Prevenire la delinquenza, non richiudere gli adolescenti in prigione di Carla Forcolin Ristretti Orizzonti, 10 settembre 2023 Il governo inasprisce leggi e pene per i minorenni che delinquono dopo fatti gravissimi attuati da giovanissimi. Fa sua la logica dei parenti delle povere vittime, che chiedono vendetta. Ma la vendetta, soprattutto in un paese cristiano, non è giustizia. Si è tutti d’accordo sul fatto che i ragazzi che commettono reati devono essere contenuti ed insieme educati, ma il contenimento non deve impedire l’educazione. Più una persona è giovane, più è duttile e l’idea che ragazzi di 15 anni siano ormai da trattarsi come i cinquantenni (che pure non vanno mai abbandonati) è un’idea da perdenti. I ragazzi di quell’età si possono ancora recuperare, con le uniche strategie educative che hanno dimostrato, dai tempi di Rousseau, di essere valide: coinvolgimento attivo, responsabilizzazione, risveglio di interessi sani in loro, costruzione di buoni rapporti tra coetanei e tra giovani e adulti, introspezione e gruppi di parola, potenziamento delle capacità espressive, studio e lavoro. Il tutto attuato alla luce di rapporti seri, anche severi, ma empatici e rispettosi. Chi sono questi ragazzi? Spesso sono figli di persone che vivono ai margini della nostra società, ragazzi che sono vissuti in piena povertà educativa, senza modelli positivi con cui identificarsi. Questo non li priva del libero arbitrio, ci sono figli della stessa famiglia che seguono strade diversissime tra loro. Devono capire il male che hanno fatto, magari entrando in contatto con le loro vittime o i familiari delle stesse. Devono capire che le loro azioni hanno delle conseguenze, sugli altri e su loro stessi, ma anche il punire le loro famiglie se non li mandano a scuola con il carcere sembra assurdo. Se si mettesse in carcere la madre di 4 figli perché non ne manda a scuola uno, che farebbero gli altri bambini? Ci vuole un vero impegno del Governo e dello Stato nel senso della prevenzione e della lotta alla povertà educativa. I bambini delle famiglie più in difficoltà vanno mandati all’asilo nido e alla scuola materna, e questa deve divenire obbligatoria; con i loro genitori si deve dialogare e si deve far vedere loro cosa imparano i bimbi e quali sono i loro talenti, perché si orientino nel senso di farli crescere anche culturalmente, dando loro quello che essi stessi non hanno ricevuto. La scuola deve essere concepita come un diritto, non un’imposizione! E la scuola, da sola, non può sostituirsi alla famiglia. Chi scrive ha fatto l’insegnante e ricorda ragazzini che si alzavano da soli e a scuola venivano per scelta, mentre la madre dormiva. Questo succede se la scuola è accogliente. Ai tempi avevo una preside che andava nelle case dei bambini inadempienti e li portava ad acquistare libri e quaderni … Ma voglio fare un esempio di progetto educativo per minorenni già affidati all’USSM, cioè ai Servizi Sociali del Ministero di Giustizia: il progetto “Arrampicare”, finanziato dalla Regione Veneto all’Associazione “La gabbianella”. Qui alcuni ragazzi selezionati dalle brave assistenti sociali dell’Ussm sono stati messi nelle mani di sapienti guide alpine, perché si confrontassero con uno sport che implica un mucchio di cose: acquisizione attenta di tecniche necessarie e quindi disciplina, collaborazione reciproca in cordata, coinvolgimento psicofisico, consapevolezza della propria paura e superamento della stessa nella fiducia verso le guide, contatto con la natura, soddisfazione, divertimento, autostima… la cosa ha funzionato e c’è stato chi è ritornato in palestra di roccia, durante l’estate, da solo, e chi ha lavorato e studiato insieme per recuperare il tempo perso. Un ragazzo in particolare diceva che le attività più belle della sua vita le aveva fatte in “messa alla prova”. Sembra che i ragazzi che hanno avuto esperienze positive ne escano rafforzati nel carattere e decisi a non delinquere più. L’idea che il carcere possa educarli meglio mi sembra davvero ridicola, il carcere è invocato per punire in questi casi, non per educare. Seguire i giovani che hanno commesso reati fuori dal carcere è senz’altro più utile per tutti, piuttosto bisogna aumentare il numero delle assistenti sociali, perché possano seguire, con maggior tranquillità, i loro assistiti uno ad uno con la loro sapienza e attenzione. Se non si lavora sull’educazione quando usciranno dal carcere saranno ancora più aggressivi di Vanna Iori huffingtonpost.it, 10 settembre 2023 Scegliere la strada sanzionatoria e punitiva, dal Daspo urbano alle sanzioni per i genitori, significa accettare l’ineluttabilità della condizione di chi abita quei luoghi e l’impossibilità di percorrere altre strade. Stiamo vedendo da troppo tempo l’aumento di una violenza minorile divenuta una emergenza che impone interventi per azioni concrete ed efficaci. Il disagio giovanile è un fenomeno drammatico e complesso che non si può affrontare soltanto in un quadro repressivo e sanzionatorio senza volerne comprendere le cause. La cronaca ci riporta ogni giorno i comportamenti, i gesti, gli atti che ci lasciano sgomenti o impauriti, ma innanzitutto occorre conoscere i vissuti che li hanno generati e cercare di trovare soluzioni, avendo ben chiaro che la risposta principale consiste nel costruire e condividere prospettive educative e preventive. Lavorare per sradicare le radici di questo fenomeno è complesso e non sarà sufficiente un blitz estemporaneo a favore di telecamera per are la sensazione di agire. Nella maggior parte dei casi i ragazzi che abbandonano la scuola vengono reclutati dalla criminalità e avviati allo spaccio, vivono in contesti degradati con famiglie fragili, povere e incapaci di sostenere ed educare i propri figli. Vivono in realtà dove spesso la criminalità organizzata riesce a sostituirsi allo Stato. E non è solo sanzionando o ricorrendo al carcere che si potranno dare opportunità a questi ragazzi: se non si lavora dentro le istituzioni penitenziarie per un recupero socio-educativo, quando usciranno dal carcere saranno ancora più aggressivi. Il card. Zuppi presidente della Cei, afferma: “L’inasprimento delle pene può essere un deterrente per affrontare una situazione che ha caratteristiche nuove, ma occorre investire ad esempio sulle carceri minorili, aiutare il reinserimento dei minori che lasciano gli istituti di pena, lavorando sulla giustizia riparativa, garantendo i mezzi e la continuità perché possa svolgere il suo ruolo”. Il grave problema dei reati e delle violenze dei e tra i minori si affronta con la prevenzione, con la presenza delle istituzioni: il nostro primo compito è agire per impedire che queste violenze accadano. Il termine “bonifiche” può rassicurare ma non dice la verità e cioè che le periferie sono state abbandonate dallo Stato e per questo sono diventate luoghi di paura, di rabbia, di violenza dove la povertà è il comune denominatore e le politiche sociali completamente assenti. Chi dovrebbe farsi carico della responsabilità di agire su questo contesto? Scegliere la strada sanzionatoria e punitiva, dal Daspo urbano alle sanzioni per i genitori, significa accettare l’ineluttabilità della condizione di chi abita quei luoghi e l’impossibilità di percorrere altre strade. Quale percorso educativo può esserci per un minore, nel momento in cui si facilita il suo ingresso in carcere? La punizione è un