Rieducazione tramite tortura ed emarginazione, come possiamo ancora tollerare le carceri? di Diego Mazzola L’Unità, 11 settembre 2023 Davvero si pensa che la “rieducazione” possa avvenire attraverso la tortura del carcere? Che l’uomo moderno possa definirsi “libero”, in qualche modo e in qualche occasione, è una vera sciocchezza. L’uomo può al limite “sperare” di diventare libero, ma oltre le proprie speranze non gli è dato di andare. Eppure la libertà è un diritto fondamentale dell’umanità e dell’individuo, sancito il 10 dicembre 1948 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite con la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo che in uno dei primissimi articoli afferma: Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza della propria persona. Un articolo che vediamo ogni giorno disatteso dai governi di tutto il mondo, dal nostro incluso. C’è chi addirittura pretende di dirci come dobbiamo amare, come dobbiamo vivere l’obbligo del lavoro (accontentandoci di quello che c’è o che, forse, verrà), dei motivi per i quali si vuole l’inasprimento delle pene, facendo di noi tutti dei perfetti obbedienti o sudditi in ogni caso. Nel frattempo individuiamo l’ennesimo “capro espiatorio” degli “scafisti” e degli “emigranti economici”, manco coloro che fuggono dal loro Paese per i motivi che conosciamo debbano aver conseguito la patente nautica e di poter esibire un ISEE di soddisfazione per i nostri economisti al governo. Il dissenso è vissuto come una disobbedienza intollerabile e non mai come un’affermazione di un diritto individuale. Si dice che le prigioni nacquero verosimilmente al sorgere della civile convivenza nelle società umane organizzate per garantire la sicurezza dei cittadini. Come si possa ancora tollerare che le prigioni permettano la segregazione e l’emarginazione di persone che il potere considera pericolosi per sé e che ciò si possa fare in conformità a Leggi e codici determinati dal potere stesso, non mi è dato di capire. Come si possa pensare che la “rieducazione” alla libertà e alla democrazia possa giungere attraverso la tortura del carcere non è cosa di secondaria importanza, tanto più che il tutto avviene sotto la coperta di una cultura violenta che non viene mai fatta conoscere per prevenirne le inevitabili manifestazioni. Sembra di vedere un medico che, pur riconoscendo un cancro nel fisico di un paziente, non fa nulla per curarlo. L’infamia della punizione diviene l’arte letteralmente “diabolica” di dividere e di porre tutti contro tutti. Perfino del precetto evangelico, quello che ci chiede di lanciare la prima pietra se si è certi di non aver peccato, non si riesce a far comprendere l’importanza di farlo proprio dal pensiero laico. Così, nel momento in cui il Sistema Penale sembra parlare soltanto di Legge, politicamente espressa, che sembra sempre dover appartenere a una maggioranza o a una classe dirigente alle quali non passa nemmeno per la testa l’idea di tutelare le minoranze, si vedono sempre più impallidire le misure che permettono il controllo e la conoscenza delle regole necessarie al vivere civile. Al cittadino si dice che la Legge non ammette ignoranza, quando le leggi nel nostro Paese sono più di 160mila e di impossibile comprensione. Provare a leggerne una, per credere. Mia è la pretesa che quel controllo debba essere esercitato anche dalla società civile. Ma tutto ciò deve diventare proposta politica. Luigi Manconi afferma, infatti, che l’abolizione del carcere comporta “un programma politico e una strategia normativa”. Questo è il mio sogno, che vede comunque riproporsi il dilemma dell’Uomo, del quale Michel Foucault non a caso annuncia la morte, come già avevano fatto Nietzsche e Heidegger. Il guaio è che le analisi di Foucault si scontrano, evidentemente senza successo, contro il muro di gomma delle Teorie Generali della Pena e della odierna conoscenza. Lo dico perché la legalità non si occupa di ciò che conduce al fatto/problema, ma consuma sé stessa nella ricerca delle prove (peraltro spesso opinabile) per esercitare l’arte della punizione. Di fatto la “punizione” (ovvero la “pena”), che Michael Zimmerman, autore di The Immorality of Punishment, definisce come “immorale propensione umana” a omologare il pensiero di un popolo, costringendolo a leggi non scelte e, quindi, non condivise, diventando lo strumento più ambito nei progetti di chi crede nell’illusione totalitaria. In sostanza: il Sistema Penale, proprio perché si occupa di “punizione del reo” (ovvero di chi compie un fatto/reato), impedisce le conoscenze necessarie ad affrontare quelle incapacità relazionali, nascondendole agli occhi di tutti, pensando di usare la tortura del carcere per la loro presa di coscienza. È solo ingenuità? Avviso alla destra e alla sinistra: non si fa politica con il codice penale di Enrico Borghi* Il Foglio, 11 settembre 2023 Se i conservatori sono vittime di una trappola, anche tra i progressisti sulla giustizia c’è molta confusione. Con il rischio di non riuscire a liberare questo paese dal giustizialismo diffusosi con Mani pulite. In fondo, a pensarci bene, siamo ancora al 30 aprile 1993. Chi ha un po’ di memoria, in questo paese, sa bene a cosa corrisponda quella data. La prima pagina pubblica di gogna mediatica, di volontà all’autodafè collettivo, di sintesi “rossobruna” sotto l’egida di un manto giacobino di pretesa purificazione populista. Le monetine a Craxi, trent’anni fa, con relativa criminalizzazione della classe politica e evocazione del tintinnar di manette, trovò sul campo una sintesi tra coloro che avevano da poco partecipato alla manifestazione del Pds in piazza Navona e i giovani del Movimento sociale italiano forniti di monete da Teodoro Bontempo. E dopo trent’anni, i figli, i nipoti e in qualche caso anche i protagonisti di quella stagione, con il corroborante ausilio dei rivoluzionari con pochette e amicizie a Pechino, riproducono nella vita politica italiana quella stessa idea di populismo giudiziario, ad ogni occasione di cronaca. E’ di plastico esempio, in tal senso, l’elenco fatto nei giorni scorsi su questo giornale dal direttore. Il riflesso pavloviano a destra di ricorrere al codice penale come unico strumento di attuazione della politica è sempre più marcato. Dai rave agli incendi boschivi, dall’ omicidio nautico ai muri imbrattati, per giungere ormai a quel pezzo di antologia della premier sulla rincorsa agli scafisti in tutto il “globo terracqueo”, è tutta una costante rievocazione della figura icastica di Giorgio Bracardi: “In galera!”. E giù decreti a getto continuo per l’istituzione di nuove figure penali, di inasprimento delle pene, di appalto alla magistratura di funzioni che in un paese normale dovrebbero essere affrontate da altri livelli istituzionali. Con il risultato paradossale che la destra italiana si ritrova, sulla giustizia, nella “trappola di Reagan”. Come si ricorderà, il liberista Ronald Wilson Reagan - quarantesimo presidente degli Stati Uniti - era fautore dello stato minimo, della contrazione degli spazi della politica, della diminuzione della spesa pubblica. Ciò non gli impedì di dilatare il debito pubblico e di aumentare significativamente la spesa federale, dentro un ossimoro significativo. La destra italiana è dentro lo stesso schema: attacca a parole la magistratura per invasione di campo ed esondazione di spazi, e poi gli affida funzioni maieutiche e salvifiche che inevitabilmente faranno pensare a qualche pubblico ministero di essere non l’attuatore di una legge, ma il vendicatore del bene contro il male. Ma se s’ode a destra uno squillo di tromba, a sinistra risponde uno squillo. E quindi cosa fa la sinistra, capitanata dalla Cgil di un Landini sempre più proteso nella sua nuova funzione di federatore del “campo largo” e di maitre-à-penser di un Nazareno esausto in tema di idee davanti al dramma di Brandizzo? Anziché porre il tema di una cultura profonda della sicurezza, legando il tema degli investimenti e della formazione al Pnrr e al potenziamento degli ispettorati del lavoro e degli organici della magistratura preposti al sanzionamento penale, ci si lancia nell’invenzione di un altro reato, l’omicidio sul lavoro, sostenendo che “il riconoscimento di una fattispecie sanzionatoria diventa un incentivo a considerare la vita dei lavoratori un bene da difendere prima di tutto e con ogni mezzo”. L’etica e la formazione affidata al codice penale e alla Procura della Repubblica, insomma. E siccome non bisogna farsi mancare nulla, ecco che i Cinque stelle si alzano subito in Parlamento a invocare una fantomatica “Procura nazionale sicurezza e ambiente”, alla quale probabilmente negli intenti dei presentatori affidare il potere della legislazione emergenziale e straordinaria dell’Antimafia. “Popolo, ricordati che se nella Repubblica la giustizia non regna con impero assoluto, la libertà non è che un vano nome”: l’autore di questa fase, Maximilien de Robespierre, guarderebbe compiaciuto alle mosse dei suoi epigoni italiani odierni. Dobbiamo spiegare dove portò quella concezione, o basta qualche libro di storia che ci permetta anche di disincagliare questo paese dalla sua deriva trentennale? *Capogruppo al Senato di Azione-Italia viva-Renew Europe La giustizia di strada che lo Stato deve evitare di ?Alessandro Campi Il Messaggero, 11 settembre 2023 I sempre più frequenti episodi di giustizia “fai da te” registrati dalla cronaca (l’ultimo nel quartiere romano del Quarticciolo) meritano qualche riflessione oltre la contingenza. L’impressione, infatti, è che non si tratti di fatti occasionali, ma di comportamenti e forme di reazione indicativi di uno stato d’animo collettivo sempre più segnato da un mix irrazionale di rabbia e paura, dal venire meno della fiducia nei confronti delle istituzioni, da un crescente sfilacciarsi dei legami sociali basati sul rispetto delle regole e dalla tendenza a giustificare come legittima la violenza privata che persegue la giustizia pubblica. Colpiscono, in effetti, le reazioni a questi episodi, specie quando essi vengono documentati - come sempre più spesso accade - da qualche improvvisato cittadino-reporter armato di videocamera. Centinaia di migliaia di visualizzazioni, immagini che rimbalzano da un telefonino all’altro, ma soprattutto messaggi di plauso e incitamento: “Hanno fatto bene!”