessa storia: sono finiti in carcere per aver rubato un motorino, o contrabbandato sigarette, o spacciato hascisc, perché da ragazzini erano scemi e giocavano a fare i duri. “Sono entrato scemo e ne sono uscito delinquente vero. La galera è l’università del crimine” è quel che dicono quasi tutti. “Vietare, proibire, multare è il mantra degli adulti fragili, incapaci di farsi carico dei problemi con autorevolezza”, mi ha raccontato in radio il dottor Matteo Lancini della cooperativa Minotauro, uno che sui temi della crescita lavora da sempre. Un governo di adulti dovrebbe innanzitutto conoscere i suoi strumenti, per non parlare dello stato delle carceri dove vuole chiudere anche i bambini e magari “buttare via la chiave”. Lo slogan trucido “sbattili dentro e butta via la chiave”? Lascia il tempo che trova di Michele Serra ilpost.it A proposito di baby gang e criminalità giovanile. Per andare alla radice del problema sarebbe necessario un lungo lavoro di risanamento sociale e di cura individuale. Servono insegnanti, assistenti sociali, psicologi, carceri che rieduchino e non abbrutiscano. Servono dignità e decoro nei posti dove si abita e dove crescono i futuri adulti. Posizioni (e conoscenze) in evidente contrasto con le misure, piuttosto sbrigative, annunciate dal governo italiano, che soprattutto con alcuni suoi esponenti invoca il classico “giro di vite”, il ricorso a misure punitive e restrittive, estendendo anche ai minorenni le pene in vigore per gli adulti. In galera chi delinque, anche se ha 14 anni, senza fare storie e senza troppi piagnistei. Nel solco di quello slogan trucido che riecheggia, da anni, nei peggiori comizi e nelle chiacchiere social più sbrigative: sbattili dentro e butta via la chiave. Ho condiviso al cento per cento quello che ha scritto Massimo Ammaniti, neuropsichiatra infantile e psicoanalista illustre, su Repubblica. Ma ho anche pensato (capita di pensare due cose contemporaneamente) che le sue giuste considerazioni su quanto occorrerebbe fare contengono, tutto intero, il drammatico problema che penalizza politicamente la sinistra; e premia la destra. Un eventuale “pacchetto Ammaniti”, contenente le proposte più efficaci (comprovatamente efficaci) dal punto di vista medico, educativo, sociale, richiede tempo e fatica. Molto tempo, molta fatica, in cambio di risultati certo non immediati. Che non producono titoli di giornale e di telegiornale. Che non parlano all’emotività delle persone, ma alla loro ragione. Che non portano voti. E questo tempo, questa fatica, a una parte consistente della pubblica opinione, sembrano pretestuosi. Fiato sprecato. Un menare il can per l’aia i cui effetti non sono visibili: vuoi mettere una bella retata, che in una mezza giornata ripulisce un quartiere? (poi la mattina dopo tutto torna come prima: ma è la mattina dopo). La sinistra - termine che uso con tutte le necessarie avvertenze: si tratta di un’approssimazione - è molto vocata alla definizione dei problemi, cerca di analizzarli nella loro complessità (parola ormai quasi inascoltabile, per colpa di tutte le volte che siamo stati costretti a usarla). Ma molto spesso non è in grado di offrire soluzioni. Non, almeno, quelle soluzioni di immediata “sonorità”, tipo “butta via la chiave”, che fanno il rumore secco e forte del tappo che salta, della frase che chiude il discorso, dello slogan che fa strage, in una sola riga, di tutte le coordinate e le subordinate. Basta complicazioni. Basta chiacchiere. Basta con il latinorum degli intellettuali. Meglio una sola operazione di polizia che cento convegni di criminologia. Facciamola finita, no? La mentalità di destra - ripeto, scrivendo “destra”, le stesse avvertenze usate prima per “sinistra” - è dunque l’antidoto quasi automatico alle lungaggini dialettiche, e alla fine anche politiche, della sinistra. Lo stupro è il frutto di secoli di cultura patriarcale? Ma va’ là! Castrazione chimica e non se ne parla più. Il ragazzino scippatore è figlio del degrado sociale del suo quartiere e di famiglie incapaci di produrre mezza regola etica, anche di terza scelta? Sì, va beh, sarà anche, ma intanto mettiamolo dentro (“a marcire in galera”, come si usa dire dalle parti del Salvini, che per altro è vicepresidente del Consiglio). Non sto qui a ripetervi - lo sapete già - che nel medio e nel lungo periodo sarà sempre la complessità (che è poi la realtà, è la natura delle cose) a vincere: e le soluzioni strillate, i modi bruschi, le scorciatoie vecchie come il cucco alla fine si riveleranno, loro sì, tempo perso, fiato sprecato, faccia feroce che non spaventa nessuno. Voglio aggiungere, però, che a rendere doveroso omaggio alla complessità certe volte ci si stanca. E ci si deprime, e si vorrebbe portare a sintesi quello che si è pensato e che si è imparato. E facciamo una enorme fatica a farlo, noi “di sinistra”, e in certi momenti quasi invidiamo la facilità, stavo per dire la faciloneria, con la quale molta destra spara le sue certezze. Nella politica l’analisi è tutto, ma senza sintesi si rischia di diventare dei cacadubbi. La vecchia epoca degli slogan sui manifesti, e gridati dai megafoni, noi boomers ce la ricordiamo bene. Quasi nessuno di quegli slogan è ripetibile e utile, il tempo li ha resi carta straccia, come i manifesti laceri che volano per la strada a elezioni avvenute (e generalmente perse…). Ma almeno un paio di slogan nuovi, di quelli che colpiscono e danno l’idea che almeno un problema su dieci lo si possa affrontare al galoppo, infilzandolo nello spadone: beh, non mi dispiacerebbe. Ci vorrebbe un concorso nazionale: regala uno slogan decente alla sinistra. Semplificale la vita. Sollevala, povera sinistra, dal suo paralizzante complesso della complessità. L’anomalia della giustizia minorile va difesa di Vincenzo Scalia Il Manifesto, 13 settembre 2023 Era nell’aria. Dopo anni di pagine di cronache locali e nazionali infestate da notizie sulle baby gangs, seguite da proclami legge e ordine, era scontato che l’attuale maggioranza intervenisse sui minori. Innanzitutto, la sfera penale minorile, ha sempre rappresentato un cruccio per la destra. Ricordiamo il 2004, quando l’allora Guardasigilli leghista, Roberto Castelli, propose il pacchetto di riforma della giustizia minorile, prontamente dichiarato incostituzionale e accantonato. In questi anni, però, le forze dell’attuale coalizione governativa, non hanno mai desistito, fino ad arrivare a questo decreto, che chiude il cerchio. Il decreto Caivano, rappresenta l’epifania della versione 2.0 della triade Dio, Patria e Famiglia, mostrando la sua pregnanza e arroganza propagandistico-ideologica. Il Daspo ai quattordicenni, il sequestro dei cellulari, l’ammonimento ai dodicenni, la multa e il carcere per i genitori che non mandano i figli a scuola, altro non sono che la riproposizione di una concezione punitiva vecchio stampo, tinteggiato con l’early intervention inglese introdotto da Tony Blair nel 1998. C’è voluta la visita a Caivano, ovvero una delle presunte Gomorre italiane, con tanto di benedizione del prete anti-camorra di turno. Un decreto che si connota come una sorta di manuale Cencelli della tolleranza zero: securitarismo leghista in salsa fratellitalica, con un pizzico di paternalismo di cattolicesimo tradizionalista che gli conferisce il sapore finale. Si vogliono aumentare le pene di lieve entità per il consumo della canapa. Eppure, altre realtà, come gli USA, hanno legalizzato la cannabis in 21 stati. La giustizia minorile italiana, si pone in controtendenza rispetto all’ondata di populismo penale che ha egemonizzato, negli ultimi trent’anni, l’agenda pubblica. Il doli incapax italiano, vale a dire l’età minima d’imputabilità dei minori, è tra le più alte d’Europa, contro gli 11 anni dell’Inghilterra, i 13 anni di Francia e Spagna e i 7 (!) dell’Irlanda. Il carcere, per i minori italiani, rappresenta una risorsa residuale. Solo 360 reclusi negli IPM (Istituti Penali Minorili), pongono l’Italia in una posizione in controtendenza rispetto al resto del Continente. Se da un lato bisognerebbe considerare le differenze tra Nord e Sud, la soglia di discriminazione di migranti e rom, se bisognerebbe considerare altresì il mutamento di scenari da quando i giovani adulti scontano la pena negli IPM, dall’altro lato è evidente che la giustizia minorile, in Italia, va in controtendenza rispetto al sistema penale adulto. Un’anomalia che, chi mostra i muscoli per bandiera, ha bisogno di cancellare. In secondo luogo, bisogna chiedersi: chi sono i “minori”? Siamo un paese ormai endemicamente affetto dal declino della natalità, per cui, i giovani compresi nella fascia d’età tra i 14 e i 18 anni, sono una minoranza rispetto agli over 65. Questa condizione di marginalità li rende privi di potere contrattuale, quindi un bersaglio facile da colpire. Ma, soprattutto, i minori oggi sono quelli che possiamo definire come Italiani senza cittadinanza. Nati e cresciuti in Italia, ma che, per la mancanza cronica di una legge che introduca lo ius soli o lo ius scholae, sono condannati ad una marginalità che li rende invisibli (o meglio rimossi) alla società, e visibili al sistema penale. A loro bisogna aggiungere i minori non accompagnati. Sarebbero gli Italiani del futuro, ma, un bieco calcolo politico, che poggia sul securitarismo, ne fa un’articolazione della migrazione come problema di ordine pubblico. Punire i minori, quindi, significa suonare le campane a morto per ogni velleità di integrazione sociale e politica dei migranti. Eppure, perfino la Gazzetta dello Sport, che si occupa di altro, sostiene di dare la cittadinanza ai giovani nati in Italia per salvare la Nazionale. Un governo all’altezza della Nazionale di calcio di Mancini. Da squalificare. Il fine è sempre lo stesso: criminalizzare i giovani di Leonardo Fiorentini* fuoriluogo.it, 13 settembre 2023 Il decreto “Caivano” fa il paio con l’operazione ad alto impatto (solo mediatico) delle forze dell’ordine di qualche giorno fa. Un intervento puramente propagandistico del Governo Meloni che non incide in alcun modo su cause di degrado e disagio, se non con un intervento spot a Caivano, comunque sbilanciato sul lato repressivo. Implementa ulteriormente invece il sistema repressivo, assecondando la bulimia penale ormai patologia del nostro paese. Come per il decreto Rave i giovani sono il nemico, le droghe lo strumento, la repressione il fine ultimo. Nessun investimento sulla cultura, sull’educazione sessuale, sulle politiche giovanili: basta un osservatorio sui giovani, considerati solo perché devianti, e l’estensione dei DASPO ai quattordicenni e più carcere per lo spaccio di lieve entità. Nessun investimento reale sul sociale e sulla salute, sul lavoro, sulla prevenzione dei NEET (gli inattivi): solo interventi spot, ma arresto in flagranza dei minori per droghe che però poi potranno avere l’alternativa dei lavori socialmente utili. Nessun investimento strutturale sul sistema scolastico e sulle cause della dispersione scolastica: briciole per le scuole del Sud, compensate dal carcere per i genitori. Il populismo penale permette questo: dare l’apparenza di fare qualcosa, rispondendo ad una legittima domanda di sicurezza, senza dover mettere mano al bilancio e alle politiche pubbliche. È pura apparenza che per contraltare ha immensi costi sociali, culturali ed economici. Sia in termini di apparato repressivo e di detenzione che di salute e di ricadute sociali e culturali. Oltre che la grande colpa di continuare a criminalizzare i giovani. Alzare poi le pene per i fatti di lieve entità è un provvedimento ingiustificato e gratuito che non avrà alcun effetto sulla presenza di spacciatori sulle strade. Questi già vengono arrestati in flagranza e finiscono giudicati, la gran parte in direttissima, con un rapporto complessivo di condannati per processo di 7 a 10. Per gli altri reati il rapporto è 1 ogni 10. Saranno come sempre sostituiti da altri, molti di questi disponibili a correre il rischio anche perché confinati nell’illegalità dalla Bossi-Fini. Avrà invece un pesante effetto sulle nostre carceri (già per un terzo piene di “spacciatori”) per via dell’insensato allungamento delle pene. E soprattutto sulle persone che vi entrano. Mentre viviamo una vera e propria crisi rispetto ai suicidi nelle nostre prigioni, è inconcepibile far entrare più persone, sempre più giovani, nel circuito detentivo. Il Governo Meloni fa proprio questo, assecondando una tendenza che ha visto già l’anno scorso aumentare del 15% i minorenni accusati di spaccio. La distinzione fra spaccio “ordinario” e fatto lieve è molto variabile, e ancor più flebile il limite fra lieve entità e possesso per uso personale. Secondo uno studio della Cassazione, pubblicato sul Libro Bianco quest’anno, si può essere condannati per spaccio “ordinario” sin da 0,6 grammi di cocaina, mentre il range per la lieve entità risulta essere tra 0,2 e 150 grammi. Per cannabis il limite inferiore per la punibilità è 0,55 grammi, solo 0,05 grammi sopra la soglia definita dal Testo Unico per il consumo personale. Certamente dipende dalle circostanze e dal Giudice, ma molto - se non tutto - dalla condizione socioeconomica dell’imputato. Non serve prova dello scambio, è sufficiente la detenzione. Per supporre lo spaccio bastano pochi elementi - contanti, bilancia, a volte la sola pellicola trasparente - presenti in tutte le case. Un’inversione di fatto dell’onere della prova che è difficile affrontare senza un’adeguata difesa. Mentre le politiche più avanzate, e le stesse agenzie