aspetto necessario e non va certo trascurata, ma senza una responsabilizzazione collettiva non basta. Una insegnante di Caivano ha detto una cosa fondamentale: l’esercito di cui hanno bisogno è fatto di insegnanti, educatori, assistenti sociali, operatori della cultura. C’è bisogno di costruire una comunità educante che offra opportunità e fornisca strumenti e servizi. Una comunità che lavori nel territorio per accompagnare le fragilità e dare risposte ai bisogni. Bisogna assumersi la responsabilità di contrastare le solitudini, di creare lavoro per famiglie che non lo hanno, di riqualificare le periferie. Il compito dello Stato è fare proposte, costruire servizi, investire sulla scuola, creare lavoro e non rispondere a ogni problema di ordine sociale con un decreto che inasprisce le pene. Compito dello Stato è riempire il vuoto che ha contribuito a creare, lasciando che si producessero contesti in cui mancano le condizioni minime per vivere in sicurezza e guardando con fiducia al domani. Tutto il resto significa accettare di aver fallito e voltarsi dall’altra parte. “Non abbiamo bisogno di più polizia, ma di normalità” ha dichiarato un preside di una scuola di Caivano, di illuminazione stradale, vigili urbani, messa in sicurezza della scuola, tempo pieno, mense, sport. Questo significa dire a quei ragazzi che il loro destino non è già segnato in modo inesorabile. E questo è il compito più difficile ma indispensabile: prevenire e dare opportunità concrete con la formazione, i servizi educativi, sociali, culturali che coinvolgano tutta la comunità e rendano a suo fondamento la dignità esistenziale e progettuale. “Prima del carcere serve l’inclusione” di Rosario Di Raimondo La Repubblica, 10 settembre 2023 Gli insegnanti dei ragazzi di San Siro, nella periferia di Milano, dove salvarli è una sfida. A venti minuti di metrò da piazza Duomo uno dei quartieri più complessi della città: case occupate, spaccio e aggressioni, ma anche una nuova generazione di rapper che cantano radici e speranze. La signora Francesca passeggia davanti al mercato comunale chiuso: “Vivo qui da quarant’anni ma oggi quando fa buio non vado a fare la spesa. Abito al piano rialzato, ho tolto le piante dal balcone perché i ragazzi ci nascondevano le bustine di droga”. Su un palazzo di via Paravia resiste la scritta “Welcome to San Siro” e in via Zamagna una denuncia sbiadita ricorda: “Questo era un asilo, è abbandonato da trent’anni”. Un quadrilatero di strade. Dodicimila abitanti, seimila case popolari, centinaia occupate o sfitte, aggressioni e spaccio, giovani che si sentono in un ghetto, integrazione difficile, la povertà e la rabbia nel rap del collettivo “Seven 7oo”, che canta le sue radici: “Abbiamo visto la fame”. Lo stadio e le ville da una parte, la scintillante City Life dall’altra, due linee del metrò, il tram che porta in Duomo in venti minuti. Eppure, in mezzo, c’è quella che con poca benevolenza viene definita una casba. Chi lavora qui, in avamposti per salvare generazioni altrimenti perdute, chiede un esercito: non in mimetica ma composto da insegnanti, educatori, mediatori. In via Zamagna 4, strada simbolo, don Claudio Burgio, cappellano del carcere Beccaria e anima dell’associazione Kayrós, gestisce uno spazio: “In un bilocale di Aler (l’azienda lombarda di edilizia pubblica, ndr) accogliamo ragazzi dagli 8 ai 20 anni. Organizziamo attività sportive, doposcuola, corsi. Sono giovani di seconda e terza generazione, spesso originari del Nord Africa, che vivono un conflitto con le famiglie. Sviluppano un forte sentimento di vittimizzazione, di ansia da prestazione, si sentono discriminati, vivono una frattura con le istituzioni. La povertà li porta a commettere reati. Il nuovo decreto nasce su un’onda emotiva ma risolve poco o niente. Prima del carcere bisogna aiutarli: se vivono nella povertà assoluta difficilmente si sentono parte della società. Il Daspo? I ragazzi vanno inclusi non esiliati”. I più grandi bevono un bicchiere al Baarebò, i fratelli minori girano in gruppo lungo gli stradoni, le facciate di alcuni palazzi cadono a pezzi, lì all’angolo ti consigliano il “miglior kebab di Milano”, dall’altra parte la gastronomia egiziana. Federico Bottelli, 28 anni, consigliere comunale del Pd, passeggia per il rione mentre gli operatori dell’Amsa liberano le strade da cumuli di rifiuti (che alcuni portano qui da fuori, come una discarica). Indica un palazzo di via Mar Jonio: “Il sottotetto è andato a fuoco tre volte per via di occupazioni e allacci abusivi. La situazione è drammatica perché negli anni la zona è stata abbandonata, si respira un sentimento di ghettizzazione. Ora sono in corso bandi di riqualificazione. Il decreto? Bisogna chiarire gli obiettivi: riempire le carceri o trovare soluzioni alla radice?”. Dietro una parete a vetro di via Gigante c’è “Off Campus”, progetto del Politecnico sorto grazie alla collaborazione con istituzioni pubbliche e private. Melissa Miedico, professoressa di Diritto penale in Bocconi, segue lo sportello legale: “La politica guarda ai prossimi quattro anni, ma dovrebbe guardare ai prossimi venti. Il Codice penale, quando il disagio è così profondo, non serve a risolvere i problemi. Ci vogliono welfare e scuola. Servizi sociali, educatori di strada, lavoro sulle famiglie. Abbiamo una richiesta altissima di doposcuola. E io ho visto come cambia l’approccio degli studenti: vuol dire trovarsi il lunedì mattina con i compiti fatti, alzare la mano quando la maestra chiede come si coniuga un verbo, i ragazzi entrano in classe con forza e dignità. Questo li tiene lontani dal mettere la maschera dei cattivi”. Per Annamaria Borando, quello che inizia è il decimo anno da preside al tecnico professionale Galilei-Luxemburg. Scuola di frontiera, 1.700 studenti. “Andare via da qui per me sarebbe uno sconforto. È una sfida, più di un lavoro. Abbiamo ragazzi che non hanno i soldi per la merenda o vengono a scuola con un cambio che lavano e rimettono il giorno dopo. Alcuni arrivano da situazioni difficilissime, allo sbando, sin da piccoli. Vivono in strada, sono adescabili dalle bande. Il primo passo è inserirli in una classe in cui i docenti li vedono con gli occhi della possibilità. La sfida è anche preparare i professori. Il decreto prende di petto un tema centrale: è innegabile che negli ultimi tempi la violenza sia in aumento. Ma a lungo termine serve un discorso di formazione e investimento su scuole e quartieri come il nostro”. Vicino a piazzale Selinunte, in un laboratorio comunale di quartiere, l’operatrice Carmen Gulap fa doposcuola: “È come lavorare a maglia, cerchi di tessere con le risorse che hai. C’è sempre qualcosa che manca: questa è la nostra metafora”. Qualche ora prima stava aiutando O., studente egiziano di seconda media, a fare i compiti. È entrato un papà senegalese con i suoi tre bambini, che non trovano posto a scuola. O., d’istinto, li ha “invitati” nel suo istituto, poco fuori dal rione: magari lì c’è posto. Poi ha sentito il bisogno di aggiungere: “Lì però ci sono tanti italiani”. Noi e loro, fin da piccoli, a venti minuti dal centro di Milano. Il fallimento della repressione di Nordio: niente è più debole del pugno di ferro di Alberto Cisterna L’unità, 10 settembre 2023 La minaccia della pena non realizza alcuna dissuasione. È una società, la nostra, che ha bisogno di rifondare il patto sociale che la costituisce. È