. Sulle folle inferocite che si dedicano al linciaggio, magari di innocenti, esiste una vasta casistica divenuta persino letteratura. La differenza, rispetto al passato, è che oggi per eccitarsi non bisogna scendere in strada, ci si aizza contro il reprobo restando seduti sul divano a guardare un video in solitudine. L’idea, in sé pericolosa, che sembra essersi radicata in italiani d’ogni condizione sociale è che l’uso della forza da parte dei cittadini non può essere considerata arbitraria se posta al servizio di una giusta causa. Perché dovrebbe essere sbagliato impartire una salutare lezione di gruppo - a calci e pugni, agendo in branco come una muta di cani - allo scippatore o al ladro colto in flagrante? La legittima autodifesa, in questo caso, da individuale si fa collettiva. Così facendo si punta, mossi da un sentimento istintivo di giustizia, a riparare un torto in tempo reale, dando al malcapitato una lezione utile a prevenirne altri. Si punta altresì a coprire meritoriamente un vuoto: quello di uno Stato che, indipendentemente dai mezzi di cui dispone e dalla volontà che lo anima, non può essere ovunque. Il cittadino singolo si fa Stato, del quale è una componente essenziale, e ne surroga temporaneamente le funzioni. Si trasforma, al tempo stesso, in giudice e poliziotto: condanna senza processo e sanziona in forme grossolane per difendere la comunità cui appartiene. Ma questo modo di ragionare, che a qualcuno sembra presentare persino qualche ragionevolezza, contiene in realtà inganni ed errori. Per cominciare, parliamo di una giustizia sommaria che per definizione è ingiusta, essendo sottratta a qualunque regola e procedura. Chi di noi vorrebbe essere sottoposto a una simile giustizia, senza le garanzie previste dal diritto? La storia è piena delle iniquità commesse dai sedicenti tribunali del popolo. Colpisce che oggi possano attecchire a destra, nella destra che si vorrebbe d’ordine e sostenitrice delle ragioni dello Stato, pratiche e mentalità che sono state tipiche dei movimenti e regimi rivoluzionari d’estrema sinistra. Quella di strada è poi una giustizia che non affianca provvidenzialmente lo Stato nelle zone dove quest’ultimo (spesso colpevolmente) non è presente, ma finisce per delegittimarlo definitivamente nella sua funzione forse più vitale: la tutela della sicurezza pubblica attraverso i suoi rappresentanti legittimi. Tanto più che ad esercitare una tale forma di “giustizia popolare” non sono cittadini normali, mossi da una comprensibile esasperazione o da sacrosanto desiderio di onestà, ma quelli tra i cittadini che più facilmente tendono a muoversi fuori dai confini della legalità e delle regole. Da questo punto di vista, il recente episodio romano è stato assai rivelatore: tra i giustizieri del tossicodipendente che aveva aggredito l’anziana per procurarsi i soldi necessari all’acquisto di una dose c’erano spacciatori e pregiudicati. Non bravi ragazzi membri della comunità, non difensori dell’ordine violato, ma a loro volta, almeno alcuni di loro, professionisti del crimine e del degrado. Ciò detto, i cattivi umori popolari, pur senza assecondarli, bisogna comprenderli. Perché in molti, anche personalità magari miti, plaudono oggi alla giustizia da strada invece di augurarsi un regolare processo e una giusta condanna per chiunque compia un reato? Forse c’è un rimosso storico che ritorna. Lo abbiamo visto già con i fantasmi risvegliati dalla pandemia di un passato in cui le ondate pestilenziali erano la normalità. Lo stesso può dirsi per l’idea, un tempo anch’essa abituale, secondo la quale le condanne, le pene e le esecuzioni andavano eseguite in pubblico, affinché fossero di monito per tutti gli spettatori. Stiamo tornando a un tempo fatto di linciaggi partecipati collettivamente attraverso i social, un modo comodo per sfogare i nostri bassi istinti stando però lontani dai fatti reali e approvando azioni e gesti che nella realtà non saremmo in grado di compiere? Ma forse la spiegazione è più semplice. Ci si appaga della giustizia sommaria nella convinzione che in Italia tra delitto e castigo non esista ormai più alcuna corrispondenza, a meno di non affidarsi - per chi è credente - all’autocritica e all’autoredenzione del colpevole. Siamo in un Paese dove non sempre si riesce a garantire lo svolgimento in tempi accettabili dei processi e l’esecuzione della condanna eventualmente inflitta, dove per molti reati vige ormai un regime di sostanziale impunità. Purtroppo a questa situazione si tende a rispondere con l’inasprimento nominale delle pene, con l’introduzione di nuove fattispecie di reato e con l’emergenzialismo da finto Stato di polizia. Ma questo tipo di risposta rischia di essere un palliativo propagandistico al quale la politica ricorre quando è in crisi di consenso o alle prese con qualche caso di cronaca particolarmente eclatante. Presidio costante del territorio da parte delle forze di polizia, anche come atto simbolico. Pene severe ma certe, piuttosto che pene severissime ma aleatorie- Questo, nell’essenziale, la macchina dell’ordine pubblico e della giustizia dovrebbero garantire ai cittadini per farli sentire più sicuri e per sottrarli alla tentazione di cedere, anche solo col pensiero, allo spirito di vendetta privata, indegno di una nazione civile. Ostellari: “Monitorare i minori prima dei reati e in alcuni casi sottrarli alle famiglie criminali” di Conchita Sannino La Repubblica, 11 settembre 2023 Intervista al sottosegretario alla Giustizia dopo i casi di Caivano e Napoli. La Campania come “laboratorio” di una stretta repressiva sui minori? “No, è un’ottica sbagliata. Noi guardiamo invece a un’emergenza molto diffusa e puntiamo a due grandi obiettivi: la prevenzione, responsabilizzando i genitori e cercando di rieducare i minori, che vanno intercettati per tempo; e il rispetto delle regole. Proprio come tanti giudici e operatori del settore pure ci chiedono”. Andrea Ostellari, il sottosegretario con delega alla Giustizia minorile, rivendica “il lavoro della Lega” nel Dl baby gang, risponde sui dubbi degli alleati, annuncia la “costituzione di comunità per i minori gestite direttamente dallo Stato”. Sottosegretario Ostellari, sembra tuttavia che i fatti di Caivano e di Napoli vi forniscano un pretesto per la tolleranza zero... “Intanto, le violenze di Caivano e l’omicidio di un innocente a Napoli addolorano, offendono, ma il disagio giovanile con le relative ricadute in termini di violenza e criminalità è un dato nazionale: tanti episodi negli anni anche a Genova, a Milano, a Padova. La Lega aveva già lavorato a un elenco di proposte in cui convivono rigore e necessità di rieducazione. Ed è su questo che il nostro dl dà risposte”. Eppure, lo slogan è: carcere più facile per le babygang. Quando invece, sarà più “facile” salvarli, arrivare prima del baratro? “Lo strumento dell’ammonimento serve proprio a questo, la prevenzione resta centrale: vogliamo far suonare un bel campanello per le famiglie, e sanzionarle, per scongiurare quelle che potrebbero diventare vere e proprie carriere criminali”. Ma se un 17enne va in carcere, è lampante che famiglia, scuola, Stato, hanno fallito. Quindi, in concreto: quante risorse in più, quanti insegnanti e assistenti sociali in più, quante scuole aperte fino a sera? “Intanto bisogna assicurarsi che i ragazzi a scuola ci vadano. Invece il fenomeno dell’abbandono scolastico dei minori è in forte crescita. Fino a ieri la sanzione per i genitori era ridicola, 30 euro. Col decreto, noi colpiamo più duramente chi fa finta di non vedere. Poi, certo, servono investimenti, serve un migliore coordinamento con le amministrazioni locali. Ma siamo onesti: quello con cui ci confrontiamo è un problema dalle radici antiche, che troverà soluzioni nel tempo”. Sul decreto pesano i dubbi di Fi: il vicepresidente della Camera, Giorgio Mulé, dice che i 15enni si vanteranno del carcere e dell’ammonimento... “I dubbiosi si sono quasi tutti tranquillizzati quando hanno letto il testo definitivo. E lo strumento dell’ammonimento coniuga, ancora, prevenzione e rispetto delle regole. Segnalo che per i 15enni, che sono già imputabili, non è previsto. Non credo, peraltro, che sarà un vanto per i 12enni. Di sicuro non lo sarà per i genitori, che rischiano pesanti sanzioni”. Anche per alcuni giudici minorili il decreto marginalizza di più i ragazzi disagiati... “Non è così. Finora, ad esempio, il 14enne che commetteva reati bagatellari veniva costretto a riparare al danno in un tempo troppo lontano rispetto alla data in cui aveva commesso il fatto. Questo affievolisce l’efficacia della rieducazione. L’intento di queste misure è concedere un’opportunità di educazione affettiva e valoriale, che, come sostiene don Claudio Burgio, manca in molti contesti familiari”. Il disagio ha trend fluttuanti, radici diverse. Lo avete studiato? “Ovviamente: la devianza giovanile cresce in relazione ai fenomeni di marginalità, anche legati all’immigrazione. Due dati. I minorenni e giovani adulti in carico agli uffici di serviziosociale nel 2007 erano 14.744, di cui 2.972 stranieri. Nel 2022 sono 21.550 con un netto aumento degli stranieri, saliti a 4.737”. Neanche negli Istituti di pena minorile diminuiscono... “Un altro dato che ci allarma: quando ho assunto le deleghe da sottosegretario, dicembre 2022, i minori detenuti erano 320. Oggi sono 100 in più”. E gli istituti penali minorili sono diventati teatri di violenza, risse e clamorose evasioni... “L’evasione del Beccaria del Natale scorso e quella subito successiva di Airola dipendono anche da un ritardo nell’esecuzione di alcuni lavori. Noi ora abbiamo consegnato il cantiere del Beccaria, riaperto l’istituto di Treviso, ristrutturato quello di Catanzaro. Entro il prossimo anno ne inauguriamo un altro a Rovigo…”. Più minori in carcere dovrebbe significare, per non tradire la Costituzione, più spazi, più educatori e laboratori, migliore formazione. Dove sono? “Non c’è dubbio: occorrono personale e strutture. Stiamo concludendo un concorso che consenta a tutti gli istituti penali minorili di avere un direttore e un comandante dedicati: figure fondamentali. Poi, ovviamente, bisogna intervenire su educatori e luoghi alternativi alla detenzione. Posso annunciare, per quanto riguarda il ministero, che, con il capo del Dipartimento, Antonio Sangermano, stiamo individuando delle strutture per aprire della comunità per minori gestite direttamente dallo Stato”. Intanto l’idea di Salvini, abbassare la punibilità ai 12 anni, non è passata. Tornerete all’attacco? “La proposta della Lega sui minori, dai 12 ai 14 anni, già in corso d’esame durante questa legislatura, prevedeva lo strumento dell’ammonimento e una sanzione per i genitori: ed è entrata nel decreto. Ora la valutiamo alla prova dei fatti”. Il protocollo “Liberi di Scegliere”, sperimentato dal giudice Di Bella, con il temporaneo allontanamento di minori da contesti criminali: diventerà una vostra proposta di legge? “Non nascondiamoci: in alcuni casi, i mafiosi utilizzano i minori solo come manovalanza e li allevano secondo logiche deviate. Ciò è inaccettabile. Durante una visita a Nisida ho conosciuto dei ragazzi detenuti che preferiscono restare nell’istituto penale minorile piuttosto che tornare a casa. “Liberi di Scegliere” è un valido antidoto, contro coloro che privano i minori di un futuro di legalità e speranza”. Anche la nota con cui la polizia impone prassi stringenti nel monitoraggio dei minori, va in questa direzione? “Monitorare i fenomeni, evitare che giovani vite si brucino, e colpire i veri criminali è quello che lo Stato deve fare”. Vi fate alfieri della prevenzione del disagio. Ma come coniugarlo con la “vostra” Autonomia differenziata: che cristallizza e moltiplica disuguaglianze e povertà educative, a danno dei più piccoli? “Non sono d’accordo. L’Autonomia è un’opportunità. Non cristallizza le disuguaglianze, ma spinge a superarle. Senza un’organizzazione efficiente, tu puoi investire tutti i miliardi di questo mondo, ma non raggiungerai alcun risultato. La storia di questo Paese lo dimostra ampiamente”. La procuratrice minorile di Napoli De Luzenberger: “Basta minori impuniti” di ?Leandro Del Gaudio Il Mattino, 11 settembre 2023 “Serviva la svolta è giusto colpire anche i genitori irresponsabili”. Giovedì 31 agosto, ha usato tutta la competenza e la capacità di sintesi che le vengono riconosciute per illustrare alla premier Meloni i problemi legati all’emergenza minorile nel distretto napoletano (e non solo). Da poco si era diffusa la notizia dell’omicidio di un musicista napoletano per mano di un 16 enne, mentre mezzo governo era a Caivano per l’orrore degli stupri di due bambine. In pochi minuti, la procuratrice per i minori Maria De Luzenberger ha incrociato lo sguardo del capo del governo, puntando su alcuni princìpi cardine in materia di contrasto alla criminalità giovanile, passando dal dovere di fare prevenzione alla necessità di interventi rigorosi. Ha esposto i punti cruciali su cui sarebbe possibile rendere più efficace l’azione della giustizia minorile, partendo da un presupposto che ha rappresentato il mantra del lavoro svolto ai Colli Aminei in questi anni: “Il solo approccio penale, giudiziario non può servire, se non accompagnato da interventi in grado di restituire servizi urbani, strutture ricreative e una formazione adeguata per le giovani generazioni”. Fatto sta che dieci giorni dopo il confronto con la premier, dopo i fatti di Parco Verde e dopo il delitto di Giovanbattista Cutolo, la procuratrice De Luzenberger commenta con il Mattino il cosiddetto decreto Caivano. Procuratrice, qual è il suo giudizio? “Difendo il decreto nei suoi principi salienti. Avrei preferito aspettare la lettura di un testo definitivo, ma credo sia giusto riconoscere l’importanza di alcuni punti in esso contenuti. Vede, si tratta di un provvedimento che, per alcuni aspetti, si avvale del contributo mio e degli altri colleghi del distretto quotidianamente alle prese con una materia tanto complessa”. Partiamo dalla questione degli arresti. Il decreto consente di arrestare i minori che circolano armati. Come si esprime? “Che era necessario intervenire sotto il profilo normativo. Bisognava fare qualcosa, perché il senso di impunità che registriamo tra i ragazzi è terribile. Mi riferisco ai minorenni che risultano in possesso di coltelli o pistole”. Perché parla di senso di impunità registrato nel corso del lavoro quotidiano? “Le racconto un episodio realmente accaduto e che non è neppure un caso isolato. A un posto di blocco viene fermato un minorenne che risultava armato. Aveva una pistola pronta all’uso, con il colpo in canna. Sa cosa è successo?”