dell’ONU, sollecitano un processo di decriminalizzazione del sistema di controllo sulle droghe, invitando gli Stati a sostituire il carcere con percorsi alternativi risocializzanti, il Governo Meloni fa il contrario. Il Sottosegretario Mantovano, che il 26 giugno scorso diceva di essere interessato alla persona e non alla sostanza, ha gettato la maschera e nascosto la carota. Poco conta la messa alla prova estesa ai minori, l’unica ricetta è la punizione. *Segretario di Forum Droghe Guardare Caivano con occhi diversi di Stefano Filippi it.clonline.org, 13 settembre 2023 Le violenze, la camorra, l’abbandono. E l’intervento dello Stato: “Finalmente, ma non basta. Occorre uno sguardo nuovo su quei ragazzi”. Parla Giovanni Iovinella, in prima linea nel carcere minorile di Nisida. Giovanni Iovinella - ma tutti lo chiamano Felice - Caivano la conosce bene. Da tempo aiuta un ex detenuto, Bruno Mazza, fondatore dell’associazione “Un’infanzia da vivere” che dal 2008 è attiva nel Parco Verde del sobborgo di Napoli. “A Caivano le strade e le palazzine sono tutte uguali e quando vado a trovare Bruno capita di perdere l’orientamento”, dice. “A quel punto sbucano dal nulla tre scooter. Uno dei conducenti mi chiede dove devo andare. Mi scortano, uno davanti e due dietro. A destinazione suonano, si accertano che non abbia raccontato bugie, salutano e se ne vanno. È così che la malavita controlla il territorio. Hanno sentinelle agli angoli delle strade e sui tetti, ragazzi pagati 50 euro al giorno soltanto per tenere gli occhi aperti e segnalare le auto di carabinieri, poliziotti e intrusi. Nient’altro”. E chi li schioda questi? “Soltanto un lavoro dignitoso”, risponde Felice. “E qualcuno che li guardi con occhi diversi”. Iovinella non è un educatore né un assistente sociale. È un architetto che da anni frequenta come volontario il carcere minorile di Nisida, piccola isola al largo di Posillipo, dove insegna ai ragazzi come si eseguono restauri e lavori di muratura in un laboratorio edile interno. Si trovava nel penitenziario anche quando vi è stato rinchiuso il diciassettenne reo confesso dell’omicidio di Giovan Battista Cutolo, il musicista ucciso il 31 agosto in piazza Municipio a Napoli. “Ero lì con tutti i miei pensieri di giustizia giusta e pena esemplare. Poi me lo sono visto davanti, un ragazzo con il mio stesso cuore. Come stare con lui e con quelli come lui? Bisogna poterli accompagnare. Da giovane ho fatto ammattire mia madre. Sono stato cambiato dallo sguardo e dalla compagnia di un professore che ha preso per mano le teste calde come me facendomi incontrare l’Unico che dà senso alla vita”. Il Parco Verde di Caivano è figlio di uno Stato assente. Il quartiere fu edificato dopo il terremoto del 1980 per accogliere gli sfollati di Napoli. “Costruito e abbandonato”, racconta Iovinella. “Non ci sono servizi pubblici, ambulatori, centri sportivi, luoghi di ritrovo. L’unica scuola, un istituto comprensivo, è stata aperta meno di dieci anni fa. La preside, Eugenia Carfora, al mattino fa il giro della zona per raccogliere dalla strada gli assenti e portarli in aula”. Ha letto il “decreto Caivano” approvato dal governo dopo la visita della premier Giorgia Meloni? “Sì, finalmente lo Stato interviene. Ma non può bastare. Mi ha fatto tornare in mente un’immagine citata da don Giussani, quella di migliaia di uomini intenti a costruire un ponte per unire la terra al cielo. Uno sforzo “grande e nobile, ma triste” perché la sproporzione è incolmabile dall’uomo. Del resto, dopo il decreto, in pochi giorni ci sono già state due “stese”“, cioè le sparatorie dimostrative della camorra. Che cosa possa servire, Iovinella lo spiega per esperienza: “L’ultima volta che ho visto Mazza, mi ha detto: “Architè, sono venuti in tanti ma nessuno ha parlato con noi. A me va bene tutto, ma facciamolo assieme”. Lo Stato deve implicarsi con queste realtà. Nel cuore del Parco Verde l’associazione di Bruno ha realizzato un campo da gioco: calcetto, basket, pallavolo. Il suo ufficio è in un vecchio container donato da un’azienda di trasporti che lo usava come biglietteria. Ogni giorno almeno 15 mamme lo puliscono gratis: è il loro modo per ringraziare chi toglie i figli dalla strada. Come Bruno ci sono la preside Carfora, don Patriciello, ma anche società di formazione come la Consvip e gli Iefp (istituti di istruzione e formazione professionale) che avviano al lavoro i ragazzi che non vogliono più studiare. Mentre in Lombardia, e penso in altre regioni, sono considerati istituti scolastici a tutti gli effetti, da noi sono scuole di serie B, dove “far fare qualcosa ai ragazzi” purché non stiano per strada. Invece sono luoghi in cui quegli stessi giovani scoprono di “valere”, avendo a che fare con adulti che li prendono seriamente a cuore e non perdono di vista la loro umanità. Fanno capire che il lavoro è scoperta di sé. Dovreste vedere come impastano la pizza i ragazzi di Bruno”. Formazione, studio, lavoro. “Qualche anno fa”, racconta Felice, “il direttore del carcere di Nisida mi mandò un ragazzino che non voleva fare nulla. La prima volta che lo portai nel cantiere, mi disse: “Feli’, ricordati i patti, io non devo fare niente”. E io: “Alfo’, pensa solo a starmi vicino”. A un certo punto prendo scopa e paletta per raccogliere le cicche di sigarette. Una volta, due, tre. Un certo giorno entra anche lui nel capannone, prende gli attrezzi e mi dice: “Feli’, tu cominci di là e io di qua, vediamo chi finisce prima”. E quando un ragazzo da un traliccio ha gettato a terra un mozzicone, lui si è infuriato: “Guarda che io sto lavorando per te”. Così ha scoperto il valore del lavoro e della sua dignità, per sé e per gli altri. Ma il lavoro dev’essere vero, dignitoso, con la possibilità di sperimentare il bene e il bello in una compagnia umana. Se non spieghi le ragioni del gesto, se non educhi la persona, puoi dare anche 100 euro al giorno a un ragazzino, ma prima o poi tornerà a fare la sentinella per la camorra”. Separazione delle carriere, nuovo scontro: per l’Anm è un “cavallo di Troia della politica” di Angela Stella L’Unità, 13 settembre 2023 Per le toghe l’intento è “assoggettare giudici e pm al potere politico”. Insorgono i penalisti: “Sono idee pericolose per la democrazia”. Si infiamma lo scontro tra Anm e Ucpi sul tema della separazione delle carriere. Era inevitabile: un totem per la prima, un monumento da abbattere per la seconda. Il tutto avviene tra sabato e domenica: a Roma è in corso il Comitato direttivo centrale dell’Associazione nazionale magistrati che licenzia quasi all’unanimità il documento ‘Cavallo di Troia’: “L’Anm esprime grande preoccupazione per i contenuti dei disegni di legge in discussione dinanzi alla Commissione affari costituzionali della Camera di deputati che, nel riprodurre fedelmente la proposta di iniziativa popolare presentata dalle Camere Penali nella XVII legislatura, rivelano, al di là dei propositi annunciati nelle relazioni illustrative, l’intento di assoggettare tutti i magistrati, giudici e pubblici ministeri, al potere politico”. Il punto centrale è proprio questo: per le toghe guidate da Giuseppe Santalucia le proposte in discussione hanno il reale obiettivo di assoggettare persino i giudici al potere politico, un po’ in stile polacco e ungherese. Domenica è arrivata la reazione durissima dell’Unione Camere Penali. “L’Anm ha licenziato un documento gravissimo - si legge in una nota -. Per proporre le solite faziose e indimostrate critiche al progetto di riforma della separazione delle carriere dei magistrati, getta la maschera lanciandosi in considerazioni e idee pericolose per la democrazia e in alcuni spropositi culturali e giuridici”. Ciò che desta maggiore allarme “non è tanto il merito delle osservazioni critiche rivolte alle varie proposte di legge oggi, che si afferma riproducono “fedelmente la proposta di iniziativa popolare presentata dalle Camere Penali”. Si tratta in larga parte di obiezioni ben conosciute, tutte caratterizzate da una capziosa faziosità, interamente volte a dimostrare ciò che il testo di tutte quelle proposte invece esplicitamente nega, è cioè la fantomatica sottoposizione del PM al potere esecutivo”. Quello che realmente ha suscitato la severa reazione dell’Ucpi è che “ora anzi Anm gioca al rialzo, pretendendo di sostenere che la volontà della “Politica” sarebbe in realtà quella di sottoporre indistintamente giudici e pubblici ministeri al proprio indiscriminato controllo. Ciò avverrebbe, tra l’altro, perché nei due Csm conseguenti alla separazione delle carriere, la presenza dei componenti di parte politica è prevista come paritaria e non più minoritaria”. Per tutto questo i penalisti auspicano che “Parlamento, Governo e forze politiche di maggioranza e di opposizione sappiano cogliere la straordinaria gravità del documento licenziato dal Cdc nazionale di ANM, sulla prospettiva della riforma costituzionale della separazione delle carriere” e si convincano “di quanto quella della separazione delle carriere sia la sola riforma davvero indispensabile per cambiare il volto della giustizia penale nel nostro Paese”. Ora c’è da chiedersi cosa faranno il Parlamento e il Governo dinanzi a tutto questo. Più che via Arenula deciderà la premier Meloni insieme a Mantovano. Intanto ieri si è tenuto un faccia a faccia nella sede dell’Anm tra il presidente dell’Ucpi, Gian Domenico Caiazza, e il magistrato in pensione Armando Spataro, tra i 500 firmatari come lui ritiratisi, che hanno sottoscritto un appello contro la separazione delle carriere. Caiazza: “Ho letto il documento sottoscritto dai magistrati a riposo, rilevo che per lo più sono inquirenti. Nessuno di noi immagina che una riforma ordinamentale di separazione delle carriere sia una sorta di panacea che risolva tutti i problemi dell’amministrazione della giustizia e trasfiguri il processo in un processo giusto. È uno schema che appartiene alla stragrande maggioranza delle democrazie europee ed extra europee anche se in maniera diversa. A ragion veduta, una delle poche eccezioni è la Francia che conferma la regola, perché ha un sistema processuale inquisitorio. Mentre il processo accusatorio esige invece la separazione: si tratta di dare coerenza ad un sistema in cui il giudice è equidistante da accusa e difesa. Veniamo accusati di voler mettere il pm sotto il controllo della politica. La nostra proposta dice chiaramente altro: “L’ordine giudiziario è costituito dalla magistratura giudicante e dalla magistratura requirente ed è autonomo e indipendente da ogni potere”. Per Spataro invece “la separazione delle carriere non è un problema fondamentale della nostra giustizia. È singolare che quasi tutte le pdl siano frutto di un copia e incolla tra di loro e di conseguenza di quella dell’Ucpi. Perché allora non firmare tutti insieme una proposta? Aggiungo che non è vero che l’intera avvocatura è a favore della separazione delle carriere, come Franco Coppi”. Noi ricordiamo a Spataro che anche tra i magistrati c’è chi è a favore della separazione delle carriere, come il togato del Csm Andrea Mirenda e pm di Napoli Paolo Itri. L’avviso di Manes: abuso d’ufficio, sull’abrogazione si rifletta ancora di Errico Novi Il Dubbio, 13 settembre 2023 Il giurista contribuisce a “tenere aperta” la partita, ma dopo che, da Fdl, Rastrelli ha ribadito la volontà di cancellare l’illecito, in gioco c’è solo l’equilibrio di sistema. Si procede, incoraggiati da una convergenza ormai senza riserve nella maggioranza. Ieri sul ddl penale di Nordio la commissione Giustizia di Palazzo Madama ha compito un altro passo avanti, con una nuova giornata le audizioni svolte tra i tecnici del diritto. E ha pesato in particolare l’intervento di uno dei più apprezzati studiosi della materia penale, il professore dell’Università di Bologna, Vittorio Manes. Il quale ha espresso una valutazione in gran parte positiva, anzi “senz’altro positiva sui principi e sui contenuti valoriali del provvedimento”. In modo solo in parte sorprendente, Manes ha suggerito “una valutazione aperta” sul passaggio più delicato e politicamente discusso del ddl penale firmato dal guardasigilli, l’abrogazione dell’abuso d’ufficio. In sostanza, il discorso del professore dell’università da Bologna segnala come la “patogenesi, nel caso dell’articolo 323, non riguardi ormai la redazione formale della norma, ma la interpretazione che tuttora se ne fa ad opera di certa magistratura inquirente. Quindi, siamo d’accordo sulla diagnosi. E perrestare nella metafora”, è l’analisi suggerita da Manes ai senatori della commissione Giustizia, “la soluzione abrogativa è una terapia possibile: in questi casi è chiaro che bisogna preoccuparsi anche della prognosi, vale a dire dei controeffetti che potrebbero prodursi”. Il giurista impegnato da anni al fianco deH’Ucpi si riferisce a un “carattere tipico del diritto penale, materia che aborre i vuoti: questi ultimi vengono fatalmente colmai con altre fattispecie. Ebbene”, ha fatto notare Manes, “diversi pm vedono spesso nell’abuso d’ufficio una corruzione non provata. Potrebbe voler dire che, nel momento in cui scomparisse il reato di cui all’articolo 323, si potrebbe ampliare il ricorso all’ipotesi di corruzione per esercizio della funzione”. E interessante il risvolto politico di un’analisi come quella suggerita da Manes. Proprio in un’intervista rilasciata al Dubbio pochi giorni fa, un autorevole rappresentante di Fratelli d’Italia nella commissione giustizia di Palazzo Madama come Sergio Rastrelli (che dell’organismo presieduto da