chiaro che le opzioni sul campo sono poche. Una politica che voglia mitigare le preoccupazioni - se non le paure - dei cittadini di fronte alla violenza e all’insicurezza ha davvero scarsi mezzi a disposizione. Questa maggioranza, come altre in passato, ha scelto la via della repressione, del classico giro di vite anche verso i ragazzi. Magari fosse così verrebbe da dire, magari ci fosse una vera repressione, almeno si potrebbe vedere qualche risultato e qualcosa di più certo si potrebbe anche dire. Ma ormai - almeno dal 2008 in poi - la politica si è acquartierata nel recinto della sola minaccia della repressione; una minaccia spuntata, irrisa, inutile, manifestazione essa stessa dell’incapacità di porre soluzione alle incertezze più profonde della società. L’apparato statale offre l’immagine pericolante di un erogatore di servizi di pessima qualità (sanità, trasporti, scuola, giustizia, ma non solo), di prodigo distributore di denaro pubblico a pioggia senza una strategia di perequazione sociale. Una funzione statale degradata a questo livello genera anche una profonda disaffezione elettorale e crea un buco nero di disaffezione politica, amorfo, ondivago, capace di qualunque opzione, di alimentare qualsivoglia rigurgito, anche di acquistare a migliaia le copie del libro di un generale dell’esercito dalle idee bislacche. Il malgoverno di quella che potremmo definire genericamente la sicurezza urbana ha radici lontane, colpe sedimentate. Delitti connessi alla circolazione stradale, risse giovanili, movide incontrollate, spaccio capillare delle droghe, occupazione abusiva degli spazi pubblici e delle abitazioni popolari, degrado ambientale, accattonaggio minorile, aggressioni a sfondo sessuale, persino i femminicidi nella loro tragica dimensione di solitudine e abbandono delle donne minacciate sono cresciuti senza che si avesse una percezione precisa di come risolvere le tensioni che generano questa magmatica agitazione sociale. Intanto tutto confluisce in un gigantesco calderone che sta rendendo le città invivibili, le periferie pericolose, le stazioni ferroviarie infrequentabili, i mezzi pubblici luoghi di scorrerie ladresche, le scuole spesso un parcheggio per studenti storditi da notti spese sui social o per le strade, gli stadi un terreno di scontro. Per ciascuno di questi problemi la risposta in fin dei conti è sempre stata quella, la solita: un supplemento di repressione, la minaccia di pene esemplari, il tintinnio feroce delle misure di prevenzione, la sceneggiata delle perquisizioni a tappeto (quelle per blocchi di edifici, inventate dal ministro Cossiga in piena lotta al terrorismo), il solito Osservatorio presso il ministero dell’Interno. Nell’ultimo decreto il fenomeno da osservare è la “devianza minorile”. L’unica new entry è, da qualche tempo, il “commissario straordinario” - meglio se un militare o un poliziotto - soluzione che offre da sola la misura del fallimento delle amministrazioni pubbliche, della sterile sovrapposizione di competenze, della paralisi dell’inazione, dello scaricabarile. Niente di nuovo verrebbe da dire, anche per l’ultima iniziativa titolata a Caivano. Ieri nello stato dell’Alabama un ragazzo di 14 anni è stato condannato all’ergastolo per avere sterminato la propria famiglia. Pena esemplare che farebbe la felicità di molti in questo momento in Italia e, invece, l’episodio rende palese e irrimediabile il macroscopico fallimento delle politiche repressive, ben al di là delle stragi compiute da minorenni in scuole e campus degli Usa. Sta emergendo una realtà drammatica, radicale, imprevista: la pena, la minaccia della pena non realizza alcuna dissuasione, non previene, non evita, non inibisce. Delitti gravi, condotte assolutamente negligenti (sulle strade, per mare, sui luoghi di lavoro, persino sui binari di una ferrovia) sono consumate con assoluta disinvoltura, senza alcun freno, senza alcun calcolo per le conseguenze penali che potrebbero derivarne. È successo per ciascuno dei pezzi di quel puzzle in cui si scompone l’insicurezza collettiva in Italia. Dall’immigrazione clandestina alla violenza negli stadi, dalla guida stradale alla sicurezza sul lavoro, dallo sfruttamento dei caporali ai writer, dalle risse giovanili ai reati sessuali, da nessuna parte i proclami repressivi hanno conseguito risultati apprezzabili o hanno, per lo meno, mitigato la paura. Le “grida” penali restano inefficaci, inascoltate. Poi, quando le vittime sono mietute, il sangue scorre, l’ingiustizia urla vendetta, la macchina penale interviene e si pretende che dispensi pene esemplari, castighi immani, chiuda le celle per sempre. Le vittime, le loro famiglie sono state, così, collocate al centro della comunicazione, della rappresentazione degli eventi tragici; sono lo schermo dietro cui si cela una politica inerme che non sa far altro che solidarizzare, gridare alla barbarie, invocare durezza, poiché semplicemente non riesce più nemmeno a immaginare come poter prevenire, impedire, custodire. Il fallimento della scure repressiva è una questione particolarmente seria, perché è lo specchio del crescente sfaldamento della solidarietà sociale, dello sbriciolarsi dello spirito comunitario, dell’erosione dei valori fondanti la democrazia costituzionale. In una giungla le norme non esistono e l’unica legge è da sempre quella del più forte. È una società, la nostra (ma non solo), che ha bisogno di ritrovare, rifondare il patto sociale che la costituisce avendo la percezione netta che la più simbolica asimmetria di potere, rappresentata dalla sanzione, ha smarrito ogni capacità performante, ha perso ogni efficacia deterrente. Nulla di diverso dal modello che a questa società offrono gli Stati in questo momento della storia, in cui sanzioni e restrizioni non inducono alla pace e la guerra regola i rapporti di forza tra le nazioni. Baby gang, Nordio: “Giusta la nuova linea dura” di Mattia Zanardo Il Gazzettino, 10 settembre 2023 “Questo progetto è stato voluto dalla presidente del Consiglio dopo il viaggio in quelle aree, ma l’ho fortemente voluto anch’io da trevigiano, perché anche qui a Treviso, come in altre zone d’Italia, purtroppo assistiamo a un’invasione di baby gang dall’aggressività crescente”. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio ribadisce come le nuove misure urgenti varate dal governo per contrastare il disagio giovanile si estendano oltre Caivano e le zone limitrofe, da cui il decreto ha preso il nome. Lo stesso capoluogo della Marca non è purtroppo esente dal fenomeno, seppure con esiti naturalmente non altrettanti gravi, con gruppi di giovani e giovanissimi che, ricorda lo stesso esponente dell’esecutivo, “all’inizio si limitavano a liti tra loro, che già era una brutta cosa, poi hanno aggredito i passanti, di recente hanno aggredito anche le forze dell’ordine. Era dunque assolutamente necessario intervenire con misure preventive, ma anche con misure repressive”. Nordio, che ieri proprio nella sua città ha partecipato alla commemorazione dell’80° anniversario della chiusura del campo di concentramento di Monigo, riassume le caratteristiche chiave della normativa: la possibilità di ammonire i minori fino a 14 anni che si rendano protagonisti di comportamenti violenti e di punire quelli tra 14 e 18 anni, ma anche “la responsabilizzazione dei genitori, in vari modi, compresa la possibilità di togliere la potestà genitoriale”. Il