. Ci dica... “Come era inevitabile alla luce delle vecchie leggi, è stato restituito ai genitori, riaffidato sotto la responsabilità del padre (per altro conosciuto per il suo spessore criminale); ebbene, dopo pochi giorni, questo minore ha realmente usato una pistola, ha fatto fuoco, rendendosi protagonista di un crimine grave (fortunatamente senza conseguenze). Ora con il decreto, si stabilisce la possibilità da parte dei pm di chiedere gli arresti di chi gira armato, non solo per chi ha una pistola”. Sono tanti i casi di questo tipo, sembra di capire. “Purtroppo sì. Bisognava intervenire sotto il profilo legislativo e mi riferisco anche ai tanti casi di maltrattamenti in famiglia, dove minori violenti si accaniscono contro i propri stretti congiunti. Per vicende simili, era necessario consentire la possibilità di valutare una richiesta di arresto”. Non solo pistole, vista la circolazione di coltelli tra i più giovani... “Purtroppo tantissimi ragazzi girano con il coltello. Tanto che ho invocato anche una sanzione amministrativa per i genitori di chi va in giro armato di coltello”. È un modo per sensibilizzare anche i genitori, come per altro il suo ufficio cerca di fare in ogni campo legato alla questione minorile... “Vede, in alcuni casi, ci troviamo di fronte a genitori che ci dicono che il coltello serve ai figli ad assicurare la possibilità di difendersi, qualora scoppi una lite, senza comprendere che in questo modo stanno mettendo seriamente a repentaglio la vita dei propri ragazzi e di altre persone”. Come giudica l’annunciato inasprimento di pene per chi ha con sè droga, anche in quantità non ingenti? “Anche in questo caso mi sembra un intervento aderente alla realtà, perché qui nessuno trasporta da un posto all’altro grandi quantità di sostanze stupefacenti, quindi è giusto intervenire sui minori che vengono trovati con dosi di stupefacenti e che magari si prestano a fare da corrieri”. Passiamo alla condanna dei genitori che non mandano i figli a scuola... “Bisognava intervenire su questo campo. Chi mi conosce sa bene che non vedo nel carcere l’unica soluzione, nel senso che non chiedo sempre risposte di tipo penale di fronte a problemi complessi. Però alla premier Meloni ho fatto notare che sanzionare i genitori che non mandano a scuola i figli con soli 30 euro di multa è inutile, se non addirittura controproducente per l’autorevolezza delle istituzioni”. A Caivano, la vicenda degli stupri ha fatto emergere uno spaccato orrendo... “Non parlo ovviamente delle indagini, mi limito a dire che esiste uno spaccato di una infanzia abbandonata che abbraccia tutti i soggetti coinvolti in questa vicenda”. E la scuola? “Nonostante i casi di dispersione scolastica siano tanti, a noi le segnalazioni sono arrivate da un solo istituto, parlo della scuola Morano che, grazie alla sua dirigente, rappresenta un presidio straordinario. Le altre scuole del territorio segnalano poco, forse hanno paura del contesto o temono un ridimensionamento delle proprie strutture”. Cosa ha detto al ministro dell’Istruzione? “Ho fatto notare che nell’ultimo anno abbiamo creato una piattaforma che consente di aggiornare in tempo reale i casi di evasione, grazie al lavoro dell’ufficio scolastico regionale, degli enti locali, della Prefettura. Uno strumento che il ministro proverà ad esportare su scala nazionale”. Questione finanziamenti... “Ben vengano i milioni sbloccati per Caivano, serviranno alle strutture sportive a creare una rete di assistenti sociali. Perché al di là dell’approccio penale, la prevenzione e la formazione sono decisive per la crescita collettiva dei giovani cittadini”. Tocca alla politica riaffermare l’etica pubblica senza scaricare sulle toghe le proprie responsabilità di Edmondo Bruti Liberati* Il Dubbio, 11 settembre 2023 Se al di sopra di ogni sospetto deve essere la moglie di Cesare, a maggior ragione lo deve essere Cesare... la classe politica faccia un passo avanti e si riappropri davvero del primato che pure chiede di riconoscerle. In un corso della Scuola Superiore della Magistratura Anna Maria Testa, grande esperta di comunicazione, in un breve efficacissimo intervento videoregistrato ci ammoniva: “In comunicazione non esiste “Tu non mi hai capito”, c’è solo: “Io non mi sono spiegato, mentre avrei avuto la responsabilità, da comunicante, di farmi capire”. Da almeno trent’anni, in saggi su riviste giuridiche, libri, interventi in convegni e contributi giornalisti affronto il tema “responsabilità penale/ responsabilità politica”. Da ultimo ho svolto alcune considerazioni al riguardo su La Stampa del 27 luglio. In quest’ intervento evidentemente non mi sono spiegato, se su questo giornale l’ottimo Errico Novi il 29 luglio mi ha rivolto una garbata critica sotto il titolo “Caro dottor Bruti Liberati, perché affidare alla stampa il potere di rovinare la carriera dei politici?”. E allora chiedo ospitalità per cercare di raccogliere l’insegnamento della cara amica Anna Maria Testa. Provo a spiegarmi meglio. In sintesi tre punti. 1. Non intendo affidare alla stampa il potere di rovinare la carriera dei politici. 2. Non io, ma la tradizione liberaldemocratica affida alla stampa il ruolo di controllo sull’esercizio di chiunque eserciti un potere pubblico. La Corte Europea dei diritti dell’uomo ha qualificato la stampa come “cane da guardia della democrazia”. Il giudice Hugo Black nella sua “opinione concorrente” della sentenza della Corte Suprema USA New York Times Co. v. United States, 403 U.S.713 (1971) scrive: “La stampa è al servizio dei governati e non dei governanti. Soltanto una stampa libera e senza limitazioni può svelare efficacemente l’inganno nel governo”. Una presa di posizione forte, tanto più perché adottata nel pieno della guerra del Vietnam: si trattava della pubblicazione di documenti riservati “Pentagon papers”. Questo ruolo della stampa è così sentito negli Stati Uniti, da essere trasmesso al grande pubblico con i film. Alla vicenda dei “Pentagon papers” si ispira il film The Post del 2017, diretto da Steven Spielberg con protagonisti Meryl Streep e Tom Hanks. La battura finale di Humphrey Bogart nel film L’ultima minaccia (titolo originale Deadline, 1952) diretto da Richard Brooks “È la stampa, bellezza! La stampa! E tu non ci puoi far niente! Niente!” ha assunto un significato di principio, oltre l’occasione specifica in cui è pronunziata. 3. Nelle democrazie è la politica che si assume la responsabilità politica, il “potere” di valutare se dati di fatto pubblicati dalla stampa, da inchieste giornalistiche comportino la “rovina” di una carriera politica, prima, a prescindere e indipendentemente da un’indagine penale, che talora può addirittura non esserci, perché si tratta di fatti e comportamenti ritenuti disdicevoli, ma che non costituiscono reato. Il presidente Nixon si dimette, anticipando una richiesta di impeachment, a seguito dell’inchiesta giornalistica sul caso Watergate. Karl-Theodor zu Guttenberg, già segretario generale del partito Csu, Ministro tedesco della difesa, nel 2011 si dimette da ogni incarico dopo che sulla stampa è stato segnalato il plagio di brani nella sua tesi di dottorato in diritto internazionale di qualche anno prima. Nei confronti di Christian Wulff, già presidente del partito Cdu, ora Presidente della Repubblica Federale Tedesca il 16 febbraio 2012 la procura di Hannover chiede la revoca dell’immunità prevista per il capo dello Stato in relazione ad una indagine per un finanziamento di 500.000 euro con un mutuo a tasso agevolato del 4%, che Wulff avrebbe ottenuto da un amico imprenditore, per la realizzazione di un appartamento in Bassa Sassonia, in cambio di favori. Il giorno dopo si dimette: il 27 febbraio 2014 è stato assolto dal Tribunale di Hannover dall’accusa di corruzione. Helmut Kohl, presidente onorario del partito Cdu, artefice della riunificazione tedesca, si dimette da ogni incarico quando nel 2000 emergono cospicui finanziamenti che aveva ricevuto in nero per la sua carriera politica. È noto quanto abbia giocato nella “rovina” politica di Boris Johnson la notizia diffusa dalla stampa della festicciola svolta a Downing Street in piena emergenza Covid: nessun rilievo penale per il Partygate, semmai alto tasso alcolico. Occorre distinguere con grande cura tra criteri e regole della responsabilità penale e quelli della responsabilità politica. Il codice penale e quello di procedura penale raccolgono e precisano i principi di una tradizione di civiltà: In dubio pro reo. Con la modifica adottata nel 2006 l’art. 533 al comma 1 prevede: “Il giudice pronuncia sentenza di condanna se l’imputati risulta colpevole del reato contestato al di là di ogni ragionevole dubbio”. Ancora: l’inutilizzabilità processuale di elementi di prova decisivi per la condanna, ma illegittimamente acquisti, porta alla assoluzione. Di più, il principio del ne bis in idem preclude la possibilità di riprocessare l’imputato assolto, quando successivamente emergano anche prove clamorose della sua colpevolezza. All’opposto il principio della intangibilità del giudicato deve cedere alla possibilità di revisione ove emergano prove di innocenza. Criteri e principi sacrosanti, spesso difficili da far comprendere alla pubblica opinione, sui quali dobbiamo sempre vigilare. Ma operano solo nel ben delimitato campo di applicazione della norma penale. Nessuno di questi criteri opera nel campo della responsabilità politica, ove, anzi, operano spesso criteri opposti. Se al di sopra di ogni sospetto deve essere la moglie di Cesare, a maggior ragione lo deve essere Cesare. Occorre che la politica si riappropri del suo ruolo, faccia un passo avanti e valuti comportamenti attribuiti a suoi esponenti secondo il metro dell’etica pubblica, indipendentemente e a prescindere dai profili penali. Sta alla politica decidere dove fissare l’asticella dell’etica pubblica: può attivare un giudizio di responsabilità politica anche per fatti che non abbiano rilevanza penale o all’opposto può non attivare questo giudizio di fronte a fatti penalmente rilevanti, ma ritenuti di non particolare gravità. Solo pochi anni addietro due governi tecnici hanno alzato e di non poco l’asticella del livello di etica pubblica: due ministre dimesse per casi di non particolare gravità. Nella vicenda che coinvolge una attuale ministra la confusione è totale. Laddove la politica, il governo, dovrebbe assumere la responsabilità “politica”, una valutazione autonoma sui fatti, il dibattito in Parlamento si è svolto come in una esercitazione degli studenti di un corso di procedura penale sul “certificato dei carichi pendenti”, sulla “informazione di garanzia” e infine sul “rinvio a giudizio”. Nel mio recente intervento non ho espresso opinione alcuna sul rilievo dei fatti “addebitati” dalla stampa ad una ministra. Ho invece preso atto della motivazione addotta dalla maggioranza: delegare