Giulia Buongiorno è segretario) ha allontanato le voci secondo cui il partito della premier sarebbe perplesso sulla soluzione trovata da Nordio, l’abrogazione del reato appunto, e già sarebbe al lavoro per una riformulazione della norma. Rastrelli è stato chiaro nel dire che “Fratelli d’Italia punta ad abolire l’articolo 323 perché vuole una pubblica amministrazione efficiente”. Non ci sono incertezze o divisioni politiche: significa che il centrodestra, e lo stesso guardasigilli, saranno liberi di riflettere sulla scelta migliore da compiere in chiave esclusivamente tecnico- sistemica, liberi da riserve mentali magari taciute che trasformerebbero il dibattito in una guardinga partita di scacchi. Ieri dunque Manes ha sostanzialmente rimesso sul tavolo della maggioranza, oltre che dell’intera commissione, un aspetto già fatto emergere anche da alcuni magistrati: il rischio che senza l’abuso d’ufficio si estenda lo spettro applicativo di altri reati. Il professore di Diritto penale dell’Università di Bologna ha invece escluso l’altra incognita che pure per settimane ha pes ato sul ddl Nordio, vale a dire lo spettro di un’incostituzionalità legata alla violazione degli accordi internazionali. “E da escludere una dissonanza fra l’eventuale rinuncia all’abuso d’ufficio e la Convenzione Onu di Merida. Tale accordo”, ha spiegato il giurista ai senatori, “distingue in modo netto fra due tipologie di reati. Contiene, perle fattispecie corruttive, l’espressione secondo cui gli Stai firmatari shall adopt, cioè adotteranno, in forma prescrittiva, nei loro ordinamenti norme che configurino quelle condotte come illecito. Nel caso dell’abuso d’ufficio la Convenzione dice invece che gli Stati shall consider adopting, cioè valuteranno di adottare”. Chiarissimo. Il vincolo non c’è. La Convenzione del 2005 lascia dunque i Paesi sottoscrittori liberi ricorrere o meno a una specifica figura di reato per l’abuso d’ufficio anche alla luce del quadro complessivo della loro legislazione interna. “Non è dunque da temere, in linea generale, una censura della Corte costituzionale rispetto a un’abrogazione dell’abuso d’ufficio. Qui la scelta”, ha chiarito Manes, “è davvero solo politica: il legislatore deve valutare non la legittimità di una certa soluzione ma le sue possibili conseguenze”. Manes ha promosso anche il resto del ddl, pur con alcuni rilievi sulle modifiche nel campo delle intercettazioni: “Va valutata l’opportunità di prevedere conseguenze, o anche solo incentivi negativi, per chi pubblicasse indebitamente atti che violino la privacy di indagati e terzi estranei”. Resta, dal passaggio di ieri, l’idea di una maggioranza che potrà scegliere. Non per convenienze o tatticismi, ma davvero solo per l’equilibrio del sistema. Intercettazioni, Bongiorno: “Strumento irrinunciabile ma non aumentino quelle preventive” di Liana Milella La Repubblica, 13 settembre 2023 Presenta la bozza conclusiva del lavoro fatto insieme al forzista Zanettin e al meloniano Berrino. Le intercettazioni sono “irrinunciabili”, checché ne dica il guardasigilli Carlo Nordio che sta giusto preparando un intervento su questo. Sono “uno strumento di ricerca della prova”, ma vanno evitati “gli abusi e la compressione delle libertà fondamentali”. Dunque, correzioni legislative sì, tutela della privacy sì, ma nessuna proposta che equivalga a una stretta indiscriminata sulla possibilità di utilizzare gli ascolti. Al Senato la presidente della commissione Giustizia Giulia Bongiorno presenta la bozza della relazione conclusiva del lungo lavoro fatto assieme ai correlatori Pierantonio Zanettin di Forza Italia e Giovanni Berrino di FdI. Ed è molto indicativo che a parlare di ascolti in questo modo - maggiori garanzie sì, ma le intercettazioni sono fondamentali per trovare la prova - siano tre esponenti del centrodestra che rappresentano tutta la maggioranza. Uno stop proprio a tentativi di limitare le intercettazioni anche in vista delle norme in cottura in via Arenula. Relazione corposa e tecnica di 53 pagine, dopo aver ascoltato una cinquantina di esperti tra magistrati, forze di polizia, garanti, costituzionalisti e giuristi, nonché magistrati famosi sia in servizio che in pensione, e che nelle ultime 15 fornisce al governo i suggerimenti per adeguare il sistema delle intercettazioni in chiave garantista. Come scrive la relazione “il livello delle garanzie va reso proporzionale al grado di invasività dello strumento”. Soprattutto perché la gestione è affidata ai privati. Al centro dell’attenzione c’è il Trojan che richiede nuove regole d’ingaggio. A partire dalla sua capacità di “acquisire documenti o realizzare ispezioni e perquisizioni”. Qui viene subito sollecitata “una disciplina specifica che attui il principio di proporzionalità per ricondurre il captatore informatico nell’alveo dei mezzi di ricerca della prova”. Proprio come sostiene il procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo Gianni Melillo - che giusto ieri alla Camera ha difeso il decreto legge del governo per “salvare” le intercettazioni sulla criminalità organizzata - la sfida è tutta tecnologica perché l’Italia è palesemente indietro rispetto ad altri paesi. Infatti la relazione cita proprio il decreto-legge del 10 agosto, nella parte in cui prevede un adeguamento dei server in capo al ministero della Giustizia, lo stesso “promosso” da Melillo poche ore prima della relazione al Senato di Bongiorno, Zanettin e Berrino. Ovviamente il rapporto mette in luce anche i punti negativi del sistema delle intercettazioni, a partire dal “diritto di difesa” subito dopo il deposito dei risultati delle intercettazioni “per via dei limiti posti all’ascolto delle registrazioni ritenute non rilevanti dal pm che rappresenta un vulnus nella misura in cui non consente sempre al difensore di poter esaminare il materiale intercettato aldilà della valutazione di rilevanza compiuta dal pm”. E ancora l’utilizzo degli ascolti in un procedimento diverso da quello per cui sono stati chiesti, già disciplinato dalla sentenza Cavallo delle Sezioni unite della Cassazione. Le intercettazioni preventive - Il Guardasigilli Nordio le preferisce e soprattutto nei primi interventi del suo dicastero sembrava propendere per questa soluzione. Parliamo di intercettazioni disposte dalla polizia e quindi incontrollabili anche perché non utilizzabili dai giudici nel processo. E qui la commissione spezza una lancia contro questo tipo di intercettazioni laddove scrive che “la tutela della riservatezza e della sfera individuale dei cittadini possono essere assicurati solo attraverso idonee procedure di garanzia, necessariamente inserite all’interno di un procedimento giurisdizionale”. E aggiunge che “solo la supervisione di un giudice terzo ed imparziale è in grado di assicurare un costante controllo delle procedure e la tutela di diritti inviolabili degli individui”. Seguendo questa strada le intercettazioni finirebbero “per diventare indiscriminatamente mezzi di ricerca della prova senza che su di esse possa direttamente fondarsi la decisione del giudice”, mentre “deve essere riaffermato il perimetro fissato dall’articolo 15 della Costituzione per cui il limite del principio di inviolabilità e segretezza della corrispondenza e di ogni forma di comunicazione può avvenire soltanto in forza di un atto motivato dell’autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge”. Un richiamo forte alla Costituzione che non ammette deroghe. Intercettazioni e stampa - A fronte di richieste drastiche, come quelle di Enrico Costa di Azione, di vietare del tutto la pubblicazione dell’ordinanza di custodia cautelare, autorizzata dalla riforma del 2017 dell’allora Guardasigilli Andrea Orlando, la commissione dà un consiglio alle procure e scrive: “Appare fondamentale un self restraint del pm, ma anche della polizia giudiziaria di non scrivere conversazioni che appaiono prive di rilevanza processuale”. E ne tantomeno quelle che contengono dati sensibili. Peraltro la commissione dà atto che “dell’entrata in vigore delle nuove norme c’è stata una forte riduzione delle intercettazioni venute a conoscenza degli organi di informazione e quelle diventate oggetto di cronache giornalistiche sono state sempre di rilevante interesse pubblico”. E cita la giurisprudenza della Corte dei diritti dell’uomo che ha stabilito “la possibilità di pubblicare le intercettazioni quando vi sia un interesse pubblico in quanto la collettività deve essere informata sui procedimenti penali di interesse generale”. La durata delle intercettazioni - Arriva a pagina 51 uno dei capitoli più delicati sulle intercettazioni, e cioè la loro proroga quando sono già in atto. Anche se la commissione scrive che “la loro durata potrebbe diventare incompatibile con l’inviolabilità della segretezza e della libertà delle comunicazioni determinando anche il rischio di un’inutile compressione di tali diritti fondamentali”. E qui la relazione suggerisce a Nordio “un intervento chiaro prevedendo che il pm, di fronte a nuovi indizi relativi ad altro reato e ad altro indagato, debba procedere a una nuova iscrizione, a un nuovo procedimento o a una nuova richiesta di autorizzazione, mentre ove si tratti di reati collegati che non richiedono una nuova iscrizione, il termine dovrebbe decorrere dalla prima iscrizione”. Il suggerimento della commissione, sull’esempio tedesco e francese, è che sia prevista “una durata fissa tout court”. E per dare maggiori garanzie la commissione suggerisce che “il giudice esamini sin dall’inizio l’intero fascicolo delle indagini al fine di poter conoscere il contesto e il ruolo del soggetto che si intende intercettare”. Il Trojan - Sotto accusa c’è proprio il captatore informatico a cui la commissione ha dedicato molta attenzione, anche con la visita alle sale ascolto di Roma e di Milano. La relazione ne mette in evidenza “la spiccata efficacia intrusiva” che rende necessario “prevedere rimedi al rischio di alterazione”. La commissione chiede di prevedere “legislativamente il tracciamento obbligatorio di tutte le operazioni effettuate in modo da registrare eventuali manipolazioni”. Dunque una “specifica block chain per i captatori informatici”, come chiede lo stesso procuratore Melillo. Con cui la commissione condivide anche il problema della delocalizzazione dei server in territori non italiani. Dal punto di vista processuale la commissione ipotizza casi di “inutilizzabilità” in caso di incertezze interpretative. White list degli operatori - È molto ampio il capitolo che riguarda gli operatori privati che concretamente effettuano le intercettazioni, con la richiesta di disporre di white list e di poter verificare con ampiezza le procedure informatiche utilizzate dal committente che deve garantire la certificazione dei software. Anche in questo caso la commissione approva la scelta del decreto di agosto che mette in capo al ministero della Giustizia la tenuta dei server in cui saranno raccolte le intercettazioni fatte nelle procure di tutta Italia. Le garanzie per gli avvocati - Frutto del lavoro di ben due legali, Bongiorno e Zanettin, ovviamente la relazione presta attenzione alle “garanzie degli avvocati difensori” a cui dedica un espresso capitolo nelle conclusioni. Con un duplice riferimento alle ultime leggi sulle intercettazioni del 2017 e del 2019 firmate da Orlando la prima e Alfonso Bonafede la seconda. I futuri interventi dovranno andare “nella prospettiva di una riforma delle garanzie per gli avvocati a tutela del diritto di difesa”. E qui segue un elenco puntuale, a partire dalla “inviolabilità delle comunicazioni fra difensore ed assistito, elemento essenziale del diritto di difesa della persona accusata di un reato”. Soprattutto alla luce di “una progressiva erosione del principio della segretezza delle conversazioni tra difensore e assistito”. E sempre dalla parte degli avvocati è il capitolo dedicato all’ascolto delle intercettazioni non rilevanti che possono comportare anche “ore e ore”. Alcune procure, come quella di Perugia del procuratore Raffaele Cantone, sono venute incontro agli avvocati, ma la commissione sollecita regole generali per garantire, anche in questo caso, “il diritto di difesa e la possibilità di individuare nel materiale intercettato elementi a favore del proprio assistito”. I criptofonini e il dark web - Il capitolo conclusivo è dedicato ai telefoni che “consentono la comunicazione sia vocale sia di messaggi in forma cifrata attraverso piattaforme e server spesso dislocati all’estero”. Un’altra “ossessione” di Melillo. Strumenti che aggirano la possibilità di intercettare. Qui i relatori sollecitano un intervento che consenta anche l’intercettazione di questi mezzi. Stessa attenzione per il dark web, una sorta di Internet parallelo a cui non si accede con i normali strumenti di navigazione e per cui la commissione sollecita “soluzioni sia normative sia organizzative che rafforzino la capacità di contrasto dell’autorità giudiziaria e delle forze di polizia”. Intercettazioni, i giuristi frenano: “Retroattività incostituzionale” di Simona Musco Il Dubbio, 13 settembre 2023 Melillo benedice la norma, ma i costituzionalisti criticano la scelta della decretazione d’urgenza e la disposizione transitoria: “Inapplicabile ai processi in corso”. Da un lato ci sono le procure, che non hanno dubbi sulla costituzionalità del dl intercettazioni: “Era quello che chiedevamo”, ha detto ieri in audizione il procuratore nazionale Giovanni Melillo. Dall’altro ci sono i costituzionalisti, convinti che nel