responsabile del dicastero di via Arenula sottolinea la necessità di una prospettiva complementare che all’indispensabile azione educativa sui giovani, preveda anche sanzioni e pene. “Un decreto è sufficiente per eliminare questo fenomeno? Certo che no, come sempre la cattiveria e la stupidità umana non si controllano con le leggi, però occorre che lo Stato manifesti la propria presenza e che, accanto alle fondamentali misure educative, mostri anche una capacità repressiva per assicurare l’ordine pubblico e anche assistere le vittime di questi reati odiosi”. Anche per il sindaco Mario Conte il Decreto Caivano va nella giusta direzione, tuttavia il primo cittadino di Treviso insiste sul ruolo della prevenzione dei fenomeni di violenza giovanile. “É un intervento importante che dà degli ulteriori strumenti alle amministrazioni comunali e alle forze dell’ordine - spiega -. Però mi piacerebbe non dover utilizzare questo provvedimento: vorrebbe dire che abbiamo anticipato i problemi, educando e accompagnando in un percorso di crescita i nostri giovani”. Il massimo rappresentante dell’amministrazione comunale non sottovaluta come anche a Treviso, soprattutto in alcuni pomeriggio di sabato in città, si siano verificate situazioni critiche: “Per questo ringrazio il governo per aver colto il grido d’allarme dei territori - conferma - Però credo sia il momento di costruire un nuovo modello sociale che coinvolga le scuole le associazioni sportive, il volontariato. I nostri ragazzi passano troppo tempo nei social o davanti a uno schermo e troppo poco in un campo sportivo, nel palco di un teatro o di una sala musica”. Baby gang, il sottosegretario Ostellari: “Non solo carcere, il governo investirà in prevenzione” di Conchita Sannino La Repubblica, 10 settembre 2023 “Basta con le strumentalizzazioni. Rigore e umanità devono camminare insieme, per noi. Vogliamo puntare sulla prevenzione per la devianza dei ragazzi, ma senza rinunciare alla fermezza per chi si è macchiato di pesanti reati”. Eppure, Andrea Ostellari, lei è il sottosegretario con delega alla Giustizia minorile, uno degli artefici di questo Dl sulle devianze giovanili. E la vostra bandiera leghista è stata: più carcere per i minorenni... “Non è certo la nostra sintesi. Il primo obiettivo di questo provvedimento resta intercettare i minori prima che si brucino la vita e facciano del male ad altri. Scongiurare sul nascere possibili carriere criminali”. Ma la prevenzione, strumento numero uno, dov’è? “Scusi, l’ammonimento a cosa servirebbe, se non a prevenire? Serve proprio a coinvolgere le famiglie, eventualmente anche a sanzionarle: per evitare effetti a catena. Anche la messa alla prova anticipata va in questa direzione. Finora, ad esempio, un 14enne che commetteva reati bagatellari veniva costretto, per la lentezza del sistema, a riparare al danno in un tempo troppo lontano rispetto alla data del fatto delittuoso. Assurdo, questo vanificava l’idea stessa della rieducazione”. E ai dubbi espressi anche da Fi, cosa risponde? Mulè dice che i 12enni si vanterebbero dell’ammonimento... “I dubbiosi si sono quasi tutti tranquillizzati quando hanno letto il testo definitivo. E non credo che sarà un vanto per i 12enni. Di sicuro non lo sarà per i genitori, che rischiano pesanti sanzioni”. Chi delinque spesso è immerso in contesti segnati da abbandono, o da grave disagio... “Perciò il mio ragionamento è sempre stato: intanto assicurarsi che i ragazzi, a scuola, ci vadano. Invece il fenomeno dell’abbandono scolastico dei minori è in forte crescita. Fino a ieri la sanzione per i genitori era ridicola: trenta euro. Con questo decreto, andiamo colpire più duramente chi fa finta di niente. Poi, certo, serve tutto il resto: investimenti...”. Giudici ed esperti del settore minorile chiedono da tempo “tutto il resto”: più insegnanti, più educatori, più assistenti sociali, un vero monitoraggio sulle famiglie... “Possiamo essere onesti? Questo problema ha radici antiche e troverà soluzioni nel tempo. Ma è evidente che il carcere non può essere un’unica, incondizionata risposta. Anzi, posso annunciare, come ministero della Giustizia, che, con il capo dipartimento, il giudice Antonio Sangermano, stiamo individuando delle strutture per aprire delle comunità per minori gestite direttamente dallo Stato”. Uno sguardo lucido servirebbe anche sugli Istituti penali minorili: teatro di evasioni, raid, risse... “Intanto, un dato che allarma. Quando ho assunto la delega alla Giustizia minorile, dicembre scorso, i minori detenuti negli Ipm erano circa 320. Oggi sono 100 in più...”. È evidente che c’è un fallimento: occorrerebbero, proprio negli Istituti, più personale, più laboratori e formazione, più chance di recupero... “Occorrono personale e strutture, certo. L’evasione dal Beccaria di Milano, a Natale scorso, e quella successiva di Airola dipesero anche dai ritardi di alcuni lavori. Noi ora abbiamo consegnato il cantiere del Beccaria, riaperto l’Ipm di Treviso, ristrutturato Catanzaro. Entro un anno inaugureremo il nuovo Istituto a Rovigo, con ampi spazi per attività formative e di lavoro. E stiamo concludendo un concorso che consenta a tutti gli Ipm di avere un direttore e un comandante dedicati: figure fondamentali. Poi, bisogna intervenire su educatori e su luoghi alternativi alla detenzione”. “Liberi di Scegliere”, modulo sperimentato dal giudice Di Bella, per l’allontanamento di minori da contesti criminali: diventerà una vostra proposta di legge? “A Nisida, ho conosciuto ragazzini detenuti che preferiscono restare in Ipm piuttosto che tornare a casa. In alcuni casi, per le famiglie criminali, i figli sono manovalanza, avvelenati da quella cultura. Quindi, “Liberi di Scegliere” è un valido antidoto, contro coloro che privano i minori di un futuro di legalità e speranza” Don Gino Rigoldi: “Decreto Caivano? Slogan, fuori dalla realtà” di Alex Corlazzoli Il Fatto Quotidiano, 10 settembre 2023 “Torna la pedagogia della punizione, ma serve educare”: i pareri di chi lavora con i minori. Il giorno dopo la presentazione alla stampa del Decreto “Caivano” - che contiene norme, tra le altre, che rendono più facile il carcere per i minori, il Daspo urbano per i 14enni e la pena della reclusione per i genitori che non mandano i figli a scuola - il mondo di chi lavora con i bambini più fragili e con i genitori non ha parole di elogio per i provvedimenti presi dal governo Meloni. I più critici sono proprio i sacerdoti che conoscono il mondo dei minori che sono finiti dietro le sbarre e lavorano con loro da anni. Don Gino Rigoldi, cappellano del “Beccaria” a Milano è tranchant: “Questi signori che fanno i ministri abitano nei centri delle belle città e non hanno idea della realtà. Dopo la visita a un quartiere come quello di Caivano che è simile a certe zone di Milano, non si può pensare che l’unica soluzione ai problemi che si registrano in queste aree sia la punizione. Se sei nella deprivazione ti servono strumenti per emanciparti. Alla Barona, a Milano, da anni abbiamo un centro di aggregazione giovanile e lì non avvengono più fatti criminali”. Don Rigoldi guarda anche al tema sovraffollamento: “Nelle carceri minorili non c’è più posto. Dove pensano di metterli tutti questi nuovi baby criminali? Non voglio passare per buonista: è chiaro che bisogna puntare gli occhi anche sui reati fatti dai minori ma la strada da percorrere è