sostanzialmente una scelta squisitamente politica, come lo è la nomina o la sfiducia per un ministro, ad una decisione della magistratura, il “rinvio a giudizio”, per di più in una fase iniziale della procedura giudiziaria. Apparentemente rispettosa della magistratura è una alterazione del rapporto politica giustizia. La vecchia saggezza popolare ammoniva: non mischiate le mele con le pere. Non “mischiamo” responsabilità penale e responsabilità politica, il confine va rigorosamente delimitato. *Pubblicato sul Dubbio del 1° agosto 2023 La magistratura si considera padrona della giurisdizione, nel silenzio della politica di Giorgio Spangher Il Dubbio, 11 settembre 2023 I riferimenti di Bruti Liberati a vicende mediatico-giudiziarie di altri paesi non sono trasferibili alla stampa italiana, che risente di impostazioni ideologiche se non addirittura partitiche. Anche in questi primi giorni di agosto non sono mancate le occasioni di riflessione e confronto in materia di giustizia penale. Tra queste, tre sembrano suscettibili di qualche riflessione di ampio respiro. La prima si ricollega al decreto-legge numero 105 con il quale il Governo ha esteso la disciplina speciale delle intercettazioni dei reati di criminalità organizzata ad ulteriori fattispecie di reato, nonché alle situazioni aggravate dal metodo mafioso e terroristico, la seconda alla sentenza della Corte Costituzionale (170/ 2023) relativa al conflitto di attribuzioni tra il Senato della Repubblica e la Procura fiorentina relativamente al sequestro di conversazioni disposte sullo smartphone di un imprenditore che aveva colloquiato con un componente del Senato. Pur trattandosi di situazioni differenziate è possibile una riflessione comune. Invero l’intervento di urgenza che ha motivato il recente decreto ha origine dalla segnalazione da parte della Procura Nazionale Antimafia legata ad una interpretazione, peraltro consolidata, della giurisprudenza di Cassazione, assunta anche a Sezioni Unite. Il riferimento, più specificatamente, si indirizza alle possibili valutazioni sulla natura soggettiva o oggettiva dell’aggravante di cui all’art. 7 dl 152/ 1992, trasfusa nell’art 416 bis 1 cp, con il conseguente timore che una interpretazione rigorosa dell’attività posta in essere dal partecipe possa determinare l’invalidità delle relative decisioni maturate in sede di merito. Al di là di altre situazioni nella dinamica di Governo (Ministro della Giustizia, Presidenza del Consiglio), la politica ha immediatamente dato corso a queste richieste di intervento, a prescindere dal fatto che la modifica possa cogliere nel segno. Già in precedenza, a fronte di interpretazioni rigorose della Cassazione (vedasi le Sezioni Unite Cavallo) il legislatore era immediatamente intervenuto adeguando la disciplina dell’art. 270 cpp (utilizzazione delle intercettazioni disposte in altri procedimenti) ma altri esempi, anche meno recenti, potrebbero essere fatti (vedi vicende Carnevale: timbro a secco e dei termini). Pur sottolineando che i riferimenti sono spesso legati direttamente o indirettamente - si pensi, ad esempio, alla ostilità sulla riforma dell’abuso di ufficio, considerato quale reato spia - al fenomeno della criminalità organizzata va sottolineato come la classe politica dia alle sollecitazioni delle procure una risposta immediata. Di tutt’altro segno, anzi opposto, è quello legato alla sentenza della Corte Costituzionale con la quale i giudici della Consulta hanno affermato che le comunicazioni WhatsApp non sono documenti - come ritenuto costantemente dalla giurisprudenza- ma corrispondenza, con tutte le conseguenze che ciò determina sia per i membri del Parlamento ma anche per tutti gli imputati. Ora, è sicuramente corretto affermare che ai sensi della Costituzione spetta alla magistratura l’interpretazione della legge. È altresì noto che la magistratura si consideri proprietaria della giurisdizione, sicché non manca di individuare prassi e letture normative, in modalità creativa, ritenendo di farsi interprete degli obiettivi di funzionalità del sistema per un più sicuro accertamento dei reati. Molto spesso le letture confliggono con quanto è corrispondente alla legge secondo la ricostruzione che ne fa la dottrina, anche in linea con le previsioni costituzionali e sovranazionali. Dinanzi a questa situazione, a più riprese evidenziata nei commenti alle decisioni del supremo collegio, la politica resta del tutto silente. Solo a seguito delle decisioni della Corte Costituzionale (ultimo caso è quello riferito), della Corte di Giustizia (come nel caso dei tabulati ancorché relative ad altri Stati) o della Cedu il legislatore è costretto ad intervenire correggendo in qualche modo la normativa, ovvero la giurisprudenza (sempre, peraltro, con interpretazioni restrittive) deve adeguarsi. Il problema è costituito dal fatto che “medio tempore” (quasi sempre decenni, nel caso dei tabulati un ventennio e mancano ancora le garanzie sulla geolocalizzazione) gli imputati sono privati di un altro standing di garanzia perché come è noto il nostro sistema mette nelle mani dei magistrati l’accesso a due di questi strumenti di garanzia e per il ricorso alla Cedu è necessario esaurire interamente il percorso giudiziario. La politica così attenta alle ragioni di accertamento dovrebbe dimostrare una maggiore sensibilità per il rispetto delle garanzie imposte dalla Costituzione e dalla disciplina internazionale sovraordinata. La terza riflessione è suggerita dall’intervento di Edmondo Bruti Liberati su questo giornale, dove viene affrontato l’argomento dell’etica pubblica, dell’informazione giudiziaria e della giustizia penale. La questione del rapporto tra responsabilità penale e responsabilità politica è complessa e richiederebbe un’analisi molto articolata della realtà storica, sociale culturale, religiosa e politica di un Paese, anche perché tutto ciò condiziona fortemente i temi di cui si parla: coesione sociale e condivisione del sistema istituzionale. Del resto, gli stessi riferimenti ad altri Stati da parte di Bruti Liberati, in primis gli Stati Uniti, sembrano datati (il fenomeno del trumpismo segnerà fortemente la storia di quel Paese) e non trasferibili alle situazioni italiane della stampa, che risente di impostazioni ideologiche se non addirittura partitiche (non vedo premi Pulitzer tra i nostri giornalisti) - e della politica (le modalità della convalida della elezione di George W. Bush contro Al Gore, del tutto improponibili nelle dinamiche italiane). Venendo non senza molte semplificazioni al nostro Paese, deve affermarsi che, considerata la sua struttura sociale e culturale, frutto della sua evoluzione storica e la sua conseguente articolazione politica, il tema della eticità è stato da tempo ritenuto marginale essendo stato sostituito dalla contrapposizione partitica destinata ad alterare gli equilibri politici tra le forze in campo, soprattutto tra quelle di maggioranza e di Governo (stante la collocazione internazionale del nostro Paese). Il riferimento va anche alle commissioni di indagine parlamentare (Telekom Serbia, sistemi bancari…). Sotto questo aspetto la questione si è sempre più spostata alle implicazioni delle vicende giudiziarie che hanno rappresentato il tema privilegiato del riferito scontro politico. Sono state poche in questi anni le dimissioni, i passi indietro di vari esponenti per ragioni etiche, morali e di opportunità. Quasi tutti gli episodi significativi che si possono ricordare (dal caso Montesi Piccioni con la fine del doroteismo all’interno alla Dc, fino alla vicenda dello scandalo Lockheed con le dimissioni del Presidente della Repubblica Giovanni Leone) sono stati contrassegnati da vicende giudiziarie. La stessa “questione morale” sollecitata da Berlinguer ha condotto al fenomeno di Mani pulite e al crollo della Prima repubblica; del resto, è significativa in tal senso l’eliminazione dalla Costituzione della autorizzazione a procedere e tutta la legislazione sull’incandidabilità condizionata da giudizi di responsabilità accertati in sede penale. È conseguentemente evidente che l’iniziativa giudiziaria abbia un forte rilievo e che l’abbia per il suo solo avvio a prescindere da quelli che potranno essere gli esiti processuali, i quali, ancorché favorevoli a indagato e imputato, avranno determinato effetti irreversibili (come tanti episodi hanno dimostrato). La riferita forte contrapposizione politica, alla quale la stampa e la magistratura non sono del tutto estranee, non consente di superare facilmente il problema che indubbiamente deve trovare nella classe politica un suo maggiore senso di responsabilità, nella magistratura un senso misurato di comportamenti di attività rispetto ai diritti, nella legislazione la predisposizione di strumenti di garanzia il cui significato va trasfuso all’opinione pubblica, così da chiarire meglio il senso delle iniziative giudiziarie alla luce del principio costituzionale di considerazione di innocenza. Chi assegna ai media il potere di stroncare carriere consideri che il giornalismo d’inchiesta, in Italia, non esiste più di Tiziana Maiolo Il Dubbio, 11 settembre 2023 La gran parte dei cronisti si è adagiata nell’idea che sia più comodo e redditizio pubblicare “scoop” semplicemente con le “veline” distillate dalle Procure. Rinfacciare al Parlamento e al mondo della politica la propria incapacità a lavarsi e vestirsi ogni mattina senza l’aiuto di un magistrato, come ha fatto il dottor Edmondo Bruti Liberati, già capo della procura di Milano e anche del sindacato delle toghe, è una grande verità e anche una cocente umiliazione. È pur vero, come l’ex magistrato ha scritto sulla Stampa e sul Dubbio, che nel caso della presentazione da parte delle opposizioni della richiesta di dimissioni della ministra Daniela Santanché il Parlamento non ha dato grande prova di sé. Quasi i deputati fossero a un corso di procedura penale al primo anno della facoltà di giurisprudenza, ha commentato il dottor Bruti Liberati con tono irridente e un po’ sprezzante, eccoli lì a disquisire di informazioni di garanzia e di carichi pendenti. Il che sarebbe non più di un peccato veniale. La cosa più grave è che qualcuno (solo qualcuno, per fortuna) ha ipotizzato che si possa chiedere a un ministro in carica di andarsene qualora un giudice lo abbia rinviato a giudizio. E il principio costituzionale di non colpevolezza? Non scaricate su di noi magistrati, dice l’ex procuratore di Milano, questa responsabilità, che è solo di “etica politica”. In molti Paesi dell’occidente democratico importanti uomini di governo si sono dimessi quando un’inchiesta giornalistica ne ha disvelato una presunta “immoralità” di comportamento, a prescindere dall’inchiesta giudiziaria, al termine della quale molti sono risultati innocenti. Dovremmo compiacercene? Alcune riflessioni sono indispensabili, anche perché il dottor Bruti Liberati vuol farci credere di vivere su un altro pianeta e non in Italia dove, come ha ben spiegato il presidente delle Camere penali Giandomenico Caiazza, il problema della responsabilità viene sempre richiesto, giustamente, ai soggetti politici, ma mai alle toghe. E neanche a certi giornalisti di certe testate, che escono spesso vincenti da processi in cui giocano sempre in casa. Ma ci sono altri argomenti, che l’ex magistrato pare ignorare, nonostante i ruoli di vertice che ha ricoperto. Il primo è che in Italia non esiste più il giornalismo d’inchiesta, da quando molti cronisti hanno scoperto essere moto più comodo e redditizio fare gli scoop con le veline del pubblico ministero. E da quando gli stessi pm hanno capitalizzato in pubblicità personale e carriera professionale il traffico di notizie coperte da segreto investigativo. Poiché stiamo raccontando una realtà che è sotto gli occhi di tutti, ci sembra strano che un magistrato prestigioso come Bruti Liberati non si sia reso conto di quel che sta succedendo da almeno trent’anni a questa parte. Né potrebbe mai descrivere una realtà diversa - visto che anche lui c’era a quei tempi - a chi ha svolto per vent’anni il ruolo di cronista giudiziaria a Milano. C’è però un argomento che andrebbe ricordato invece alla politica, e soprattutto a coloro che, dopo aver letto qualche articolo sul Fatto o su Domani, chiedono a un ministro di dimettersi, sulla base, apparentemente, del famoso giornalismo d’inchiesta. Ma la verità è che queste notizie partono sempre da un’inchiesta giudiziaria. Il fascicolo del pm c’è sempre. Ed è inutile che ci si affanni a dire che si vogliono cacciare ministri non per l’inchiesta giudiziaria ma “per motivi di opportunità politica”. È così solo in apparenza, perché è il cane che si morde la coda. Poiché il cronista non è autonomo e le carte gliele dà il magistrato, è chiaro che le dimissioni vengono chieste solo in quanto c’è un’inchiesta giudiziaria. Questa è l’Italia da almeno trent’anni, caro Edmondo Bruti Liberati. E lasciamo perdere un altro argomento, anche se non è secondario, ed è quello dell’” onorabilità”, che profuma tanto di spirito rousseauviano e di Stato etico. Qualcuno si è inventato persino un partito sull’ “onestà”, che spero non piaccia a un fiero militante di sinistra come lei. Ma due nuovi fatti sono accaduti intanto in questi giorni, la fuga di notizie su una denuncia presentata dal ministro Guido Crosetto ben nove mesi fa, e una dignitosa rivendicazione del deputato del Pd Piero Fassino sul significato di politica e della sua nobiltà, proprio in contrapposizione all’andazzo moralistico-demagogico di cui pare essere prigioniero quasi l’intero Parlamento. Tanto che, a quanto pare, solo un deputato di Forza Italia, Roberto Bagnasco, gli ha dato solidarietà e sostegno in aula. Sulla vicenda del ministro della difesa non si può che prendere atto del fatto che siamo in presenza di ben due violazioni del segreto investigativo, una sulla rivelazione di una privata e legalissima retribuzione che l’ex dirigente d’azienda ha ricevuto da Leonardo, e la successiva sull’esistenza di un’inchiesta penale in seguito alla sua denuncia. Ma si tratta di giornalismo d’inchiesta, ovviamente, nessuno ha passato le carte. Perché “è la stampa bellezza!”, direbbe l’ex procuratore Bruti Liberati citando Humphrey Bogart. Sul discorso tenuto da Piero Fassino alla Camera due giorni fa, il punto centrale non è sull’entità dell’indennità parlamentare, da lui esibita a dimostrazione del fatto che non si tratta di “stipendio d’oro”, su cui si sono scatenati i miseri moralismi di destra e di sinistra. Ma il coraggio di dire a voce alta, dopo trent’anni di umiliazioni e autoflagellazioni della politica, che mettersi al servizio della comunità è un fatto alto e nobile. A testa alta, con le “mani pulite” delle persone per bene, che non hanno bisogno del bollino blu di qualche toga per decidere se un ministro possa continuare a fare il proprio lavoro. È proprio lo strapotere dei magistrati che deresponsabilizza la politica fino a svuotarne il primato di Paolo Ferrua Il Dubbio, 11 settembre 2023 La progressiva eclissi della rappresentanza deriva, almeno in parte, dal peso dell’ordine giudiziario e dei pm in particolare. In uno scritto su Il Dubbio, l’amico Edmondo Bruti Liberati lamenta la mancata distinzione tra responsabilità politica per fatti eticamente riprovevoli e responsabilità penale. Si assisterebbe, di fatto, ad una scomparsa della responsabilità politica, con la conseguenza, ad esempio, che le dimissioni di un ministro verrebbero sistematicamente subordinate ad un accertamento della responsabilità penale da parte della magistratura, anche quando ben potrebbero trovare autonomo fondamento in un comportamento penalmente irrilevante ma riprovevole in termini di etica pubblica e, quindi, di responsabilità politica. Concordo sulla circostanza che responsabilità penale e responsabilità politica appartengano a ordini diversi. Quella politica è assai più estesa ed eventualmente riferibile, per i vertici, anche alle azioni dei subordinati in forza del rapporto gerarchico e, persino, alla scelta dei propri collaboratori. Quella penale deve tenere conto dei limiti costituzionalmente imposti dall’art. 27 comma 1 Cost., secondo cui “la responsabilità penale è personale”, ossia sussiste solo per il fatto proprio. C’è un punto però sul quale le nostre analisi divergono. A chi è imputabile la caduta della responsabilità politica? Bruti Liberati attribuisce la colpa alla politica che, incapace di sanzionare autonomamente questo genere di responsabilità, rinvia ogni decisione all’accertamento di reati da parte dell’autorità giudiziaria. Senza dubbio, la politica ha le sue colpe. Credo, tuttavia, che l’eclisse della responsabilità politica derivi, almeno in parte, dalla stessa magistratura; in particolare, da quella inquirente che tende a sovrapporre i due profili di responsabilità, allargando i contorni di quella penale sino ad ipotizzare reati là dove sussiste una responsabilità essenzialmente politica o amministrativa. Troppo spesso si dimentica che le disposizioni penali, specie a fronte di un diritto ipertrofico, devono soggiacere ad un principio di stretta legalità che precluda ogni lettura estensiva. Il fenomeno, naturalmente, non riguarda tutte le fattispecie, ma quelle che, nell’interpretazione giurisprudenziale, più si prestano allo sconfinamento della responsabilità penale in quella politica o amministrativa. Penso alle imputazioni per abuso di ufficio, dove spesso è labile il confine tra le due responsabilità; o a certe imputazioni per omessa vigilanza sui subordinati, talvolta formulate con automatismi poco compatibili con il principio costituzionale della responsabilità personale, che esige sempre una responsabilità colpevole, da verificare in concreto, come affermato dalla Corte costituzionale (sentenze nn. 364 e 1085/ 1988); e, per certi versi, anche al concorso esterno in associazione mafiosa, che la Corte europea dei diritti dell’uomo, senza batter ciglio, ha definito “une infraction d’origine jurisprudentielle”. Spero che la definizione sia erronea; altrimenti, ci si dovrebbe interrogare su come possa un reato, nel quadro costituzionale, trarre “origine” dalla giurisprudenza anziché dalla legge. È probabile, d’altronde, che le frequenti assoluzioni per certi reati siano legate al proliferare di imputazioni per una responsabilità che l’avanzare del processo spesso dimostra appartenente più all’ordine politico o amministrativo che a quello penale. La dilatazione dei reati in sede di esercizio dell’azione penale fornisce un alibi alla latitanza del potere politico nell’affrontare i temi del malgoverno su cui spesso interloquisce l’autorità giudiziaria; e, al tempo stesso, vittimizza gli imputati, pur colpevoli di condotte eticamente censurabili. In epoca di pan- penalizzazione la politica avverte come inutile fissare regole di comportamento etico, sanzionabili, ad esempio, con le dimissioni: all’espansione del penale corrisponde puntualmente la riduzione dell’eticamente riprovevole. Può così accadere che un deputato assolto, ma carico di gravi responsabilità politiche, sia “celebrato” in parlamento come martire dell’ingiustizia umana. Meno penale e più responsabilità politica o amministrativa: l’imperativo non è solo depenalizzare; serve anche il selfrestraint della magistratura nell’allestire le imputazioni, da mantenere negli stretti limiti della rilevanza penale. Citerò una frase di Georgina Dufoix, già ministro degli Affari sociali in Francia, accusata di omicidio colposo e poi assolta per il caso del sangue contaminato: “Je me sens profondément responsable; pour autant, je ne me sens pas coupable”. Credo che il senso sia all’incirca questo: “Sono pronta a rispondere delle mie azioni in termini politici, ma non riconosco in esse alcuna colpa che cada sotto una qualificazione penale”. “Responsabile, ma non colpevole” è la formula da quel momento divenuta celebre. Resta da capire come si sviluppi questa espansione delle imputazioni oltre la sfera della stretta responsabilità penale. La risposta è: attraverso lo strumento di cui dispongono giudici e pubblici ministeri e che nessuno può loro togliere, ossia l’interpretazione della legge, di certo non sopprimibile all’insegna dell’assurdo slogan “la legge non si interpreta, si applica”. Nessun magistrato sarà così ingenuo da ammettere apertamente di avere disatteso la legge, ma motiverà le sue scelte, per arbitrarie che siano, sotto la rassicurante veste dell’interpretazione. È, nondimeno, innegabile che esista un limite, superato il quale l’interpretazione cessa di essere tale e si converte nell’atto “creativo” di una nuova disposizione, quindi nell’invasione della sfera riservata al potere legislativo. Se non vi fosse una cornice che circoscrive i significati attribuibili ad ogni disposizione, perderebbe senso il principio stesso di soggezione alla legge. Ora, mentre la magistratura con le sue garanzie di indipendenza è, nel complesso, protetta dalle interferenze del potere legislativo o esecutivo, contro le interpretazioni “creative” della giurisprudenza, che di fatto svolgono una funzione legislativa, non esistono rimedi se non quelli “interni”, destinati a chiudersi con l’intervento della Cassazione cui spetta l’ultima parola. L’unico correttivo di cui dispone il legislatore è l’interpretazione “autentica”, raramente praticata, mentre sarebbe opportuno rivitalizzarla istituendo un organismo parlamentare di vigilanza sulla giurisprudenza. Dei tre poteri dello Stato il più forte è, in realtà, il potere giudiziario, a dispetto della Costituzione che lo qualifica come “ordine”; e in eccezionali contingenze storiche la sua “forza” si è anche rivelata utile. È ciò che, secoli addietro, aveva splendidamente illustrato Jules Michelet, il grande storico della Rivoluzione, deplorando la mancata riforma dell’ordinamento giudiziario: “Ogni potere ha bisogno del potere giudiziario; esso, al contrario, fa a meno degli altri. Datemi il potere giudiziario; tenetevi le vostre leggi, le vostre ordinanze, tutto quel mondo di cartacce; io mi incarico di far trionfare il sistema più contrario alle vostre leggi”. “Collaborare con la giustizia è sacrosanto, ma ha un costo molto alto” di Lorenzo Giroffi Il Foglio, 11 settembre 2023 Storia del pentito Niro e della sua famiglia. Ha tradito la mafia del Gargano rifiutando di uccidere un procuratore e ha chiesto aiuto allo stato, raccontando i segreti di un’organizzazione all’epoca ancora poco conosciuta. Ma rifarsi una vita è stata un’impresa e ora che Antonio non c’è più ne pagano ancora il conto la moglie e i figli. Ecco le falle nel programma di protezione per testimoni. È morto Antonio Niro, per gli intimi Nino. Da qualche tempo però questi non erano più il suo nome e cognome. Niro aveva cambiato identità dopo aver collaborato con la giustizia e scelto di diventare un pentito, costringendo la famiglia a entrare nel piano di protezione per testimoni. Una volta usciti dal piano, per lui, la moglie e i due figli sono arrivate le nuove identità. Ma anche molte difficoltà. La notizia della sua morte è una notizia perché a Niro si devono le prime rivelazioni su un’associazione criminale misteriosa, con un numero di pentiti bassissimo: Niro è stato tra i primi a collaborare tradendo la mafia del Gargano. Quella mafia fatta di famiglie che del vincolo di sangue fanno un testamento unico, dal quale si torna raramente indietro. Quando Niro decise di collaborare con la giustizia, la mafia del Gargano non poteva contare su alcuna produzione cinematografica, alcuna coscienza sul tema. Era considerata una criminalità locale, con qualche affare di terre e bestiami. Invece l’organizzazione poteva già contare sul traffico internazionale di stupefacenti, che è sempre stata la vera base economica per i cartelli del Gargano. La mafia in Puglia si riconosce nella denominazione di Società foggiana. Niro, durante i nostri incontri, mi ha raccontato degli