merito (e nel metodo) il decreto rischi di risultare illegittimo, finendo col dare ragione ai dubbi di Forza Italia. È in salita la strada che il governo si troverà a percorrere per approvare il dl 105, il cui arrivo in aula è previsto per il 24 settembre. Dubbi trasversali, che evidenziano le criticità per la scelta di rendere retroattiva la norma, ma anche per l’abitudine a fare ricorso al decreto, un abuso, hanno sottolineato i docenti ascoltati ieri alla Camera, a cui porre fine. Il primo a parlare è stato il procuratore della Dna, che ha sottolineato “l’esigenza”, da parte delle procure antimafia, di risolvere la questione, posta al governo già a dicembre 2022. Tutto ruota attorno alla sentenza che ha considerato illegittimo l’uso degli strumenti antimafia in assenza di una contestazione per associazione mafiosa. Una sentenza che “preoccupa” in quanto andrebbe a innovare “il quadro di diritto vivente definito dalla sentenza Scurato”, che riconosceva l’applicabilità della disciplina speciale anche ai reati commessi con metodo mafioso o al fine di agevolare gli scopi di un’organizzazione mafiosa. Già al Senato Melillo aveva invitato il legislatore a intervenire per “limitare la discrezionalità giudiziaria correlata a clausole generali che abbisognano di essere sostituite da rigorose e tassative prescrizioni legali”, per evitare che “mutamenti di indirizzi interpretativi” si concretizzino nello stravolgimento “di esiti processuali legittimamente formati su indirizzi della giurisprudenza di legittimità, tanto consolidati da costituire diritto vivente”. Il decreto, dunque, risponderebbe al problema, “sottraendo la materia a oscillazioni” e ripristinando “i contenuti della sentenza Scurato”. E la retroattività sarebbe un falso problema: “Ciò che conta, a mio avviso, è che la scelta sia razionalmente giustificata”, anche perché “in mancanza di una norma transitoria si sarebbe potuto creare legittimamente il dubbio che la considerazione dei reati monosoggettivi di mafia avrebbe potuto trovare fondamento soltanto per il futuro e questo francamente avrebbe davvero destabilizzato i processi in corso”, con “grave detrimento dell’efficacia dell’azione di contrasto antimafia”. Per Ginevra Cerrina Feroni, professoressa ordinaria di diritto comparato presso l’Università degli Studi di Firenze, vicepresidente del Garante per la protezione dei dati personali e autrice di uno dei quesiti referendari per conto della Lega, le cose sono meno semplici. Se estendere il raggio degli strumenti antimafia “è una discrezionalità politica del legislatore, fermo il limite della ragionevolezza dell’impianto normativo”, sulla retroattività “qualche interrogativo da costituzionalista me lo pongo”, perché si potrebbe accettare “l’acquisizione di una prova illegittima, secondo l’interpretazione più recente, al momento dell’assunzione. E questo potrebbe contrastare con i principi consolidati dalla Consulta ormai dagli anni ‘ 70 rispetto”. Una possibile soluzione è applicare la norma ai procedimenti in corso solo per le intercettazioni ancora da svolgere. Critiche alle quali si aggiungono quelle di Alfonso Celotto, ordinario di diritto costituzionale all’Università degli Studi di Roma- Tre, che punta il dito non solo contro la scelta di un decreto “omnibus”, cosa che potrebbe creare problemi di costituzionalità, ma anche contro la forma. Se questa estensione è una interpretazione autentica, “andrebbe a invadere l’attività giurisdizionale”, nonostante la sentenza da “correggere” sia stata emessa da una sezione semplice e quindi ancora possibile oggetto di rimessione alle Sezioni Unite”. Se, invece, si tratta di una norma innovativa, allora la retroattività “crea un grave problema”, andando a violare “l’articolo 25 secondo comma della Costituzione, perché non c’è possibilità, soprattutto in materia processuale, di incidere sui processi in corso”. Un punto che il Parlamento dovrà necessariamente sciogliere “per non incorrere in gravi vizi di incostituzionalità”. I dubbi di Forza Italia, però, ricalcano integralmente il pensiero di Gian Luigi Gatta, professore ordinario di diritto penale all’Università degli Studi di Milano e già consigliere giuridico dell’ex ministra Marta Cartabia, secondo cui il fatto che una sentenza di una sezione semplice abbia reinterpretato un principio affermato da una sentenza delle Sezioni Unite “è qualcosa di normale, di fisiologico nei processi di formazione della giurisprudenza”, senza contare che la sua interpretazione “vincola per legge solo il giudice del rinvio”. Certo, “il rischio è che quella sentenza faccia giurisprudenza e inauguri un nuovo orientamento”, ha sottolineato Gatta, ma tale rischio viene normalmente affrontato dalla Cassazione. “Il rischio è che la toppa possa essere peggiore del buco”: la tecnica adottata per l’intervento normativo sembra, infatti, “porre nuovi problemi interpretativi e rischia di mancare l’obiettivo perseguito, cioè l’utilizzabilità delle intercettazioni disposte nei procedimenti in corso”. Il decreto- legge finisce, così, per fornire paradossalmente “argomenti per sostenere che l’estensione dell’ambito applicativo della disciplina derogatoria delle intercettazioni è stato realizzato solo ora e non può valere per il passato, cioè per le intercettazioni già disposte”. C’è poi un problema di costituzionalità: se la norma è innovativa, gli atti da compiere sono regolati dalla nuova disciplina, mentre quelli già compiuti restano regolati dalla vecchia. Insomma, la norma non può essere retroattiva e l’intervento del governo “non può valere come una sanatoria per intercettazioni illegali nel momento in cui sono state disposte”. Una possibile soluzione al pasticcio sarebbe quella di “chiarire che si tratta di una norma di interpretazione autentica che conferma l’interpretazione della sentenza Scurato e che è pertanto applicabile ex tunc, oppure, in alternativa, limitare espressamente l’applicazione della disposizione transitoria del secondo comma alle sole intercettazioni che debbano essere autorizzate, con esclusione di quelle già autorizzate”. Una strada “costituzionalmente imposta a garanzia dell’imputato e che con ogni probabilità sarà seguita dalla giurisprudenza”. Oggi Forza Italia depositerà i propri emendamenti, “numerosi”, fa sapere il deputato Tommaso Calderone. Sempre più convinto, alla luce delle audizioni di ieri, “che le nostre idee non erano poi così fuori strada”. Viterbo. Il grido dei detenuti: “Qui è un gulag staliniano” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 13 settembre 2023 La lettera-denuncia dei reclusi del “Mammagialla” dopo la morte di un compagno di sezione: “Si poteva salvare: era malato da giorni, ma il personale sanitario non è intervenuto”. È notizia nota che, a seguito del tentato suicidio e morte di un detenuto classificata come decesso per “causa naturale” nel carcere di Viterbo, i detenuti hanno intrapreso uno sciopero pacifico. Il vero motivo della protesta, ora reso noto dai detenuti stessi tramite una durissima lettera che Il Dubbio ha potuto visionare, è di richiamare l’attenzione sulla loro difficile condizione e sulla mancanza di rispetto per i loro diritti fondamentali. La denuncia riportata in una lettera indirizzata alla direttrice del carcere e giunta anche al Garante nazionale delle persone private della libertà, è volta a sottolineare una serie di gravi problemi che metterebbero in pericolo la salute dei detenuti stessi. I ristretti della sezione del carcere Mammagialla di Viterbo hanno rivelato che ad innescare questa protesta è stato il rifiuto di fornire cure mediche a un detenuto che aveva vomitato sangue per tre giorni consecutivi. La mancanza di assistenza medica ha spinto i detenuti a non rientrare nelle loro celle per cercare di ottenere aiuto per il compagno malato. Questo episodio evidenzierebbe una grave mancanza di rispetto per il diritto fondamentale alla salute. Inoltre, i detenuti lamentano un deterioramento generale delle condizioni nel carcere di Viterbo durante gli ultimi due anni, paragonandolo a un “gulag staliniano” da “dove si entrava vivo e non si usciva nella stessa modalità”. La richiesta principale dei detenuti è il rispetto dei loro diritti alla salute e all’assistenza medica, che sembra essere stato negato a causa dell’incompetenza e della mancanza di volontà di alcuni operatori sanitari. Purtroppo, eventi successivi hanno confermato la validità delle loro preoccupazioni, con un tentato suicidio e la tragica morte di un detenuto bengalese, che - a detta dei detenuti - era stato precedentemente segnalato come ammalato, ma non curato. La morte del ristretto bengalese è stata classificata come “naturale”, ma i detenuti sostengono che con cure adeguate avrebbe potuto essere salvato. Inoltre, un altro detenuto è deceduto nonostante avesse solo pochi mesi di pena residua e non fosse quindi socialmente pericoloso. Questi casi sollevano domande sulla gestione delle condizioni carcerarie e sulla presunta mancata applicazione dei benefici penitenziari. I detenuti denunciano anche la presenza di altri casi di ristretti non curati, nonostante evidenti problemi di salute. La loro richiesta è di intervenire immediatamente per affrontare questa situazione che si discosta notevolmente dagli standard europei in termini di diritti umani e trattamento dei detenuti. Infine, i detenuti esprimono comprensione nei confronti degli agenti penitenziari, sottolineando che anch’essi sono vittime di un sistema carcerario malato. Tuttavia, chiedono che le loro gravi preoccupazioni non vengano semplicemente sopite mediante i soliti trasferimenti dei detenuti ritenuti scomodi. La denuncia dei detenuti del carcere di Viterbo è un grido disperato per il rispetto dei diritti umani. A ciò si aggiunge la segnalazione rivolta al Garante nazionale da parte dell’avvocato Paolo Labbate, legale di uno dei detenuti. Il difensore denuncia che venerdì scorso, giorno dei tragici eventi, non ha potuto conferire coi suoi assistiti per una misura punitiva - così gli è stato riferito dall’agente di custodia all’ingresso della zona colloqui coi difensori - che è stata adottata contro tutti i detenuti della loro sezione, indistintamente, e che ha colpito in questo modo anche chi non si era reso responsabile di alcuna violazione disciplinare. È quindi fondamentale che le autorità competenti rispondano prontamente per verificare queste accuse e intraprendano azioni concrete per migliorare la situazione di un carcere che è già finito al centro della cronaca. Ricordiamo che è un istituto sotto la lente del Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura e dei Trattamenti e delle Punizioni Inumane o Degradanti (CPT). Già tre anni fa si era registrata un’allarmante escalation di episodi violenti verificatisi sia tra i detenuti sia tra detenuti e personale, nonché di comportamenti autolesionisti dei detenuti. Tale involuzione è attribuita alla recente chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari e alla mancanza di posti presso le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (REMS), nonché alla difficile interazione tra detenuti di diverse nazionalità. Il Comitato si era soffermato ampiamente sulle denunce di maltrattamenti provenienti dai detenuti, in particolare presso la Casa di reclusione di Viterbo: il personale - ma ci riferiamo ad episodi di qualche anno fa - era stato accusato di un eccessivo uso della forza, non solo in risposta ad atteggiamenti di sfida o indisciplinati dei detenuti, ma anche come espressione di violenza deliberata e gratuita, somministrata simultaneamente a provocazioni verbali (anche a sfondo razziale), spesso da parte di più persone riunite. Tra le vicende riportate dal CPT, ecco le più sconcertanti: una persona denuncia di essere stata colpita alla schiena da otto agenti, che, una volta a terra, l’avrebbero ripetutamente colpita con calci e pugni per poi, una volta ricondotta nella sua cella, intimargli di “comportarsi come un uomo”; un’agente avrebbe bruciato le dita di un detenuto con un accendino, al fine di verificare che la vittima non fosse in stato catatonico. Il Comitato ha raccomandato all’amministrazione penitenziaria di preparare il personale carcerario alla gestione di situazioni ad alto rischio senza l’uso della forza fisica, nonché di aumentare il controllo attraverso l’uso di telecamere posizionate in “punti ciechi”. Ma se da una parte le violenze sarebbero cessate, dall’altra rimane la questione sanitaria denunciata dai detenuti del carcere di Viterbo. Lo scorso 25 luglio, ascoltato in audizione dalla settima commissione del consiglio regionale, il Garante regionale Stefano Anastasìa ha denunciato che nessuno vuole fare il medico in quel carcere. Un’analisi che è stata in qualche modo confermata da Simona Di Giovanni, direttore amministrativo della Asl di Viterbo, la quale ha riferito che gli avvisi per l’assunzione di nuovo personale sono andati deserti e che la teleradiologia e la telecardiologia sono già attive nel carcere viterbese, ma non è possibile implementare altri ambiti per problemi legati alla fibra ottica. In poche parole, nessun dottore pare disposto a prestare servizio nella casa circondariale, su cui già grava la crisi del personale di polizia penitenziaria. “Occorre una riflessione - aveva concluso il Garante Anastasìa - per capire come si possa incentivare la presenza di personale, riconoscendo che la prestazione di servizio sanitario all’interno di un istituto di pena è obiettivamente la prestazione di un servizio in una sede disagiata e che quindi bisognerà trovare degli incentivi. Molti giovani medici o esercenti professioni sanitarie se possono scegliere se fare il medico o l’infermiere dentro un carcere o farlo sul territorio ovviamente scelgono di farlo sul territorio. Noi dobbiamo sapere che la scelta di lavorare in carcere, come alcuni dei presenti fanno da tantissimi anni, può diventare una vocazione ma in qualche modo deve essere incentivata”. Di sicuro, il carcere di Viterbo sta vivendo una situazione incandescente. Troppe morti, troppi malati che dovrebbero essere assistiti. Perugia. 858 fascicoli arretrati: il Csm sospende il giudice-poeta di Giuseppe Salvaggiulo La Stampa, 13 settembre 2023 “Rifiuta il lavoro, diritti dei detenuti a rischio”. La decisione della Sezione disciplinare del Consiglio nei confronti di Ernesto Anastasio, che da dieci anni subisce contestazioni per i suoi ritardi. La Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura ha sospeso dalle funzioni e dallo stipendio il “giudice-poeta”, il magistrato del tribunale di sorveglianza di Perugia Ernesto Anastasio, che ha accumulato un arretrato di 858 fascicoli e che da dieci anni subisce contestazioni per i suoi ritardi. Si tratta di un provvedimento cautelare urgente, in attesa dello svolgimento del processo. “È un magistrato che sostanzialmente rifiuta il lavoro, gettando discredito sull’intera amministrazione giudiziaria”, si legge nell’ordinanza che ha accolto la richiesta della procura generale della Cassazione. L’intervento serve a evitare “ulteriore grave pregiudizio” ai diritti dei detenuti e al funzionamento del tribunale di sorveglianza di Perugia. Anastasio si era difeso invocando una perizia medica che aveva accertato una patologica forma di rifiuto del lavoro, probabilmente causata dal fatto di essere stato indotto a intraprendere la professione giudiziaria dal rapporto con il padre avvocato. Una scelta che gli aveva impedito di proseguire gli studi di letteratura, di cui era ed è appassionato. L’Aquila. L’agonia di Messina Denaro nell’ospedale blindato: il boss rifiuta di vedere la figlia di Corrado Zunino La Repubblica, 13 settembre 2023 L’oncologo che lo ha in cura: “Adesso è in carico ai colleghi delle terapie di supporto”. Il capo clan viene nutrito solo per vena. E non vuole che la giovane lo veda magro e confuso. Sta morendo solo, Matteo Messina Denaro. Fuori dalla sua stanza nell’edificio L4 dell’Ospedale San Salvatore dell’Aquila, alla metà di un corridoio lungo e buio tra il Centro vaccinazioni e la Neuropsichiatria infantile, ci sono solo cinque poliziotti, tra loro una donna. È il Reparto detenuti, al primo piano. In strada, tre uomini dell’esercito bloccano la porta d’ingresso diretta, altri cinque agenti di polizia sostano nel parcheggio e al tramonto risale un furgone con sei agenti penitenziari all’interno. “U Siccu” in carcere non tornerà più, però. Il tumore al colon è in uno stato avanzato e le cure, dolorose, lo stanno costringendo a stati contrapposti: a volte è vigile, persino ironico con chi è intorno. In altri momenti è piegato sui suoi mali. Lo staff che lo ha in cura - Il professor Luciano Mutti, oncologo che ha lavorato a Londra, Manchester, Philadelphia, e che ha preso Messina Denaro sotto la sua responsabilità clinica dal giorno successivo all’arresto, il 17 gennaio scorso, rivela: “Adesso è in carico ai colleghi delle terapie di supporto”. Il primario, qui, è Franco Marinangeli. Non ci sono degenerazioni rapide del quadro comunque compromesso, ma il paziente, sempre così attento a chiedere lumi sulle condizioni personali, ha smesso di fare domande: ha compreso la verità. Dall’8 agosto, quando è stato operato per un’occlusione intestinale, seconda operazione dopo quella urologica, la situazione clinica è rotolata verso la gravità acuta. In mezzo c’è stato anche un periodo trascorso in terapia intensiva, a causa di un sovradosaggio dei farmaci. Negli ultimi dieci giorni il boss ha sempre avuto la febbre e la sua nutrizione è passata direttamente in vena. Si alza sempre meno dal letto e il ricovero, all’interno di questa palazzina alta due piani e con i mattoni gialli a vista, è diventato un’agonia solitaria. Ieri, in orario di visita - venti minuti per gli altri pazienti - non c’era nessuno. La nipote Lorenza Guttadauro, che poi è l’avvocata del lungo latitante, si è trasferita all’Aquila e, di solito, è assidua in ospedale. In Abruzzo anche la figlia - È salita nella città d’Abruzzo anche la figlia, Lorenza Alagna, 27 anni, che dopo una vita di allontanamento dal padre e dalle sue scelte, ha appena accettato di ricevere quel cognome pesante: Messina Denaro. In questo percorso di dolore, si è compiuto il riavvicinamento, ma il padre non vuole farsi vedere dimagrito e confuso dalla giovane donna che ha rincorso per una vita sperando in un gesto di riconciliazione. Matteo Messina Denaro non aveva mai conosciuto, come scriveva dalla latitanza all’ex sindaco di Castelvetrano, la figlia avuta insieme a Franca Alagna. Per sedici anni Lorenza aveva vissuto in casa della mamma del boss, ma poi ha cercato l’indipendenza, anche per sottrarsi a un’asfissiante pressione investigativa. La distanza tra padre e figlia si è allargata. Lorenza ha studiato in un liceo, si è sposata e due anni fa ha avuto un bambino. “Perché non vuole vedermi?”, era il dispiacere di un padre che in questo modo rinsaldava la tesi di una rottura consumata. “Notizie destituite di fondamento”, le aveva definite il legale Franco Lo Sciuto per conto della giovane. Lorenza Alagna e Matteo Messina Denaro si sono visti per la prima volta ad aprile, nel carcere dell’Aquila. È stata lei a decidere di incontrarlo. Lo ha visto, dentro un blindato, anche il nipote di due anni. La malattia ha accelerato la decisione di ricomporre, anche per l’anagrafe, il rapporto. Le parole del fratello del bambino sciolto nell’acido - “Il suo dolore finirà con la morte, il nostro durerà tutta la vita”, dice Nicola Di Matteo, fratello di Giuseppe, sciolto nell’acido 27 anni fa da Cosa Nostra. Bologna. Dozza sovraffollata, stop ai trasferimenti di detenuti da altre carceri di Nicoletta Tempera Il Resto del Carlino, 13 settembre 2023 Sospensione dei trasferimenti alla Dozza e spostamento dei detenuti senza percorsi trattamentali avviati o esigenze famigliari legate al territorio in altri istituti. Sono le richieste avanzate al Provveditorato per l’Amministrazione penitenziaria per alleggerire la situazione di grave sovraffollamento in cui versa in questo momento la casa circondariale bolognese, dove ieri i detenuti erano arrivati a quota 810. E questo con una sezione ancora chiusa per lavori. Richieste al vaglio del Provveditorato, che adesso dovrà valutarle e studiare una risposta nel breve termine. Per il momento non è stata invece avanzata l’ipotesi di un blocco degli accessi dei nuovi giunti, scelta attuata ad agosto quando, come oggi, la Dozza ‘esplodeva’ a causa del numero eccessivo di presenze e delle conseguenti naturali tensioni tra la popolazione penitenziaria. Ieri pomeriggio il garante per i detenuti Antonio Ianniello è andato in visita alla casa circondariale per parlare con operatori e detenuti: “La situazione è quella solita, legata a un sovraffollamento cronico, ma la soglia dell’attenzione resta altissima. Anche perché in queste condizioni anche dal punto di vista organizzativo persino uno spostamento interno, da sezione a sezione, per incompatibilità o altro, diventa complesso”. Da qui la duplice richiesta: di sospendere, temporaneamente, i trasferimenti di detenuti da altri istituti su Bologna e di avviare trasferimenti, sull’ordine di alcune decine di persone, in altre strutture tra Emilia-Romagna e Marche. Questo, mentre anche la situazione al Pratello resta al limite, come segnala la Cgil in una nota: “Nonostante le nostre ripetute segnalazioni sul grave sovraffollamento della struttura, con circa 44 detenuti, l’amministrazione continua a risultare inerte”, scrivono. Una situazione che contribuisce “all’aumento delle tensioni tra i ristretti, con un minore che ha anche tentato un gesto estremo nei giorni scorsi. Il personale di polizia penitenziaria - spiega il segretario Salvatore Bianco - sta effettuando turni prolungati con un notevole consumo di ore di straordinario raggiungendo addirittura le 24 ore continuative di servizio, con le conseguenze intuibili”. Una situazione inaccettabile, per cui il sindacato chiede provvedimenti urgenti. Una preoccupazione condivisa dallo stesso garante Ianniello, che dopo la visita del primo settembre ha ricordato l’”impatto assai negativo dell’apertura del secondo piano detentivo”, avvenuta nel 2021, “senza alcun incremento di educatori o ampliamento della pianta organica degli agenti di penitenziaria”. Avellino. Rita Bernardini ad Ariano: “Contro il sovraffollamento servono pene alternative” di Gianni Vigoroso ottopagine.it, 13 settembre 2023 Ai raggi X le condizioni di detenzione nelle carceri in Campania. In campo l’unione camere penali e l’associazione nessuno tocchi Caino. Tappa in Irpinia nel carcere Campanello per l’ex deputata Rita Bernardini, ex-membro del consiglio generale del Partito radicale. “Le condizioni attuali sono veramente fuori della norma un pò ovunque in Italia, non solo per il sovraffollamento - ha detto Bernardini - ma proprio per la vita che si conduce all’interno del carcere. Noi facciamo una radiografia della situazione, cercando di dare una mano per risolvere i problemi più urgenti. Non ha senso che entra in carcere chi deve scontare pochi mesi.” A fare gli onori casa alla delegazione il direttore dalla casa circondariale arianese Maria Rosaria Casaburo: “Sono contenta di questa visita. È un momento di crescita e di confronto per un carcere dove il trattamento è una parola che si spende e realizza tutti i giorni. Quest’estate non ci siamo fermati davvero un istante, penso all’importante corso teorico e pratico che ha visto operativa la protezione civile con la quale intendiamo proseguire il nostro percorso formativo ed altre iniziative che abbiamo messo in campo.” Di rieducazione, attività trattamentali, ha parlato Giovanna Perna responsabile dell’osservatorio carcere in Campania. “Più si investe in questa direzione e meno ci saranno situazioni allarmistiche. Qui si sta lavorando molto sotto questo aspetto e bisogna dare atto alla direzione e alla polizia penitenziaria per l’attività che viene svolta. È davvero da apprezzare lo sforzo della direttrice Maria Rosaria Casaburo, ma anche del comandante, funzionario e staff pedagogico. Un lavoro eccezionale che va solo intensificato e valorizzato ancora di più”. Matera. Inaugurato lo Spazio Giallo di Bambinisenzasbarre nel carcere Ristretti Orizzonti, 13 settembre 2023 Con l’apertura del nuovo Spazio Giallo, la rete di accoglienza per i figli di genitori detenuti creata da Bambinisenzasbarre si estende alla Basilicata. A Matera il 20 luglio 2023, è stato inaugurato lo Spazio Giallo di Bambini senza sbarre Ets, il luogo creato dall’Associazione che accoglie i bambini e li sostiene per orientarsi e attenuare il loro impatto con un ambiente potenzialmente traumatico come il carcere, quando devono incontrare il genitore detenuto. Complessivamente, In Italia, sono 100mila i bambini in questa situazione e 2 milioni in Europa. Bambini che vivono in silenzio il loro segreto sul genitore recluso nel tentativo di non essere stigmatizzati ed esclusi. Alla cerimonia erano presenti il Direttore d’Istituto Rosa Musicco, il Comandante d’Istituto Semeraro Bellisario, il Presidente della Provincia di Matera Piero Marrese, il Responsabile dell’Ufficio Colloqui Ispettore Francesco Matera Marcosano, il Capo Area Pedagogica Walter Gentile, la Coordinatrice della Rete Nazionale di Bambinisenzasbarre Martina Gallon, le referenti territoriali Tiziana Silletti e Marilena Savoia. Il progetto è sostenuto da Enel Cuore, la Onlus del Gruppo Enel attiva al fianco delle realtà che intervengono a tutela dei bisogni di chi vive in condizioni di fragilità e di disagio sociale, ed è disposizione dei circa 100 minorenni che entrano ogni anno nel carcere di Matera per incontrare il proprio papà. Nato a Milano nel 2007, lo Spazio Giallo di Bambinisenzasbarre, è diventato un modello ed è ora attivo in rete nazionale in Lombardia, Piemonte, Marche, Toscana, Campania, Puglia, Calabria e Sicilia. Quello di Matera è il primo aperto in Basilicata. Lo Spazio Giallo è il luogo fisico e relazionale per i bambini all’interno del carcere. Qui, i bambini e le loro famiglie si preparano all’incontro con il genitore detenuto e sono seguiti da operatori professionali che ne intercettano i bisogni e li accolgono in uno spazio a loro dedicato, attivando prese in carico dell’intero nucleo familiare con focus primario sul bambino. È lo stesso spazio dove, dopo il colloquio, far decantare al bambino le conseguenze emotive della difficile separazione che sempre si verifica dopo l’incontro. Lo Spazio Giallo di Bambinisenzasbarre viene definito spazio psico-pedagogico all’interno del quale attraverso l’accoglienza dei bambini, si interloquisce anche con le famiglie che li accompagnano, e si imposta un paziente e delicato lavoro di relazione e di sostegno dei bambini, degli adulti, ma anche delle persone che vi lavorano: gli operatori penitenziari. Questo porta a un attento e minuzioso iter di scelta dell’ambiente in cui posizionare strategicamente lo Spazio Giallo. Lo Spazio Giallo è parte del Sistema Spazio Giallo, un progetto-intervento che porta avanti un approccio globale di attenzione e cura delle relazioni familiari quando un componente della famiglia è detenuto, con al centro l’interesse del bambino. Il Sistema Spazio Giallo comprende 15 azioni portate avanti dentro e fuori il carcere tra cui la “Partita con mamma e papà”, il “Telefono Giallo” e l’intervento nelle scuole. Al centro del Sistema Spazio Giallo si trova il bambino e i suoi diritti, riconosciuti nella “Carta dei diritti dei figli di genitori detenuti”, valida dal 21 marzo 2014 in tutte le carceri italiane, creata e voluta da Bambinisenzabarre, firmata dal Ministro della Giustizia, dall’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza e dalla Presidente di Bambinisenzasbarre, una carta unica in Europa. In particolare gli Spazi Gialli e la loro realizzazione rispondono all’art. 2 della Carta. La “Carta dei diritti dei figli di genitori detenuti” è un documento unico che riconosce formalmente il diritto di questi bambini al mantenimento del legame affettivo con il genitore detenuto in continuità con l’art. 9 della Convenzione ONU sull’infanzia e l’adolescenza e nel contempo ribadisce il diritto alla genitorialità delle persone detenute e impegna il sistema penitenziario in una cultura dell’accoglienza che riconosca e tenga in considerazione la presenza dei bambini che incontrano il carcere loro malgrado. A rafforzare l’impatto della Carta - e il ruolo dell’Associazione a livello italiano ed europeo - si è anche imposta la Raccomandazione CM/Rec (2018)5, adottata adaprile 2018 dal Consiglio d’Europa e rivolta al Comitato dei Ministri dei 46stati membri. La Raccomandazione ha assunto come modello e come preciso riferimento proprio la Carta italiana. “L’Italia è il primo Paese che ha siglato questa Carta - afferma Lia Sacerdote, presidente dell’associazione-. Una firma e un segno forte per i 100mila figli di genitori detenuti, in sé è uno strumento radicale che ha trasformato i bisogni di questi minori in diritti, consentendo loro di non sentirsi più colpevoli e contrastando l’emarginazione sociale a cui sono esposti”. Sicurezza: il vuoto tra realtà e finzione di Beppe Severgnini Corriere della Sera, 13 settembre 2023 Per un “Ivan Marocco”, di cui oggi parlano tutti, in Italia ci sono migliaia di ragazzi e ragazze che, per un po’ di popolarità social, corrono enormi rischi. E li fanno correre a tutti noi. Una delle canzoni più belle di Bruce Springsteen ha per titolo “Racing in the street”. Vuol dire sfidarsi in macchina sulla strada: lo facevano anche i ragazzi del New Jersey, cinquant’anni fa. Qual è la differenza con la bravata criminale di Hafid Habdel El Idrissi, 29 anni, detto “Ivan Marocco”, che domenica ad Alatri è andato a schiantarsi contro l’auto di una mamma e due figlie? La diretta Facebook. Non è facile guardare quel video: si sente montare la rabbia, osservando un disastro prevedibile in arrivo. Musica a palla, l’auto che schizza velocissima in zone abitate, una mano sul volante e l’altra a reggere il telefono. Il conducente è risultato positivo all’alcol e agli stupefacenti. Cosa si può dire di una persona così? Che è un’idiota criminale? Non basta. Per un “Ivan Marocco”, di cui oggi parlano tutti, in Italia ci sono migliaia di ragazzi e ragazze che, per un po’ di popolarità social, corrono enormi rischi. E li fanno correre a tutti noi. I giovanotti grintosi e romantici del New Jersey non erano santi; ma si sfidavano di notte in zone isolate, su un tratto di strada diritto e vuoto (the strip). I ragazzi italiani esibizionisti e disperati si lanciano tra le case e la gente, incuranti di tutto e tutti, e l’assurdità del tutto diventa un’ulteriore fonte di eccitazione. Ricordate cos’è accaduto in giugno a Roma, un bimbo morto durante una folle sfida di youtuber? Il meccanismo è lo stesso. La violenza sessuale di gruppo risponde, in parte, agli stessi stimoli. Quasi sempre c’è di mezzo un filmato, a dimostrazione che i colpevoli non distinguono la propria azione schifosa dai video porno che guardano fin da giovanissimi. Anche comportamenti meno gravi possono produrre conseguenze tragiche. Lo abbiamo visto durante l’estate. Ogni giorno i soccorritori hanno dovuto intervenire per aiutare ragazzi che si avventuravano in alta montagna con le infradito: o si mettevano nei guai in mare, o su una scogliera. Il movente, sempre lo stesso: un selfie, una foto per i social, un filmato. L’impressione è che per troppi nuovi italiani sia diventato difficile distinguere realtà e finzione. La percezione è distorta. Vanità, egocentricismo e autoindulgenza - il trittico che segna questi anni Venti - fanno il resto. Su questa è la diagnosi - non difficile, peraltro - esiste una terapia? Oppure dobbiamo rassegnarci a questa deriva, sperando di non trovarci sulla strada di uno di questi fanatici esibizionisti? Ci sono due risposte sbagliate a questa domanda: si può risolvere tutto, non si può risolvere niente. La risposta giusta, invece, è: qualcosa si può fare. Ma occorrono pragmatismo e coraggio, due qualità che ultimamente scarseggiano. Certamente occorre adeguare le norme e le sanzioni. Il codice penale prevede pene vecchie per reati antichi. Ma il mondo, i comportamenti e gli strumenti sono cambiati. Leggiamo che Hafid Habdel El Idrissi. folle narcisista che ha sfiorato una strage per divertimento, “è iscritto al registro degli indagati con l’ipotesi di reato di lesioni stradale aggravate”. Lesioni stradali: tutto qui? E “rischia l’arresto”. Scusate, cos’altro deve fare, una persona, per essere arrestata in Italia? La seconda cosa da fare sarebbe, in teoria, più semplice; e invece è complicata. Smettere di idolatrare chi non sa fare niente se non esibirsi sui social. È evidente che la quasi totalità degli influencer non commette reati. Ma l’idea che la fama si possa raggiungere con moine, smorfie e bravate è socialmente deleteria. Gli imitatori idioti sono sempre in agguato, purtroppo. La terza cosa da fare è, semplicemente, immensa. Fornire ai nuovi italiani luoghi e occasioni per passare i giorni di festa e le serate: in molte parti d’Italia ci sono soltanto un bar e la noia. Certe tragedie di gruppo, spesso con la complicità di un’automobile, nascono dal vuoto. Dal vuoto dentro, dal vuoto fuori e dal tentativo disperatamente sbagliato di riempirlo. Diversità culturale e diritti universali di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 13 settembre 2023 La richiesta del pubblico ministero di assoluzione di un immigrato proveniente dal Bangladesh e imputato di maltrattamenti nei confronti della moglie della stessa origine etnica, ha dato origine a numerosi commenti critici, espressione di indignazione per la concezione del rapporto uomo-donna propria di quella vicenda. L’indignazione che percorre i vari commenti ha certo ragion d’essere, ma non esaurisce gli aspetti rilevanti del tema, quando lo si discuta con riferimento ad un singolo episodio oggetto di processo penale: quando cioè, condannato il fenomeno generale concernente nel tempo e nello spazio la soggezione della donna, ci si chieda se debba essere condannata anche la persona di quell’imputato per quella condotta specifica. Nel diritto penale ha essenziale rilevanza il profilo soggettivo della condotta considerata: la conoscenza o conoscibilità della norma che la punisce, il dolo o la colpa nel compierla. Si tratta di questioni legate al caso concreto, cosicché, che l’imputato venga condannato oppure no, sarebbe azzardato trarne in generale che si possa in Italia o non si possa “picchiare la moglie”. La risposta è nella legge: si tratta di un delitto, qualunque sia la sentenza che riguarderà quell’imputato. In ogni caso la tesi del pubblico ministero si riferisce ad un dibattito che da lungo tempo di svolge, non solo in Italia: meno nella giurisprudenza e più nella dottrina penalistica. Essa riguarda i reati culturalmente motivati. Il terreno dei rapporti familiari e della posizione della donna è certo frequentemente messo in causa, ma non è il solo. È di una trentina di anni fa la sentenza del pretore di Torino che respinse la tesi della difesa di imputati Rom, che avevano mandato alcuni loro bambini ad accattonare a piedi scalzi nel traffico: si sosteneva si trattasse di una condotta tradizionale e identitaria di una popolazione nomade. Condannarla avrebbe significato commettere un “genocidio culturale”. Il giudice - il colto e sensibile pretore Amos Pignatelli - fu tra i primi in Italia a dover affrontare il problema e lo risolse con approfondita motivazione sulla base dei fondamenti della Costituzione. Lo ricordo ora per avvertire che il tema si può presentare variamente e non riguarda solo imputati immigrati. In fondo il cosiddetto delitto d’onore, trattato debolmente in Italia fino al 1981, rifletteva aspetti comuni a quelli propri del reato culturalmente motivato. E la sempre maggior presenza di “culture” diverse conviventi sul territorio rende talora difficile identificare la “cultura dominante”. La questione poi riguarda anche la cultura propria del Paese di origine del migrante, oltre al problema della cultura propria dell’imputato e della vittima. In Italia più che altrove vivono tradizioni, culture, valori, religioni, stili di vita diversi, radicati nella storia ed anzi nelle storie, al plurale, di popolazioni e territori. La convivenza spesso non è facile, ma l’ormai lunga pratica dell’unità e l’esperienza della diversità, hanno sviluppato una tolleranza civile. Ma cosa avviene quando una società già pluralistica si articola ulteriormente, ricevendo persone e comunità portatrici di modi di vita, abitudini e soprattutto, convinzioni anche religiose che hanno aspetti di radicale diversità e opposizione? Accade talora che ciò che in Italia, società di arrivo, è vietato dalla legge penale, nella società da cui partono quelle persone o comunità sia invece permesso o addirittura obbligatorio. Si tratta di casi di doppia e confliggente fedeltà. Ma in ogni società - pur pluralistica - esiste un nocciolo duro di “cultura” largamente condivisa. I problemi sorgono quindi sui bordi del nocciolo duro, nei casi dubbi. La distinzione dei reati in “reati naturali” e “reati artificiali” è utile, anche se non netta. Vi è una vicenda che merita di essere ricordata. In Inghilterra S.W. aveva commesso violenza carnale sulla moglie. Pretendeva che una tale condotta non fosse punibile e si appoggiava su una antica giurisprudenza che era in tale senso. Non c’erano sentenze recenti che la confermassero, ma neanche sentenze che la smentissero. In un sistema di common law si poteva dire che tale era la “legge”. Le Corti britanniche però condannarono S.W. Lo sviluppo della cultura della società indicava che la causa di non punibilità, un tempo riconosciuta, non aveva più ragion d’essere e S.W. era in grado di rendersi conto del contesto culturale attuale. Il fatto che S.W. vivesse nella “cultura” di un secolo prima non giustificava l’esclusione della sua punibilità. La Corte europea dei diritti umani nel 1985 ha seguito il ragionamento delle Corti britanniche, appoggiandosi sul fatto che si trattava di “reato naturale”. Ma naturale oggi, non ieri. La questione generale riguarda chi è portatore di una “altra cultura”: “altra” rispetto a quella dominante ora nel territorio. E si discute se in certi casi estremi l’estraneo (il “rusticus” come talora si è detto nella dottrina penalistica) possa essere punito anche se ignora la legge del luogo. Oppure, più probabilmente, ci si chiede se e come nei suoi confronti possano essere considerati i motivi a delinquere e le circostanze attenuanti o aggravanti, per definire la pena, tra il minimo e il massimo previsto dalla legge. La risposta è difficile, perché, se si riconosce una qualche attenuazione di responsabilità per chi dalla cultura tradizionale in cui si è formato è stato spinto a delinquere, per converso bisognerebbe considerare che proprio quei motivi lo rendono pericoloso e probabile futuro recidivo. Sul dilemma la legge non dà risposta univoca. Ma la violenza contro le donne non è cultura di Raffaele K. Salinari Il Manifesto, 13 settembre 2023 Motivazioni di un pm. Sulla motivazione “culturale” con la quale il pubblico ministero di Brescia chiede l’assoluzione per il marito di una donna di origini bengalesi. La Procura di Brescia si dissocia e “ripudia qualunque forma di relativismo giuridico, non ammette scriminanti estranee alla nostra legge ed è sempre stata fermissima nel perseguire la violenza, morale e materiale, di chiunque, a prescindere da qualsiasi riferimento ‘culturalè, nei confronti delle donne”. Lo scrive in una nota il procuratore Francesco Prete riguardo la motivazione “culturale” con la quale il pubblico ministero di Brescia chiede l’assoluzione per il marito di una donna di origini bengalesi, ora cittadina italiana, che lo aveva denunciato per trattamenti che la facevano sentire di fatto una schiava. Partendo da questo caposaldo, bisogna però dire che fatti sono in evoluzione dato che si è ancora in attesa dell’udienza che concluderà il processo ad ottobre. Nel frattempo il PM ha depositato le proprie conclusioni, in cui si articola la richiesta di assoluzione dell’imputato perché questo “avrebbe agito in base alla propria cultura e non per la volontà di sottomettere la donna”. E continua: “i contegni di compressione delle libertà morali e materiali della parte offesa da parte dell’odierno imputato sono frutto dell’impianto culturale e non della sua coscienza e volontà di annichilire e svilire la coniuge per conseguire la supremazia della medesima, atteso che la disparità tra l’uomo e la donna è un portato della sua cultura e che la medesima parte offesa aveva persino accettato in origine”, l’”accettazione” essendo riferita al matrimonio combinato in patria. Ora qui si aprono due ordini di questioni: la prima riguarda gli obblighi che il nostro Paese ha accettato sottoscrivendo la Convenzione delle Nazioni Unite sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne. Adottata dall’Onu nel 1979, è stata ratificata dall’Italia nel 1985; ordine d’esecuzione dato con legge 14.03.1985 n. 132 tuttora in vigore. Per andare nello specifico, ne citiamo soltanto una parte dell’articolo 15: “1. Gli Stati parte devono riconoscere l’uguaglianza tra uomini e donne di fronte alla legge. 2. Gli Stati parte devono riconoscere alle donne, in materia civile, una capacità giuridica identica a quella degli uomini e le stesse opportunità di esercitarla. In particolare vanno riconosciuti alle donne uguali diritti di concludere contratti e amministrare proprietà ed un uguale trattamento in tutti gli stadi del procedimento giudiziario. 3. Gli Stati parte convengono che ogni contratto e ogni strumento privato, di qualunque tipo esso sia, avente un effetto giuridico diretto a limitare la capacità giuridica delle donne, deve essere considerato nullo”. Qui appare chiaro, come giustamente fa notare la procura di Brescia nella sia nota di dissociazione, che non esiste e non può esistere, nessuna “eccezione culturale”, che rimetta in discussione questi principi, pena non solo una palese contraddizione con una legge nazionale che deriva direttamente dal Convenzione, ma la rimessa in discussione dell’impianto multilaterale e dunque erga omnes, della stessa. Una seconda questione, altrettanto importante, concerne la visione delle culture altre. Ora, se si entra in questo ordine di idee e si estrapolano, mettendoli al centro di quella cultura, solo alcuni dei suoi aspetti, si rischia una stigmatizzazione che soffoca i lati dinamici che esistono in ogni cultura e la si “raffredda”, secondo una vecchia divisione strutturalista tra culture “fredde” e “calde”. Anche se qui non è certo il caso di aprire questo dibattito, appare chiaro come la posta in gioco sia nulla di meno che il potenziale processo che un Paese come il nostro sta o dovrebbe seriamente affrontare per creare una società realmente multiculturale, in cui ogni provenienza si trasforma ed allo stesso tempo viene trasformata. Siamo fatti di Natura e di Cultura, ed imparando dalla biologia, abbiamo capito che la Vita, nella sua accezione più ampia, vive di diversità e di ricombinazioni. Se ad una cultura viene negata questa capacità evolutiva, trasmutativa, si perde una opportunità, la si isola, se ne fa una alterità irriducibilmente diversa e non complementare. Così l’intero tessuto sociale si impoverisce, un’altra povertà di cui non abbiamo bisogno. Migranti. Salvini spinge sui rimpatri, la premier tace e attacca il Pd di Mario Di Vito Il Manifesto, 13 settembre 2023 Il dl sicurezza pronto da agosto e mai approvato agita la maggioranza. È di nuovo il periodo del mese in cui il governo torna a parlare di un nuovo decreto sicurezza sui migranti. L’ultima volta era agosto, all’indomani di un’aggressione avvenuta a Rovereto da parte di un nigeriano nei confronti di una donna di 61 anni. Questa volta, però, non c’è un fatto di cronaca alla base dell’esigenza, ma una ragione in tutto e per tutto politica: dalle parti di FdI sentono il fiato sul collo di Matteo Salvini, che è tornato ad alzare la voce sul tema. Un mese fa si parlava di un testo congiunto Piantedosi-Nordio per una “stretta sulle espulsioni degli irregolari con un elevato profilo criminale”, per citare le parole del sottosegretario all’Interno Nicola Molteni. La cosa avrebbe dovuto sostanziarsi con il primo consiglio dei ministri di settembre, che invece ha licenziato il dl Caivano senza fare il minimo cenno ai migranti. E così, ieri a Genova, Piantedosi ha rilanciato e, allo stesso tempo, ha preso tempo: “Questo governo si ripromette di limitare o interrompere quanto prima il flusso di migranti, specialmente dal Nord Africa, attraverso soluzioni stabili e durature. Questo è il primo obiettivo. Ma proprio perché vogliono essere stabili, queste iniziative richiedono tempo. Il ministero dell’Interno è tutt’uno con i sindaci nel vivere e affrontare questi problemi, in una logica di equa distribuzione”. Anche la premier Meloni, all’assemblea di FdI, ha fatto le sue considerazioni, attaccando a testa bassa le opposizioni. “Abbiamo fatto un decreto dopo la tragedia di Cutro, per contrastare il traffico di esseri umani - ha detto -. Ed il Pd decide di finanziare una nave ong indagata per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, oltre che sotto sequestro per violazione del decreto Cutro. E questa è una vergogna”. Il riferimento è alla visita di una delegazione dei dem alla nave di Open Arms attualmente ormeggiata a Marina di Carrara e sottoposta a fermo amministrativo. Il Pd della Toscana, inoltre, ha partecipato con una sua donazione a una raccolta fondi in favore della ong. L’affondo di Meloni è un modo per buttare la palla in avanti nel momento in cui il pressing arriva dall’interno della sua coalizione. Come detto, infatti, è ormai da qualche settimana che Salvini è tornato a parlare frequentemente di migranti, rivendicando tra le altre cose il fatto che, dopo il decreto sicurezza da lui firmato quando era al Viminale, gli sbarchi fossero diminuiti, mentre adesso avvengono in misura ingente. Il leader leghista dimentica di ricordare che il calo di cui tanto si vanta era probabilmente dovuto anche al Covid, ma utilizza lo stesso l’evidenza numerica come un’arma utile a spingere una nuova misura che possa facilitare rimpatri ed espulsioni. Meloni e lo stato maggiore di FdI non sono del tutto convinti dell’utilità di una mossa del genere in questo momento - hanno persino smesso di parlare di blocchi navali -, ma l’avvicinarsi della campagna elettorale per le europee dà comunque un bel po’ da riflettere: Salvini, nel tentativo di recuperare consensi, batterà molto sull’immigrazione e FdI non vuole trovarsi nella parte dell’anello debole. Allo stesso tempo, però, Meloni non ha alcuna intenzione di varare una misura che, dopo tanto chiacchierare, verrebbe di certo intestata a Salvini.Fatto sta che il testo Nordio-Piantedosi è pronto ormai da diverso tempo ma continua a non approdare in consiglio dei ministri. L’attesa adesso è tutta per il weekend, quando andrà in scena la tradizionale adunata leghista di Pontida, alla quale parteciperà tra gli altri anche la francese Marine Le Pen. In quella sede appare assai probabile che Salvini tornerà a parlare di migranti, rimpatri, espulsioni e confini da difendere. Meloni è in mezzo al guado: da un lato deve accreditarsi come leader conservatrice credibile e interlocutrice valida per i popolari europei (che vedono Salvini come il fumo negli occhi), dall’altro ha necessità di non mostrarsi arrendevole su un tema che per la destra è praticamente una bandiera. Migranti. I media tedeschi: stop all’accoglienza dall’Italia. E la Francia blinda in confini di Paolo Valentino Corriere della Sera, 13 settembre 2023 Die Welt: “Berlino ha sospeso il meccanismo di solidarietà con una lettera a Roma”. Il ministro Darmanin: “Azione necessaria di fronte all’aumento dei flussi”. Dalla fine di agosto, la Germania ha temporaneamente interrotto l’accoglienza sul suo territorio di immigrati dall’Italia. Il governo di Berlino ha comunicato in una lettera a quello italiano che il cosiddetto “meccanismo volontario di solidarietà” è per il momento sospeso, a causa “della forte pressione migratoria verso la Repubblica federale”. Lo rivela il quotidiano Die Welt, citando fonti del ministero degli Interni tedesco, precisando che il provvedimento riguarda il processo di selezione successivo al 31 agosto, mentre i migranti identificati fino a quella data continuano ed essere accolti. Alla base della drammatica decisione del governo federale sarebbe, secondo le fonti citate dal quotidiano, l’irritazione tedesca per il continuo rifiuto dell’Italia di rispettare le regole di Dublino, ancora vigenti, che impongono al Paese di primo approdo di riprendersi i richiedenti asilo che nel frattempo hanno lasciato il suo territorio. Dall’inizio dell’anno, Roma ha smesso del tutto di accettare anche un solo migrante arrivato in Italia e poi spostatosi in Germania o altrove. Die Welt riporta il contenuto di una lettera scritta il 22 dicembre scorso dal ministero dell’Interno italiano, nella quale si comunica alle autorità berlinesi che “a causa di motivi tecnici, legati alle limitate capacità di accoglienza, i trasferimenti verso l’Italia sono temporaneamente sospesi”. Ma da allora non è successo più nulla. La decisione tedesca non viene da sola. Anche la Francia ha annunciato l’intenzione di voler sigillare il confine tra Mentone e Ventimiglia. Per giustificare la decisione, il ministro degli Interni francese, Gérald Darmanin, nel corso di una visita a Mentone, ha detto che nelle ultime settimane si è registrato un aumento del 100% dei flussi, “che colpisce le Alpi marittime e l’intera regione alpina”. Già a fine aprile, la premier Élisabeth Borne aveva deciso l’invio di 150 gendarmi e poliziotti per rafforzare il controllo della frontiera meridionale. Ma è soprattutto la drastica scelta di Berlino a dare la misura della gravità della situazione e del rischio di una gravissima crisi che incombe sull’Unione Europea. Fu infatti proprio la ministra degli Interni tedesca, Nancy Faeser lo scorso giugno, a spingere per il “meccanismo volontario di solidarietà” che impegnava alla redistribuzione negli altri Paesi dell’Ue nel più breve tempo possibile di 10mila migranti dalle nazioni di primo approdo, l’Italia in testa. La Germania si era impegnata per 3.500 profughi. Ma di fronte allo scarso numero di Stati membri disponibili, l’obiettivo era stato ridimensionato a 8mila persone. Secondo i dati della Commissione, alla fine di agosto soltanto 2.500 immigrati erano stati redistribuiti, di cui 1.700 accolti dalla Germania. Ma la fortissima pressione migratoria degli ultimi mesi ha spinto Berlino a cambiare registro. A impensierire il governo non sono tanto i 3.500 profughi che si è impegnata ad accogliere in base al meccanismo, ma il fatto che i movimenti secondari clandestini dall’Italia continuino a ritmo raddoppiato. Il ministero degli Interni conferma alla Welt di essere impegnato a una riforma sostenibile del sistema d’asilo in Europa, con un rafforzato sistema di redistribuzione legale. Ma il blocco del meccanismo, che riguarda comunque numeri modesti, segnala profonda insoddisfazione verso l’atteggiamento del governo italiano. Migranti, l’Europa punisce l’Italia di Eleonora Camilli La Stampa, 13 settembre 2023 I tedeschi bloccano il meccanismo di scambio automatico con l’Italia. Parigi aumenta la stretta ai nostri confini: Roma si ritrova di nuovo da sola. La Germania sospende il meccanismo di ammissione volontaria dei richiedenti asilo provenienti dall’Italia. La Francia blinda il confine tra Mentone e Ventimiglia. Nelle ore in cui riprendono a ritmo serrato gli arrivi nel Mediterraneo centrale, con picchi anche di duemila persone sbarcate al giorno, i due paesi europei chiudono le porte ai migranti in arrivo dall’Italia. Secondo il quotidiano “Die Welt”, che cita ambienti del ministero dell’Interno, il governo tedesco avrebbe inviato una lettera a Roma per comunicare la sospensione delle accoglienze dei rifugiati presenti nel nostro paese, da ricollocare in Germania nell’ambito del “meccanismo volontario di solidarietà”. Alla base, spiega il ministero dell’Interno tedesco, c’è “l’elevata pressione migratoria verso la Germania” e la “sospensione in corso dei trasferimenti previsti dalla Convenzione di Dublino”. L’Italia, dunque, non sta vigilando sul passaggio di persone dai suoi confini verso gli altri Paesi. Non solo, ma non sta neanche riammettendo i cosiddetti “dublinati”, cioè le persone che hanno fatto il primo ingresso Ue in Italia e poi si sono spostati irregolarmente verso altri stati membri. Secondo il Regolamento di Dublino la competenza per l’asilo è del primo Paese di approdo. E se passano una frontiera prima della fine dell’iter della domanda devono essere rimandati indietro. L’Italia, però, da almeno nove mesi ha sospeso le riammissioni, per motivi tecnici e per mancanza di capacità di accoglienza dovuta a un flusso migratorio che sfiora i 120 mila arrivi. E la Germania, che ospita già il maggior numero di rifugiati in Europa, non ci sta. Così rischia di vacillare ancora il progetto di distribuzione temporanea avviato dal ministro federale degli Interni Faeser (Spd) insieme al suo omologo francese. L’obiettivo era distribuire 10.000 richiedenti asilo provenienti dai paesi frontalieri verso gli altri stati. In Germania e Francia nell’agosto 2023 sono state redistribuite circa 2.500 persone. Ora le cose si complicano. E anche Parigi annuncia una stretta. “Abbiamo avuto un aumento dei flussi del 100%” ha detto il ministro dell’Interno Grald Darmanin in visita a Mentone. Per questo il governo ha intenzione di aumentare le unità dispiegate alla frontiera, che passeranno da due a quattro per un totale di oltre 200 agenti. Verrà anche incrementato il numero di soldati addetti alla ricognizione notturna, nell’ambito dell’operazione Sentinel. La volontà di stoppare i passaggi alla frontiera tra Italia