quella della prevenzione”. Il prete che da una vita si dedica ai ragazzi più difficili analizza la situazione attuale: “Nell’Italia settentrionale abbiamo molti minori migranti in carcere. È gente che non è stata accolta ed è finita per strada, senza un permesso, senza un tetto. Vedo i reati della fame, al Beccaria”. D’accordo con lui è un altro sacerdote che conosce bene il disagio, don Antonio Mazzi. Il fondatore di Exodus si dice “sconvolto” dal provvedimento del Governo: “È da anni che dico che il carcere minorile va abolito e che vanno trovate soluzioni alternative. Ora dalla mattina alla sera, ci troviamo in un’Italia dove è tornata la pedagogia della punizione e non dell’educazione. È preoccupante questo cambiamento culturale messo in atto senza particolari reazioni da parte dell’opinione pubblica”. Don Mazzi pensa anche al reato di dispersione assoluta fino a ieri punito con una sanzione ed ora elevato a rango di delitto con la pena della reclusione fino a 2 anni: “Mentre chiediamo ai genitori di dialogare di più e meglio con la Scuola, la soluzione dello Stato è mandare in galera mamme e papà”. Durissimo su quest’ultima questione il pedagogista Daniele Novara: “Mi chiedo se fossero lucidi quando hanno pensato a questo inasprimento della norma per i genitori. I ragazzi che non vanno a scuola non sono solo a Caivano. Dopo il Covid il problema tocca anche molte famiglie del Nord. Dovranno a questo punto mettere in carcere una famiglia su venti. Stanno punendo coloro che hanno tenuto in piedi il sistema Italia durante la pandemia. Questo accanimento verso i genitori è incompatibile. A questo punto non so più quanto sia campagna elettorale e quanto sia azione governativa”. A dissentire con Meloni e ministri è anche lo psicoterapeuta Alberto Pellai, autore del noto libro L’età dello tsunami: “È un Decreto totalmente fuori luogo. Sul tema dell’abbandono scolastico l’unico approccio risolutivo è quello educativo. Avrebbe avuto più senso togliere la patria potestà”. Nemmeno Paolo Crepet, psicologo e psichiatra, plaude al provvedimento: “Sono contento che il Governo si occupi di giovani ma qui anziché parlare di comunità si parla di galera. Siamo di fronte a uno scivolone imbarazzante. Ma ci rendiamo conto che sono bambini? Se comunichiamo al mondo che abbiamo paura di loro, perdiamo ogni speranza”. Crepet non apprezza nemmeno l’incentivo all’utilizzo del Parental control contro i siti porno: “Questo strumento esiste da decenni. Non serve un Decreto per renderlo ufficiale. Mentre è legale che una ragazza metta su una piattaforma le sue foto più o meno vestita, questi parlano di parent control. Anche lo stop possibile all’uso del cellulare per i minori condannati è solo una boutade”. Nordio e l’asse con Renzi e Calenda: così il guardasigilli inizia finalmente a fare politica di Valentina Stella Il Dubbio, 10 settembre 2023 Il ministro incassa l’ok sul ddl penale e promette di intervenire alla festa del partito dell’ex premier. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio inizia davvero a fare il politico? Dopo mesi durante i quali è stato spesso contestato perché da alcuni è stato ritenuto non solo incapace di tradurre le idee di saggista liberale in vere strategie politiche, ma anche di non sapersi imporre con le forze di maggioranza che lo hanno fatto prima eleggere e poi nominare con forza Guardasigilli, ora l’ex magistrato veneziano sembra voler essere entrato nel campo dei giochi politici. Come? Guardiamo a due fatti. Il primo: come raccontato su Repubblica la scorsa settimana da Liana Milella, il Guardasigilli ha incontrato a Via Arenula, su loro richiesta, gli esponenti di Azione Carlo Calenda e Enrico Costa, dove sarebbe stato siglato un patto per cui l’ex magistrato avrebbe il loro pieno appoggio sul suo primo disegno di legge, che comprende, tra l’altro, l’abolizione dell’abuso di ufficio, riforma del rapporto stampa/ intercettazioni, collegio di giudici per misure cautelari. Dall’altra parte il responsabile giustizia di Azione ha chiesto l’approvazione, entro la fine dell’anno, dei decreti integrativi sulla presunzione di innocenza, il divieto di pubblicazione dell’ordinanza di custodia cautelare, il ritorno alla prescrizione di Orlando, un reale e severo fascicolo di valutazione del magistrato. Il secondo fatto: il Guardasigilli sarà ospite della prima giornata della festa nazionale di Italia Viva che si terrà dal 14 al 17 settembre al Castello di Santa Severa, vicino ieri il leader di Iv Matteo Renzi nella sua Enews settimanale. Penserete: Nordio non si lascia scappare un evento, non sembra essere questa una notizia. Invece potrebbe essere l’ennesimo segnale che il magistrato in pensione, incassata la blindatura sull’abolizione dell’abuso di ufficio - che dovrebbe arrivare a dama come confermato anche a questo giornale in una intervista a Sergio Rastrelli, senatore di Fratelli d’Italia e segretario della commissione Giustizia di Palazzo Madama - vuole cercare solide alleanze anche nell’ex Terzo Polo e portare a casa quanto prima alcune delle riforme di stampo garantista. I calendiani e i renziani hanno sin da subito garantito il loro appoggio a Nordio pur stando all’opposizione ma negli ultimi giorni stavano mostrando un po’ di insofferenza. La rotta andava invertita. Fino ad ora il ministro ha parlato molto e incassato nulla: ora è tempo di concretizzare per non essere ricordato nel bilancio del primo anno solo per aver sottoscritto paradossalmente riforme contrarie al suo pensiero. Nordio è consapevole che sulla separazione delle carriere occorre tenere il freno a mano tirato. Lo dimostra, ad esempio, il fatto che, da quanto appreso, le audizioni in Commissioni Affari Costituzionali alla Camera termineranno entro Natale, essendoci di mezzo anche la legge di bilancio, e non si riesce ad immaginare quando sarebbe pronto un testo base. Poi potrebbe arrivare addirittura un dl congegnato dai fuori ruolo di Via Arenula a rallentare il processo. Però due giorni fa Renzi ha dichiarato: “Noi non appoggeremo il governo e non voteremo la fiducia. Su due punti, le riforme istituzionali e la riforma della giustizia, se la Meloni non fa retromarcia anche su questo, noi è certo che siamo a favore dell’elezione diretta del premier e della separazione delle carriere”. Dunque Italia Viva non farà mancare il suo appoggio. E pure sulla prescrizione il percorso è stato stoppato per ora in Commissione Giustizia sempre di Montecitorio perché la Lega ha deciso di presentare proprio nel giorno in cui si sarebbe dovuto votare un testo base una propria proposta di legge. E non senza malcontento: perché, da quanto appreso da nostri fonti parlamentari, l’idea sarebbe arrivata e il testo elaborato dalla senatrice Giulia Bongiorno, la quale vorrebbe intervenire per aumentare i termini di prescrizione per i reati relativi alla violenza di genere. Questa ingerenza della senatrice, seppur responsabile giustizia del Carroccio, avrebbe creato malumori tra i suoi colleghi della Camera, non solo della Lega. In tutto questo scenario Nordio vuole costruirsi una solida rete di alleanze a partire da Forza Italia, proseguendo con Fratelli d’Italia e adesso accertandosi della cooperazione dei divorziati Calenda e Renzi. Davigo e Coppi bocciano insieme le riforme di Nordio di Vincenzo Iurillo Il Fatto Quotidiano, 10 settembre 2023 L’ex avvocato di Berlusconi e l’ex pm di