appartamenti disseminati nel foggiano a disposizione della Società, delle schede sim che cambiava e della rete di fedelissimi che garantivano al boss Roberto Sinesi un ambiente tranquillo per i suoi affari. Niro era un affiliato del clan Sinesi. Era un corriere. Ma il traffico di cocaina a un certo punto non bastava più. A Niro venne chiesto di “stipare” - ovvero ammazzare - l’allora giovanissimo procuratore Giuseppe Gatti. Il magistrato stava mettendo sotto la lente d’ingrandimento gli intrecci tra appalti pubblici e clan. A Niro venne data una fotografia del magistrato, una Magnum 357 e l’ordine di ammazzare il sostituto procuratore in pieno giorno, di mattina, confidando sul fatto che Gatti non avesse scorta. Niro rifiutò e il clan gli si scagliò contro. Così chiese aiuto allo stato. Scontò in carcere quanto doveva ed entrò nel programma di protezione. La famiglia Niro iniziò la sequela di trasferimenti in città diverse, ottenne i documenti e i soldi per una nuova casa. Negli ultimi anni ho incontrato diverse volte Niro. Speravo potesse farmi capire su cosa si fondasse la solidità dei clan foggiani, spiegarmi le relazioni internazionali che le famiglie della Società hanno stretto con i narcotrafficanti albanesi e le connessioni che hanno in nord Europa. Ci siamo incontrati in alberghi di fortuna, in parchi pubblici e poi nella casa che era riuscito a ottenere per la famiglia. Da quel momento gli aspetti criminali della sua vicenda sono passati in secondo piano. Non era un Buscetta, anche se è stato molto utile alla magistratura italiana, nella sua carriera criminale non aveva avuto un grande peso. Era stato pedina di una mafia feroce e quello che poteva dire l’aveva detto. A incuriosire era però la sua vicenda umana. Da San Severo e i suoi luoghi di origine ha sempre ricevuto porte in faccia, è stato rinnegato. La stessa cosa è successa a sua moglie. Sono rimasti soli. Infami per gli affetti di un tempo e ormai liquidati dal piano di protezione. A un uomo con ormai tanti anni sul groppone e qualche acciacco fisico, avere una nuova identità non restituisce grandi opportunità. Nella nuova città Niro ha provato a reinserirsi. Lui e la moglie hanno fatto i lavori più disparati, ma senza continuità. Chi collabora con la giustizia ha dei benefici, una liquidazione per la nuova casa e il suo arredo. Ma il nuovo nome all’anagrafe non cancella gli errori del passato. Sulla nuova identità vengono caricati tutti i precedenti penali: il casellario giudiziario non viene ripulito e verificando le generalità i vecchi reati escono fuori dalla banca dati. Una zavorra nei colloqui di lavoro. Quando una qualsiasi azienda si ritrova dinanzi la possibilità di dover assumere una persona con reati così gravi, il più delle volte declina la candidatura. È successo a Niro, nonostante non si chiamasse più così. Per azzerare il casellario giudiziario esiste la procedura di riabilitazione, ma devono passare diversi anni dalla condanna definitiva e resta un percorso complicatissimo per chi non ha fondi, perché bisognerebbe risarcire tutte le vittime dei reati. Niro è morto improvvisamente lo scorso luglio, dopo essersi ammalato. Cosa succede a chi è entrato nel piano di protezione e poi ne è uscito? La moglie di Niro, la figlia e il figlio lo vivono ogni giorno. Negli stenti di un’esistenza che è cambiata nuovamente. Da quando è venuto a mancare il loro caro, la moglie L. e la figlia R. si sentono assediate. Forse sono solo suggestioni. Gente che le segue, paure di vendette trasversali. Le paranoie diventano sempre più reali visto lo stato di precarietà nel quale vivono. Si chiedono cosa sarebbe stata la loro vita se Niro non si fosse pentito. R. rivendica la scelta del padre. Ricorda quando andava a trovarlo in carcere e da bambina la mamma gli faceva credere che quello fosse il posto di lavoro del papà, quando a scuola le chiedevano come mai facesse confusione sul proprio nome. Lei ha sempre avuto ben in mente che il padre stesse facendo qualcosa di grande, per un cambiamento. È in collera con tutte le persone che continuano a chiamare il papà “infame”. Per lei ha fatto quello che si doveva: non uccidere un innocente e collaborare con la giustizia. L. sa che esponendosi, con quest’intervista, potrà essere vista con occhi diversi da chi incrocia nel palazzo nel quale vive, che non immaginano minimamente la loro storia. “Non m’importa del giudizio. Tanto sono rimasta sola, io con i miei figli. Voglio raccontare la nostra vita perché è quello che avrebbe voluto fare mio marito se non fosse morto. Mi sento come un pacco. Lo stato ci ha mollati dopo aver avuto quello che serviva alle indagini. Collaborare con la giustizia è sacrosanto, ma ha un costo molto alto”. L. si asciuga le lacrime alla fermata di un pullman. Prendiamo un notturno, ha l’aria condizionata. Un modo per far passare il caldo d’estate e far scendere la tristezza della vita così com’è. Lazio. Caos carceri: due detenuti morti in 24 ore, a Viterbo seconda rivolta in 4 giorni di Rinaldo Frignani Corriere della Sera, 11 settembre 2023 A Regina Coeli un recluso di 21 anni si è tolto la vita. Era affetto da scabbia. Al Mammagialla invece malore fatale per un detenuto durante la protesta, con aggressioni e incendio, da parte di sei marocchini, sedata con la forza. Un detenuto morto d’infarto, un altro salvato in extremis dopo aver tentato di suicidarsi. Sei reclusi marocchini che con altri scatenano il panico nel loro reparto, bruciando materassi nelle celle. Il carcere “Mammagialla” di Viterbo nel caos, dopo che giovedì scorso in cinquanta si erano già rifiutati di rientrare rimanendo nel cortile interno per tutta la notte. “A controllarli c’erano solo otto agenti della Penitenziaria, rimasti in attesa di ordini”, rivelano i sindacati di categoria, come il Sappe, con il segretario generale Donato Capece. Una situazione a rischio, che si inserisce in uno scenario drammatico negli istituti di pena del Lazio, all’indomani peraltro del ritrovamento nel carcere minorile di Casal del Marmo di dosi di droga e di un punteruolo, e delle notizie sulla prossima chiusura di Regina Coeli (dove ieri un recluso 21enne si è tolto la vita). A Viterbo la polizia penitenziaria indaga su quanto accaduto nella notte di sabato, con il 50° detenuto morto dietro le sbarre dall’inizio dell’anno. In questo caso in circostanze inquietanti, con aggressioni e addirittura dita staccate a morsi durante la protesta, sedata anche grazie all’intervento di agenti fuori servizio fatti rientrare al lavoro dalla direzione. “Il sovraffollamento e la cronica carenza di personale stanno compromettendo l’ordine e la sicurezza della sede - spiega Massimo Costantino, segretario generale della Fns Cisl Lazio -. A Viterbo su 343 agenti ne risultano effettivi 260, 201 dei quali solo in servizio”. Con oltre 600 detenuti a metà agosto quando i posti disponibili sono 440. E sempre per Capece “nel carcere di Viterbo non c’è controllo nel modo più assoluto”. Anche la Fns Cisl Lazio parla di “situazione sempre più drammatica nella casa circondariale di Viterbo”, costretta a fare i conti con “il sovraffollamento e la gravissima carenza degli organici”. Costantino chiede “urgenti e radicali interventi perché il personale è stremato e così non si può continuare. Basta con le passerelle, servono ora come non mai solo atti concreti. Dalle condizioni delle carceri si misura il grado di civiltà della nostra Repubblica ma non occorre dimenticare che chi opera nei penitenziari deve poter lavorare in serenità e questo non risulta ad oggi ed purtroppo non compreso da chi, invece, dovrebbe intervenire e risolvere la problematica”. Roma: Regina Coeli, detenuto si impicca. “Era in cella da solo con il sospetto di avere la scabbia” Il Dubbio, 11 settembre 2023 “La situazione nel Lazio, in cui sono detenute oggi oltre seimila persone è sempre più critica” dice il responsabile regionale penitenziario del Lazio, Maurizio Veneziano. Un detenuto di 21 anni si è tolto la vita ieri, domenica 10 settembre, nel carcere romano di Regina Coeli. “Il ragazzo era solo in cella con il sospetto di avere la scabbia” ne dà notizia il Sindacato autonomo di polizia, spiegando che “è stato vano il pur tempestivo intervento degli agenti” e chiedendo alle autorità l’attivazione di “un tavolo permanente regionale sulle criticità delle carceri”. “L’ennesimo suicidio di un detenuto in carcere dimostra come i problemi sociali e umani permangono, eccome, nei penitenziari, al di là del calo delle presenze. E si consideri che negli ultimi 20 anni le donne e gli uomini della polizia penitenziaria hanno sventato, nelle carceri del Paese, più di 25mila tentati suicidi ed impedito che quasi 190mila atti di autolesionismo potessero avere nefaste conseguenze” sottolineano. “Gli istituti penitenziari hanno l’obbligo di preservare la salute e la sicurezza dei detenuti, e l’Italia è certamente all’avanguardia per quanto concerne la normativa finalizzata a prevenire questi gravi eventi critici. Ma il suicidio di un detenuto rappresenta un forte agente stressogeno per il personale di polizia e per gli altri detenuti”. “La situazione nel Lazio, in cui sono detenute oggi oltre seimila persone è sempre più critica” dice il responsabile regionale penitenziario del Lazio, Maurizio Veneziano. “Il personale è sempre meno, anche a seguito di questi eventi oramai all’ordine del giorno. Il personale di Polizia Penitenziaria è allo stremo e, pur lavorando più di 10/12 ore al giorno, non riesce più a garantire i livelli minimi di sicurezza. Fino a quando potrà reggere questa situazione?”. Milano. Minori a rischio, gli educatori fuggono dalle comunità: “Lavoro duro e sottopagato” di Zita Dazzi La Repubblica, 11 settembre 2023 Don Rigoldi: “Per recuperare i ragazzi serve la formazione”. L’assessore Bertolé: “Tante le strutture del privato sociale che chiudono. Abbiamo 1.300 minori stranieri non accompagnati in carico, altri 300 per strada”. I ragazzi devianti escono ed entrano dal carcere Beccaria, scappano dalle comunità per minori, ma ora scappano anche gli educatori di questi centri specializzati nell’accoglienza degli adolescenti “difficili”. I ritmi di lavoro sono troppo pesanti, i problemi enormi e da gestire con poche risorse, le fughe all’ordine del giorno, gli arrivi continui, le storie sempre più drammatiche, le fedine penali già lunghe e le diagnosi psichiatriche pesanti. Bastano questi motivi a convincere anche il più motivato degli operatori sociali, dopo un po’, a mollare il colpo, a cercare un lavoro meno stressante e magari meglio retribuito. La presidente del Tribunale per i minorenni Maria Carla Gatto ha lanciato l’allarme sulla scarsità di strutture per accogliere i ragazzi che entrano nel percorso penale. Ragazzi italiani, ma sempre più spesso anche ragazzi migranti di seconda generazione, ai quali si aggiungono quelli non accompagnati che arrivano in Centrale ed entrano subito nella sfera della piccola delinquenza, dello spaccio. I numeri degli autori reati sono in crescita e i posti liberi nelle comunità in calo: la rete conta decine di indirizzi dentro e fuori il territorio comunale, i posti sono centinaia, alcuni anche per le emergenze, come nel centro di via San Marco, 30 letti. Ma l’assessore al Welfare di Milano, Lamberto Bertolé rilancia l’appello della presidente Gatto: “Abbiamo 1.300 minori stranieri non accompagnati in carico, altri 300 in strada, alla mercé della criminalità. Ci vorrebbero molti più posti nelle comunità, ma non ne troviamo: i nostri dobbiamo mandarli anche fuori regione, pur di trovar loro una sistemazione. Ma senza una redistribuzione sul territorio e più risorse per il welfare che consentano alle comunità di trovare operatori, non ce la facciano. Il governo deve ascoltarci e intervenire. Ormai è in crisi anche il privato sociale che gestisce i centri accreditati che lavorano in convenzione con gli enti locali. Il personale scarseggia. Le strutture chiudono. Gatto ha perfettamente ragione, ma se non ci aiuta lo Stato, il Comune da solo può poco da solo di fronte all’aumento dei reati commessi dai minori, che andrebbero accolti, seguiti con attenzione e aiutati a trovare una strada diversa”. È un problema che segnala dall’alto della sua vasta esperienza, anche don Gino Rigoldi, quasi 85 anni, fondatore di Comunità Nuova, da 50 anni cappellano del carcere Beccaria, uno che vive in comunità con 15 ragazzi stranieri, tutti nordafricani, come il ragazzo che ha adottato: “Le comunità hanno il grosso problema della carenza di educatori, ma anche quello di trovarne di super specializzati a stare in relazione con n giovani, una virtù che si conquista studiando, imparando giorno per giorno. Oggi per varie comunità conta più il regolamento che la relazione, l’unica chiave che serve per entrare in contatto coll’adolescente”. Don Rigoldi, che tutti i giorni entra in cella a parlare con i nuovi arrivati del Beccaria - presto incontrerà anche i due baby rapinatori 17enni arrestati ieri - racconta quale è la difficoltà oggi nella gestione di questi giovani: “Vengono da paeselli dell’Egitto o del Marocco, sono analfabeti, le loro aspettative sono diverse dalle nostre, sono venuti qui per guadagnare e il metro di misura che usiamo per gli italiani non funziona più. Infatti, io al Beccaria farò venire almeno due o tre Imam che lavoreranno con i ragazzi, che nell’80 per cento dei casi sono musulmani. E poi servono mediatori culturali per la lingua e per aiutarli a collocarsi mentalmente nel posto dove sono arrivati”, spiega il sacerdote, che con la sua Fondazione ha aiutato centinaia di ex del Beccaria a imparare un mestiere e a rientrare nella legalità, attraverso il lavoro. “Loro scappano dalle comunità perché sono caratteriali, perché pensano di perdere tempo dietro alle sbarre. Per aiutarli davvero occorre far fare loro corsi di formazione che li portino a trovarsi un impiego onesto, una volta scontata la pena. Mio figlio ha fatto cento chilometri nascosto in un camion e a piedi per venire in Italia: noi non ci possiamo nemmeno immaginare le storie che hanno alle spalle, le energie che possono incanalare in un modo positivo”. Muri che parlano di Barbara Marengo ytali.com, 11 settembre 2023 Paolo Aleotti è entrato nel carcere di Bollate. I detenuti gli hanno raccontato le loro storie, le loro riflessioni, le loro aspirazioni. Il risultato è un libro molto bello e istruttivo: “Che sapore hanno i muri”. Un sapore amaro, fatto di solitudine e smarrimento, ma anche di speranza ed opportunità, racchiuso assieme a mille sfaccettature nelle “lettere dal carcere” raccolte da Paolo Aleotti, giornalista di lungo corso, nel volume Che sapore hanno i muri (CasaSirio editore): decine di testimonianze raccontate da chi vive in regime di detenzione e eseguite dagli stessi detenuti e detenute. Uomini e donne carcerati che sono stati coinvolti dall’autore in una serie di iniziative, laboratori e interviste nel carcere di Bollate, che rappresentano uno spaccato umanamente potente sulla vita all’interno delle prigioni. “Aleotti è riuscito a scrivere di ciò di cui più spesso si tace”, afferma Luigi Manconi che con Marica Fantauzzi ha curato la prefazione del volume, in un confronto continuo tra la vita “dentro” e “fuori” tramite testimonianze dirette e spontanee. Il carcere di Bollate a Milano rappresenta un esempio all’avanguardia nel panorama carcerario italiano degli oltre duecento istituti detentivi dove sovraffollamento e disagio caratterizzano la vita dei detenuti. Iniziative che hanno portato l’autore a lavorare per mesi all’interno del carcere grazie all’intervento dell’associazione Antigone, da anni in prima linea a tutela dei diritti dei detenuti. Un viaggio all’interno del carcere, un mondo che visto da fuori rappresenta angoscia e castigo, svolto attraverso interviste e riprese televisive dai detenuti stessi, che mostrano e descrivono le differenti strutture del carcere, dalle attrezzature sportive alla scuola, dal cinema, la mensa, il ristorante, la sezione degli educatori, non certo un mondo libero e parallelo a quello esterno ma un luogo dove i detenuti vivono con dignità un percorso di riabilitazione prendendone coscienza. Marco, Giovanni, Alvaro, Gennaro, Marina, Simona, Ilinka, Celeste, si raccontano e s’intervistano reciprocamente narrando le loro vite “prima”, vite segnate da droga, rapine, spaccio, nomadismo e furti, delitti e reati di ogni tipo, ed alcuni affermano che tale carcerazione dopo la condanna è “opportunità per farci cambiare scala dei valori”, quando non perfino “libertà” acquistata dentro al carcere, dove il modello Bollate può essere vincente e d’esempio per riacquistare coscienza e ripagare il reato commesso. Non è, tale carcere, un villaggio vacanze: è un microcosmo sorvegliato dove anche il personale è però più rilassato, e se i detenuti possono coltivare l’orto, leggere e studiare, questo serve “a rinforzarsi” per affrontare il mondo fuori una volta scontata la pena. Un “fuori” che per molti, che usufruiscono di permessi lavoro all’esterno grazie all’articolo 21 della legge sull’ordinamento carcerario, rappresenta insicurezza, paura e incertezza, a contatto con la gente che giudica. Le interviste che i detenuti presentano con i loro nomi mettono in luce una ventaglio di problematiche che dentro un carcere si evidenziano, come la mancanza di intimità sessuale, le terapie farmacologiche per sedare le ansie, il rifugio nella preghiera per molti, i privilegi di alcuni, la dura legge della detenzione, l’aiuto dei terapeuti e dei fondamentali volontari, le amicizie con i compagni, le soddisfazioni del lavoro e la presa di coscienza che cultura ed istruzione sono mezzo fondamentale per la riabilitazione. Se il ristorante “In galera” sta ottenendo un buon successo, le attività radio e giornali interni fanno sì che si scoprano “nuovi talenti”: “Quando ti alzi la mattina e sei chiuso in una gabbia di cemento e ferro, o cerchi di trovare le possibilità e le risorse che hai, oppure finisce che il carcere ti mangia”, racconta Vincenzo, redattore del GR carcere. “Abilità di svilupparsi positivamente, reagendo alle sofferenze imposte dal destino”, questa è resilienza. Che anche nella sezione femminile trova appassionate seguaci, anche se le donne, molto meno numerose degli uomini, patiscono condizioni meno favorevoli e la lontananza dai figli. Problema di sofferenza, con alle spalle storie di dolore e tristezza, che hanno portato le donne in carcere: “tutto molto faticoso, devi arrivare a responsabilizzarti” affermano le detenute, che tentano di non spezzare il filo che le lega alla vita di “fuori” dove magari vivono i figli piccoli. Dramma attualissimo che nello scorso mese di luglio è sfociato nel suicidio di una detenuta nel carcere di Torino, Susan John, che chiedeva di vedere il figlio di quattro anni. I laboratori e le iniziative legate alle testimonianze raccolte da Aleotti hanno funzionato fino a prima del Covid 19. Successivamente, dopo una breve pausa, nella fase clou della pandemia, il Laboratorio Teleradioreporter, diretto da Aleotti, ha rpreso vita e continua convintamente, ogni martedì. “Avere il potere di decidere chi voglio essere”: in queste parole forse l’essenza della speranza di libertà che ogni detenuto sogna. Le tante Caivano d’Italia di Ottavio Ragone La Repubblica, 11 settembre 2023 Quante sono le Caivano di Napoli? E quante le Caivano d’Italia? Quante fabbriche di criminalità giovanile troviamo nell’area metropolitana e nel cuore stesso della nostra città, da Scampia a San Pietro a Patierno, dalla Sanità ai Quartieri Spagnoli? Sono tanti i rioni ghetto della cintura urbana in cui la camorra ara facilmente il terreno e cerca di sostituirsi allo Stato, offrendo protezione, denaro, lavoro sporco ma lavoro. La mentalità criminale, i codici della sopraffazione e della bestialità, la facilità all’uso delle armi, arrivano incontrollati attraverso lo smartphone e i social. Messaggi deviati esplodono nelle menti culturalmente fragili di un esercito di adolescenti e di genitori ancora più impreparati. Dunque non si può cancellare per decreto il problema delle periferie e del disagio giovanile. È un inizio certo, da qualche parte bisognerà pur cominciare. Ma è soltanto il primo tratto di strada. La stretta securitaria e repressiva non è la direzione migliore, se resta quella prevalente. Non risolve la complessità delle questioni, distribuite su più livelli, in campi diversi. Ogni giorno la rabbia di migliaia di ragazzi, il loro senso di esclusione e discriminazione, trovano alimento nel disastro urbanistico e sociale. Non è questione solo napoletana, la troviamo anche nelle periferie di Milano, Roma e di tante altre città italiane e del mondo, esplode negli anni ‘60-70. Ma qui il problema è molto più forte, urgente, complesso, rispetto al resto del Paese. C’è una ragione. Solo a Napoli il terremoto del 1980 - e soprattutto il flusso di migliaia di miliardi malamente speso per la ricostruzione - provocarono effetti sociali, economici e urbanistici così devastanti. L’ex sindaco Riccardo Marone ha scritto un articolo illuminante in proposito su questo giornale. La radice del male è lì, nelle tante Caivano sorte intorno a Napoli come una corona di spine. C’è il Parco Verde, dove il governo Meloni è intervenuto per decreto, nominando un commissario, stanziando trenta milioni, autorizzando l’assunzione di vigili urbani. E ci sono tante altre cattedrali del dolore, il Rione Salicelle di Afragola, la 219 di Melito, Taverna del ferro a San Giovanni a Teduccio, i casermoni squallidi di Barra, il lotto 0 e il Conocal di Ponticelli, la 167 a Secondigliano, il Piano Napoli a Boscoreale. Lì si vive in trappola. Troviamo scuole e centri sportivi in quegli insediamenti, ma non ci sono neppure ora, a distanza di oltre quarant’anni dal 1980 - gli insegnanti a sufficienza, il personale e i fondi per gestire tante strutture, piscine e palestre che difatti cadono a pezzi. Nelle bombe sociali ai bordi di Napoli e di tanti altri Comuni della provincia vive un’umanità isolata e chiusa in se stessa. Prigioniera di violenti e camorristi. Accadeva prima e succede ancora di più oggi. Alimentando l’emarginazione giovanile: un ragazzo che abita in questi rioni si sente estraneo al resto del mondo. Spesso prova un’ostilità che sconfina nell’odio. Gli altri, i più “fortunati”, diventano bersaglio di scherno e di provocazioni. O di atti criminali. I trasporti, in questi ghetti urbani, non ci sono o sono pessimi. Mancano negozi, cinema, campi sportivi, spazi per il divertimento che siano ben curati e manutenuti. E queste periferie non vivono solo intorno alla città, ma dentro Napoli stessa, nei quartieri dove storicamente la criminalità affonda le radici. È su questo disastro sociale che nessun governo di destra o di sinistra finora è mai intervenuto davvero. Napoli e il Sud non possono farcela, se non dentro una rete istituzionale forte, con risorse certe, nel quadro di politiche nazionali. I problemi sono enormi, come i fondi necessari. La crisi dell’economia ha impoverito il Sud e gli effetti, in queste zone già povere e discriminate, sono devastanti. Senza prospettive concrete di lavoro, ogni discorso sarà inutile. Ecco perché nessuno può tirarsi indietro. Qui come a Roma, ognuno ha il dovere di esercitare nel miglior modo il proprio ruolo, che sia un sindaco o un capo del governo. Ma è sotto gli occhi di tutti la malattia mai risolta del nostro Mezzogiorno, che trova nella ex capitale il suo punto di crisi. Finché avremo ministri che blaterano di autonomia regionale differenziata, senza una visione complessa del Paese e una risposta politica unitaria e solidale, soprattutto sul piano dello sviluppo economico, fin dove può arrivare un semplice decreto? Dunque nelle tante Caivano di Napoli, e in quelle di Milano e Roma e Palermo, bisogna avere asili nido e scuole a tempo pieno, dove i ragazzi entrano alle 8, vengono seguiti, si divertono facendo sport in strutture che funzionano davvero, ed escono quando ormai la giornata è alle spalle. E servono insegnanti, tanti, pagati adeguatamente rispetto allo sforzo che fanno in condizioni di tale disagio. E assistenti sociali per aiutare le famiglie in difficoltà: è vergognoso che a Caivano ce ne siano solo tre. E poi trasporti, pulizia delle strade, parchi ben curati, centri di formazione professionale e politiche serie di avviamento al lavoro. Un lavoro di lunga lena, richiederà anni. Ma bisognerà cominciare, senza mai mollare. Finché le nostre Caivano diventeranno, finalmente, Italia. Morire senza un’idea della morte di Elena Stancanelli La Stampa, 11 settembre 2023 Non sarebbe dovuto accadere. Molto semplicemente uno di quei sei ragazzi avrebbe dovuto dire non è possibile. Siamo troppi, è pericoloso. Ma questo non è successo, o almeno, se qualcuno di loro l’ha detto non è stato abbastanza incisivo e alla fine si è arreso. Salterei la questione dell’alternativa alla macchina, di come si potrebbe fare in modo che nessuno debba guidare dopo una serata dopo la quale, come minimo, si è stanchi. Eviterei anche di parlare di sanzioni, o reati, sulla cui inefficacia non mi pare ci sia alcun dubbio. Vorrei invece ragionare di trauma. Quando io avevo l’età di quei ragazzi avevo già avuto i miei morti. Come tutti, come in ogni epoca della storia. Droghe, aids, malattie ma soprattutto incidenti. A quell’età si muore soprattutto di incidenti, in moto, motorino, automobile. Io quei morti me li ricordo bene, me li ricordo tutti. E mi ricordo lo strappo che avevano provocato dentro di me. La scomparsa di qualcuno di sedici anni è una ferita insanabile per chi resta. Di più: è un dissesto nel disegno universale, un evento che può modificare per sempre la tua idea della vita. Quella cosa, quel dolore e quel senso di irragionevolezza, si chiama trauma. Ed è un fantasma, orrorifico, che ti si para davanti ogni volta che stai per compiere una sciocchezza. Perché sai, lo sai per esperienza diretta, che ci sono gli incidenti, e che si muore. E sai che cosa vuol dire morire, perché quella persona a cui volevi bene non c’è più. Non esiste un sistema più efficace di prevenzione della paura. Mi è capitato chissà quante volte di dire no, quella cosa non la faccio non perché sia sbagliata (cosa di cui, allora come adesso, non mi importa quasi niente) ma perché facendola avrei potuto morire. E io la morte la odio, non la posso accettare. Se non fossi salita su quella macchina, ieri sera a Cagliari, sarebbe stato soltanto per quella paura, perché davanti a me sarebbe apparso il fantasma della mia amica morta in un incidente d’auto. E quella paura è così efficace che supera la barriera dell’alcool, e di qualsiasi sostanza. Ho paura: non lo faccio. Che cosa è accaduto al trauma? Quando io avevo sedici anni il confine tra ciò che accade davvero e ciò che è solo immaginato era evidente. Da una parte le cose solide, dall’altra i sogni, l’arte, un film, un libro, un video gioco. Cose immateriali, ma racchiuse in un perimetro che permetteva di riconoscerle come arte, film, libri, video giochi. Adesso quel confine sta tra ciò che accade davvero e tutto il resto. Ed è sempre più sottile. Perché l’altro modo, quello virtuale, il cui fascino sta diventando infinitamente superiore a quello reale, preme fortissimo. E il rapporto di forza sta cambiando: molti passano dall’altro lato dello specchio molto più tempo di quanto non ne passino di qua. In quel mondo, quello di là dallo specchio, il trauma non esiste. Ogni volta che cadi a terra ti rialzi, se sbatti contro un muro fai marcia indietro e la macchina è aggiustata, se muori poi torni in vita. Non esiste nessuna esperienza, ovviamente, ma solo la rappresentazione dell’esperienza. Che non ha conseguenze. Ovvio che anche quei ragazzi e quelle ragazze hanno avuto i loro lutti di qua, nel mondo reale, ma è possibile che non si siano stabilizzati, non si siano piantati nella loro memoria. Perché il loro modo di pensare è diverso dal nostro, la loro porzione di irrealtà è infinitamente più grande della nostra. Dei loro corpi, unico antidoto all’assenza, spesso si dimenticano. Non è l’apocalisse, ma una rivoluzione della quale non riusciamo neanche a intuire i confini. Ma se vogliamo salvaguardare questa generazione dobbiamo fare in modo che recuperino i traumi. Li curiamo, li salvaguardiamo dal dolore (o almeno cerchiamo di farlo). E va bene, certo. Ma se non permettiamo loro che affondino nell’idea della morte, non saranno in grado di riconoscerla quando gli si presenterà davanti come l’errore fatale. Vicari: “I suicidi sono un’emergenza psichiatrica, soprattutto fra i bambini” di Maria Berlinguer La Stampa, 11 settembre 2023 Il professore del Bambino Gesù di Roma: “Aumentati i fattori di rischio, famiglie in crisi. Mancano gli asili e il sistema scuola è carente, l’età di chi si uccide è calata, siamo sui 15 anni”. “Siamo di fronte a una vera e propria emergenza psichiatrica, da molti anni i casi di tentativi di suicidio e di atti di autolesionismo sono in aumento, basti pensare che nel 2011 noi facevamo150 consulenze circa in pronto soccorso in psichiatria e nel 2021 siamo arrivati a 1.800. È un fenomeno che dura ormai da molto tempo e che con la pandemia ha avuto un’accelerazione ulteriore. I casi sono aumentati del 10 per cento”. Il professore Stefano Vicari, responsabile di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’adolescenza del Bambino Gesù certifica che la politica ha dimenticato la salute mentale dei ragazzi. Si è molto abbassata l’età dei ragazzi che si fanno del male. “I disturbi mentali sono sempre più frequenti tra i bambini, il suicidio è la seconda causa di morte tra i 10 e i 25 anni. Il suicidio era un fenomeno della tarda adolescenza, oggi siamo intorno ai 15 anni ma la più piccola che abbiamo ricoverato aveva 9 anni e si è defenestrata”. Perché ci sono molte più ragazzine che ragazzi? Le percentuali dicono il 90% dei casi... “Il tentativo di suicidio ha spesso alla base, nell’80 per cento dei casi, una depressione e la depressione è molto più frequente nelle ragazze che rispondono con ansia e depressione mentre i ragazzi spesso reagiscono con la rabbia”. Perché il Covid ha fatto impennare i disturbi? “Intanto la pandemia ha generato un forte stress per tutti. In genere in tempi di carestie e guerre aumentano i casi di psichiatria, i disturbi mentali. Per i ragazzi inoltre c’è un fenomeno ulteriore, ovvero le dipendenze che sono aumentate sensibilmente”. Quali sono le dipendenze maggiori tra i ragazzi? “Intanto sono sempre più i bambini che si avvicinano ai cannabinoidi, l’età di incontro ormai è la prima media. Noi sappiamo che gli effetti delle sostanze sono molto diversi se le usano gli adulti o i bambini. Questo aspetto molti genitori non lo capiscono, magari sono genitori che hanno sempre fatto uso di cannabinoidi e di droghe leggere. E poi c’è l’altra dipendenza importante dai i dispositivi, dalla rete, dai social network”. In che modo questa seconda dipendenza incide sulla psiche dei ragazzi? “In media i ragazzi passano sei ore al giorno davanti a un telefonino e sappiamo che questa dipendenza crea lo stesso fenomeno delle sostanze, ovvero l’assuefazione e la ricerca spasmodica di questo strumento se non è disponibile. Si attivano le stesse aree cerebrali che si attivano quando abbiamo una dipendenza da sostanza”. Sono aumentati i fattori di rischio? “Sì i ragazzi non si incontrano più, le famiglie vivono un momento di grande crisi anche perché spesso mamma e papà sono costretti a lavorare dalla 8 alle 20. E noi siamo un Paese dove mancano gli asili nido e il sistema scolastico è carente. E c’è da considerare che anche lo sport oggi è diventato solo competizione, non si gioca più a pallone in oratorio o in cortile si gioca per diventare un campione”. E la scuola? “Il ministero è stato ribattezzato ministero dell’Istruzione del Merito come se fosse fondamentale fare una selezione. Questo è un Paese per vecchi, se lei si va a rivedere i primi decreti di Conte durante il lockdown la parola bambino non compare mai, ci sono i cani ma non i bambini”. Che si può fare per prevenire il dilagare di questi fenomeni? “Io rimango stupefatto perché quando si parla di difesa della famiglia, penso a manifestazioni di piazza dove c’erano personaggi che adesso fanno il presidente della Camera, si spiega come deve essere composta, mentre si dimentica che ciò che conta è che ci siano persone che ti vogliono bene. Difendere la famiglia significa consentire ai genitori di poter stare a casa con i figli alle cinque del pomeriggio, e prima ancora garantire gli asili nido e le scuole”. Vergogna e orrore trionfano in Iran di Antonio Ferrari Corriere della Sera, 11 settembre 2023 Il regime, dimenticate le aperture del passato, è in preda alla ferocia per difendere la propria esistenza. Il coraggio delle donne che lottano contro abusi e violenze. L’Iran è uno dei Paesi del Vicino Oriente che amo di più. L’ho frequentato non so quante volte e ne ho vissuto quasi tutte le fasi più importanti. L’ultima volta vi arrivai, accompagnando il presidente greco, e scoprii le ultime sorprese. Una delle lobby più potenti del Paese è quella ebraica. Gli israeliti posseggono quasi tutti i grandi negozi, lungo il viale principale della capitale Teheran. Chiudono il venerdì e riaprono sabato sera. Anche in Parlamento sono potentissimi. Ma per aggiustare le nefandezze attuali del regime, precipitato nella vergogna e nell’orrore, ci vuole ben altro. Un tempo era vietato alle Donne di togliersi il velo. Naturalmente in pubblico. Una cara amica, vera artista, mi invitava a casa sua nella parte alta di Teheran, dove abitava l’elite della capitale. Veniva a prendermi in taxi. “Siediti davanti e non girarti. Pago io la corsa”. Arrivati davanti al portone la ragazza apriva con le chiavi e sull’ascensore salivamo al quinto piano. Entrati in casa, la ragazza si toglieva il velo e gli abiti castigati. Uno splendore di donna. Sembrava una modella spregiudicata. Trascorremmo così serate meravigliose. Mi auguravo che le promesse sulle condizioni e la protezione delle Donne fossero state realizzate. Pia illusione. Il regime, ripiegato sulla violenza più brutale per proteggere la propria sopravvivenza, ha raggiunto picchi di ferocia incredibili. Safa Aeli, coraggiosa e intrepida, pronta a tutto per difendere la sua gente, postava su Instagram una famosa frase: “Possono torturarmi, rompermi le ossa, anche uccidermi. Avranno il mio corpo senza vita, ma mai la mia obbedienza”. Aeli, 30 anni, è lo zio di Mahsa Amini, fratello della madre, ed è stato arrestato dalle squadracce del dittatore Khamenei che lo hanno portato in un luogo sconosciuto. Aeli, come ha raccontato sul Corriere della Sera la nostra eccellente inviata Greta Privitera, non ha mai nascosto la sua rabbia per la morte di Mahsa, ammazzata il 16 settembre 2022 dai calci e dai pugni del regime che intendeva punirla per una ciocca di capelli fuori dal velo. Quanto sta accadendo in questi giorni è davvero mostruoso. Quanto racconta con precisione e passione la collega Privitera, è un crescendo di brutalità. Pensate che il regime ha ammazzato 537 persone. Sempre Greta racconta le sevizie subite dalla giornalista Nazila Maroufian, arrestata per la quarta volta e prigioniera nel carcere di Evin: “Hanno abusato di me nelle peggiori condizioni, mentre venivo arrestata a casa mia”. Verità agghiacciante: le guardie violentano donne e uomini. Alle ragazze numerosi genitori, durante le visite in carcere, portano la pillola del giorno dopo, per evitare sgradevoli gravidanze. Eppure, dice Nazila, in sciopero della fame da una settimana, “lo faccio per il popolo iraniano e per tutte le Donne che soffrono. Chi non ne parla ha le sue ragioni per avere paura. Ma io, a 23 anni, non mi fermo”. Questa ragazza ha davvero un coraggio da leonessa. Merita un forte abbraccio.