e Francia era stata già annunciata dal primo ministro francese Elisabeth Borne nell’aprile scorso. Ora l’Eliseo ha intenzione anche di allargare la fascia di territorio entro cui i migranti possono essere rimpatriati e che attualmente è fissata a 20 chilometri. Inoltre, Darmanin parla anche di un rafforzamento della lotta contro i “passeur”, che aiutano i migranti a varcare il confine: “Molti strumenti tecnologici, una migliore organizzazione e in primavera, spero, una nuova legislazione che ci aiuterà ulteriormente nella lotta”. Non è la prima volta che i due paesi contestano all’Italia una gestione non corretta della migrazione e una scarsa vigilanza delle frontiere. Il tira e molla con la Germania sui “casi Dublino” va avanti da anni. Lo stesso accade ormai ciclicamente al confine con la Francia. A questo si aggiungono le frizioni tra Macron e Meloni: nel novembre 2022, dopo il caso Ocean Viking, inviato a Tolone per lo sbarco dei migranti, anche Parigi aveva deciso di sfilarsi dal meccanismo di redistribuzione. A causare ulteriori malumori contribuisce, inoltre, il protagonismo italiano in nord Africa, dopo la Conferenza di Roma e l’accordo con la Tunisia gestito direttamente con l’Ue, i rapporti sarebbero sempre più tesi. Intanto in Italia il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi annuncia nuovi provvedimenti legislativi. “Questo governo si ripromette di limitare o interrompere quanto prima il flusso di migranti, specialmente dal Nord Africa, attraverso soluzioni stabili e durature, che però richiedono tempo - spiega - Abbiamo in cantiere degli interventi normativi per cercare di alleviare i Comuni e i territori da questo importante impegno, trovando un equilibrio per non far mancare le tutele ai minori”. Stop di Berlino sui migranti, il Viminale: “Atto politicamente enorme” di Marco Bresolin e Ilario Lombardo La Stampa, 13 settembre 2023 Il peso degli attacchi a Bruxelles. Gli affondi su Ita e altri dossier hanno indebolito l’appoggio di Von der Leyen. Mentre gli accordi con l’autocrate Saied innervosiscono persino i Conservatori. Non bastavano le tensioni sul fronte economico. Le difficoltà sulla riforma del Patto di Stabilità. Il pressing, sempre più asfissiante, sulla ratifica del Mes. I richiami della Bce sul decreto banche. Le nomine ai vertici della Bei e della Vigilanza Bce che gli altri governi sembrano aver già apparecchiato senza troppo coinvolgere Roma. Non bastavano nemmeno gli scontri con la Commissione europea, scatenati motu proprio dalla premier e dai suoi vice, a partire dal dossier Ita-Lufthansa. Ora per il governo Meloni si apre - o meglio, si riapre - anche un altro fronte. Quello della gestione dei flussi migratori, uno dei più sensibili politicamente. E a voltare le spalle all’Italia non sono due Paesi qualsiasi, ma Francia e Germania. Due Paesi con i quali, su qualsiasi dossier europeo, è imperativo trovare un accordo per ottenere progressi nella direzione sperata. Fonti diplomatiche europee non credono che la decisione francese di blindare ulteriormente le frontiere e quella tedesca di interrompere il meccanismo (volontario) di ridistribuzione dei migranti (ideato dai francesi per andare incontro all’Italia durante il governo Draghi) siano una diretta conseguenza del clima di tensione alimentato dalle recenti uscite di Giorgia Meloni. Considerarli una ripicca dopo le ultime intemerate è oggettivamente azzardato. “Ma certamente - riconoscono le stesse fonti - questi atteggiamenti non aiutano a risolvere una situazione che si sta facendo sempre più difficile”. E la tempistica del doppio schiaffo è quantomeno sospetta. Così il governo, per trovare un appiglio al quale aggrapparsi, ora è costretto a rivolgersi alla Commissione. Proprio a quella Ursula von der Leyen che - come raccontato ieri da La Stampa - la premier vorrebbe in qualche modo “ricattare” (“Il nostro sostegno per un’eventuale riconferma dipende da come si comporterà con noi”: questo, in sintesi, il ragionamento che la premier avrebbe fatto coi suoi fedelissimi). Il problema è che, proprio in queste ore, la presidente della Commissione si trova sul banco degli imputati per il suo sostegno alle politiche italiane in Tunisia. La firma del memorandum con Saied è stata al centro di un duro confronto ieri al Parlamento europeo. È stata difesa soltanto dal Partito popolare europeo, mentre i socialisti e i verdi si sono scagliati contro un accordo che di fatto “regala i soldi dei contribuenti europei a un governo che minaccia i diritti umani”. Critiche sono arrivate persino dal gruppo dei Conservatori, quello di cui fa parte Fratelli d’Italia. “L’Unione europea ha fatto un patto col diavolo”, l’affondo della belga Assita Kanko, mentre gli eurodeputati della Lega hanno riconosciuto l’inefficacia del patto con il leader nordafricano. Questa mattina Ursula von der Leyen pronuncerà l’ultimo discorso sullo Stato dell’Unione del suo mandato. Secondo quanto riferito da un alto funzionario Ue, la presidente dovrebbe difendere l’intesa e indicarla come un modello da seguire anche con altri Paesi. Il problema, però, è che sono i numeri a non darle ragione. E il caos scoppiato nelle ultime ore di ieri, con la doppia mossa di Parigi e Berlino, potrebbe costringerla a rivedere in extremis il testo del discorso. Di certo le notizie arrivate da Francia e Germania hanno sorpreso Giorgia Meloni. Ma la prima reazione di Palazzo Chigi è tattica. Forse la premier darà una risposta più compiuta oggi, probabilmente durante la registrazione della prima puntata della trasmissione di Bruno Vespa su RaiUno. Nel frattempo, il primo commento che filtra da fonti di governo si limita a ricordare che Meloni aveva sin da subito sostenuto che l’accordo basato sui ricollocamenti volontari era di fatto “inefficace”, visti i numeri risicati. Una lettura che coincide soltanto parzialmente con quella del Viminale. Fonti del ministero dell’Interno fanno notare che il gesto di Berlino è “irrisorio” dal punto di vista fattuale, perché finora i tedeschi avevano accolto pochi migranti, ma al tempo stesso si riconosce che si tratta di un atto “politicamente enorme”. Una cosa è certa: la mossa del governo di Olaf Scholz, secondo il Viminale, è la pietra tombale di quell’accordo. Per questo, secondo fonti di Palazzo Chigi è “meglio concentrarsi su soluzioni più strutturali ed europee. In questi mesi sono stati fatti dei passi avanti, ma bisogna fare di più”. Il riferimento è ai negoziati sul Patto migrazione e asilo, che a giugno ha visto i ministri dell’Interno siglare un’intesa basata su un sistema di “solidarietà obbligatoria”: chi non accetta la ridistribuzione dovrà pagare. Il problema è che il dossier è ora bloccato per via delle resistenze dei Paesi dell’Est (ma, per ragioni diverse, anche di Berlino) sul regolamento che fissa le disposizioni durante una “crisi migratoria”. Per la Polonia e l’Ungheria, due Paesi guidati da governi politicamente affini a quello di Giorgia Meloni, la ridistribuzione è inaccettabile anche nel caso in cui uno Stato sia sottoposto a forti flussi. E se la solidarietà non arriva dagli “amici”, figuriamoci dai “nemici”. Iran. Borrell: “Di Maio a Teheran per i gli europei detenuti” Corriere della Sera, 13 settembre 2023 L’Alto rappresentante Ue per la politica estera e di sicurezza ha difeso il viaggio che come obiettivo ha anche lo svedese Floderus, in carcere da 500 giorni. Parole di soddisfazione dell’Alto rappresentante Ue per la politica estera e di sicurezza, Josep Borrell, nei confronti di Luigi Di Maio, inviato speciale della Ue per il Golfo, per la sua visita a Teheran nei giorni in cui il New York Times ha rivelato che Johan Floderus, cittadino svedese che lavora per l’Ue, è detenuto in Iran da oltre 500 giorni. “Lo scorso fine settimana, il nostro inviato speciale per il Golfo, Luigi Di Maio, è andato a Teheran”, ha detto Borrell, “sì, è andato a Teheran: vi sembra negativo che sia andato a Teheran per discutere di questo problema con il regime iraniano e sia riuscito a ottenere una visita consolare a Johan? Io credo che queste siano cose necessarie e continueremo a farle. Continueremo a lavorare per ottenere la sua libertà e appoggiare la società iraniana”. Il faccia a faccia tra Di Maio e Amir-Abdollahian, ministro degli Affari Esteri iraniano, era stato definito dall’ex vicepremier come “molto importante”. Borrell ha dunque proseguito: “Stiamo lavorando con le autorità svedesi che sono le prime ad avere la responsabilità dell’appoggio consolare ai loro cittadini. E ritengo che non aiuti alla causa discutere pubblicamente i particolari del caso. A volte questo complica la situazione e il lavoro”. “Stiamo lavorando con i Paesi membri per tentare di risolvere tutti i casi dei cittadini europei detenuti illegalmente nel Paese, offrendo il nostro appoggio perché possano tornare in Europa”, sono state le altre parole dell’Alto rappresentante Ue, “nel caso particolare di Johan Floderus è quello che abbiamo fatto. A volte un lavoro discreto vale più di 70 discorsi di un minuto, e lo dico col massimo rispetto. Cerchiamo di ottenere il suo rilascio, lo abbiamo fatto fino dall’inizio e continueremo a farlo con gli strumenti che ci permettano di conseguire effettivamente il risultato. Perché esprimere l’indignazione morale come avete fatto voi va sicuramente bene, ma questo non ha la capacità miracolosa di risolvere il problema”. Colombia. L’allarme dell’Onu: “Mai così tanta droga” di Daniele Mastrogiacomo La Repubblica, 13 settembre 2023 Nuovo record di superficie coltivata con foglie di coca: 230mila ettari, il 13% in più rispetto all’anno precedente. Nuovo record storico nella coltivazione di foglie di coca in Colombia. Per il secondo anno consecutivo è aumentata la superficie di territorio dedicata al prodotto base della droga più richiesta e consumata al mondo. Stando al secondo rapporto annuale del Sistema integrato di monitoraggio delle colture illecite delle Nazioni Unite (Simci) si è passati dai 204mila ettari del 2021 ai 230mila del 2022. Un incremento del 13 per cento della superficie totale. Aumentata anche la produzione del cloridrato di cocaina del 24 per cento, cioè 1.738 tonnellate in più. La “mappa” della cocaina - I dipartimenti dove si concentrano le piantagioni sono tre: Norte de Santander, Nariño e Putumayo. Il primo si trova nel Nord della Colombia, al confine con il Venezuela; gli altri due, al Sud, vicino all’Ecuador. Qui sorge il 65 per cento di tutta la coca coltivata nel Paese andino. Lo conferma l’Unodc, l’Ufficio della Nazioni Unite che osserva e analizza l’andamento degli stupefacenti sul Pianeta. Il fatto che proprio in queste zone crescano i campi delle foglie non è solo legato a motivi orografici ma al fatto che hanno una porta di accesso diretta ai canali che portano la droga verso gli Usa. Tibú, comune del Catatumbo, regione che si trova nel Norte de Santander, si conferma ancora una volta quello che accoglie il maggior numero di coltivazioni: 22 mila ettari. È seguito da Tumaco, nel dipartimento di Nariño e da Puerto Asis, nel Putumayo. Solo in queste zone si registra un incremento di quasi 20mila ettari. “I gruppi illegali”, spiega a El País Candice Welsch, rappresentante regionale dell’Unodc, “preferiscono generare denaro invece di mantenere il controllo del territorio. Questo contribuisce al fatto che le aree strategiche dove si trovano le coltivazioni di coca coincidono con quelle dove la produzione e il traffico sono agevolati perché hanno frontiere terrestri dirette e sbocchi marittimi importanti”. Il ministro della Giustizia Néstor Osuna ha voluto sfatare l’immagine della Colombia come il Paese della cocaina. “È una vecchia idea superata dai fatti”, ha detto, “non è vero che siamo inondati. I raccolti restano concentrati negli stessi dipartimenti di sempre”. Droga: cocaina da Colombia e Panama a Napoli, sgominata rete narcos Le politiche del presidente Petro - Ma la realtà dimostra che il Paese andino si conferma comunque il primo produttore di cocaina al mondo. Interrompere questa tendenza torna ad essere una priorità per il presidente Gustavo Petro come aveva sostenuto sin dal giorno del suo insediamento. C’è il consenso del presidente Joe Biden a un approccio diverso alla guerra alla droga che proprio in questi giorni compie mezzo secolo. La nuova strategia, pensata per i prossimi dieci anni, propone di ridurre del 40 per cento la produzione nel prossimo triennio in cui Petro ancora governerà. Per farlo si pensa a riconvertire 90mila ettari attualmente coltivati con foglie di coca: 69mila da sradicare in modo volontario, 23mila con un intervento unilaterale. Questo prevede quindi il sostentamento di almeno 50mila famiglie delle 115mila che campano con le coltivazioni. Le critiche agli Usa - Ma non sarà facile. Il business della coca macina miliardi, dà lavoro, crea ricchezza. Assieme alla violenza di chi ambisce ad allargare il controllo sui territori di coltivazione, produzione e transito per incassare sempre più soldi. Petro è tornato proprio ieri sull’approccio che il mondo continua ad avere con questo problema. Ha chiesto la fine della criminalizzazione degli anelli più deboli della catena e ha esortato a colpire le organizzazioni criminali che ne traggono il maggior profitto. Ha criticato gli Usa che sono i più grandi consumatori di polvere bianca, li ha esortati a cambiare passo nell’ostinata guerra a un prodotto che ha provocato un “genocidio” in America Latina. Si conta oltre un milione di morti. Vittime civili, non consumatori.