Mani Pulite concordano: le scelte della maggioranza non risolvono i problemi dei tribunali. A richiesta di parere sull’operato del ministro di Giustizia, Franco Coppi risponde: “Conosco bene le norme sulla diffamazione”. Applausi e risate in platea. Stessa domanda a Piercamillo Davigo: “Mi associo”. Altri applausi. Carlo Nordio riesce a far toccare gli opposti. L’avvocato dei potenti, degli imputati eccellenti (Berlusconi e Andreotti, solo per citarne un paio), e il pm di Mani Pulite, il magistrato anticorruzione per antonomasia, uniti nel giudizio tranchant su Nordio, sollecitati dalle domande di Gianni Barbacetto e Valeria Pacelli. L’occasione è la festa del Fatto e il dibattito sullo stato della giustizia. Uno stato comatoso, anche su questo l’accordo è unanime. E la riforma cotta nelle cucine di Via Arenula e approvata in Consiglio dei ministri pare un rimedio inutile, quasi dannoso. A cominciare dall’abolizione dell’abuso d’ufficio. “L’hanno messa in cima alla riforma ma è una cosa che non serve a nulla - sostiene Coppi - rientrerà nella prassi come corruzione”. Davigo ricorda che è stata chiesta dai sindaci, la famosa “sindrome della firma” che paralizzerebbe le amministrazioni pubbliche. “Non facessero i sindaci se hanno paura di firmare: l’abuso d’ufficio per come è in vigore oggi è sostanzialmente simile all’articolo 19 di una convenzione Onu e se lo abroghiamo saremmo uno dei pochi Stati a uscirne, e gli Stati che escono da quelle convenzioni si chiamano Stati canaglia. Alle ultime Amministrative si sono candidati in 80mila, di quale sindrome della firma parlano?”. Barbacetto insiste più volte su un tema: c’è continuità o no con l’era berlusconiana in cui era normale contrapporre giustizia e politica? “Questa fase dovrebbe essere finita, dovremmo avere un governo più neutro, ma mi chiedo: c’è rottura tra lo ieri di B. e l’oggi di Meloni?”. Si prova a trovare una risposta affrontando questioni concrete di (mal)funzionamento della giustizia e di come questo governo intenda affrontarle. Il decreto Caivano, ad esempio, ricorda Pacelli “appare come un decreto securitario”, poi però la cronaca e le indagini sull’ex senatore Verdini libero di incontrare politici nonostante stesse scontando una condanna definitiva, ci ricorda che per i colletti bianchi esiste un doppio binario: “La giustizia non è uguale per tutti, vero”? Davigo annuisce: “È così in tutti i Paesi: i più ricchi hanno gli avvocati migliori, o possono scappare all’estero, i poveri non possono e spesso non sono molto intelligenti e si fanno arrestare in flagranza”. C’è una carenza di deterrenza: “Abbiamo un codice che ha massimi spaventosi e minimi risibili: in caso di furto di tre automobili, con due aggravanti, la pena massima può essere 30 anni, la minima 4 mesi e 2 giorni. Sbaglia il legislatore che investe il giudice di una discrezionalità così ampia”. Lavoriamo per una giustizia più veloce, il mantra di ogni governo. Prevedere un collegio di tre giudici per arrestare un indagato va in quella direzione? La risposta di Coppi è negativa: “È un’altra cosa fatta all’italiana. Salvo che non si voglia procedere con effetto sorpresa, non si ricorre al collegio per i reati più gravi, quando la logica richiederebbe il contrario”. E poi dove stanno tutti questi magistrati? “Non so come si farà nei piccoli tribunali a trovarli, per evitare successive incompatibilità nei gradi successivi. È una riforma che allungherà i tempi della giustizia e complicherà la vita dei piccoli tribunali. Ma l’importante è buttare una proposta e poi si vedrà”. I problemi però iniziano da lontano, secondo Davigo, dal codice approvato nel 1989: “Lo commentai come Fantozzi con La Corazzata Potemkin: “Una boiata pazzesca: l’attività di indagine non entra nei processi, la cui durata si triplica, si costringono i poliziotti a rileggere in aula atti già a disposizione nel fascicolo del pm. Questa è una garanzia o una idiozia?”. L’Anm si spacca sulla separazione delle carriere: Md non vota il documento sottoscritto da Mi, Area e Unicost di Valentina Stella Il Dubbio, 10 settembre 2023 Ça va sans dire che tutte le correnti sono contrarie al provvedimento ma è sui metodi di comunicazione che non hanno raggiunto l’accordo. Anm non compatta contro i disegni di legge riguardanti la separazione delle carriere e in discussione alla Commissione Affari Costituzionali della Camera. Durante il Comitato direttivo centrale infatti Magistratura Democratica non ha votato il documento sottoscritto dagli altri gruppi - Magistratura Indipendente, Area, Unicost. Facciamo un passo indietro: come ipotizzato l’argomento è stato al centro di un’ampia discussione da parte delle toghe riunite nella loro sede a piazza Cavour. Gli argomenti contrari sono stati sempre gli stessi, a partire dal fatto che il pubblico ministero finirebbe sotto il controllo dell’Esecutivo, verrebbe fortemente ridimensionato il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, per poi proseguire con le gravi conseguenze che comporterebbe l’abrogazione del terzo comma dell’articolo 107 della Costituzione per cui “I magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni”. Ma al di là del merito, si è poi dibattuto delle azioni concrete da mettere in atto sul piano politico e informativo per contrastare l’obiettivo prefissato da un’ampia maggioranza in Parlamento, con la stampella di Azione e Italia Viva. Ed è qui che sono nate le polemiche. Diciamo la verità: la magistratura non è in grado di comunicare bene. Le toghe sono lente a partorire un comunicato perché devono stare attente a mantenere in piedi mille equilibri, usano troppo tecnicismi, non conoscono il pubblico che hanno davanti, sono poco performanti e alcune volte anche ingenue quando parlano con i giornalisti. Ne sono consapevoli ma non sono in grado di invertire la rotta. E tutto questo è emerso nel dibattito e nelle divergenze che si sono create tra MI, Area, Unicost da una parte e Md dall’altra. Ça va sans dire che tutte le correnti sono contrarie alla separazione delle carriere ma è appunto sui metodi di comunicazione che non hanno raggiunto l’accordo. Al termine del quinto punto all’ordine del giorno quasi all’unanimità è stato approvato il seguente documento, dal titolo “Cavallo di Troia”, elaborato essenzialmente da Mi con l’integrazione finale di Area, in una strana ritrovata sintonia: “L’Anm esprime grande preoccupazione per i contenuti dei disegni di legge in discussione dinanzi alla Commissione affari costituzionali della Camera di deputati che, nel riprodurre fedelmente la proposta di iniziativa popolare presentata dalle Camere Penali nella XVII legislatura, rivelano, al di là dei propositi annunciati nelle relazioni illustrative, l’intento di assoggettare tutti i magistrati, giudici e pubblici ministeri, al potere politico”. E allora che fare per evitare tutto questo? “Il cdc invita tutti i magistrati associati a partecipare attivamente al dibattito pubblico sulla riforma della giustizia e invita le Ges a promuovere iniziative sul territorio, organizzando convegni aperti alla società civile e incontri con esponenti del mondo accademico, dell’avvocatura e dell’informazione. Sollecita le competenti Commissioni dell’Anm a predisporre schede tecniche che possano essere di ausilio anche alle attività di informazione delle Ges. Si impegna a promuovere ogni altra forma di comunicazione anche attraverso i suoi organi rappresentativi e si riserva di deliberare tutte le ulteriori iniziative necessarie a sensibilizzare l’opinione pubblica”. Tutto questo funzionerà? Lo abbiamo visto proporre già altre volte, in altre occasioni come quella della riforma Cartabia, ma poco o nulla è stato fatto. Comunque i 101 si sono astenuti perché, come ci ha spiegato Andrea Reale, “il documento aveva previsto espressamente contrarietà al sorteggio come modalità di selezione dei componenti togati previsto da qualcuno dei ddl di riforma costituzionale. Abbiamo chiesto di emendare il testo previa soppressione di quella parte ma la maggioranza del Cdc ha bocciato il nostro emendamento. Non ci è restato che votare contro. Abbiamo già approvato all’unanimità a febbraio un documento contro la separazione delle carriere”. Non hanno votato a favore, come anticipato, quelli di Md e il perché lo ha spiegato Stefano Celli: “se sui principi siamo tutti d’accordo, crediamo che l’Anm con il documento approvato non individui le azioni concrete, i passaggi effettivi, efficaci per far conoscere i veri obiettivi del disegno restauratore, ma anche per far comprendere ai cittadini le concrete ricadute delle modifiche costituzionali sulla loro vita sociale, sui loro diritti, sulle loro libertà, ricadute sul breve e sul lungo periodo. Avremmo voluto sapere: domani di concreto cosa fa l’Anm? Le faccio un esempio: una cosa è dire “domani vado dal notaio e ti vendo la casa”, altra cosa è dire “domani vado in agenzia e le chiedo di vendermi la casa”. Magistratura democratica avrebbe voluto aggiungere al documento l’istituzione di una “Commissione temporanea di cui facciano parte almeno tre membri del CDC con funzioni di coordinatori” per perseguire i seguenti obiettivi: “raccogliere i materiali già esistenti relativi ai principi costituzionali vigenti, alla loro portata, alle loro implicazioni; indicizzare i materiali e inserirli in un sistema che ne consenta agile individuazione e accesso, mettendoli poi a disposizione su una piattaforma accessibile agli associati e al pubblico; individuare per ciascun distretto uno o più referenti, per facilitare il collegamento fra la base degli associati e la commissione; costituire il supporto tecnico della Gec e del Cdc in vista della partecipazione al dibattito pubblico”. Questa proposta emendativa è stata però bocciata dalla quasi maggioranza del Cdc e in Md rimane il timore che se si dovesse arrivare al referendum sulla separazione delle carriere la vittoria dei favorevoli sarà scontata perché vincerà lo slogan delle Camere Penali per cui “l’arbitro non può indossare la stessa maglia di una delle due squadre in campo”. Dinanzi a tale slogan, la preoccupazione è che l’Anm non sarà in grado di essere altrettanto incisiva e il dibattito ridotto solo a quello slogan l’avrà vinta. Ma perché le altre correnti non hanno votato a favore dell’emendamento di Md? Siamo riusciti a raccogliere il commento della vice presidente dell’Anm Alessandra Maddalena, esponente di Unicost: “l’istituzione di una Commissione speciale avrebbe rappresentato un’inutile superfetazione degli organi dell’Anm già previsti dallo Statuto. Abbiamo ritenuto doveroso il coinvolgimento attivo dell’intero Comitato direttivo, di cui fanno parte tutte le componenti associative, invitando al contempo le giunte locali ad attivarsi sul territorio, con l’organizzazione di convegni aperti alla società civile e momenti di confronto con esponenti del mondo accademico, dell’avvocatura e dell’informazione. Abbiamo chiesto anche la collaborazione delle commissioni di studio permanenti già esistenti in Anm per la predisposizione di idoneo materiale informativo per sensibilizzare l’opinione pubblica. Auspichiamo una partecipazione estesa di tutti i magistrati, anche non associati. Tutto questo rendeva inutile la creazione di un ulteriore organismo non previsto dallo Statuto”. Alcune però, tra le toghe, si chiedono ancora: per qualcuno è scontato che alla fine in Parlamento, nonostante questa ampia maggioranza, non si farà nulla sulla separazione delle carriere, quindi perché impegnarsi troppo? Il posto dei malati psichici non è il carcere: la Cedu contro l’Italia di Stefano Baudino L’Indipendente, 10 settembre 2023 I giudici della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo hanno ordinato al governo italiano di interrompere la detenzione di due persone recluse nella casa circondariale di San Vittore e di collocarli in un luogo di cura. I due, infatti, sono “non imputabili”, poiché afflitti da gravi disturbi psichici. Se le istituzioni italiane non procederanno, l’Italia rischierà una condanna per violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo, che proibisce il trattamento o pena disumano o degradante. La Corte aveva accolto negli scorsi giorni le richieste di ingiunzioni cautelari prodotte dalle avvocatesse Antonella Calcaterra e Antonella Mascia, insieme al giurista Davide Galliani. Uno di questi casi concerne la situazione di un soggetto albanese 46enne, certificato invalido civile “al 100%”, come scritto nell’istanza presentata alla Cedu. I suoi genitori, che vivevano insieme a lui, nell’autunno dell’anno scorso lo avevano denunciato per maltrattamenti e lesioni: l’uomo era quindi stato allontanato dalla sua abitazione dopo la richiesta della Procura. In seguito a una lunga serie di violazioni del divieto di avvicinamento, “causate anche dall’assenza di altri luoghi dove recarsi”, in particolare “per ripararsi dal freddo della notte”, i magistrati hanno disposto la misura cautelare in carcere. Poi, nel gennaio 2023, in base a quanto certificato da una consulenza medica che lo inquadrava come soggetto “incapace di intendere e di volere”, hanno ordinato il suo inserimento all’interno di una comunità terapeutica. Proprio in riferimento a questo passaggio è emerso il primo “scoglio”, poiché non è stata trovata nessuna comunità pronta ad ospitare l’indagato, che dunque non ha potuto lasciare il carcere. Dopo aver dichiarato il “non luogo a procedere” poiché l’uomo era “non punibile per vizio totale di mente”, lo scorso maggio il Gip ha poi indicato il suo inserimento in una Rems, ovvero in una struttura sanitaria di accoglienza per gli autori di reato affetti da disturbi mentali e socialmente pericolosi, subentrata dal 2017 agli ospedali psichiatrici giudiziari. Ancora una volta, però, non è stato dato seguito alla misura: mancavano i posti a disposizione. Il secondo caso oggetto della pronuncia della Cedu è molto simile al primo. Riguarda un cittadino italiano di 40 anni, che lo scorso marzo è stato assolto dall’accusa di maltrattamenti ai danni dei genitori in quanto non imputabile per “vizio totale di mente”. Il giudice delle indagini preliminari ha provveduto a ordinarne la scarcerazione, a causa della grave patologia e della pericolosità sociale dell’uomo, e l’inserimento in una Rems. In cui, però, non ha potuto essere ospitato per carenza di posti. L’applicazione concreta delle norme vigenti in materia di Rems, in Italia, è stata oggetto di moltissime criticità. A sancirle è stata, nel 2022, una sentenza della Corte Costituzionale, che ha parlato di “numerosi profili di frizione con i principi costituzionali”, rispetto a cui si invitava il legislatore ad intervenire “al più presto”. Dall’istruttoria era infatti emerso che vi erano tra le 670 e le 750 persone in lista d’attesa per l’assegnazione di una Rems, molte delle quali autrici di reati gravi e violenti, ma i tempi medi per l’ingresso erano inquadrati in circa 10 mesi. La Corte ha attestato come il sistema abbia dei “gravi problemi di funzionamento” che comportano la lesione dei diritti degli ospiti delle Rems, tra i quali anche il diritto alla salute, poiché i malati non ricevono “i trattamenti necessari” per “superare la propria patologia e a reinserirsi gradualmente nella società”. Dichiarare illegittima l’intera normativa delle Rems, tuttavia, secondo la Corte avrebbe portato alla integrale caducazione del sistema”, che “costituisce il risultato di un faticoso ma ineludibile processo di superamento dei vecchi OPG”, con un conseguente “intollerabile vuoto di tutela di interessi costituzionalmente rilevanti”. I giudici hanno quindi invitato a una complessiva riforma del sistema. A cui però, fino ad oggi, il Legislatore non ha dato seguito. Calabria. Il carcere del futuro deve dare più dignità di Luca Muglia* Avvenire, 10 settembre 2023 È abbastanza frequente che nei mesi estivi si parli di carcere. L’attenzione si focalizza sulle emergenze - aggressioni, suicidi, sovraffollamento, carenze sanitarie, mancanza di personale - piuttosto che sulle soluzioni possibili o praticabili, Per la restante parte dell’anno il tema rimane in penombra. Terminata la parentesi estiva cala il sipario e si ritorna alla disumana quotidianità che caratterizza la giornata di una persona reclusa. Con l’avvicinarsi dell’autunno l’allarme sociale, come d’incanto, non è più rappresentato dalle condizioni dei detenuti. Trattandosi di soggetti in conflitto con la legge, le loro necessità cedono il passo ad altre e più nobili priorità. Si abbandona così l’emergenza carcere e si ricomincia a parlare, in generale, di riforma della giustizia. In realtà, più che discutere di massimi sistemi, basta analizzare un dato incontestabile: gran parte della popolazione detenuta è privata delle prestazioni minime essenziali. In altre parole il livello di assistenza è sceso così in basso da compromettere i diritti umani fondamentali. Molte voci autorevoli invocano la dignità della persona. tra queste quella di Papa, Francesco che in più occasioni, dal discorso all’associazione internazionale dei penalisti al vertice dei giudici panamericani e durante le visite ai carcerati detenuti in Italia e nel mondo, ha ribadito due concetti essenziali. innanzitutto la cautela nell’applicazione della pena quale principio che regge i sistemi penali. In secondo luogo l’inviolabilità del principio secondo cui gli Stati non possono subordinare il rispetto della dignità umana della persona a qualsiasi altra finalità, anche quando si tratti di utilità sociale. Quanto al populismo penale, il Papa sottolinea come si sia diffusa la convinzione che attraverso la pena pubblica si possano risolvere i più disparati problemi sociali, come se per diverse malattie si raccomandasse la medesima medicina. Secondo Bergoglio la funzione sanzionatoria ricade sui settori più vulnerabili in quanto la sanzione penale è selettiva: “come una rete che cattura solo i pesci piccoli’: Riflessioni acute che smuovono le coscienze. Del resto, per avere contezza dell’arretramento sul piano dei diritti delle carceri italiane basta visionare i rapporti del Garante nazionale degli ultimi sette anni. Se, da un lato, è giunto il momento di costruire un modello alternativo al carcere, non può disconoscersi; dall’altro, l’urgente necessità di garantire ai detenuti condizioni di vita umanamente e giuridicamente accettabili. Le ricerche comprovano ormai gli effetti nocivi di un sistema carcerario non equilibrato o malato. Le neuroscienze hanno accertato che la deprivazione, l’isolamento, il sovraffollamento e i fattori di contaminazione dell’ambiente carcerario (inquinamento acustico, sistema fognario, smaltimento dei rifiuti, qualità dell’acqua, presenza di amianto e piombo, schermature) generano deficit cerebrali e comportamentali, ostacolando i cambiamenti positivi dell’individuo. La ricerca neuro psicologica ha rilevato, altresì, che le funzioni cerebrali importanti per la riabilitazione diminuiscono dopo tre mesi di detenzione. La stessa Corte europea dei diritti dell’uomo ha messo in guardia circa gli effetti negativi di un regime di detenzione impoverito. Immaginare luoghi nuovi e diversi che non comprimano i diritti e la dignità della persona, sostituendo o trasformando il carcere attuale, significa quindi ridurre il tasso di recidiva e contemperare più esigenze: umanizzazione, rieducazione e sicurezza. *Garante dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale della Regione Calabria Busto Arsizio. Due detenuti morti: marocchino colto da malore, italiano suicida in bagno di Sarah Crespi La Prealpina, 10 settembre 2023 Un quarantenne marocchino, non nuovo alla detenzione e collocato in seconda sezione, si è svegliato all’improvviso con un senso di oppressione fortissimo. Non è neppure riuscito a scendere dalla branda, le sue condizioni si sono aggravate di minuto in minuto e neppure l’intervento dei sanitari del 118 è servito a salvarlo. L’uomo è morto per arresto cardiaco, quindi per cause naturali che comunque il pubblico ministero potrebbe decidere di approfondire con un’autopsia. Aveva un (recente) passato di tossicodipendenza e qualche disturbo al cuore e non è da escludere che gli inquirenti, dato il momento critico in termini di sovraffollamento, vogliano andare a fondo del decesso. La giornata si è aperta così, con uno di quegli eventi che lasciano l’amarezza. E si è conclusa in modo ancor più tragico: nel tardo pomeriggio un trentatreenne italiano si è tolto la vita impiccandosi in cella. Trasferito dal carcere di Varese da un paio di mesi, era in attesa di individuare una comunità in cui poterlo trasferire: arrestato per maltrattamenti in famiglia, pure i suoi guai erano scaturiti dall’abuso di stupefacenti. Non è chiaro se il giovane volesse solo compiere un gesto dimostrativo, le lenzuola annodate e appese a un ripiano della zona bagno lo hanno comunque ucciso. È stato il suo concellino ad accorgersene e ad allertare subito la Polizia penitenziaria ma non c’era ormai più nulla da fare. Il pubblico ministero Ciro Caramore deciderà oggi se sottoporre il corpo all’esame autoptico, ma anche questo caso sembra essere privo di risvolti oscuri. Sta di fatto che, in un penitenziario, due morti in meno di ventiquattro ore sono un record terribile. E la domanda è: se la casa circondariale di via per Cassano rispettasse la capienza di 250 reclusi le due emergenze di ieri avrebbero avuto un epilogo diverso? Se ci fosse lo spazio vitale necessario, se il personale medico fosse in numero sufficiente, se l’organico della Polpen fosse più nutrito, si potrebbe agire sulla prevenzione sanitaria e psicologica? Busto Arsizio. Morto in cella a 29 anni, la madre: “Non è stato curato” di Sarah Crespi La Prealpina, 10 settembre 2023 Il dolore e l’appello della madre: “Avete i mezzi, salvate i nostri figli”. “Chiunque abbia informazioni sulle ultime ore di vita di mio figlio me le faccia sapere. Faccio un appello al suo compagno di cella, non voglio creare problemi agli altri detenuti ma ho bisogno di conoscere la verità sulla sua morte”: Nadia è la madre di un ventinovenne deceduto il 6 giugno all’ospedale, in cui era stato portato dal carcere di Busto Arsizio. