Emergenza senza fine: altri tre suicidi in carcere di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 12 settembre 2023 Dall’inizio dell’anno si sono tolti la vita 51 detenuti, per un totale di 113 morti. L’ultimo questa notte nel carcere di San Vittore, dopo il caso di Regina Coeli. Ma il governo punta sulla repressione. Nel giro di pochi giorni si sono verificati altri tre suicidi all’interno delle carceri, l’ultimo questa notte nell’istituto San Vittore di Milano, dove si è impiccato un detenuto italiano di 35 anni. La strage senza fine rende sempre più difficile l’aggiornamento del numero totale di ristretti che si sono tolti la vita dall’inizio dell’anno: secondo le informazioni fornite da Ristretti Orizzonti, il bilancio è salito a 51 suicidi. Il rischio imminente è che si superi il triste record dell’anno precedente. Tuttavia, al momento, non sono state introdotte riforme significative né sono stati presi provvedimenti legislativi specifici per affrontare questa emergenza. Il decreto che approderà al consiglio dei ministri si concentra principalmente sull’aumento di soli due permessi telefonici aggiuntivi per i detenuti e sull’introduzione di un’ulteriore risposta penale al disagio carcerario, in particolare l’aggravante per i detenuti che aggrediscono gli agenti penitenziari. Come ha sottolineato recentemente il segretario generale della Uilpa Pp, Gennarino De Fazio, ritenere che l’aggravante di pena possa costituire una soluzione efficace per fermare la violenza in carcere è un’idea limitata e inefficace. Soprattutto se si considerano i casi di detenuti che non hanno nulla da perdere o che soffrono di patologie psichiatriche. Qualche ora prima del suicidio a San Vittore, a togliersi la vita domenica scorsa è stato un giovane di soli 21, che si trovava in cella nel carcere di Regina Coeli a Roma, sospettato di essere affetto da scabbia. La situazione all’interno di questo istituto è disastrosa, tanto che il Pa capitolino ne ha chiesto l’immediata chiusura. Giovedì scorso, invece, un detenuto italiano di trent’anni si è tolto la vita nel carcere di Busto Arsizio, mentre nello stesso carcere, nello stesso giorno, un detenuto marocchino è deceduto per arresto cardiaco. Ricordiamo che il 6 giugno scorso è morto in ospedale un ragazzo di 29 anni, proveniente anch’egli dal carcere di Busto Arsizio, con disturbi psichici e una storia di tossicodipendenza. La madre di questo giovane, visibilmente commossa, ha lanciato un accorato appello: “Curate questi ragazzi, avete le risorse per salvarli con le cure adeguate e la rieducazione. Mio figlio non è stato adeguatamente seguito. Non si può morire in carcere a ventinove anni”. L’ultimo colloquio con il ragazzo aveva lasciato presagire problemi di salute evidenti, ma le cure fornite in infermeria erano limitate a gocce e psicofarmaci, una soluzione che non poteva risolvere i suoi gravi problemi. Il 30 agosto, un detenuto italiano di 35 anni si è suicidato nel carcere di Frosinone, dove stava scontando una pena per spaccio di droga. All’inizio dell’anno, nello stesso carcere, un uomo di 69 anni è morto, condannato per furto, ricettazione e spaccio di stupefacenti. Questo sessantanovenne, positivo all’HIV e con gravi problemi di salute, non avrebbe dovuto trovarsi in cella fino al 2029, secondo il Garante dei detenuti del Lazio, Stefano Anastasia. Il carcere rappresenta un ambiente poco idoneo per ricevere le cure necessarie, e in molti casi, la malattia prende il sopravvento. Se non ci si toglie la vita, ci pensa la malattia. Dall’inizio dell’anno siamo già a un totale di 113 decessi. Mal di carcere di Graziella Di Mambro riforma.it, 12 settembre 2023 Morti, tentativi di suicidio, rivolte. Cosa accade nelle carceri? Il sovraffollamento è un dato (purtroppo noto) e i numerosi suicidi e così i tentativi di suicidio e le violenze all’interno di molti Istituti di reclusione stanno facendo emergere una realtà ancor più grave di quella di cui già si era a conoscenza. L’ultima storia di cronaca giunge dal “Mammagialla” di Viterbo, dove in pochi giorni una sequenza di fatti gravissimi ha mostrato quanto le promesse - fuori dal carcere - spesso non coincidano con la realtà. Un detenuto, infatti, è morto a seguito di un malore e nelle stesse ore, un altro pare sia stato salvato da un tentativo di suicidio. Fatti che hanno generato in un’ala del carcere un principio di rivolta. L’agenzia di stampa Ansa riporta che si è reso necessario richiedere l’ausilio di squadre di supporto alla polizia penitenziaria. La ricostruzione dei fatti è contenuta (anche) in una nota redatta dall’Unione sindacati di polizia penitenziaria (Uspp), del Lazio. Nella casa circondariale di Viterbo due detenuti italiani si sarebbero affrontati picchiandosi rendendo così necessario il trasporto in ospedale, dove le condizioni di un ferito che non sarebbero state giudicate gravi. Ciò che preoccupa, invece, è che quest’episodio sia accaduto proprio nella stessa sezione dove, solo due giorni fa, una cinquantina di detenuti - per protesta - si sono rifiutati di rientrare nelle celle per la notte. Stando a quanto riferisce il sindacato Uspp: “Il decesso di uno dei detenuti sarebbe avvenuto in seguito ad un malore imprevedibile, mentre in un’altra sezione nell’ora di chiusura delle stanze detentive, verso le ore 19, alcuni detenuti hanno messo in atto una rivolta, minacciando il personale presente, producendosi autolesioni con taglierini rudimentali rendendo così necessario - “per ripristinare l’ordine” - l’intervento di personale richiamato con urgenza in sede. Sono state necessarie molte ore per ripristinare la calma e - si legge ancora - solo grazie alla professionalità del personale intervenuto”. Nei giorni scorsi l’Uspp del Lazio aveva espresso all’amministrazione penitenziaria la gravità della situazione in cui versa il carcere viterbese in termini di sovraffollamento (situazione comune a pressoché tutte le carceri italiane), superiore di 230 detenuti rispetto alla capienza regolamentare. Rimarcando altresì la deficitaria presenza di personale […] che impedisce un’organizzazione del lavoro in sicurezza e difficoltà nel mantenere l’ordine è il rispetto delle regole penitenziarie”. In questo carcere e nelle altre strutture penitenziarie del Lazio i detenuti in attesa di giudizio sono il 15%, come quelli che aspettano una sentenza definitiva. L’adolescenza cancellata di Luigi Manconi e Federica Resta La Repubblica, 12 settembre 2023 Ecco perché la scelta del governo di abbassare la punibilità dei minori è sbagliata. Tutti i provvedimenti decisi dal Consiglio dei ministri di giovedì scorso vanno in un’unica direzione: quella della attenuazione, se non dell’esclusione, della variabile rappresentata dall’età nella valutazione della responsabilità penale del minore autore di reato. È come se la fase dell’adolescenza venisse cancellata dalla considerazione del processo di formazione della personalità e non se ne valorizzasse, ai fini del giudizio penale, la particolare fragilità e vulnerabilità. È quanto presuppongono le misure (ad eccezione dell’estensione della messa alla prova) assunte dal governo: nei fatti si assimila “il 14enne che spaccia” al “50enne che commette reati”, come fortissimamente voluto da Matteo Salvini. Così è per l’estensione ai minori del “daspo urbano”, dell’avviso orale del questore e della riduzione, della soglia per l’applicabilità, agli ultraquattordicenni, della custodia cautelare, dell’arresto e del fermo. Ma ciò che più preoccupa è la possibilità (per ora esclusa dal decreto-legge ma tanto evocata e suscettibile di riproposizione nell’esame parlamentare), di modifiche in senso restrittivo sull’imputabilità dei minori. Da un lato si potrebbe ridurre - come già proposto dalla Lega anni fa - da 14 a 12 anni la soglia di imputabilità possibile (ammessa cioè quando si accerti la capacità di intendere e volere), portandola a un’età in cui l’accertamento della maturità del minore è particolarmente problematico. Dall’altro lato si pensa di abbassare la soglia di imputabilità piena dai 18 ai 14 anni. Ovvero una delle cose “più fasciste” che si possano fare. In senso letterale, in quanto escluderebbe quella verifica della capacità d’intendere e volere (cioè della consapevolezza del disvalore delle proprie azioni), prevista dal codice Rocco secondo un principio di saggezza giuridica e un approccio al tema della responsabilità penale fondato su considerazioni di natura psicologica, sociale e culturale. Escludendo in tal modo la necessità di accertamento della maturità del minore, il dato anagrafico (la data di nascita) prevarrebbe su tutto il resto: analisi psicologica, ricostruzioni del contesto, anamnesi sociale, osservazione dei condizionamenti dovuti al quadro caratteriale, alla biografia individuale e familiare, alla particolare criticità di quella fase delicatissima di sviluppo della personalità. Il ministro di Benito Mussolini, Alfredo Rocco, si mostrò più attento alle moderne discipline della psiche di quanto sembra esserlo il ministro di Giorgia Meloni, Matteo Salvini. La normativa vigente si fonda sulla convinzione che per la colpevolezza (e quindi l’imputabilità) non basti - si legge nella Relazione al codice Rocco del 1930 - “l’intelligenza; occorre sopra tutto che sia compiuto, o almeno molto progredito il processo di formazione etica dell’individuo”. È possibile, infatti, presumere senza eccezioni che tutti i quattordicenni, tanto più in una condizione di degrado sociale come quella delle mille Caivano, abbiano compiutamente svolto il loro percorso di maturazione etica? O, alternativamente, si potrebbe davvero ritenere che per un dodicenne la soluzione migliore sia il processo penale, l’imputazione, il carcere? La scorciatoia più comoda nel diritto è sancire soglie (di età, di quantità...), presunzioni assolute (di imputabilità, di pericolosità ecc.): se il processo penale fosse tutto così costruito, non ci sarebbe neanche bisogno di un giudice; basterebbe un algoritmo. Ma questa scorciatoia priva la giustizia della sua qualità essenziale: la considerazione del reato come un fatto umano, troppo umano per essere ridotto a presunzioni astratte. E questo tanto più rispetto alla giustizia minorile che, come ha sottolineato la riforma del 1988, proprio in quanto rivolta a personalità ancora in formazione, necessita di individualizzazione e flessibilità. Dunque, queste modifiche non farebbero che attribuire responsabilità senza accertarne le cause, che è invece necessario anzitutto conoscere per contrastarle, limitando la recidiva. Solo un accertamento puntuale del grado di maturità, come oggi previsto (e che pure il progetto Nordio di riforma del codice penale conservava) consente di individuare la pena “giusta” perché proporzionata alla colpevolezza del minore e, al contempo, efficace se modulata sulle sue specifiche esigenze rieducative. Ed è proprio questo il punto. La pena che si vorrebbe applicare (“la stessa del 50enne”, appunto), ossia, il carcere nella maggior parte dei casi, può garantire quel percorso di maturazione, fondato sull’etica della responsabilità, necessario ad allontanare da comportamenti devianti? Purtroppo anche per i minori il carcere è, troppo spesso, un luogo non di maturazione ma di regressione, che deresponsabilizza invece di responsabilizzare, e finisce per escludere proprio da quella società in cui, per Costituzione, dovrebbe reinserire. E allora si dovrebbe investire, per i minori ancor più che per gli adulti, su misure (interdittive, di comunità, di giustizia riparativa ecc) che puntino su quel processo di “formazione etica” che già il codice Rocco individuava quale presupposto necessario dell’imputabilità. Punire non serve a nulla di Giuseppe Rizzo L’Essenziale, 12 settembre 2023 “Se tagli la lingua che ha mentito e la mano che ha rubato, in pochi giorni ti ritroverai maestro di un piccolo popolo di muti e di monchi”. (Fernand Deligny, Seme di canaglia). I ragazzi non si occupano molto di carcere, ma il carcere si occupa molto di loro. E lo fa fin dalla sua nascita. Nel sedicesimo secolo, quando in Inghilterra furono aperte le house of correction, case di correzione a cui si sarebbero ispirate le prigioni moderne, furono bambini e adolescenti poveri a esservi rinchiusi per primi, insieme a ladri, prostitute e vagabondi. L’idea era di “correggerli” con il lavoro e la disciplina. Nel diciassettesimo secolo nella cosiddetta casa dei monellini di San Filippo Neri a Firenze, i ragazzi con l’unica colpa di essere nati poveri o irrequieti finivano in celle singole e tenuti in isolamento giorno e notte. Con il decreto approvato il 7 settembre Giorgia Meloni e il suo governo ci riportano allo splendore di quei supplizi, come li chiamava Michel Foucault, ovvero al buio della galera per i minorenni. Il testo prevede la custodia cautelare, cioè il carcere mentre si è ancora in attesa del processo o della sentenza, per reati che prevedono pene di sei anni, e non più nove, come in precedenza. Il daspo urbano, cioè l’allontanamento obbligatorio da una città, potrà essere applicato anche a chi ha quattordici anni, mentre prima non era possibile sotto i diciotto. L’età per ricevere un avviso orale del questore, una sorta di ammonimento a comportarsi bene - pena il carcere da uno a tre anni - si abbassa dai quattordici ai dodici anni, e basterà essere coinvolti in risse, liti o minacce. I genitori che non fanno rispettare l’obbligo scolastico ai figli rischiano pene fino a due anni, al posto della multa di trenta euro prevista oggi. Il divieto di usare lo smartphone o altri strumenti per collegarsi a internet applicato a chi è stato raggiunto dall’avviso orale o è stato condannato per alcuni reati è l’ultimo dei problemi di questo decreto. Di fatto Giorgia Meloni e il ministro della giustizia Carlo Nordio ignorano più di trent’anni di sperimentazioni, riflessioni e passi avanti della giustizia minorile. In Italia un tribunale per minorenni fu istituito nel 1934, ma solo nel 1988 si approvò un codice di procedura penale minorile per evitare il più possibile di mandare in cella ragazze e ragazzi non ancora maggiorenni. Fu una svolta storica. Il testo accolse le spinte contro l’incarcerazione degli anni precedenti e stabilì che la galera doveva essere l’ultimo dei posti in cui rinchiudere gli adolescenti. Per chi avesse commesso un reato prima dei diciotto anni si immaginavano percorsi da compiere più fuori che dentro una cella. Nel tempo è stato incoraggiato l’uso dei domiciliari, delle semilibertà per andare a scuola o a lavoro, e si è arrivati perfino a sospendere il processo attraverso la messa alla prova, che in cambio prevede l’impegno in un lavoro socialmente utile o nel volontariato, un percorso di mediazione con le vittime se loro sono d’accordo oppure il risarcimento dei danni causati. Le comunità hanno assunto un ruolo centrale in questo nuovo schema, ospitando adolescenti e aiutandoli a continuare gli studi, a trovare un impiego, a formarsi attraverso dei laboratori, a fare i conti con i propri errori con il sostegno di psicologhe, educatrici ed educatori. È un modello che ha mille storture ma che al suo meglio funziona, ricordando la lezione del pedagogista Daniele Novara: per educare bambine, bambini e ragazzi punire non serve a nulla. Da anni il numero dei minorenni in carcere è abbastanza contenuto. Oggi sono 380: il “2,7 per cento del totale dei ragazzi in carico ai servizi della giustizia minorile”, scrive l’associazione Antigone. I tassi di recidiva sono bassi e perfino per delitti gravi come l’omicidio si immaginano alternative alla detenzione. Il carcere è un congegno fatto di cemento, ferro e violenza, creato per annichilire il tempo. Nei racconti di chi ci è stato arriva sempre un momento in cui il tempo si trasforma in una sostanza in grado di saturare l’aria fino a renderla irrespirabile. Il tentativo della giustizia minorile è quello di conservare dell’ossigeno per i polmoni delle ragazze e dei ragazzi che finiscono dentro. Il decreto del governo vuole lasciarli soffocare. “Decreto Caivano, l’ultimo schiaffo del populismo alla Costituzione” di Sandro Staiano* Il Dubbio, 12 settembre 2023 I fatti del Parco Verde a Caivano, e prima la catastrofe di Cutro, e prima ancora la questione del concorso esterno in associazione mafiosa, e, risalendo poco più indietro nel tempo, il disordine dei rave party, e ancora più indietro l’ergastolo ostativo: la risposta (o il rifiuto a rispondere) del decisore politico in ognuno di questi casi conferma che alcuni capisaldi di civiltà giuridica in campo penale, accolti nella Costituzione, sono sospinti fuori orizzonte. Recedono il principio di legalità in senso sostanziale, la tipicità delle condotte punibili, la proporzionalità e ragionevolezza della pena, la sua funzione rieducativa, il divieto di irrogare, sotto le spoglie della sanzione penale, trattamenti contrari al senso di umanità. Si interviene con le armi dell’emergenza, con decreto-legge, strumento principe in questi casi. Si interviene a ridosso immediato dei fatti, talvolta perfino nel luogo in cui essi si sono compiuti. Si interviene sotto dettatura delle vittime, delle loro famiglie, delle comunità ferite, raccogliendone la corrente emotiva, con soluzioni di qualità tanto bassa quanto alta la fretta che le sospinge. Si interviene introducendo nuove figure di reato, aumentando le pene in modo da rendere quanto più estesa la carcerazione preventiva, riducendo il campo della non imputabilità. Laddove sarebbe altamente necessario il meditato procedere, la tensione dialettica di un procedimento parlamentare capace di collocare ogni intervento nel sistema, con le sue compatibilità e i suoi equilibri. In alcuni di questi casi, con difficoltà crescente a farsi ascoltare al cospetto del “popolo” e del suo sdegno, la cultura della Costituzione non è rimasta tuttavia senza voce. E ha ottenuto, nella sede parlamentare della conversione in legge, la rimozione di alcuni degli scostamenti maggiori dalla Costituzione. Un atteggiamento certo difensivo, che nulla può al cospetto della sostituzione della leva penale alle politiche sociali, perequative, dell’immigrazione; però quella cultura dà dimostrazione di perdurante forza vitale. Ma vale qualcosa di più profondo, che tocca l’essenza stessa della civiltà del diritto, a mettere sotto scacco la cultura della Costituzione in materia penale: ci sono casi in cui le parole, che sarebbe necessario pronunciare per rispondere a un imperativo morale oltre che alle ragioni della scienza giuridica, sono divenute indicibili. È divenuto indicibile lo scostamento dalla Costituzione dell’ergastolo ostativo, con l’attenuazione concessa solo a chi abbia “utilmente collaborato con la giustizia”, non anche a chi non abbia di fatto alcuna collaborazione utile da offrire o non possa collaborare utilmente per non mettere a rischio la propria vita e quella delle persone a lui vicine, pur avendo reciso o comunque non conservando alcun rapporto con le organizzazioni criminali (delle quali circostanze si mette semmai a carico del condannato la prova diabolica). L’indicibilità deriva dalla potenza di un sentimento avverso dominante, nel “popolo” e in suoi autorevoli interpreti, che tende ad annichilire chi avanza, sia pure con molte cautele, le ragioni della funzione rieducativa della pena e della sua umanità. Alcuni anni fa, al tempo in cui la Corte costituzionale aveva appena pronunciato le prime decisioni sull’ergastolo ostativo, Giorgio Lattanzi, allora Presidente della Corte, narrò in pubblico di avere ricevuto l’epiteto di “disgustoso” a carico dell’organo che rappresentava. È divenuto indicibile il vincolo inderogabile a istituire e a regolare con la legge figure quali il concorso esterno in associazione mafiosa, non lasciandole, come invece avviene, alla determinazione giurisprudenziale in violazione del principio di legalità sostanziale e della riserva assoluta di legge. Indicibile, perché chi lo designi riceve immediatamente lo stigma della complicità morale con la criminalità mafiosa. Giovanni Fiandaca, che dei princìpi costituzionali in materia penale è da sempre autorevolissimo testimone, ha affermato di recente che una modifica della disciplina legislativa richiederebbe “molta perizia e molta maestria e un livello di competenza tecnica” che oggi non sono disponibili. Sicché meglio è affidarsi alla giurisprudenza (creativa) della Corte di cassazione, capace di equilibrare esigenze di garanzia ed efficacia preventivo-repressiva. Saggissima conclusione. Ma in essa si rivela la tragedia del garantismo penale, il quale non può riaffermare i suoi presupposti, al cospetto di un decisore politico che non filtra né orienta, ma si lascia plasmare sotto l’azione diretta di forze, variamente coinvolte nel processo storico, come vittime, come testimoni di un’idea o di un’esperienza, talvolta eroica, le quali però dovrebbero, proprio in ragione della loro natura, restare estranee alle determinazioni legislative in materia penale, piuttosto che dominarle. Si potrebbe sostenere - taluno lo sostiene - che la regressione di civiltà giuridica oggi in atto dipenda dal predominare di forze reazionarie, che dunque si tratti di una situazione transitoria, creata dalle destre al potere. Chi lo dice coltiva l’illusione di esser al di fuori dell’attuale crisi della coscienza costituzionale. Ma incorre in una aberrazione cognitiva. Si deve infatti convenire, ancora, con Norberto Bobbio circa la perdurante validità della irriducibile dicotomia destra-sinistra, intorno alla questione dell’eguaglianza, essendo per la prima la diseguaglianza il principio informatore dei rapporti sociali ed economici e il motore dello sviluppo e del benessere (disegualmente distribuito), per la seconda una intollerabile ingiustizia, che rende impraticabili le libertà e dissolve le democrazie. Questa dicotomia vale a dare conto in modo sufficientemente nitido del modo in cui si articolano i rapporti economici e sociali nel tempo presente. Essa cioè vale a dare conto del mondo reale, delle tensioni di fondo che lo attraversano. E sarebbe tranquillizzante poter considerare la questione del garantismo penale in una dicotomia di questo genere. Infatti, larghissima parte della destra liberale e neoliberale moderna è orientata in senso avverso all’impiego non adeguatamente limitato della leva penale, non fosse altro perché un eccesso di criminalizzazione contrasterebbe con l’assioma irrinunciabile della capacità di economia e società di raggiungere autonomamente un equilibrio. E la sinistra, a sua volta, è stata storicamente avversa alle politiche di espansione della repressione penale deprivata di garanzie, poiché il diritto penale è stato considerato il più ingiusto e diseguale tra tutti i tipi di comando giuridico. Ma oggi le forze politiche che competono, comunque narrino la loro storia e comunque rappresentino il loro presente, non sono in quella dicotomia, la cui realtà esse non vedono. Sono, invece, corrose - in misura più o meno intensa, in diverse fasi - dalla tabe del populismo, che riduce l’appartenenza di schieramento a mera apparenza. Il populismo non è proprio di una sola parte e di una sola forza, ma è mentalità diffusa. II populismo rispecchia e non rappresenta, proietta e non seleziona. Rispecchia anche le pulsioni vendicative alla repressione penale. È proprio del legislatore e dei giudici. Per questo il lessico del garantismo penale diventa indicibile. Per questo occorrerà ritrovare le parole per dirlo. *Presidente Associazione Italiana Costituzionalisti Decreto Caivano. Non scatta subito la galera per chi non manda i figli a scuola di Antonio Ciccia Messina Italia Oggi, 12 settembre 2023 Gincana per punire l’evasione e l’elusione scolastica. Il genitore, o chi esercita la responsabilità genitoriale, rischia la reclusione rispettivamente fino a 2 anni (per l’evasione) e fino a 1 anno (per l’elusione). Ma sono molti i punti da chiarire del nuovo articolo 570-ter del codice penale, introdotto dal decreto-legge approvato dal consiglio dei ministri del 7 settembre 2023, con lo scopo di combattere la dispersione scolastica. Bisognerà, infatti, precisare con norme di dettaglio chi è obbligato, come si calcola l’elusione, ovvero la frequenza non regolare, come coordinare i passaggi di informazioni tra comuni e scuole, come evitare pubblicazioni di liste di inadempienti in violazione della privacy. Il solo decreto, dunque, anche se subito in vigore dopo la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, richiederà ulteriori passaggi di carattere legislativo secondario per poter essere applicato a tutti i casi che rientrano nella fattispecie. Sia per l’evasione che per l’elusione scolastica il nuovo articolo 570-ter del codice penale prevede una sanzione fissa (fino a due anni e un anno), mentre non prevede la misura minima (che è pertanto di 15 giorni, visto l’articolo 23 del codice penale). Si tratta di sanzioni che consentono, comunque, l’applicazione di tutti i benefici di legge ai responsabili, con la conseguenza che sarà molto difficile che qualche genitore sconti la pena in carcere se incensurato. Nel caso invece di altre condanne già pendenti potrebbe essere proprio la condanna per inosservanza dell’obbligo scolastico a far scattare la reclusione. Il dl riprende integralmente il procedimento amministrativo previsto dall’articolo 114 del d.lgs. 297/1994, che è lungo, burocratico e in molti punti con molti dubbi interpretativi. I problemi partono già dalla individuazione della condotta punita e ciò a causa della sovrapposizione di norme e di concetti. Se, infatti, la rubrica dell’articolo 570-ter è intitolata all’“obbligo di istruzione” dei minori, trattata dall’articolo 1, comma 622, legge 296/2006 (parametrato agli anni di insegnamento, pari almeno a 10 e quindi fino all’età di 16 anni), il testo del medesimo articolo 570-ter si riferisce all’obbligo “scolastico” (di cui parla l’articolo 110 d.lgs. 297/1994, ma è parametrato all’età dell’alunno, da 6 fino a 14 anni). Senza contare che l’ordinamento italiano ha disciplinato anche l’obbligo “formativo”. Si tratta di istituti non coincidenti, come spiega lo stesso ministero dell’istruzione (https://www.miur.gov.it/obbligo-scolastico). Considerato, però, che la nuova disposizione ha natura penale, occorre un chiarimento tassativo rispetto a quale/i tipo/i di obbligo ci si riferisca. Qualunque sia il concetto di obbligo da prendere in considerazione ai fini penali, per arrivare alla punizione del colpevole bisogna percorrere tutto l’iter previsto dall’articolo 114, comma 4, del d.lgs, 297/1994: questo per espressa previsione del nuovo articolo 570-ter del codice penale. Le tappe del procedimento sono queste: 1) comunicazione da parte del sindaco, prima della riapertura delle scuole, a tutti i responsabili apicali degli uffici scolastici, dell’elenco dei degli studenti soggetti all’obbligo scolastico 2) iniziato l’anno scolastico, incrocio tra elenco del sindaco e iscritti alle classi 3) stesura dell’elenco dei soggetti inadempienti 4) richiesta da parte delle scuole ai comuni di pubblicare l’elenco degli inadempienti all’albo pretorio del comune (cioè sull’albo on line sul sito istituzionale) 5) pubblicazione per un mese 6) ammonimento del sindaco 7) avvio del procedimento penale a carico di inadempienti. Nel frattempo, i genitori potrebbero provare di impartire l’istruzione privatamente oppure potrebbero giustificare l’assenza con motivi di salute o altri gravi impedimenti oppure, infine, potrebbero presentare gli studenti a scuola entro una settimana dall’ammonizione. Se non capita niente di tutto questo, il sindaco manda avanti la denuncia per il nuovo reato previsto dall’articolo 570-ter codice penale, introdotto dal d.l. in commento. Già l’articolo 114 citato prevedeva la stessa trafila in caso di assenze ingiustificate durante il corso dell’anno scolastico, tali da costituire elusione, ma senza definire in che cosa consiste l’elusione. Ora questa definizione non potrà più lasciare margini a dubbi, considerato che si tratta della condotta di una norma incriminatrice, che perciò deve essere tassativa e precisa. Per un quadro completo si deve considerare che l’articolo 74 del d.lgs. 297/1994 disciplina il calendario scolastico e fornisce un parametro (200 giorni) relativo allo svolgimento delle lezioni. Inoltre, l’articolo 114, comma 6, del d.lgs. 297/1994 considera giustificate (e quindi non si contano) le assenze degli alunni avventisti e degli alunni ebrei dalla scuola nel giorno di sabato. Il decreto-legge, dunque, riscrive completamente la norma penale su evasione e elusione scolastica e, nel contempo, abroga l’articolo 731 del codice penale, che si riferiva al concetto, ancora diverso, di “istruzione elementare” e che prevedeva un reato minore (contravvenzione), punito solo con sanzione pecuniaria originaria di 300 lire, convertite e adeguate fino all’infimo importo di 30 euro. Allo scopo di rendere effettiva l’applicazione della nuova norma penale (articolo 570-ter), occorre che i passaggi burocratici non subiscano intoppi o ritardi, visto che sono previsti molti flussi di dati dal comune alle scuole e viceversa. Il rischio che si corre è che si arrivi alla denuncia quando l’anno scolastico è abbondantemente iniziato. Occorrerà, dunque, avere una esatta base di dati di riferimento per poter fare gli incroci tra i soggetti tenuti all’obbligo scolastico e gli alunni effettivamente iscritti: per questo fine non può ritenersi esaustiva l’anagrafe nazionale degli studenti (d.m. n. 74 del 2020). Bisognerà anche attivare procedure parallele per gli studenti non censiti dai comuni nelle liste anagrafiche comunali. Sarà necessario avere criteri standard per calcolare il numero dei giorni di assenza che fa maturare l’elusione (in sostanza si tratta di aggiornare la circolare ministeriale n. 101/2010, dettagliando parametri definiti rispetto al numero di giorni previsto in via generale per il calendario scolastico). Occorrerà, infine, verificare se l’obbligo di pubblicazione all’albo pretorio virtuale degli inadempimenti sia conforme alle disposizioni sulla privacy e, in caso negativo, stabilire che cosa pubblicare e cosa omettere. Bulli minorenni, via libera bipartisan della Camera alle misure di giustizia riparativa di Jacopo Bennati Italia Oggi, 12 settembre 2023 Scattano le misure di giustizia riparativa, con percorsi rieducativi, per i giovani bulli. La Camera ha approvato mercoledì scorso all’unanimità la proposta di legge recante disposizioni in materia di prevenzione e contrasto del bullismo e del cyberbullismo. Il testo, che ora passa al Senato per il via libera definitivo, modifica la legge 71/2017 per estenderne l’ambito di applicazione al bullismo, visto che quella legge si occupava, prima delle modifiche, esclusivamente di contrasto al cyberbullismo modifica il regio decreto che disciplina la giustizia minorile, riscrivendo l’articolo sulle misure rieducative delega il governo a emanare, entro dodici mesi, uno o più decreti per l’adozione di disposizioni in materia di prevenzione e contrasto del bullismo e del cyberbullismo introduce la “Giornata del rispetto”, quale momento specifico di approfondimento delle tematiche del rispetto degli altri, della sensibilizzazione sui temi della non violenza psicologica e fisica, del contrasto ad ogni forma di discriminazione e prevaricazione dispone l’adeguamento del DPR 249/1998, lo Statuto delle studentesse e degli studenti. La regia dei decreti delegati passa da Giustizia a Istruzione. Innanzitutto si introduce l’obbligo per il dirigente scolastico, che viene a conoscenza di episodi di bullismo e cyberbullismo, di informare i genitori dei minori coinvolti e, nei casi più gravi o reiterati, le autorità competenti. Si interviene poi sulla disciplina delle misure coercitive non penali che un tribunale può adottare per i minorenni, inserendo un percorso di mediazione o un progetto di intervento rieducativo (coinvolgendo anche i genitori) e nell’ottica della giustizia riparativa nei confronti della vittima, sotto la direzione e il controllo dei servizi sociali minorili, all’esito del quale il tribunale può disporre la conclusione del procedimento, la continuazione del progetto o il collocamento del minore in una comunità. La logica che sottende questa parte del provvedimento, approvato sia dalla maggioranza che dall’opposizione, è in parte differente da quella adottata per il recente decreto sulle cosiddette babygang: si vedrà se il Senato, al quale il provvedimento è destinato per la propria lettura del nuovo dl, interverrà su questi aspetti nell’ottica di una maggiore coerenza. Rispetto al testo che a luglio era stato licenziato dalle Commissioni, e dopo i rilievi per le coperture di bilancio formulati dalla V Commissione, spariscono i riferimenti al servizio di sostegno psicologico da istituire presso le istituzioni scolastiche di ogni ordine e grado per prevenire fattori di rischio o situazioni di disagio attraverso il coinvolgimento delle famiglie, alle piattaforme di formazione e di monitoraggio destinate alle scuole e - soprattutto - alla previsione di uno specifico fondo al fine di dare attuazione e potenziare le misure previste dalla legge. Altro cambiamento importante, i decreti saranno del ministero dell’istruzione e del merito di concerto con il ministero della giustizia e non il contrario come previsto dal testo precedente. La seconda novità è stata introdotta da un emendamento della On. Augusta Montaruli (FdI) che istituisce la Giornata del rispetto, che ricorre il 20 gennaio, giorno della nascita di Willy Monteiro Duarte, il ragazzo di 21 anni ucciso a Colleferro tre anni fa a causa di un pestaggio che ha subito nel tentativo di difendere un suo amico. Nella settimana che precede la Giornata, le scuole pubbliche e private di ogni ordine e grado, nell’ambito della propria autonomia, riservano adeguati spazi per lo svolgimento di attività didattiche volte a sensibilizzare gli alunni sul significato della ricorrenza stessa e delle attività previste dalla legge. Per quel che riguarda lo Statuto delle studentesse e degli studenti, nell’ambito dei diritti e dei doveri si dovranno prevedere attività per l’emersione dei fenomeni di bullismo e cyberbullismo e si dovrà integrare il patto educativo di corresponsabilità con gli impegni relativi alle attività curricolari e extracurricolari per studenti e famiglie. La “stesa” diventi reato: anche FI punta sul panpenalismo dopo gli spari a Caivano di Ermes Antonucci Il Foglio, 12 settembre 2023 La proposta di Martusciello, coordinatore forzista in Campania: contro i raid stile Gomorra “introdurre un reato autonomo”. La critica del prof. Vincenzo Maiello (Università di Napoli): “La politica considera il diritto penale come un supermercato”. Nuovo giorno, nuovo reato. La deriva panpenalistica non si ferma. Così, dopo la proposta del Pd di introdurre il reato di “omicidio sul lavoro” in seguito all’incidente di Brandizzo, e dopo l’approvazione da parte del governo Meloni del decreto Caivano, fatto di aumenti di pene e nuovi reati, tocca a Forza Italia lanciare l’idea: far diventare un reato autonomo la “stesa”, cioè il raid con spari all’impazzata a scopo intimidatorio (reso famoso dalla serie “Gomorra”). A proporlo è stato Fulvio Martusciello, coordinatore regionale in Campania, dopo gli spari avvenuti domenica notte proprio a Caivano. Secondo Martusciello, che è anche capo delegazione di FI al Parlamento europeo, dove siede dal 2014, “non basta contestare il porto abusivo di armi aggravato da metodo mafioso perché, se non colti in flagrante, gli autori potrebbero sempre difendersi sostenendo che le pistole erano a salve”. “Oltretutto - ha proseguito - si dovrebbe provare la volontà di esercitare un predominio sul territorio con metodi o finalità camorristiche. Se invece la stesa diventa un reato autonomo si dà per acquisito, sia che i colpi siano esplosi indipendentemente se a salve o meno, sia che quell’atto miri a stabilire un predominio con finalità camorristiche”. “Non sono affatto d’accordo”, commenta con il Foglio Vincenzo Maiello, professore ordinario di Diritto penale all’Università di Napoli Federico II e avvocato, non solo per il contenuto della proposta di FI, ma soprattutto per quello che segnala: la tendenza della politica a usare il diritto penale per mostrare i muscoli all’opinione pubblica. “Innanzitutto dovremmo metterci d’accordo su cosa sia la stesa”, afferma Maiello. “Nella realtà napoletana, la stesa consiste non solo nell’esplosione di colpi d’arma da fuoco in aria, ma anche nel puntare le armi contro persone affacciate su balconi o alle finestre per costringerle a ritirarsi. E’ un tipo di fenomeno ben presente agli uffici giudiziari napoletani. Questi fatti vengono imputati agli autori a titolo di violenza privata aggravata dal metodo mafioso”. “Il controllo del territorio a cui Martusciello fa riferimento - prosegue Maiello - è dunque intrinseco alla condotta: se un gruppo di ragazzi a bordo di motocicli esplode colpi di arma da fuoco e punta le armi nei confronti delle persone questa è una forma di controllo del territorio che estrinseca il metodo mafioso”. Insomma, spiega il docente, “il nostro ordinamento già prevede al suo interno una risposta ad hoc per questa forma di protervia criminale”. Il punto è che l’iniziativa di Martusciello segnala un problema ben più grave, cioè la tendenza dei partiti italiani (siano essi di centrodestra, come di centrosinistra) a sventolare la forca ogni volta che accade un fatto di cronaca. Una volta è il Pd in tema di tutela dei diritti dei lavoratori. Un’altra volta è Fratelli d’Italia sugli stupri e sui reati commessi dalle baby gang. Un’altra volta è Forza Italia su problemi che riguardano l’ordine pubblico in generale. “La politica - dichiara Maiello - mostra di considerare il diritto penale una sorta di supermercato al quale rivolgersi ogni qualvolta avverte compulsivamente il bisogno di placare i bisogni emotivi di rassicurazione collettiva. Ma i prodotti che acquista di volta in volta differiscono solo per le etichette, essendo identici per contenuti e qualità della risposta. Il danno è duplice: sul piano pratico, si ingolfa il catalogo dei reati, con complicazioni interpretative che rischiano di aumentare la confusione e l’ineffettività del sistema; sul piano ideologico e politico-culturale, questa impostazione tradisce la concezione del diritto penale quale extrema ratio della politica sociale”. “Il legislatore - aggiunge il giurista - dovrebbe dare attuazione a una regola aurea della politica criminale liberaldemocratica, secondo cui il reato e la pena costituiscono risposte non contingenti - bensì meditate e razionali secondo i valori e gli scopi perseguiti - a una autentica ed effettiva esigenza. Tutto questo stride con la compulsività ‘pavloviana’ e quasi isterica con cui si ricorre agli strumenti penalistici, ogni qualvolta un fatto di cronaca, amplificato sulla scena mediatica, colpisce il nervo scoperto dell’indignazione popolare”. In questo ricorso costante agli strumenti della giustizia penale, Maiello vede “una forma di delega al potere giudiziario a trattare fenomeni rispetto ai quali dalla politica ci si aspetterebbe invece un’attenzione orientata alla rimozione delle cause”: “La politica continua a fingere che i fenomeni criminali sono espressione di contesti multifattoriali e hanno radice nella corresponsabilità sociale. Se si continua a non intervenire sulle cause dei problemi, spostando l’attenzione sui soli sintomi, la malattia avrà tempo e modo per incancrenirsi e la lotta alle sue manifestazioni assumerà connotazioni donchisciottesche”, conclude Maiello. Intercettazioni, il tentativo di Forza Italia: non trascrivere quelle inutili di Simona Musco Il Dubbio, 12 settembre 2023 La costituzionalista Violini smentisce l’alert degli azzurri: “La retroattività? Nessun problema”. Domani stop agli emendamenti. La retroattività del dl che allarga l’uso delle intercettazioni? Non presenta problemi di costituzionalità. A dirlo ieri in audizione nelle Commissioni congiunte Affari costituzionali e Giustizia è stata Lorenza Violini, professoressa ordinaria di diritto costituzionale presso l’Università statale degli Studi di Milano, il cui intervento è stato chiesto dal gruppo Noi moderati. Un intervento che, di fatto, ha confermato la natura innovativa della norma, così come segnalato dall’ufficio legislativo di Forza Italia, ma non i problemi relativi alla disposizione transitoria, che applica ai processi in corso la nuova disciplina. Stando al decreto, pensato dal governo per placare gli animi all’interno della magistratura dopo le uscite del ministro della Giustizia Carlo Nordio sul concorso esterno, sarà possibile utilizzare gli strumenti previsti per la lotta alla criminalità organizzata - trojan compresi - anche in assenza della contestazione del reato associativo, qualora i reati siano aggravati dalla modalità mafiosa. Una norma inserita in un decreto legge che arriva, però, un anno dopo la sentenza della Cassazione che contiene l’orientamento criticato dalla magistratura antimafia, sentenza che, di fatto, considerava illegittimi gli strumenti antimafia in assenza di una contestazione per associazione mafiosa. L’esame del decreto in Commissione si concluderà a stretto giro, per portare il testo in aula alla Camera entro il 24 settembre. E Forza Italia è pronta a presentare emendamenti che vanno nella direzione della scheda stilata dall’ufficio studi, scheda alla quale, ha dichiarato al Dubbio il deputato azzurro e componente della Commissione giustizia Tommaso Calderone, “aderisco in pieno”. Nel documento, la cui pubblicazione ha provocato non pochi malumori in Forza Italia, si sostiene, di fatto, l’incostituzionalità della norma, almeno nella parte che rende la nuova disposizione retroattiva. Ma per sapere quale sarà la posizione ufficiale del partito toccherà attendere giovedì, giorno in cui verranno depositati gli emendamenti. L’unica proposta che al momento trapela, e che porterebbe la firma proprio di Calderone, è quella di prevedere, all’articolo 268 secondo comma del codice di procedura penale - che stabilisce la trascrizione sommaria del contenuto delle intercettazioni -, che nel verbale redatto dalla polizia giudiziaria non vengano trascritte le conversazioni non ritenute utili alle indagini. Una previsione garantista per evitare la diffusione di informazioni che potrebbero danneggiare inutilmente i soggetti coinvolti. I sostenitori del dl utilizzeranno la posizione di Violini per dimostrare che non ci sono problemi di costituzionalità. “La giurisprudenza costituzionale, da ultimo la sentenza 39/2001, ha affermato che non è decisivo stabilire se si tratti di una norma interpretativa o innovativa”, ha sottolineato, sgomberando dunque il terreno da uno dei possibili problemi, ma di accertare se la retroattività trovi “adeguata giustificazione, sul piano della ragionevolezza, che non contrasti con altri valori e interessi costituzionalmente protetti”. Affinché la retroattività sia costituzionalmente legittima, dunque, “deve essere ragionevolmente giustificata da motivi imperativi di interesse generale - ha evidenziato - così da bilanciare l’effetto retroattivo a danno dei diritti acquisiti dai soggetti interessati, motivi che il governo ha correttamente esplicitato”. Argomentazioni totalmente diverse quelle esposte dal presidente dell’Unione delle Camere penali italiane, Gian Domenico Caiazza, che ha espresso “preoccupazione e allarme” prima ancora che per il contenuto per le modalità: l’intervento normativo, infatti, sarebbe giustificato, almeno apparentemente, “dalla ritenuta necessità di intervenire a correggere un orientamento giurisprudenziale in realtà espresso da una sentenza di oltre un anno fa”. E ciò porrebbe un problema “di compatibilità della ritenuta urgenza”, perché, di fatto, l’intervento del legislatore mira a “riformare un orientamento giurisprudenziale”, un fatto grave che si basa sul falso assunto dell’esistenza di un contrasto che in realtà non ci sarebbe. Tale intervento comporterebbe, perciò, “il più ampio e straordinario allargamento della capacità intrusiva dello strumento intercettativo che sia conosciuto nella storia repubblicana”, ha aggiunto. In maniera “incostituzionale”, laddove si mira a renderlo retroattivo. L’ideale, ha dunque concluso, è che tale “inciampo”, con il quale “il legislatore scavalca la Cassazione ritenendola eccessivamente garantista”, non veda mai la luce. Ma nel caso in cui non si volesse abrogare la norma ha auspicato “per lo meno che si consideri di limitare l’ipotesi aggravata” nei casi in cui viene agevolata l’associazione mafiosa, escludendo, dunque, quella in cui viene evocata la sua forza. Le audizioni continuano oggi, con l’intervento, tra gli altri, del procuratore nazionale Giovanni Melillo e del costituzionalista Alfonso Celotto. Separazione delle carriere, l’Anm studia la “strategia” comunicativa di Valentina Stella Il Dubbio, 12 settembre 2023 Il sindacato delle toghe: la proposta di legge mina l’indipendenza di noi magistrati I penalisti insistono: “Critiche infondate, la riforma è necessaria per la giustizia”. “Pensare ad iniziative di dialogo esterno per comunicare ai cittadini le ragioni della nostra contrarietà al disegno di riforma costituzionale sulla separazione delle carriere. Ai politici parliamo già nelle sedi istituzionali, ora dobbiamo dialogare con l’esterno”: questo l’invito fatto sabato in apertura del Comitato direttivo centrale dell’Anm dal suo presidente Giuseppe Santalucia. La magistratura affila le armi per combattere una battaglia che forse neanche si dovrà combattere, ma è meglio tenersi pronti. Fare previsioni sul futuro è alquanto complesso e le letture della situazione da parte della magistratura e dell’avvocatura sono opposte. Intanto, da quanto appreso, le audizioni in Commissione Affari costituzionali sulle proposte di legge in materia non termineranno prima di Natale; poi non si sa cosa avverrà. Verrà adottato un testo base o piomberà un disegno di legge elaborato a Via Arenula che annullerà, nel malcontento generale dei parlamentari, il lavoro fatto sino ad allora? Davvero la maggioranza, con la stampella del fu Terzo Polo, è pronta a sfidare la magistratura? Teniamo conto che il prossimo anno ci saranno le elezioni europee e ogni mossa va soppesata dai partiti. Comunque, sia magistrati che avvocati non sono in grado di prevedere cosa accadrà. Se i penalisti sono pronti a pungolare Parlamento e governo affinché mantengano le promesse fatte, sull’altro fronte, quello delle toghe, ci sono pensieri discordanti: alcuni sostengono che alla fine non se ne farà nulla, anche perché avrebbero ricevuto rassicurazione dal capo di gabinetto del ministro, altri invece credono che l’ultima parola non arriverà da Via Arenula ma dalla presidente Giorgia Meloni e dal suo fidato consigliere Alfredo Mantovano, altri invece temono che l’Anm dovrà prepararsi ad affrontare il referendum. Se ciò accadesse, esiste il timore che la vittoria dei favorevoli possa essere scontata per due motivi. Il primo: già in passato, benché non si sia raggiunto il quorum, chi ha votato ha detto sì alla separazione delle carriere. Secondo: lo slogan dell’Unione Camere penali per cui “l’arbitro non può indossare la stessa maglia di una delle due squadre in campo” sarà più performante rispetto agli stili comunicativi dei magistrati. Ed è su questo ultimo punto, tra l’altro, che si è avuta una certa fibrillazione all’interno del Cdc. Che strumenti usare all’esterno per far presa sull’opinione pubblica? Quasi all’unanimità sabato è stato approvato il seguente documento, dal titolo “Cavallo di Troia”, elaborato essenzialmente da Mi con l’integrazione finale di Area, in una strana ritrovata sintonia: “L’Anm esprime grande preoccupazione per i contenuti dei disegni di legge in discussione dinanzi alla Commissione Affari costituzionali della Camera di deputati che, nel riprodurre fedelmente la proposta di iniziativa popolare presentata dalle Camere penali nella XVII legislatura, rivelano, al di là dei propositi annunciati nelle relazioni illustrative, l’intento di assoggettare tutti i magistrati, giudici e pubblici ministeri, al potere politico”. E allora che fare per evitare tutto questo? “Il cdc invita tutti i magistrati associati a partecipare attivamente al dibattito pubblico sulla riforma della giustizia e invita le Ges a promuovere iniziative sul territorio, organizzando convegni aperti alla società civile e incontri con esponenti del mondo accademico, dell’avvocatura e dell’informazione. Sollecita le competenti Commissioni della Anm a predisporre schede tecniche che possano essere di ausilio anche alle attività di informazione delle Ges. Si impegna a promuovere ogni altra forma di comunicazione anche attraverso i suoi organi rappresentativi e si riserva di deliberare tutte le ulteriori iniziative necessarie a sensibilizzare l’opinione pubblica”. Non hanno votato a favore quelli di Magistratura democratica e il perché lo ha spiegato Stefano Celli: “Se sui principi siamo tutti d’accordo, crediamo che l’Anm con il documento approvato non individui le azioni concrete, i passaggi effettivi, efficaci per far conoscere i veri obiettivi del disegno restauratore, ma anche per far comprendere ai cittadini le concrete ricadute delle modifiche costituzionali sulla loro vita sociale, sui loro diritti, sulle loro libertà, ricadute sul breve e sul lungo periodo. Avremmo voluto sapere: domani di concreto cosa fa l’Anm? Le faccio un esempio: una cosa è dire “domani vado dal notaio e ti vendo la casa”, altra cosa è dire “domani vado in agenzia e le chiedo di vendermi la casa”. Il documento dell’Anm, con le sue provocazioni maliziose se vogliamo usare un eufemismo, ha suscitato una durissima replica della Giunta dell’Ucpi guidata da Gian Domenico Caiazza. “L’Anm ha licenziato un documento gravissimo - hanno scritto in una nota -. Per proporre le solite faziose e indimostrate critiche al progetto di riforma della separazione delle carriere dei magistrati, getta la maschera lanciandosi in considerazioni e idee pericolose per la democrazia e in alcuni spropositi culturali e giuridici”. Ciò che desta maggiore allarme “non è tanto il merito delle osservazioni critiche rivolte alle varie proposte di legge, che si afferma riproducono “fedelmente la proposta di iniziativa popolare presentata dalle Camere Penali”. Si tratta in larga parte di obiezioni ben conosciute, tutte caratterizzate da una capziosa faziosità, interamente volte a dimostrare ciò che il testo di tutte quelle proposte invece esplicitamente nega, è cioè la fantomatica sottoposizione del pm al potere esecutivo”. Quello che realmente ha suscitato la severa reazione dell’Ucpi è che “ora Anm gioca al rialzo, pretendendo di sostenere che la volontà della “Politica” sarebbe in realtà quella di sottoporre indistintamente giudici e pubblici ministeri al proprio indiscriminato controllo. Ciò avverrebbe, tra l’altro, perché nei due Csm conseguenti alla separazione delle carriere, la presenza dei componenti di parte politica è prevista come paritaria e non più minoritaria”. Per tutto questo i penalisti auspicano che “che Parlamento, governo e forze politiche di maggioranza e di opposizione sappiano cogliere la straordinaria gravità del documento licenziato dal cdc nazionale di Anm, sulla prospettiva della riforma costituzionale della separazione delle carriere” e si convincano “di quanto quella della separazione delle carriere sia la solo riforma davvero indispensabile per cambiare il volto della giustizia penale nel nostro Paese”. Intanto ieri si è tenuto un faccia a faccia nella sede dell’Anm tra il presidente dell’Ucpi, Gian Domenico Caiazza, e il magistrato in pensione Armando Spataro, tra i 500 firmatari come lui ritiratisi, che hanno sottoscritto un appello contro la separazione delle carriere. “Ho letto il documento sottoscritto dai magistrati a riposo - ha affermato Caiazza -, rilevo che per lo più sono inquirenti. Nessuno di noi immagina che una riforma ordinamentale di separazione delle carriere sia una sorta di panacea che risolva tutti i problemi dell’amministrazione della giustizia e trasfiguri il processo in un processo giusto. È uno schema che appartiene alla stragrande maggioranza delle democrazie europee ed extra europea anche se in maniera diversa. A ragion veduta, una delle poche eccezioni è la Francia che conferma la regola, perché ha un sistema processuale inquisitorio. Mentre il processo accusatorio esige invece la separazione: si tratta di dare coerenza ad un sistema in cui il giudice è equidistante da accusa e difesa. Veniamo accusati di voler mettere il pm sotto il controllo della politica. La nostra proposta dice chiaramente altro: “L’ordine giudiziario è costituito dalla magistratura giudicante e dalla magistratura requirente ed è autonomo e indipendente da ogni potere”. Per Spataro, invece, “la separazione delle carriere non è un problema fondamentale della nostra giustizia. È singolare che quasi tutte le pdl siano frutto di un copia e incolla tra di loro e di conseguenza di quella dell’Ucpi. Perché allora non firmare tutti insieme una proposta? Aggiungo che non è vero che l’intera avvocatura è a favore della separazione delle carriere, come Franco Coppi”. Noi ricordiamo a Spataro che anche tra i magistrati c’è chi è a favore della separazione delle carriere, come il togato del Csm Andrea Mirenda e pm di Napoli Paolo Itri. Per rivedere tutto il dibattito c’è Radio Radicale. Il pm rimanga parte imparziale di Gustavo Ghidini* Corriere della Sera, 12 settembre 2023 Inquieta la possibilità, che la separazione delle carriere sembra rendere assai concreta, che uno dei due magistrati da cui dipenderà la sua sorte giudiziaria, sia “educato” ad accusarlo, e che gli argomenti a sua difesa da presentare al giudice siano affidati al solo avvocato difensore. Annosa e spinosa, la querelle ravvivata dalla recente lettera aperta di oltre 300 magistrati fuori ruolo contrari alla separazione delle carriere fra giudici e pubblici ministeri. Mi consenta di esprimere una personale opinione nella prospettiva del comune e mediamente informato cittadino. Un cittadino che abbia a cuore - al di là degli aspetti tecnico-giuridici del dibattito - il valore della giustizia come servizio pubblico: servizio, dunque, ai cittadini “utenti” della giustizia. Inquieta la possibilità, che la separazione delle carriere sembra rendere assai concreta, che uno dei due magistrati da cui dipenderà la sua sorte giudiziaria, sia “educato” ad accusarlo, e che gli argomenti a sua difesa da presentare al giudice siano affidati al solo avvocato difensore, Forse non avverrà così, v’è da augurarselo, ma così il pericolo appare concreto. Ed è un pericolo che colpisce la fiducia del cittadino nello Stato come “fornitore” di giustizia. Quel ruolo richiede infatti che ogni magistrato, nei diversi ruoli, persegua un unico ed unitario interesse generale: accertare la verità dei fatti nei modi processuali stabiliti, e decidere di conseguenza, secondo la legge. Il cittadino si aspetta che, come ora avviene (e comunque come ora deve avvenire) il pubblico ministero cerchi, con pari impegno, prove a carico e a discarico dell’indagato, e, se del caso, chieda l’archiviazione o l’assoluzione. Il pm deve rimanere “parte imparziale” del processo: a differenza del difensore che fa l’interesse privato e personale dell’imputato. Al giudice, poi, spetterà di valutare le prove e gli argomenti presentati dall’uno e dall’altro. È opinione autorevole e diffusa quella secondo cui ciò vale anche nell’ambito del processo “accusatorio”: ove il ruolo dialettico del pubblico ministero si rappresenta in termini di un più intenso e dinamico (e “organizzato”) confronto con il difensore, non certo in quelli di “parte contro” il cittadino indagato. Guai se questi fosse indotto a contare soltanto sull’abilità di un (solo-per-abbienti) Perry Mason, e non anche sull’opera dello Stato, per veder riconosciute le proprie ragioni. Non occorre (ma aiuta…) aver visto tanti film e telefilm su processi penali americani per reputare inconcepibile che lo Stato operi, o anche solo appaia operare, attraverso un suo organo, orientato contro il cittadino indagato. Dovrebbe dunque promuoversi un sistema organizzativo che assieme alla distinzione dei ruoli, valorizzi il principio della unitarietà della funzione giurisdizionale, cioè l’unitaria missione istituzionale del “dire giustizia” nel pubblico interesse. Potranno quindi eventualmente introdursi nuove regole, basate sull’esperienza, per rafforzare la distinzione effettiva delle specifiche funzioni dei magistrati. Regole da aggiungersi a quelle già esistenti (v.ad es. l’art 34 cod. proc. pen., interpolato da varie sentenze interpretative della Corte Costituzionale) che prevede varie incompatibilità fra pm e giudici. E anche fra giudici, come quella per cui il Gip che ha adottato un provvedimento cautelare non può essere lo stesso magistrato che decide sul rinvio a giudizio). Ciò detto, va ribadita l’esigenza che ogni magistrato, a partire dalla formazione sino all’esercizio delle funzioni, effettivamente condivida, pur quando investito di ruoli diversi, una unitaria “cultura della giurisdizione”: che è fatta anche di riflessione scrupolosa, confronto, capacità autocritica. E che proprio ad evitare l’avversarsi o il ripetersi di manifestazioni di “protagonismo” e comunque di scarsa ponderazione nell’esercizio della funzione requirente, vada garantita e rafforzata quella condivisione effettiva. *Presidente del Movimento Consumatori La crisi del giurista di Aldo Rocco Vitale L’Opinione, 12 settembre 2023 Se, come già visto, seppur chiaramente in maniera non esaustiva, il diritto è in crisi oramai da tempo, non meno problematica appare la posizione del giurista odierno il quale non soltanto non sembra in grado di cogliere la crisi del diritto, ma neanche di percepire la propria stessa crisi. L’odierno giurista, infatti, è del tutto abbandonato a se stesso in una selva di confusione giuridica, normativa e giurisprudenziale, di ogni grado e livello, e in ogni ambito, tanto quello pubblicistico quanto quello privatistico. Ovviamente non si tratta soltanto del sottorganico del personale giudiziario e della sua atavica ideologizzazione, né della fuga dalla professione di avvocato, e neanche della difficoltà di accesso alla professione di notaio, ma di qualcosa di più e ben più radicato e profondo. Senza dubbio l’elefantiasi normativa dell’ordinamento italiano, con circa 110mila atti normativi, tra cui spiccano ben circa 46mila decreti del Presidente della Repubblica, circa 13mila leggi ordinarie, circa 7.700 Regi Decreti, circa 2mila decreti legislativi, circa 2mila decreti ordinari, a cui si aggiungono le circolari e le ordinanze dei Ministeri, delle Regioni, dei Comuni, influisce, ma non è sufficiente per dare ragione reale della crisi odierna del giurista. Senza dubbio la decadenza semantica del legislatore che nei decenni è transitata dall’essere sporadica ed episodica al divenire seriale e strutturata, con il confezionamento di testi normativi sempre più incomprensibili non soltanto in riferimento al loro interno sensus iuris - per lo più del tutto assente oramai - ma specialmente dall’elementare livello lessicale, influisce, ma non può da sola spiegare la attuale crisi del giurista. Senza dubbio anche l’autoreferenzialità normativa, cioè l’assenza di visione sistemica che oramai affligge le varie e diverse branche del diritto, contribuisce a creare quel senso di smarrimento da cui sembra pervaso il giurista contemporaneo, ma anch’essa da sola non può esprimere che un frammento di uno scenario ben più articolato quale scaturigine della crisi di cui si tratta in questa sede. A una tale fosca panoramica si devono aggiungere anche ulteriori elementi: una formazione universitaria non adeguata, espressione della crisi dell’università (questione da trattare separatamente in considerazione della sua vastità e complessità), un eccesso di riformismo legislativo per cui ogni nuovo Governo, di qualsivoglia colorazione ideologico-politica, si premura a introdurre sedicenti riforme migliorative dell’ordinamento giuridico che, con il tempo, finiscono soltanto per peggiorare la situazione, e, infine il diluvio di richieste, pretese e adeguamenti legislativi che provengono dalle istituzioni europee oramai praticamente senza alcun filtro, controllo o misura infittendo la già oscura selva normativa e distogliendo buona parte delle energie - già fiacche - del legislatore italiano, che a ciò è chiamato a dedicarsi in forma oramai prevalente se non esclusiva. Eppure, neanche tutto ciò riesce ancora a chiarire natura e cause effettive delle crisi presente del giurista. Probabilmente, allora, si necessita di un altro approccio che non sia quello storico, che non sia quello sociologico, che non sia quello economicistico, che non sia quello dei sistemi multilivello, che non sia, cioè, nessuno di quelli maggiormente ricorrenti. L’unico approccio mancante, ma il solo in grado di dar piena contezza, è quello critico, cioè quello di matrice filosofica e ciò almeno per tre ragioni. In primo luogo: solo l’approccio filosofico consente di scandagliare razionalmente il tema fugando ogni riduzionismo ideologico e aprioristico, come quelli suddetti. In secondo luogo: solo l’approccio critico di matrice filosofica offre quelle garanzie di metodo che evitano di rinchiudersi nell’angusto angolo della dimensione ontica, dimentichi della feconda prospettiva onto-assiologica. In terzo luogo: solo l’approccio critico-filosofico può consentire una investigazione adeguata che giunga al cuore del problema, poiché non c’è nulla di più filosofico dell’uomo e non c’è nulla di più umano della filosofia, a parte il diritto. Ciò considerato, la prima inevitabile mossa è l’interrogazione: chi è il giurista? Quali sono i caratteri costitutivi del giurista? Cosa distingue un giurista da tutto il resto? Quali sono la natura, la funzione e i limiti del giurista? Quella di giurista è una definizione legata formalmente a un titolo? Perché oggi il giurista è in crisi? Come risolvere il problema? Questi sono, ovviamente, soltanto alcuni dei fondamentali quesiti rinvenibili e già così sarebbe quasi impossibile rispondere in considerazione di un così breve spazio, ma si può tentare di tracciare ugualmente il perimetro della questione. In prima approssimazione si può affermare che il giurista sia colui che si occupa del diritto. Tuttavia, ci possono essere almeno due principali vie con cui ci si può occupare del diritto, una fittizia e l’altra invece autentica, in base al grado di adesione e corrispondenza effettiva con la natura razionale e relazionale del diritto medesimo. In questa direzione aveva ben intuito Alexis de Tocqueville, allorquando propose la distinzione tra leguleio e giurista, intendendo con il primo chi concepisce il diritto soltanto in quanto comando e volontà formalmente codificata, identificando, invece, nel secondo chi concepisce il diritto in quanto espressione di razionalità. Estendendo e approfondendo la suddetta suggestiva dicotomia tocquevilliana, si può ritenere che il leguleio è meccanicamente rispettoso della volontà del sovrano al fine di garantire ordine e sicurezza, anche al prezzo della libertà, anche al costo di sacrificare i diritti fondamentali; il giurista, invece, osserva le normative su ordine e sicurezza sempre con occhio critico, mantenendo la consapevolezza che queste non si possono venire a trovare in contrasto con i principi fondamentali del diritto, con la libertà e con i diritti naturali dell’essere umano. Alla luce di ciò, se il leguleio compiace il potere e lo serve, il giurista, invece, lo sfida e lo frena; se il leguleio si appella al mero bilanciamento degli interessi, il giurista confida nella ratio iuris; se il leguleio sorregge il potere, il giurista, invece, corregge il potere; se il leguleio si limita ad applicare la legge, il giurista, invece, la critica, cioè la passa al vaglio dell’esame della ragion giuridica; se il leguleio predica la legalità, il giurista, invece, aspira alla giustizia; il leguleio, insomma, è il gran sacerdote del potere e lo stregone della norma, mentre, invece, il giurista è il profeta della recta ratio. Proprio dalla predetta differenziazione si evince l’attuale crisi del giurista che ha oramai abdicato al proprio ruolo di sofferente testimone della verità del diritto e di affaticato cercatore della giustizia, per appiattirsi pigramente su ruolo passivo e anemico del leguleio quale meccanico applicatore delle norme. In questa direzione la crisi del giurista è quanto mai profonda poiché appare duplice: per un verso ontologica, in quanto il giurista, ridotto a leguleio, ha smarrito la propria identità e la consapevolezza intorno alla propria natura, ai propri compiti, al proprio ruolo, e, per altro verso, è assiologica, poiché il giurista ristretto nei panni del leguleio ha del tutto perso di vista la più ampia concezione del diritto come valore. Il diritto non più riconosciuto come valore, dunque, è l’autentica e primigenia causa della crisi attuale del giurista, il quale come il leguleio è oramai così impegnato a guardare i propri piedi per seguire i sentieri delle norme da non essere più aduso a scrutare il cielo della giustizia. Soltanto acquisendo coscienza di questa cecità, il giurista, elevandosi al di sopra del leguleio, potrà cominciare a sperare di fuoriuscire da quella terribile e degradante crisi che oramai lo attanaglia e lo umilia da troppi decenni, che lo rende cieco rispetto alle esigenze umane le quali informano il diritto, e sordo rispetto alle pretese della giustizia, così che soltanto recuperando il valore del diritto il giurista stesso potrà sperare di conservare il proprio stesso valore. Se per il magistrato puoi picchiare la moglie perché sei bengalese di Paola Di Nicola Travaglini* La Stampa, 12 settembre 2023 La produzione giuridica, al pari di quella filosofica e religiosa, è, innanzitutto, una produzione culturale: fissa i valori su cui poggia la struttura della convivenza civile. Una sentenza non si limita a stabilire la regola del caso concreto, dando torto o ragione, ma delinea anche qual è l’ordine sociale, ritenuto legittimo, in nome dello Stato. La magistratura, attraverso l’attività interpretativa, dà forma alla realtà attraverso le sentenze e da un materiale caotico ed informe esprime la parola pubblica, in nome di tutti e di tutte, fissando un modello rigido che si impone nei confronti dell’intera collettività. Nome, norma, normale sono parole che hanno la medesima radice, in questa sequenza, perché decidono chi merita di esistere stabilendo la regola e i comportamenti da osservare. La violenza di un uomo nelle sue diverse declinazioni - violenza di coppia, in famiglia, sessuale, fino al femminicidio - è un atto di misoginia, fondato su una diffusa e tollerata identità socio-culturale, mosso solo dalla volontà di una donna di essere libera da potere e controllo. Libertà di amare un altro uomo, di separarsi, di lavorare, di studiare, di trasferirsi, di fare sport, di fidarsi, di ubriacarsi, di passeggiare di notte, di ballare e divertirsi. È un’evidenza difficile da comprendere perché non concepiamo l’esistenza della libertà femminile cioè un diritto inalienabile e un diritto umano che se riconosciuto, davvero e non sulla carta, farebbe crollare il mondo tuttora costruito su ubbidienza, sopportazione e soggezione delle donne. Ancora oggi uscire con le amiche, ballare e ubriacarsi o decidere di lasciare un uomo violento è un atto eroico perché chi lo compie, con immenso coraggio, rischia lo stupro, fino alla morte. E ci appare normale. Il linguaggio delle sentenze per descrivere un fatto e per argomentare le conclusioni del giudice esprime una precisa rappresentazione culturale e sociale dei ruoli di genere e della violenza contro le donne. Se schiaffi e umiliazioni sono tradotti come liti familiari, l’atto linguistico consente di ritenere, in nome dello Stato, che nel contesto di coppia o domestico siano una modalità ordinaria di gestione dei conflitti tanto da legittimarli e renderli impuniti; questo al di là dell’intenzione di chi interpreta e decide. Se quegli schiaffi li sferra un uomo ad una donna, in nome dello Stato viene consentita la violenza di genere, nonostante vietata e punita. Le leggi senza gli interpreti sono lettera morta. Se l’uccisione di una donna non viene inserita in un contesto di quotidiano potere e controllo maschile, da tutti spesso conosciuto e sottovalutato specie quando ci sono figli perché un padre è sempre un padre, si traduce in un banale quanto lineare “delitto passionale”. Se lo stupro è definito come un “impulso sessuale” di un confuso giovane o l’atto scherzoso di un buontempone, l’intangibilità del corpo femminile ed il consenso della vittima - ancora spesso l’imputata dei nostri processi - diventano irrilevanti nonostante gli orientamenti della Corte di Cassazione. I criteri di credibilità e attendibilità della sua testimonianza sono selezionati sulla base di regole formalmente giuridiche, ma inconsapevolmente morali, che impongono alla donna di essere silente e modesta altrimenti è consenziente. Gli effetti di un linguaggio che non descrive il fatto ma lo deforma o lo omette, in base a stereotipi interiorizzati ed invisibili, produce effetti devastanti: non applica le ottime leggi che abbiamo; normalizza la violenza, ne svaluta gli oggettivi fattori di rischio (non “palla di vetro” di maghi e fattucchiere) che avrebbero consentito di fermarla, colpevolizza le vittime per essersela cercata e per non essersi comportate diversamente reiterando letture riduttive e romantiche del più difficile e radicato fenomeno culturale e criminale del mondo. Il linguaggio distorcente e distorsivo che vive fuori dalle aule entra nei processi, ostacola il corretto inquadramento giuridico e fornisce una lettura stereotipata della violenza: la gelosia giustifica inconsapevolmente l’autore ed edulcora l’atto criminale; lo stato emotivo, cioè il raptus, la perdita di controllo, la cieca passione deresponsabilizzano l’autore rendendolo vittima di sé stesso e dei suoi presunti tormenti e così si può far a meno di indagare la deliberata volontà punitiva nei confronti di una vittima colpevole di avere violato il suo ruolo sociale di figlia, moglie e madre in quanto tale, accudente, subordinata e ubbidiente. L’imputato si trasforma magicamente nella vittima fragile e frustrata di colei che lo ha ferito con la sua libertà; di un contesto culturale e sociale che pretende la sua re-azione, altrimenti non è un uomo; di un ego smisurato che è centro di tutte le cose dalla notte dei tempi. Ecco perché si pone, con urgenza, oltre all’incremento di risorse e personale di uffici al collasso, il tema della formazione obbligatoria e continua di magistratura, avvocatura e forze di polizia oggi affidata alla scelta individuale di ciascuno. Abbiamo bisogno di strumenti, principalmente culturali, per leggere gli stereotipi, su uomini e donne, radicati in ciascuno di noi e che temiamo di incrociare, per il dolore di scavare nel nostro limite conoscitivo e nella radice collettiva della violenza maschile contro le donne limitandoci a sublimarla con un linguaggio deformante e convenzionale. La sfida di uomini e donne di questo tempo e di questo Paese, a partire dalle istituzioni, è di riconoscere e poi decostruire stereotipi culturali millenari che capovolgono e distorcono i fatti spostando o attenuando, inconsapevolmente, la responsabilità: l’autore esprime sentimenti e passioni; la vittima non esercita diritti, ma provoca reazioni inconsulte. La magistratura sa bene di dovere fare la sua parte, come avvenuto per il contrasto al fenomeno mafioso o terroristico, per adempiere all’obbligo costituzionale che le spetta. *Magistrata La violenza sulle donne non è cultura di Linda Laura Sabbadini La Repubblica, 12 settembre 2023 Il pm chiede l’assoluzione per il marito che picchiava la moglie 27enne originaria del Bangladesh. Un inaccettabile caso di relativismo culturale in un’aula di tribunale. Una giovane di 27 anni originaria del Bangladesh denuncia il marito nel 2019 per maltrattamenti. E sappiamo che cosa voglia dire, quanto sia difficile per una donna farlo. La donna riferisce di aver subito un matrimonio combinato in patria. E di essere stata maltrattata fisicamente e psicologicamente, vivendo addirittura segregata. Ebbene ora il pm di Brescia chiede l’assoluzione del marito perché i “contegni di compressione delle libertà morali e materiali”, che quindi secondo il pm ci sono stati, sono “il frutto dell’impianto culturale e non della sua coscienza e volontà di annichilire e svilire la coniuge”. Alcuni interrogativi sono d’obbligo. Perché se la compressione delle libertà morali e materiali c’è stata, il fatto che ciò sia permesso dalla sua cultura dovrebbe farlo assolvere? Allora questo vuol dire che se gli stessi atti fossero avvenuti ad opera di un italiano sarebbe stato forse diversa la posizione del pm, perché la cultura italiana non lo prevede? Ma la legge non è uguale per tutti? E se abbiamo una Costituzione che difende la dignità di uomini e donne, e abbiamo le norme contro la violenza sulle donne, che cosa vale di più, la cosiddetta cultura di provenienza che permette di calpestare la libertà della donna o le nostre norme? Ogni cittadino di qualunque parte del mondo deve essere benvenuto nel nostro Paese. Ben vengano persone multicolori, arricchiscono la società, la rendono più aperta, più creativa, più innovativa, proiettata al futuro con il loro contributo. Ma devono rispettare i diritti e la dignità delle persone, devono rispettare le regole del nostro Paese. E il nostro sistema di giustizia deve garantire che ciò succeda. Che una persona priva di cultura giuridica possa portare le argomentazioni citate può pure essere. Se ne discute. Ma che ciò debba avvenire in un’aula di Tribunale da parte di un pm mi preoccupa e non poco. Ci dice che i Tribunali sono immersi nella società e al loro interno ritroviamo le stesse resistenze culturali e stereotipi che si sviluppano nella società stessa. Ci dà segnali negativi sul clima che incontrano le donne quando faticosamente arrivano a denunciare l’autore di violenza. Si prendono a pretesto gli argomenti della giusta teoria del “relativismo culturale” che ha messo in discussione l’interpretazione della realtà alla luce della superiorità della cultura occidentale, sminuendo la nobiltà di altre culture. Ma lo si fa svilendola, rivelando una malcelata velleità maschilista, quando la violenza sulle donne si assimila a usanze culturali e non a reati contro la persona. La violenza sulle donne è un crimine ed in quanto tale, come tutti i crimini, senza eccezione alcuna, deve essere punito. Se no, si può giustificare di tutto, dall’uccisione della ragazza Saman da parte del padre pachistano, di fronte al quale rivendicava la sua libertà, all’omicidio d’onore. No, non è tutto relativo. I crimini sono crimini. E le usanze culturali sono l’espressione della cultura patriarcale, della volontà di dominio dell’uomo sulla donna. C’è un altro passaggio nella motivazione del pm inaccettabile. “La disparità tra l’uomo e la donna è un portato della sua cultura che la medesima parte offesa aveva persino accettato in origine”. Cioè il pm, invece di essere contento che la donna vivendo nel nostro Paese ha preso coscienza dei diritti che una democrazia come la nostra garantisce, la condanna a non ricevere giustizia e usa il fatto che lei avesse inizialmente accettato quei comportamenti contro di lei. Ma la donna è più avanti del pm. E rivendica il suo diritto a non essere schiava. Motivazioni del genere umiliano il sistema della giustizia, intaccano la fiducia nella democrazia, allontanano le donne dalle aule dei tribunali. Una risposta ferma deve essere data. In primis dal sistema di giustizia. Fumo passivo in carcere, ministero condannato al risarcimento per la morte di un agente penitenziario di Claudio Tadicini Corriere della Sera, 12 settembre 2023 Salvatore Monda è morto a 44 anni per un tumore ai polmoni. “Prima sentenza in Italia” ha spiegato il segretario del Sappe Federico Pilagatti. Morì per il fumo passivo inalato durante il lavoro in carcere e ora il Ministero della Giustizia è stato condannato a risarcire i familiari con un milione di euro. La sentenza, la prima in Italia, è stata emessa lo scorso 5 settembre dal giudice onorario del Tribunale di Lecce Silvia Rosato, che ha condannato il dicastero al maxi risarcimento per la morte di un agente penitenziario Salvatore Monda di 44 anni, morto per tumore ai polmoni contratto dopo avere inalato il fumo passivo per 6 ore al giorno, per vent’anni. La notizia è stata resa nota dal Sappe (Sindacato autonomo di polizia penitenziaria della Puglia), tramite il segretario Federico Pilagatti, con riferimento alla sentenza della giudice Silvia Rosato, depositata lo scorso 5 settembre. “Con questa sentenza che è la prima in Italia, il collega morto a 44 anni di tumore ai polmoni, senza aver mai fumato nella sua vita, ma costretto ad inalare nella sua breve vita per ore ed ore il fumo passivo durante l’orario di lavoro potrà riposare in pace, mentre la moglie potrà avere un pur minimo riconoscimento per l’immane dolore sopportato, e le gravi fatiche per andare avanti e tirare su tre bimbi piccoli”, dice il sindacalista in una nota. “Il Sappe è ben cosciente che la sentenza non elimina le gravi problematiche connesse al fumo passivo poiché le strutture penitenziarie sono quelle che sono, come pure sappiamo che non si può togliere la possibilità ai detenuti di fumare del tutto”, prosegue. “Quello che chiediamo con urgenza è installare nelle sezioni detentive il maggior numero di aeratori possibile, riconoscere tutte le patologie contratte dai lavoratori connesse con il fumo passivo dipendenti da causa di servizio con categoria, dotare i poliziotti di presidi sanitari(mascherine) per una maggiore protezione dal fumo e prevedere un’indennità specifica per i poliziotti che lavorano a contatto con la popolazione detenuta, per compensare il rischio sanitario a cui vanno incontro”, aggiunge. La storia - L’uomo - assistente capo della Polizia Penitenziaria assegnato negli anni alle case circondariali di Milano, Taranto ed infine Lecce - non era un fumatore così come la moglie, rimasta vedova con tre figli minorenni a carico l’11 luglio 2011. Secondo il giudice Rosato, il Ministero della Giustizia - non ottemperando alle prescrizioni previste dal Dpcm del 23 dicembre 2003 in materia di “tutela della salute dei non fumatori”, che prevedeva anche in carcere reparti per non fumatori nonché locali chiusi ai fumatori purché dotati di impianti di ventilazione e ricambio d’aria regolarmente funzionanti - avrebbe omesso di predisporre le adeguate misure di prevenzione, di richiedere l’osservanza dell’obbligo di legge di non fumare e di sanzionare i trasgressori, favorendo così l’insorgenza, la manifestazione clinica ed il decorso della patologia tumorale che portò al decesso dell’agente penitenziario. “Il ministero - scrive il giudice - non ha dimostrato in giudizio di avere fatto tutto il possibile per evitare il danno”. Il nesso causale tra esposizione lavorativa al fumo passivo sul luogo di lavoro e l’insorgere della neoplasia polmonare fu accertato dal ctu Sandro Petrachi. La richiesta di interventi urgenti - “Il Sappe chiede al presidente della Repubblica Sergio Mattarella di intervenire presso il Ministro Nordio affinché non proponga nessun appello poiché le responsabilità sono chiare e dimostrate, per cui un ricorso servirebbe solo per perdere tempo e non per fare giustizia uccidendo un’altra volta il collega morto e lo impegni a presentare le richieste del sindacato, già al prossimo consiglio dei ministri, come primo atto di risarcimento per i danni causati a migliaia di poliziotti, costretti a lavorare in ambienti altamente inquinati per anni, conclude. I bravi, le “gride”, la giustizia di Anna Grazia Stammati* cobas-scuola.it, 12 settembre 2023 Basta soffermarsi sui dati del Ministero della Giustizia “Detenuti per titolo di studio”, per avere un quadro abbastanza rispondente dell’ambito sociale di provenienza dei detenuti presenti nelle nostre carceri. I numeri e le percentuali sui detenuti per titolo di studio ci dicono, infatti, che al 30 giugno 2023, nei 189 istituti penitenziari italiani, erano presenti 57.525 detenuti e di questi il 4,5% risulta analfabeta o privo di titolo di studio (2,8% analfabeti, 1,7% privo di titolo di studio) e il 16,5% in possesso solo della “vecchia” licenza elementare. Dunque possiamo affermare che il 21% della popolazione detenuta è scarsamente alfabetizzata e che - se a questo aggiungiamo un altro 58,1% (17.159 persone) che ha la sola licenza media, dunque non ha concluso neppure il percorso dell’obbligo scolastico che termina con il primo biennio delle scuole superiori - il 78% della popolazione detenuta è scarsamente alfabetizzata e scarsamente istruita, infatti solo il 16,6% ha un diploma di scuola superiore e il 2% possiede una laurea (in tale contesto i detenuti italiani presenti in carcere sono 39.538, corrispondenti al 68,7% del totale; i detenuti stranieri 17.987, corrispondenti al 31,3%). Nonostante l’importanza rivestita dai dati dello stesso Ministero, l’erogazione e la partecipazione ai corsi scolastici varia molto a seconda dell’istituto penitenziario, così i corsi scolastici erogati nel precedente anno scolastico, sono stati 1.735 per un totale di 17.324 persone iscritte (di cui 7.550 stranieri). Il numero di persone straniere iscritte a corsi di istruzione si concentra, poi, soprattutto nel primo livello (5.941 detenuti stranieri). Tra costoro, 3.521 risultano iscritti a corsi di alfabetizzazione e apprendimento della lingua italiana, con una percentuale decisamente più elevata rispetto al totale della popolazione detenuta iscritta a tale percorso didattico, pari a 3.860 unità. Le motivazioni principali sono collegate alla necessità di apprendere la lingua o al mancato riconoscimento dei titoli di studio conseguiti all’estero. Antigone (associazione per le garanzie nel sistema penale, fondata negli anni Ottanta) in una propria indagine riporta che sui 65 istituti visitati, soltanto in 7 più della metà dei detenuti era iscritto a un corso di istruzione. In altri 15 istituti erano fra il 30% e il 50% i detenuti iscritti a un corso di istruzione. Troviamo poi 29 istituti con il 10-20% di detenuti studenti e 14 con meno del 10% di studenti. Di fronte a tali percentuali e ai dolorosi avvenimenti che hanno funestato il carcere durante questa estate: sovraffollamento, caldo, suicidi, diritti calpestati, problematiche psichiatriche, la risposta del governo è stata quella della scelta sanzionatoria e repressiva, indipendentemente dalla fascia di età di appartenenza. Ora, visto che il governo non sembra ascoltare quanto in questi giorni si sta scrivendo rispetto a tale deriva reazionaria, forse perché interpreta quanto si dice come dettato da un’opposizione politica minoritaria e rancorosa, possiamo suggerire ai ministri della maggioranza di rileggere un classico che abbiamo letto tutti/e, I Promessi Sposi, per riscoprire la sapiente ironia con la quale Manzoni descrive la roboante e barocca giustizia borbonica attraverso la serie interminabile di “gride” con le quali si minacciavano tutti i malviventi che osavano mettersi al servizio di qualche signorotto e commettevano omicidi, furti e delitti vari, con pene severissime tanto che a leggere quelle parole, ci dice Manzoni, “viene una gran voglia di credere che, al solo rimbombo di esse, tutti i bravi siano scomparsi per sempre”, mentre invece, nonostante il susseguirsi delle gride per oltre sessant’anni (la prima grida è del 1583, l’ultima grida che Manzoni cita è del 1632, emanata, perciò, un anno prima dell’inizio della storia degli sposi promessi), noi lettori veniamo messi sull’avviso dalla voce narrante […] che, nel tempo di cui noi trattiamo, c’era de’ bravi tuttavia” ovvero che a nulla erano serviti quei sessant’anni di gride lanciate e rilanciate, perché i bravi (e i loro protettori) continuavano ad agire indisturbati. Sarebbe bastato rileggere Manzoni, un campione del nostro Made in Italy, per evitare al governo Meloni e ai suoi ministri di scambiare lucciole per lanterne, vendetta per giustizia e capire, invece, la dolorosa realtà che emerge dai territori italiani, tra i giovanissimi, ma non solo, rispetto alla quale a poco serve l’inasprimento delle pene, perché questo non distoglie dal reato e pensare di risolvere il problema con “gride” più dure, non serve a nulla. Come ha detto un preside di Caivano, infatti, non c’è bisogno di polizia ma di normalità, cioè di scuola, tempo pieno, mense, sport, illuminazione stradale, sanità diffusa (e, aggiungiamo noi, non solo a Caivano), cercando di lavorare per comprendere quali sono le radici di fenomeni tanto complessi quanto antichi. La maggior parte dei reati coinvolge giovani e meno giovani che hanno famiglie fragili, vivono in contesti degradati, hanno abbandonano precocemente la scuola divenendo bassa manovalanza della criminalità organizzata, anche se le forme di povertà educativa sono sfaccettate e non sempre riconducibili a fattori esclusivamente economici, come dimostra la trasversalità di alcune tipologie di reato che toccano fasce sociali diverse (in particolare gli stupri, di gruppo o meno che siano). La mancata centralità dell’istruzione e le scarse conoscenze di base possono determinare quelle disuguaglianze iniziali che nel corso della vita creano debolezze che si incistano nella vita sociale del singolo e riproducono e ampliano le disuguaglianze iniziali, spesso causate dall’assenza di adeguate iniziative educative rivolte ai giovani, ma anche agli adulti. Non è sorvegliando e punendo, o diramando nuove “gride” per impaurire e rinchiudere i “bravi” del nostro secolo, che un governo fa giustizia, ma creando opportunità sui territori e, in carcere, attuando un recupero socio-educativo che eviti di far uscire giovani e adulti dalle patrie galere più motivati a commettere atti criminosi che a riprendere il filo di proficue relazioni sociali, interrottesi con l’ingresso in carcere. *Esecutivo nazionale COBAS Scuola Milano. San Vittore, suicida detenuto di 35 anni in attesa di giudizio di Anna Giorgi Il Giorno, 12 settembre 2023 Trentacinque anni, italiano, autolesionista recidivo, grossi problemi di tossicodipendenza che avevano aggravato un precedente stato di “debolezza psichiatrica”. Il 35enne era rinchiuso nella sezione regolamentata ex articolo 32 delle norme sull’ordinamento penitenziario, dove vengono poste le persone aggressive verso gli altri o verso se stesse come in questo caso. L’uomo era seguito dagli psicologi del carcere, si è impiccato con le maniche della felpa al letto. È l’ultimo caso di suicidio, avvenuto due giorni fa, alla casa circondariale di San Vittore, dove il 35enne con precedenti penali per spaccio si trovava in attesa di giudizio a causa di un aggravamento della pena dopo aver commesso una rapina. Un’emergenza “invisibile”, quella del grave disagio che si vive nelle carceri dovuto anche al sovraffollamento che porta a gesti estremi più frequenti nelle case circondariali dove ci sono detenuti in attesa di giudizio. Sabato scorso, un altro detenuto si era impiccato nel carcere di Busto Arsizio. L’uomo, 33 anni, era recluso, anche in quel caso, per reati di droga e si è impiccato in bagno con un lenzuolo. Quello di ieri è l’ottavo suicidio nelle carceri milanesi, il quinto a San Vittore dall’inizio del 2023, di cui tre fra la fine di luglio e il mese di agosto. E si registra, inevitabilmente, una crisi che tocca il picco in estate con un caldo, contrastabile solo con qualche ventilatore nelle parti comuni, che toglie il respiro nelle celle e alimenta gesti e reazioni incontrollate in chi già vive un equilibrio psicologico precario. Al sovraffollamento si aggiungono vuoti di organico nella polizia penitenziaria, direttori di istituto che devono gestire più istituti. E tornando ai detenuti la riduzione delle telefonate e dei colloqui con i familiari, rendono sempre più difficile, se non impossibile, la permanenza nelle celle. È in questo clima che spesso la situazione precipita e diventa ingestibile, a volte anche per persone che in altri momenti non hanno mostrato segni di disagio. Di agosto la direttiva inviata dal Provveditore dell’amministrazione penitenziaria lombarda, Maria Milano, ai direttori dei 18 istituti della regione. “Dalla lettura di eventi critici recentemente occorsi - si legge - è emerso, in talune circostanze, un utilizzo improprio dei mezzi di coercizione fisica. In particolare, è stato rilevato l’uso delle manette all’interno delle sezioni detentive per contenere gli agiti auto ed etero aggressivi posti in essere dai detenuti”. In tema sovraffollamento la maglia nera resta alla Lombardia, che con il suo tasso medio del quasi 135% è la regione italiana con le carceri più sovraffollate. Poi ci sono i record di alcuni istituti: Varese, Como e Brescia (Canton Mombello) con i loro 185%, ovvero presenze quasi doppie rispetto alla capienza regolamentare: 335 a Brescia (invece di 185), 403 a Como (invece che 226), 94 a Varese invece delle previste 53. Roma. Regina Coeli, detenuto di 21 anni trovato impiccato in cella di Fabrizio Peronaci Corriere della Sera, 12 settembre 2023 Il giovane senzatetto, romano, arrestato a luglio per furto, era stato isolato dagli altri detenuti. Le proteste dei sindacati. Chiesto consiglio regionale straordinario. Ciani (Pd): “Più integrazione con il territorio”. Era stato arrestato lo scorso luglio a Roma, per un furto, e portato subito a Regina Coeli. Aveva 21 anni, non riusciva a trovare lavoro. Viveva per strada. “Italiano, senza fissa dimora, valutare isolamento giudiziario”, era stata l’accoglienza che gli aveva riservato la burocrazia carceraria nella scheda d’ingresso in carcere. Aveva bolle, macchie e arrossamenti su tutto il corpo, in particolare braccia e addome. “Psoriasi”, aveva detto lui, forse per vergogna. “Scabbia”, era stata invece la diagnosi del centro sanitario. Il 21enne era finito in isolamento ma, dopo neanche due mesi, non ha retto alla depressione e allo stress: è stato trovato impiccato con un lenzuolo nella sua cella, domenica 10 settembre. “Situazione di abbandono” - A denunciare l’ennesima tragedia dietro le sbarre è stato il Sappe (sindacato autonomo polizia Penitenziaria): “Invito le autorità ad attivare, da subito, un tavolo permanente regionale sulle criticità delle carceri, che vedono ogni giorno la Polizia Penitenziaria farsi carico di problematiche che vanno per oltre i propri compiti istituzionali, spesso abbandonata a sé stessa dal suo stesso ruolo apicale”, dichiara Donato Capece, segretario generale del Sappe. Per Capece, “chiunque, ma soprattutto chi ha ruoli di responsabilità politica ed istituzionale, dovrebbe andare a Regina Coeli a vedere come lavorano i poliziotti penitenziari. L’ennesimo suicidio di un detenuto dimostra come i problemi sociali e umani permangono, eccome, al di là del calo delle presenze”. Inoltre, “si consideri che negli ultimi 20 anni le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria hanno sventato, nelle carceri del Paese, più di 25mila tentati suicidi ed impedito che quasi 190mila atti di autolesionismo potessero avere nefaste conseguenze”. Critiche esplicite all’attuale capo del Dap, Giovanni Russo: “La sua gestione è fallimentare, non fa nulla ed è evidentemente allergico al confronto con i sindacati, quando invece dovrebbe intervenire con urgenza sulla gestione dei detenuti stranieri, dei malati psichiatrici, della riorganizzazione, della riforma della media sicurezza”. “Pensiamo alla rieducazione” - Si muove anche la politica, in Parlamento e in consiglio regionale. “Ieri un nuovo suicidio a Regina Coeli, un ragazzo italiano di 21 anni in carcere per furto. Mentre si parla di blitz e nuove norme punitive, in carcere si continua a morire e nessuno lavora per farne quello che la nostra Costituzione dice che debba essere: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”“. Così in una nota il deputato e vice-capogruppo Pd alla Camera Paolo Ciani. “Se il 70% dei detenuti è recidivo, quale è oggi il senso della detenzione? Se tanti si trovano in carcere per motivi sociali oltre che penali (è il caso del giovane che era senza dimora), nuove pene e nuove carceri non serviranno a molto. Ascoltiamo gli operatori del carcere: la polizia penitenziaria in grande difficoltà e con risorse e uomini ridotti che chiede più sociale e misure alternative. I (pochi) direttori degli Istituti sempre alla ricerca di integrazione col territorio; gli educatori, che chiedono più lavoro, scuola, attività; i volontari che chiedono più telefonate con chi ha famiglia e familiari lontani. Si potrebbe cominciare con le misure alternative per chi ha pene inferiori ai 2 anni, come ricordano i garanti”, conclude Ciani “Subito interventi straordinari” - “Un consiglio straordinario per studiare insieme e promuovere misure urgenti per affrontare le questioni legate agli istituti penitenziari di Roma e di tutto il Lazio. Avanzerò la richiesta al presidente del consiglio, Antonio Aurigemma, e alle forze rappresentate in consiglio regionale”. Così in una nota il Capogruppo Avs (verdi e sinistra) in Consiglio regionale, Claudio Marotta. “Ieri Viterbo e qualche giorno fa Frosinone, oggi a Roma al Regina Coeli: i casi di suicidi sono quasi all’ordine del giorno - ricorda Marotta - Sovraffollamento, mancanza di adeguato supporto sanitario e in modo particolare psicologico, carenza di personale di polizia penitenziaria, vetustà delle strutture e carenza di servizi al loro interno sono solo alcuni dei problemi da affrontare e che impongono a tutte le forze politiche di trovare soluzioni al più presto mettendo in campo finanziamenti e una strategia adeguata perché il carcere sia il luogo dove scontare la pena e allo stesso tempo intraprendere un percorso di rieducazione e riabilitazione sociale e culturale”. Roma. Morì a Regina Coeli, inchiesta ferma da 13 mesi. “Fatecelo almeno seppellire” di Ilaria Sacchettoni Corriere della Sera, 12 settembre 2023 Parlano la moglie e il figlio di Carmine Garofalo, detenuto per tentato omicidio: “Non era un santo, ma non è giusto togliergli la dignità”. La richiesta di aiuto a Ilaria Cucchi e la denuncia di Gabriella Stramaccioni. Il 16 agosto 2022, in un carcere strapieno come Regina Coeli, è morto Carmine Garofalo, 49 anni, detenuto per tentato omicidio, marito di Sonia Amantini e papà di Samuel, attore professionista, e di una bambina con problemi di autismo. Tredici mesi dopo nulla si sa di quella morte nella cella 24 di Regina Coeli. Due inchieste, una interna e l’altra penale, non hanno raggiunto alcuna verità e neppure un nulla osta per la sepoltura. Due autopsie non hanno sciolto i dubbi sulle cause della morte e, insomma, oltre un anno è trascorso invano per la famiglia che ha appreso, per averlo letto sui giornali e visto in televisione, di un’ipotesi di omicidio dai contorni tanto inquietanti quanto sfocati. La denuncia della ex garante Stramaccioni - La denuncia dell’allora garante dei diritti dei detenuti Gabriella Stramaccioni ha avviato un percorso fin qui senza esito. “È normale che tredici mesi dopo il corpo di Carmine sia ancora in una cella frigorifera in attesa di sepoltura? Mio marito era un numero o una persona?” domanda Sonia Amantini che, di recente, ha deciso di raccontare la sua storia alla senatrice Ilaria Cucchi. Ma chi era Garofalo? “Non un santo - ammette Samuel - ma un uomo con problemi di bipolarismo e con ciclici guai di droga. È un motivo per togliergli la dignità? Noi, molto sinceramente siamo sbalorditi”. Il tentato suicidio in cella - Garofalo viene arrestato il 16 luglio 2022. Trascorrono pochi giorni e il 2 agosto avviene qualcosa che cambia le direttive del carcere nei suoi confronti. Il 49enne tenta di impiccarsi con una t-shirt. “Da quel giorno - rammenta la moglie - il medico prescrive una sorveglianza continua”. Garofalo è un detenuto problematico, convive con un altro detenuto ma litiga. Suo figlio Samuel - ha recitato con Luchetti come pure con Ozpetek nel serial “Le fate ignoranti” - non nasconde le difficoltà ma chiede “verità e un po’ di giustizia”. Due testimoni: “È stato soffocato” - Nella sua denuncia Gabriella Stramaccioni ha citato il caso di due detenuti che sarebbero stati testimoni dell’omicidio. Questi, nome e cognome, hanno chiesto di essere ascoltati dalla magistratura. Avevano assistito, hanno spiegato, all’aggressione nei confronti del detenuto e hanno assicurato che Garofalo non era morto per cause naturali ma soffocato in una sorta di abbraccio mortale da un altro detenuto. Nessuno li ha mai convocati. “Abbiamo sentito che aveva sostanze stupefacenti in circolo ma non sappiamo altro - sottolinea oggi il figlio. Ci chiediamo come sia possibile. Ma più di tutto ci lascia perplessi questo silenzio. Non un documento ufficiale, non un attestato, non una risposta. Vi pare possibile?”. Milano. Morto in ospedale il boss di mafia Benedetto Capizzi milanotoday.it, 12 settembre 2023 È morto a Milano, in ospedale, il boss di mafia Benedetto Capizzi. Aveva 79 anni ed era detenuto a Opera in regime di 41 bis (scontava due ergastoli), ma durante l’estate era stato trasferito al San Paolo a causa dell’aggravarsi delle sue condizioni di salute. Il pm ha disposto l’autopsia. Nato a Palermo, capo del mandamento di Villagrazia-Santa Maria del Gesù e, secondo alcune fonti, anche della commissione provinciale palermitana, Capizzi fu arrestato il 16 dicembre 2008 insieme ad altri 94 esponenti di Cosa Nostra, nell’ambito dell’operazione ‘Perseo’, con cui vennero decapitati i nuovi vertici della commissione provinciale dopo i precedenti arresti, tra il 2006 e il 2007, di Bernardo Provenzano, Antonio Rotolo e Salvatore Lo Piccolo. Durante quella fase di tentata ricostituzione di un vertice piramidale in Cosa Nostra, Capizzi si era scontrato con un altro boss, Gaetano Lo Presti, che controllava Porta Nuova, e che poi si toglierà la vita in cella. Il timore di una nuova guerra di mafia ha spinto le forze dell’ordine e la magistratura ad accelerare l’operazione “Perseo”. Secondo quanto emerso, durante la detenzione a Opera Capizzi cercava di controllare ancora gli affari nel suo mandamento. Già detenuto a Opera, nel 2016 è stato colpito da un secondo mandato d’arresto nel quadro dell’operazione “Brasca quattro.zero”. Firenze. Buttare giù Sollicciano e rifare un carcere a misura d’uomo di Francesco Bertolucci firenzetoday.it, 12 settembre 2023 “Sollicciano è forse il peggior carcere toscano. Se l’anno scorso su tre suicidi avvenuti nelle nostre carceri tutti e tre si sono verificati qua, un motivo c’è. Andrebbe raso al suolo”. Giuseppe Fanfani, garante per le persone private della libertà della Toscana, non dipinge un quadro roseo del più grande carcere giudiziario fiorentino che anni fa sostituì quello delle Murate e che ciclicamente vede arrivare persone in custodia per un reato commesso in zona. Il rapporto fatto a febbraio da Antigone, associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale, spiegava che al momento della loro visita il carcere aveva 498 detenuti su 502 posti disponibili e si ravvisavano “oltre alle inaccettabili carenze dal punto di vista infrastrutturale” una “offerta inadeguata anche dal punto di vista di lavoro e la formazione”, “un unico mediatore culturale” con il 66 per cento dei detenuti di origine straniera, e i dati di 375 casi di autolesionismo e 28 tentati suicidi nel solo 2022. La struttura sarebbe inadeguata - La medaglia di peggior carcere, secondo Fanfani non sarebbe dovuta a possibili mancanze delle persone che ci lavorano ma alla struttura stessa. “Chi ci lavora dà tutto - spiega Fanfani - il problema è che già a livello edilizio è organizzato in modo irrazionale. Alcune cose presenti sono un bell’esercizio architettonico ma non sono funzionali. Poi c’è il problema che le persone sono troppe per garantire un rapporto coi detenuti che non sia solo di contabilità numerica. Per garantire il reinserimento sociale del detenuto, ci vogliono strutture pensate appositamente. E Sollicciano non lo è, anzi. È uno dei carceri più alienanti, anche per questo i casi di autolesionismo sono tantissimi”. Manca il lavoro - Una delle grandi problematiche sarebbe dettata dal fatto che sono veramente pochi i detenuti di Sollicciano che fanno un lavoro durante la pena. “Non c’è un reinserimento con il sistema economico della città - osserva il garante - come succede per esempio a Massa Marittima dove stanno facendo lavorare i detenuti nelle aziende agricole. Oppure a Massa dove quasi tutti lavorano facendo i tessuti per il sistema carcerario italiano. E il problema non è insegnargli un mestiere. Quello basta far fare dei corsi. Il fatto è che se non gli diamo un collegamento con l’esterno, il detenuto poi non lo vuole nessuno. Bisogna far vedere agli altri che le persone possono essere recuperate. Qui manca totalmente un collegamento con l’esterno. Quindi il detenuto esce dal carcere e si trova in una società che non lo accoglie perché è un ex detenuto. E se la società non lo riaccoglie, spesso torna a fare il detenuto. È un circolo che va spezzato”. Seguire l’esempio del “Solliccianino” - Uno dei modi per risolvere il problema della vivibilità invece sarebbe quello di seguire l’esempio del Gozzini, carcere noto ai più come il Solliccianino con meno detenuti e dove tutti lavorano. “Ci vorrebbe di buttare giù Sollicciano e farne 2-3 più piccoli da 150-170 posti seguendo l’esempio del Gozzini - chiosa Fanfani - dove ci sono molti meno detenuti e tutti lavorano. Quindi è vivibile e funziona bene. C’è stato un grande lavoro di cooperative e volontariato per trovar loro lavoro, meno male che ci sono. Uno dei problemi è che la politica non parla mai di queste cose. O meglio, ne parla dicendo che andrebbero chiusi e buttata via la chiave per cercare voti. In campagna elettorale nessun partito ne ha mai parlato in termini di recupero delle persone. Perché fa perdere voti. La politica è immatura su questo tema”. Napoli. Stesa a Caivano? Una sfida vera dei clan: più rinforzi, ma le telecamere restino spente di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 12 settembre 2023 Il messaggio chiaro dei boss a pochi giorni dalla visita di Meloni e dai blitz delle forze dell’ordine al Parco verde. Non bastano reportage embedded, ma tocca a scuole e mastri. E il percorso è lungo. Il messaggio è chiaro: noi siamo ancora qui, non illudetevi. È una vera rivendicazione territoriale quella che i clan hanno deciso di mettere in scena a Caivano. Una “stesa” in piena regola poco prima di mezzanotte tra le palazzine sgarrupate di Parco Verde, con sparatoria in viale delle Margherite, ostensione di armi pesanti e passamontagna sul viso, e una raffica di colpi contro un’auto parcheggiata in via Pio IX nemmeno dodici ore dopo. Nessun ferito, ma tutta la simbologia di Gomorra in campo. Nel codice camorrista il prestigio è tutto. Dunque la prima, facile lettura dell’accaduto è che i boss, avendo patito lo “sfregio” del blitz voluto dal governo una settimana fa con centinaia di agenti all’opera e decine di perquisizioni nelle piazze dello spaccio, hanno deciso di rispondere. “I topi si sentono stanati”, ha commentato il sempre presente don Patriciello su Facebook. Parrebbe in atto, insomma, una battaglia di marketing fra Stato e Antistato con due offerte contrapposte: di qua speranza e regole, di là paura e omertà. Del resto, il generale Dalla Chiesa spiegava che la mafia si batte mostrando al cittadino quanto sia più comodo far valere i propri diritti senza genuflettersi davanti a un mammasantissima. Si tratta ovviamente di tradurre questi diritti nella realtà di ogni giorno: il consenso in certi posti si guadagna con pratiche di legalità quotidiana. E qui la lettura degli eventi in uno dei ghetti più problematici d’Italia si complica ed emergono i limiti della grande parata di forze dell’ordine in favore di telecamera del 5 settembre. È un passo, certo: e sarebbe da stolti dolersene. Ma è il primo passo di un percorso lunghissimo, che non si può risolvere in un paio di reportage “embedded” e un decreto in verità di assai improbabile applicazione. Quel percorso tocca le scuole e i maestri: ne verranno di nuovi, ha promesso il ministro Valditara, ma bisogna che restino e abbiano una vita decente. E tocca soprattutto il cuore e le menti dei giovanissimi. Nella disattenzione dei media, questa sfida se la stanno giocando in pochi da quelle parti. Lo stesso Patriciello. La preside Eugenia Carfora, che ha trasformato il suo istituto in un’ambasciata dello Stato italiano in terra ostile. Il capitano della compagnia, Antonio Cavallo, beniamino dei bambini. Urgono rinforzi: magari a telecamere spente. L’eredità di don Pino Puglisi tra fede e giustizia sociale di Luca Kocci Il Manifesto, 12 settembre 2023 Lo ricorda il volume di Augusto Cavadi e Cosimo Scordato che sarà presentato oggi alle 18 alla Chiesa di San Giovanni Decollato a Palermo. Il prete anti-mafia del quartiere Brancaccio, poi nominato beato, fu ucciso nel 1993. Sono trascorsi trent’anni da quando, il 15 settembre 1993, i killer di Cosa nostra agli ordini dei fratelli Graviano uccisero don Pino Puglisi, il parroco palermitano che annunciava il Vangelo dal pulpito della sua chiesa e per le strade del suo quartiere, lavorando perché Brancaccio diventasse più vivibile - le lotte insieme ai cittadini per la scuola, i servizi sociosanitari, le fognature - e i suoi abitanti potessero liberarsi dal dominio mafioso. E sono passati dieci anni da quando la Chiesa cattolica lo ha proclamato beato, martire “in odio alla fede”, come si legge nel decreto vaticano firmato da papa Ratzinger. Ma perché un’organizzazione che tradizionalmente non ha mai guardato la Chiesa come un nemico decide di eliminare un prete? È sufficiente essere assassinati dalla mafia per essere dichiarati beati dalla Chiesa cattolica che, nella sua lunga storia, ha avuto un atteggiamento perlomeno ambiguo nei confronti di Cosa nostra? Sono le domande di un filosofo laico, Augusto Cavadi, e un prete teologo cattolico, Cosimo Scordato - da sempre impegnati nel movimento antimafia siciliano -, in un libro che, lontano dall’apologia di chi vorrebbe ridurre Puglisi a un santino, riflette sul senso di un omicidio anomalo e di una beatificazione controversa, provando a ragionare su cosa Puglisi può dire ancora oggi alla società e alla Chiesa (“Padre Pino Puglisi. Un leone che ruggisce di disperazione”, Il pozzo di Giacobbe, pp. 202, euro 18). Puglisi è stato ucciso da una Cosa nostra ancora stragista perché nella prassi pastorale quotidiana viveva e trasmetteva un Vangelo di liberazione che contrastava ogni forma di oppressione dell’uomo sugli altri esseri umani, costruendo un’alternativa concreta al sistema mafioso. È interessante il confronto che opera Scordato fra il martire di mafia Puglisi e i primi martiri cristiani dell’era precostantiniana, quando la Chiesa non era ancora alleata del trono: essi venivano uccisi perché negavano la natura divina dei Cesari, attentando così alla pax socio-religiosa; Puglisi non riconosce la “divinità” e il potere dei mafiosi, denunciando anzi la loro pseudo-religiosità. In questo senso allora - grazie anche alle riflessioni della teologia della liberazione -, l’espressione “in odio alla fede”, assume un significato nuovo: un mondo, come quello mafioso, che non esclude frontalmente la fede ma la addomestica idolatricamente anche come giustificazione del proprio dominio, non uccide per odio diretto verso la confessione della fede ma verso coloro che cercano di renderla autentica e la realizzano nello smascheramento dell’oppressione e nella costruzione della giustizia sociale. Va poi aggiunta l’unicità di Puglisi, non nel senso di eroicità sovrumana, ma di non arretramento di fronte al compimento della propria missione evangelica: il parroco di Brancaccio emergeva scandalosamente e pericolosamente agli occhi dei mafiosi rispetto agli altri parrini, i quali vivevano il proprio ministero pastorale all’interno del recinto del tempio o al sicuro della sacrestia, guidati dal proverbiale campa e fa campari, trasformandosi così - scrive Cavadi - in “mandanti inconsapevoli”: se la grande maggioranza dei preti (o dei funzionari pubblici, degli imprenditori ecc.) accetta silenziosamente il sistema mafioso, addita inevitabilmente chi lo rifiuta come “pecora nera” da allontanare. La beatificazione di un martire di mafia, allora, non dovrebbe essere celebrata come un “trionfo”, ma come una vergogna: la Chiesa cioè “avrà da aprire gli occhi sulle proprie tremende complicità e chiedere perdono per aver incoraggiato e reso quasi obbligatoria, per la propria vigliaccheria, l’eliminazione del suo figlio fedele”. Cosa resta dell’eredità di Pino Puglisi alla Chiesa di oggi? Sicuramente un contributo al percorso che dalla compromissione e dalla coabitazione - soprattutto ai tempi della Dc - è spesso giunto alla presa di distanza e alla denuncia. Manca però ancora un intervento ecclesiale specifico, originale, concreto ed efficace. Manca soprattutto, conclude Scordato, la rinuncia “a un posto di centralità e di prestigio secondo le modalità di questo mondo”. Ovvero la rinuncia al potere. “Le Vittime dimenticate”, di Giuseppe Bommarito recensione di Marcello Pesarini Ristretti Orizzonti, 12 settembre 2023 “Le Vittime dimenticate” Affinità Elettive, pp.187, € 17,00 è un romanzo di documentazione attorno all’eccidio di tre carabinieri, il capitano D’Aleo, l’appuntato Bommarito e il carabiniere Morici, avvenuto a Palermo in Via Scobar il 13 giugno 1983, strage che ha atteso decine di anni per essere considerata al livello di altre barbare esecuzioni che l’avevano preceduta e seguita. Dopo poche pagine l’autore, avvocato Giuseppe Bommarito, ci porta a interrogarci sulla scelta di descrivere la vicenda usando questa scrittura, asciutta ed efficace, che avanza per cerchi concentrici attorno all’intera storia. La scelta di avvicinarsi e allontanarsi dal fatto, avvicinando e allontanando una lente d’ingrandimento, costituisce il modo più efficace per comprendere un mondo che ci appartiene più di quanto non possiamo pensare. Come dice Giovanni Falcone, con una frase inserita al termine della prefazione Se vogliamo combattere efficacemente la mafia non dobbiamo trasformarla in un mostro né pensare che sai una piovra o un cancro. Dobbiamo riconoscere che ci rassomiglia Il lettore che viene incuriosito e spaventato dal reiterarsi di minacce, offese, sfide che vengono poste dalla mafia di Corleone, impegnata nei primi anni 80 a conquistare il primato sulla città di Palermo e sul suo volume di affari relativi al traffico, raffinazione e spaccio di eroina, scoprirà le diverse scale di valori e disvalori usate da Cosa Nostra. Se da un lato per Totò Riina e e Bernardo Brusca di Monreale e San Giovanni Iato i nemici da sconfiggere erano le altre famiglie minori, intralcio al loro predominio, dall’altro i carabinieri impegnati nelle indagini, andavano eliminati con clamore e senza pietà, come rappresentanti delle istituzioni che avevano osato opporsi ai traffici e non avevano accettato né di essere comperati né di chiudere un occhio. Non ci troviamo all’interno de “Il giorno della civetta” di Leonardo Sciascia, ambientato negli anni 50, nel quale il padrino mafioso Mariano riconosce la dignità di combattente, uomo, al capitano Bellodi. Qui il mafioso, per libertà poetica di Sciascia o per onorare il coraggio del capitano, divide l’umanità in cinque categorie, gli uomini, i mezz’uomini, gli ominicchi(con rispetto parlando) pigliainculo e i quaquaraquà. Ne “Le vittime dimenticate” Bommarito, lontano parente dell’appuntato, sceglie il realismo per “educare” il lettore, perché sappia in futuro quale debba essere il suo dovere di cittadino. Quando ci troviamo di fronte alle lapidi che rappresentano, con foto, nomi e data di nascita e di morte di partigiani, di vittime di un attentato terroristico, siamo costretti a guardare negli occhi le persone che ci hanno lasciati anzitempo, nel momento in cui erano vive e mai avrebbero pensato a una fine violenta. Quegli sguardi, quei nomi, collegati a parenti, discendenti, tolgono le vittime dall’anonimato, dall’essere un semplice numero, e fanno partire in noi una riflessione su un mondo erroneamente considerato a parte. La storia della compagnia dell’Arma parte con il capitano Basile ucciso nel 1980, fino alle vittime di Via Escobar del 1983, sempre appartenenti alla caserma di Monreale. L’appuntato Bommarito svolse il particolarissimo ruolo di trait d’union fra Basile, di cui fu stretto collaboratore, e il nuovo arrivato D’Aleo, nel quale trovò la stesssa dedizione, caparbietà, lo stesso intelligente senso del dovere che aveva trovato nel suo predecessore Basile, ucciso il 4 maggio 1980. Gli studi di documentazione che l’autore ha sostenuto sono stati rivolti a dare il quadro, riuscitissimo, di un’evoluzione delle varie cosche, sospinte dal miraggio del guadagno facile, del sempre crescente peso nei confronti dei cugini d’America, della successiva autonomia, dell’approfondimento delle tecniche di raffinazione dell’eroina. La strada dei mercanti di morte si incontra, e non è un caso, con la “Meglio gioventù”, rappresentata nell’omonimo film di Marco Tullio Giordana. Quella generazione nata dagli “Angeli del fango” di Firenze nel 1966, che attraversò le rivolte del ‘68 e dell’autunno caldo, si incontrò con le infiltrazioni dell’eroina fra le sue fila, e se la nefanda azione di Cosa Nostra è magistralmente descritta nel libro, non merita l’assoluzione neanche il comportamento dello Stato, debole e corrotto in molti suoi servitori come inefficace e miope nell’analisi del fenomeno mafioso da parte della Magistratura. Se un merito sugli altri va riconosciuto all’autore vi è la capacità di mostrare da un lato la serietà e l’accuratezza dell’azione di Basile prima e di D’Aleo, Bommarito, Morici poi, perché uomini consapevoli del loro ruolo, e i pesi di tutti coloro che, nascondendosi, scegliendo il quieto vivere, la connivenza col Male, ne divennero parte integrante. Seguiranno le morti di Falcone e di Borsellino e i grandi processi, il sistema di Cosa Nostra fu smantellato con una grande collaborazione costruita sulla scia del sangue. A quarant’anni dalla strage di Via Escobar Giuseppe Bommarito ha chiuso un altro tassello di quelle vicende. Lo ringraziamo. Matteo Garrone: “Non si può più accettare che si rischi la vita per emigrare” di Luca Attanasio Il Domani, 12 settembre 2023 Il regista di “Io Capitano”, vincitore del Leone d’argento alla Mostra del cinema di Venezia racconta la genesi del suo film: “Il mio primo intento era dare forma visiva all’esperienza di questi giovani migranti, ma era importante farlo dal loro punto di vista, con i loro piccoli momenti di quotidianità”. L’infinita standing ovation (circa 13 minuti) che ha salutato la fine della prima proiezione di Io Capitano il 6 settembre pomeriggio a Venezia, lasciava presagire vittorie. Miglior regia, miglior attore emergente (il giovane senegalese Seydou Sarr) più vari premi minori, coronano un film straordinario. In quel lungo applauso si è liberata in Sala Grande una serie di sentimenti fin lì compressi. Di certo appagamento per un capolavoro assoluto che riesce a infilarsi nei meandri dell’inferno terrestre dei fenomeni migratori moderni con il lirismo e la poeticità tipica dei maestri d’arte. Poi commozione per una vicenda di dolore, separazione, violenza e morte. Tenerezza per una storia densa fino all’impossibile di amore, amicizia pura, maternità e figliolanza, umanità nel deserto geografico e sentimentale, luce nel buio. E infine rabbia. Per un modello di gestione del fenomeno delle migrazioni tutto europeo incapace di elaborare un sistema di accesso legale e controllato, che perpetua questa specie di genocidio permanete simboleggiata nel film da un ragazzino che dopo aver pagato il corrispettivo di migliaia di dollari ed essere arrivato in Niger, cade dal pickup stracarico in mezzo al Sahara e. giovane e vitale, resta lì, solo, un puntino nell’universo prossimo a una morte atroce, nonostante tutti i passeggeri chiedano all’autista di fermarsi. “C’è bisogno di pensare ad accessi legali, nessuno può fermare chi ha necessità e possibilità di partire”. Lo ha detto chiaramente Mamadou Kouassi, uno degli ispiratori del film, che Garrone ha significativamente voluto sul palco accanto a sé al momento della premiazione. Invece, ossessionata da un’immaginaria invasione mai avvenuta e che mai succederà (l’80 percento delle migrazioni africane sono “intra”) l’Europa erige muri anche in area Schengen (1000 km sparsi in tutta l’Ue), stringe accordi con la Turchia di Erdogan, la Libia e ora la Tunisia dell’autocrate xenofobo Saied, e continua a generare morti nel Mediterraneo e a spargerli nei deserti, nella carceri libiche o nei confini tra Bosnia e Croazia, tra Bielorussia e Polonia (come denuncia il magnifico Green Border, Premio speciale della giuria). Io Capitano è un’opera d’arte, utilizza il linguaggio della ‘settima’ per raccontare un’odissea moderna. Ma finisce per essere un grido di dolore che urla “Mai più, non così”. Incontrato nella sua casa romana prima della presentazione e, dopo, a Venezia a margine del Festival, Matteo Garrone spiega così a Domani genesi, idea, umanità, colori e lirica di Io Capitano. Garrone, lei si è accostato a un mondo, quello dei migranti, in particolare giovanissimi, molto complesso, qual è stato il suo processo di avvicinamento e cosa l’ha colpita di questa umanità? “Ho incontrato molti ragazzi personalmente nei centri di accoglienza, tramite amici, operatori, sono venuto a diretto contatto con loro e ho parlato a lungo, singolarmente. C’era chi si sentiva più a suo agio a raccontare la propria storia, chi meno, io nel frattempo ascoltavo e costruivo un puzzle. La base quindi me l’hanno fornita i racconti di Mamadou, uno dei ragazzi a cui ci siamo ispirati (un altro è Fofana, un guineano che a 15 anni, è stato costretto da trafficanti libici a guidare il natante e ha portato in salvo 250 persone. Arrivato in Sicilia ha urlato “Io capitano” ed è stato arrestato come scafista, ndr) e di tanti altri. Fin da subito sono rimasto molto colpito dalla loro umiltà, la capacità di riuscire a vivere nonostante le ingiustizie subite senza mai cadere in atteggiamenti di autocommiserazione, noi per molto meno lo avremmo fatto. Subiscono soprusi incredibili, ma mantengono una carica vitale e una dignità uniche. Penso che questo sia un elemento che ho cercato di non perdere mai di vista, questa spinta vitale che li aiuta a superare le prove più difficili, questa carica spirituale che ho percepito in loro, una fede che gli fornisce una forza maggiore. Il mio primo intento, comunque, era dare forma visiva all’esperienza di questi giovani migranti, ma era importante farlo dal loro punto di vista, con i loro piccoli momenti di quotidianità, come prendono la decisione di partire… raccontare la loro storia con la telecamera girata dall’altra parte, dall’Africa verso l’Europa”. Fare un film su un fenomeno così particolare, sull’Africa, su contesti così diversi dai nostri e farlo da occidentale, bianco, è molto complicato, si rischia di finire in cliché, pietismo o di risentire in qualche modo di quello sguardo coloniale che per quanto aperti, resta dentro di noi. Lei immagino abbia fatto i conti con questi rischi, come ha provato a scongiurarli? “Ha ragione, è quasi impossibile. Si corre un rischio molto alto. Io, essendone consapevole, mi sono affidato a loro e ho provato a superare il problema ascoltando loro, facendomi aiutare da loro, ero anche fisicamente sempre insieme a loro, in fase di scrittura, davanti e dietro la macchina da presa c’erano loro, erano davanti al monitor e capivo dai loro sguardi se andavamo bene o se stavamo sbagliando. Il film è stato una creazione collettiva, ho messo la mia visione a servizio, mi sono calato nel ruolo dell’intermediario, è stata questa la chiave che mi ha aiutato almeno a cercare di non cadere in quelle trappole”. Può parlarci del cast e del lavoro di mesi tra Senegal e Marocco con attori e personale solo locale. Che esperienza di lavoro è stata? “La maggior parte degli attori del film sono professionisti, chi più famoso chi meno. In generale ho percepito sempre una grande generosità d’animo che mi ha aiutato a superare ogni difficoltà. Tutti sapevano che stavano facendo qualcosa di importante per chi, come alcuni di loro, ha fatto il viaggio o chi progetto di farlo. Erano consapevoli che stavano aiutando a mettere in luce qualcosa di cui si parla spesso ma si vede poco dall’interno. In generale ho percepito purezza, passione, non avevano troppe sovrastrutture, erano attori semplici nella ricerca delle soluzioni, non cadevano nei virtuosismi o nei narcisismi fini a sé stessi. Sempre molto diretti, mi è sembrato che recitassero col cuore, senza una vera tecnica, ma arrivando col sentimento. Abbiamo voluto che ogni fotogramma avesse una sua verità innanzitutto per rispetto di chi ha fatto questo viaggio e poi, ancora di più, di chi lo ha fatto senza arrivare vivo”. È assurdo che nel 2023 per una parte del mondo non ci sia altro modo per viaggiare che affidarsi ai trafficanti, rischiare la vita e morire. Il suo film è anche un grido disperato, una richiesta: è inaccettabile. Fermiamoci tutti e cerchiamo di immaginare un nuovo modo di gestire la migrazione verso l’Europa... “Assolutamente sì, dobbiamo cominciare tutti a pensare di aprire le porte. Non si può più accettare che uomini, donne, bambini rischino la vita per emigrare. C’è bisogno di mettere ordine, non è più pensabile che si possa gestire il fenomeno delle migrazioni solo con muri e filo spinato. È un fenomeno che nasce da una spinta vitale, da un desiderio di viaggiare legittimo e umanissimo”. Come in Gomorra, dietro alla cronaca, c’è la storia di un’amicizia. In mezzo alla brutalità più assoluta, alla violenza talora anche senza senso, in questi due film sembra emergere potente l’umanità, la tenerezza... “È così. Il film parte e si ancora a storie vere, realmente accadute, dietro al film c’è un vissuto e io ho cercato di restargli fedele. Volevo far capire che dietro ai numeri, ci sono persone con famiglie, anime, progetti e sogni, con una propria personalità, ci sono rapporti. Nei racconti si alternavano momenti di speranza a momenti di orrore e ho cercato di restituire questa successione che è evidente in chi vive questa esperienza epica, questa odissea”. Aiuterà a cambiare, a capire di più? “Il film può sensibilizzare, farà rivivere agli spettatori l’esperienza che vivono i migranti. Non so se cambierà qualcosa, dipende da chi ha in mano il potere. Mi auguro che il film si possa vedere nelle scuole e che i nostri giovani possano capire che privilegi hanno. E che si crei empatia”. Trent’anni senza don Puglisi, ma ecco i frutti cresciuti dai suoi semi contro la mafia di Maurizio Artale* Corriere della Sera, 12 settembre 2023 Il presbitero e educatore la sera del 15 settembre 1993 fu ucciso sotto casa da un killer di Cosa Nostra a causa del suo costante impegno evangelico e sociale al quartiere Brancaccio di Palermo. A distanza di tempo molte delle opere che aveva sognate si sono realizzate. Trent’anni son trascorsi da quel giorno in cui hai voluto affidare nuovamente la tua vita nelle mani di Dio. Si, perché la prima volta lo hai fatto nel giorno della tua ordinazione presbiteriale avvenuta il 2 luglio 1960, la seconda volta quando, senza tremare, ti sei concesso ai killer che ti hanno atteso sotto casa la sera del 15 settembre 1993, giorno del tuo 56° compleanno e ti hanno sparato un colpo di pistola alla nuca. Al netto della grande sofferenza arrecata ai tuoi familiari e ai tanti che in vita ti hanno voluto bene, tutti noi, chi non ti ha conosciuto e quanti ti hanno conosciuto, possiamo essere certi, persino sereni che il tuo sacrificio è “servito”, è stato utile, forse malgrado, necessario, perché ha fatto realizzare tutti i tuoi sogni a quanti hanno scelto di continuare la tua opera, tenendo in vita il Centro di Accoglienza Padre Nostro da te fondato. In questi tre decenni seguendo il solco da te tracciato, abbiamo accolto, curato e sostenuto le tante fragilità umane. Volti di uomini, donne, giovani, anziani e bambini che insieme a migliaia di operatori hanno scritto la loro storia “dentro” la storia del Centro. Questi i tuoi sogni non più da sognare: il Centro di Accoglienza Padre Nostro di Via Brancaccio n. 461, dove gli operatori del Centro per 20 anni hanno proseguito la tua opera nella sede da te acquistata e restituita alla Diocesi nel 2013; il Centro di Accoglienza Padre Nostro di Via Brancaccio n. 210 dove da Marzo del 2013 ci siamo trasferiti per rimanere punto di riferimento del territorio; le sedi nei quartieri Falsomiele e San Filippo Neri; i fondi agricoli dove detenuti ed ex detenuti coltivano frutti di speranza; Casa Al Bayt che dal 2004 ospita e sostiene donne vittime di violenza; Casa Zagara confiscata alla mafia destinata alla convivenza formativa dei tuoi giovani; il Centro Polivalente Sportivo Padre Pino Puglisi e Padre Massimiliano Kolbe di via San Ciro e di Romagnolo dove i ragazzi e le famiglie del territorio dal 2011 trascorrono tempi di vita e di gioco; l’Auditorium Giuseppe Di Matteo dove hai celebrato la tua ultima messa, da noi vissuto come spazio di socialità; la Casa-museo Padre Pino Puglisi inaugurata a maggio 2014 ad un anno dalla tua beatificazione e l’Aula Didattica intitolata a tuo fratello Nicolò Puglisi dove 10.000 visitatori si recano ogni anno; i magazzini di via Scaglione sottratti nel 2015 alla criminalità restituiti alla cittadinanza come polo di servizi integrati; la Pagoda Al Bab presidio culturale partecipato; la Casa di Santa Rosa Venerini dal 2015 luogo di riflessione e dialogo per i giovani; il Centro Diurno per Anziani ed il Centro Antiviolenza; la Casa del figliol prodigo dal 2018 servizio di accoglienza per i detenuti in permesso premio nelle sedi di Brancaccio e Pallavicino; la P.tta Beato Padre Pino Puglisi già P.zza A.Garibaldi luogo sacro sul quale poggiavano quotidianamente i tuoi passi; la Mostra permanente installata in ricordo della visita del pontefice del 15 Settembre 2018; il Micronido Holding di Via Belmonte Chiavelli in cui ogni anno 25 bambini e famiglie costruiscono basi solide per il loro futuro; la Comunità alloggio per minori Beato Giuseppe Puglisi e Santa Rosa Venerini di Termini Imerese; la Casa Madonna dell’Accoglienza a Boccadifalco per l’ospitalità di quanti soffrono per la mancanza di una abitazione. E poi i sogni quasi realizzati: il Poliambulatorio di prossimità e lo Young Lab nel Torrino del 1500 per i giovani ricercatori; quelli ancora da realizzare: l’Agorà ed il primo Asilo Nido del quartiere Brancaccio. Con tanti sacrifici abbiamo mantenuto costantemente accesa quella flebile fiammella di speranza che hai acceso quando sei arrivato a Brancaccio il 30.10.1990. Tu che ci hai sollecitati a non sentirci mai arrivati al capolinea, tu che ci hai esortati a non pensare troppo prima di fare un passo per non trascorrere tutta la vita su un piede solo, non fermarti. Continua ad intercedere per tutti quelli che vogliano continuare la tua opera. Avremo sempre bisogno di te. *Presidente del Centro di Accoglienza Padre Nostro Periferie, basta stigma: bisogna pensare e agire diversamente di Carlo Cellamare* Il Manifesto, 12 settembre 2023 Controproducenti gli spot di Meloni. È fondamentale riconoscere la presenza di realtà attive sui territori, che da anni combattono per la riqualificazione, da Scampia a Tor Bella Monaca. In questi giorni abbiamo assistito all’ennesima farsa, che ha pure risvolti drammatici, con le grandi manovre delle forze dell’ordine in alcuni quartieri delle periferie italiane, soprattutto romane e napoletane, tra cui Tor Bella Monaca, dove lavoriamo da molti anni come laboratorio universitario in percorsi di ricerca-azione con le realtà locali. Sappiamo tutti che questo è un modo distorto e strumentale di intervenire, che non porta niente di buono e utile, anzi alimenta effetti negativi, ma bisogna pur dire qualcosa ancora una volta -nonostante ormai lo ripetiamo da anni e lo ripetono tutti quelli che lavorano seriamente in questo campo - non fosse altro che per esternare la propria frustrazione (e di tanti come noi impegnati nelle varie periferie romane e italiane), ma soprattutto per esprimere con forza la nostra solidarietà ed il nostro supporto a quelle realtà (associazioni di vario tipo, gruppi informali di abitanti, reti di mutualismo, cooperative sociali, terzo settore, fondazioni e privato sociale, singoli abitanti, insegnanti ed educatori, movimenti, ecc.) che da anni lavorano in questi contesti con serietà, impegno e grandi fatiche seguendo ben altre strade e ben altri approcci. BISOGNA ANCHE DARE una diversa narrazione e contrastare quella ricorrente e d’effetto di alcuni cattivi organi di informazione, che restituisce un’immagine solo negativa di questi quartieri, tutta fondata su parole d’ordine come degrado, decoro e criminalità, contribuendo alla loro stigmatizzazione, frustrando qualsiasi possibilità di pensarsi diversamente e negandogli la possibilità di un futuro differente. Le realtà locali vivono la frustrazione di una subalternità nei confronti dei mass media, di non riuscire, cioè, a veicolare un’informazione e un’immagine differenti, nonostante i loro sforzi. Le loro opinioni diverse vengono marginalizzate. I loro commenti critici rispetto ad informazioni non corrette vengono bloccati sui siti. Sebbene quindi si tratta di cose note bisogna ripeterle a chiare lettere. Sono cose ben note persino a quelle amministrazioni (come quella romana) impegnate, tra mille difficoltà, nella riqualificazione delle periferie, con progetti finanziati dal PNRR che sono ora sotto la spada di Damocle del definanziamento, nonostante il governo tenti di rassicurare che troverà altri fondi (senza dire quali). Alimentando così una più grande incertezza (che va in tutt’altra direzione rispetto ai proclami) e la radicata convinzione negli abitanti che nulla cambierà. Bisogna quindi ribadire alcuni punti centrali. In primo luogo, i problemi delle periferie, soprattutto dei quartieri di edilizia residenziale pubblica, non si risolvono con gli interventi di ordine pubblico (sebbene questi possano avere una loro utilità in alcuni momenti), ma neanche soltanto con interventi che mirano alla riqualificazione edilizia e urbanistica, sebbene questi siano importantissimi perché comunque migliorano le condizioni materiali di vita degli abitanti. Pensiamo alle condizioni di molti alloggi (quello sì è degrado), invasi dalle infiltrazioni o dalle risalite dalle fogne, che sono letteralmente invivibili. Pensiamo alle condizioni degli spazi pubblici e delle aree verdi, spesso mantenuti in condizioni accettabili dagli abitanti in assenza del pubblico, spesso contesi tra gli spacciatori e i gruppi di abitanti, soprattutto le madri, che cercano di difenderli per permetterne un uso ordinario, soprattutto ai bambini. Ma ci vuole ben altro. Ci vogliono servizi, attrezzature, attività culturali, sostegno reale alle scuole (e agli insegnanti impegnati) che sono oggi l’ultimo presidio pubblico in questi contesti, accompagnamento delle numerose famiglie in difficoltà, sostegno agli anziani e a chi ha difficoltà di accesso ai servizi sociosanitari, ecc.. Ci vuole tutto quello che rende “accessibile” il diritto alla città e all’abitare, con le sue opportunità, superando le enormi disuguaglianze che esistono. Ma soprattutto, in un complessivo approccio integrato, bisogna sostenere il lavoro e l’occupazione, con particolare attenzione alle economie locali. Le economie criminali prosperano dove più forte è la povertà e dove spesso rappresentano una delle poche alternative alla mancanza di reddito. È questo il terreno più importante di impegno. In questi quartieri quello che chiedono sempre gli abitanti e le realtà sociali sono “casa e lavoro”. In secondo luogo, bisogna riconoscere la presenza di realtà attive sui territori, impegnate in una grande battaglia da molti anni. Sono spesso queste le realtà che permettono la realizzazione di progetti di reale riqualificazione (pensiamo a Scampia o ai Quartieri Spagnoli, ad esempio). A Tor Bella Monaca sono attive tante realtà, il Cubolibro (con una biblioteca pubblica autorganizzata), “el Chéntro” sociale, Libera, il “polo ex-fienile”, e tante altre; è attivo il primo “patto educativo di comunità” costituito fuori GRA a Roma; vi sono molte iniziative sociali e culturali; alcune realtà sono impegnate nel presidio del territorio e nella lotta alla criminalità organizzata; un gruppo di madri gestisce una ludoteca autorganizzata; sono in corso importanti progetti di riqualificazione da parte di Roma Capitale. Con il supporto di una fondazione è stata realizzata la riqualificazione di una scuola (l’I.C. Melissa Bassi proprio a via dell’Archeologia) e dei suoi spazi esterni da condividere col quartiere, ed è in corso quella di un grande spazio pubblico, polifunzionale, con la collaborazione degli abitanti e delle realtà locali, già iperutilizzato ancor prima che sia completato. Tra l’altro i due aspetti ricordati sono strettamente legati. Un approccio integrato non può essere sviluppato senza l’impegno delle realtà locali come protagonisti. Gli interventi come quelli del governo nei giorni scorsi hanno un effetto contrario rispetto a tutto il lavoro fatto. Deprimono le energie spese e i progetti realizzati e in corso, non riconoscendogli adeguato valore. Con questi interventi spot che non risolvono nulla e che si concentrano soltanto in alcuni punti e in alcune vie (lasciando il resto dei quartieri nelle condizioni di sempre), a cui seguono giorni in cui si ritorna subito a come era prima, non si fa altro che alimentare la convinzione che nulla cambierà e che gli interventi delle istituzioni sono solo di facciata e non reali. Rendendo ancora più difficile il lavoro di quelle realtà che proprio sul coinvolgimento degli abitanti si fondano, sulla ricerca di dignità, sulla responsabilizzazione e il senso di rivalsa. Bisogna imparare a lavorare dentro i territori, con politiche strutturali di lungo periodo, con un approccio integrato, accompagnando i processi e soprattutto sostenendo le realtà impegnate nei territori, che rappresentano i veri anticorpi sociali per affrontare i grandi problemi e le grandi disuguaglianze esistenti. *Professore ordinario di urbanistica presso l’Università “La Sapienza” di Roma, direttore del Laboratorio di Studi Urbani “Territori dell’abitare” Terremoto, i quattromila marocchini nelle carceri italiane e le telefonate da San Vittore di Paolo Foschini Corriere della Sera, 12 settembre 2023 Nel carcere milanese i marocchini sono 200 su un totale di 886 detenuti, contando gli italiani e tutti gli altri. Tutti hanno parente in Marocco e il senso di impotenza è ancora più grande. La cella (cioè, adesso tecnicamente si chiamano “camere di pernottamento”) in cui il giovane marocchino Rachid dorme da parecchi mesi nel carcere di San Vittore non è male come compagnia: con i suoi compagni di detenzione è sempre andato d’accordo. Ma da sabato loro gli sono particolarmente vicini. Per carità, si tratta di parole, più di tanto i compagni non possono fare per lui. Eppure in carcere anche solo le parole contano molto, specie in momenti come questi: nelle prigioni italiane ci sono complessivamente (la cifra è aggiornata al 31 agosto scorso) 18.114 detenuti stranieri, di cui 738 donne, su un totale di 58.428 persone. Di quei quasi ventimila stranieri 3.848 (38 donne) sono di nazionalità marocchina. Vuol dire il 20 per cento, uno su cinque. La nazionalità straniera più numerosa nelle carceri italiane. Ma a San Vittore in particolare la percentuale è ancora più alta, perché lì i marocchini sono 200 su un totale di 886 detenuti, contando gli italiani e tutti gli altri. Praticamente tutti quei 200, così come i 20mila delle altre carceri in Italia, hanno ovviamente almeno una parte dei loro familiari e amici in Marocco. Con tutte le difficoltà di avere notizie sulla loro sorte, dopo la scossa da cui il Paese è stato devastato sabato scorso, che in questi giorni hanno quasi tutti i marocchini all’estero. Ma con in più per loro il fatto, va da sé, di essere in galera. “E il senso di impotenza totale verso i tuoi cari quando il tuo Paese viene stravolto da una catastrofe - dice Rachid - è la pena maggiore che puoi provare se ti trovi in prigione”. Una luce in mezzo al buio, almeno a San Vittore, è stata la possibilità - per chi lo ha chiesto - di telefonare dal carcere ai propri familiari in Marocco per fare la domanda che come sempre è l’unica che conta veramente in questi casi: “Come state?”, e aggrapparsi alla speranza dell’unica risposta che in questi casi si vuole sentire: “Bene, ci siamo ancora tutti”. Dalla direzione della casa circondariale milanese fanno sapere che in realtà le richieste non sono state tantissime, almeno finora, se non altro perché buona parte dei detenuti marocchini presenti nell’istituto ha ormai i propri punti di riferimento anche affettivi in Italia. Ma coloro che hanno voluto sentire la voce dei propri familiari in Marocco, conferma la vicedirettrice Elisabetta Palù, hanno potuto farlo: agevolazione che anche da un punto di vista tecnologico aveva potuto fare un notevole balzo in avanti nel primo periodo del Covid, altra circostanza drammatica in cui la possibilità di aver notizie di prima mano dall’esterno sulle proprie famiglie aveva rappresentato una svolta. Proprio per questo, da allora in poi, è stata conservata e promossa. E ancora per questo - si può dire almeno finora, a tre giorni dal sisma dell’Atlante - il clima all’interno del carcere si è conservato tranquillo. In attesa di vedere se anche questa volta, come era successo appunto durante la pandemia, dal mondo delle carceri si muoverà una nuova raccolta di aiuti a favore di chi è rimasto segnato dalla nuova tragedia. Stati Uniti. Non si può processare la mente del 9/11 di Marina Catucci Il Manifesto, 12 settembre 2023 Patteggiamento in vista per Khalid Sheikh Mohammed, detenuto a Guantanamo da 11 anni. Due decenni dopo la loro cattura, la commissione militare statunitense Trial of the Century, il “processo del secolo” contro i cinque accusati degli attacchi dell’11 settembre, è tornata ad occuparsi degli imputati. Degli annunci erano previsti a luglio, poi c’è stato un ritardo nelle udienze preliminari, ma in agosto è arrivata la notizia bomba: il dipartimento della Difesa ha rivelato che i procuratori dell’ufficio delle Commissioni Militari stanno prendendo in considerazione un patteggiamento che esclude la pena di morte per Khalid Sheikh Mohammed, la mente del complotto dell’11 settembre, e di 4 dei suoi presunti complici, in cambio di un’ammissione di colpevolezza. Al momento non è stato ancora finalizzato nessun accordo preliminare - “e potrebbe non essere mai siglato” - con i 5 uomini detenuti nella prigione militare statunitense di Guantánamo Bay, a Cuba, come si legge nella lettera che il Pentagono ha inviato ai sopravvissuti e alle famiglie delle persone uccise negli attacchi. Ma la lettera dell’Office of Military Commissions - Convening Authority, il tribunale militare che si occupa di diritto di guerra e reati commessi contro gli Usa da nemici stranieri, li ha avvertiti che c’è la possibilità reale di giungere a “un accordo s che in sede di sentenza escluda la possibilità di ricorrere alla pena di morte”. Quando lo scorso agosto i sopravvissuti e i familiari delle vittime erano stati avvisati, la loro rabbia aveva contagiato anche il presidente Biden, che si era espresso contro questa possibilità. Il fatto è che da 11 anni Khalid Sheikh Mohammed è detenuto a Guantanamo e il processo non si può tenere perché la sua confessione, in cui ammette di essere stato la mente del complotto, è avvenuta in uno dei “siti neri” della Cia, dove l’uomo è stato sottoposto a tortura, che rende la sua confessione inammissibile in tribunale. Alcuni familiari delle quasi 3.000 persone uccise nell’attacco alle torri gemelle hanno espresso indignazione per la prospettiva di chiudere il caso in questo modo. I pubblici ministeri militari si sono impegnati a prendere in considerazione le loro opinioni e a presentarle alle autorità che prenderanno la decisione finale sull’ accettazione di qualsiasi patteggiamento. Al momento il processo per i 4 dirottamenti suicidi dell’11 settembre è sospeso e le condizioni i mentali di uno degli imputati, compromesse dalla tortura, sono sotto osservazione. Le udienze riprenderanno il 18 settembre. I 5 imputati sono stati catturati in tempi e luoghi diversi tra il 2002 e il 2003 e inviati a Guantanamo per il processo nel 2006. Il caso è stato rallentato da una serie di dimissioni, sia di giudici che di avvocati difensori, ed è ancora fermo alle fasi preliminari. Il grosso nodo che continua a bloccarlo è proprio l’uso disinvolto che gli Usa fecero della tortura, e la possibilità o meno di utilizzare le confessioni che gli imputati hanno rilasciato. Dagli atti si evince che il principale imputato del processo per l’11 settembre, Mohammed, è stato sottoposto dalla Cia a waterboarding per 183 volte. Maryam Al Khawaja: “Torno in Bahrain per salvare mio padre” di Michele Giorgio Il Manifesto, 12 settembre 2023 La giovane attivista rischia l’arresto ma il suo rientro in patria riporta l’attenzione sulla situazione del padre Abdulhadi al-Khawaja ammalato che fa lo sciopero della fame in carcere con altri 800 prigionieri politici. Maryam al Khawaja non nasconde i suoi timori, li spiega bene in un video che ha postato in rete. Sa che tornando in Bahrain rischia l’arresto e di essere sbattuta e dimenticata in una cella come suo padre Abdelhadi Al Khawaja, attivista dei diritti umani in carcere dal 2011, il più noto dei detenuti politici del minuscolo arcipelago del Golfo dove regna da sovrano assoluto Hamad bin Isa Al Khalifa. Anche lei è sulla lista nera, per le sue attività a difesa dei diritti umani. Per questo da anni vive in Danimarca, il paese di sua madre. “Conosco i rischi ai quali vado incontro, ma non rinuncio”. Maryam, 33 anni, si è convinta che solo concentrando l’attenzione sui motivi del viaggio potrà salvare il padre, condannato nel 2011 all’ergastolo per “terrorismo” - aveva attaccato verbalmente e in internet la monarchia - e che, sebbene sia ammalato, da oltre un mese fa lo sciopero della fame assieme ad altri 800 prigionieri bahrainiti contro la “morte lenta” che affrontano coloro che finiscono nelle carceri di massima sicurezza. Le Nazioni unite definiscono “arbitraria” la detenzione di Abdulhadi Al Khawaja. “Non ho altre opzioni - insiste Maryam - mio padre è malato di cuore e non intendo restare ad aspettare la telefonata che mi dirà che è morto per un infarto”. Inoltre, aggiunge l’attivista, “se il mio viaggio si rivelasse utile a tutti i prigionieri politici in Bahrain, attirando l’attenzione sulla loro situazione, allora sono disposta a correre ogni rischio”. È difficile immaginare che la monarchia bahrainita scelga di liberare Abdelhadi Al Khjawaja, un simbolo della lotta per la democrazia, il rispetto dei diritti umani e la piena parità tra la maggioranza sciita, alla quale appartiene, esclusa dal potere, e la minoranza sunnita che controlla l’arcipelago. Le protezioni occidentali - di Usa e Gb in particolare - di cui gode la monarchia, che ospita la V Flotta americana e una base britannica, e l’aiuto economico costante della vicina Arabia saudita, permettono a re Hamad di dormire tranquillamente. Facendo leva sui sentimenti anti-iraniani in Occidente, il sovrano descrive le proteste contro il suo regime come un “complotto di Teheran”. E ha guadagnato altro favore in Usa ed Europa normalizzando le relazioni con Israele. “Non saremmo dove siamo se il governo non ricevesse il tipo di sostegno che ha dall’Occidente”, afferma Maryam. Quando la giovane andrà in Bahrain non è stato annunciato, si parla però di questa settimana. Forse già oggi. Lo sciopero della fame è iniziato il 7 agosto al centro Jau che ospita molti dissidenti e oppositori. Quindi si è trasformato in una protesta anche nelle strade. Le richieste dei prigionieri includono il diritto al culto, la fine del lockdown quotidiano di 23 ore, l’isolamento arbitrario da parte delle guardie, la garanzia delle visite dei familiari e un’adeguata assistenza sanitaria. Il regime sostiene che solo pochi detenuti stanno digiunando e minimizza la denuncia di “morte lenta” nelle sue prigioni.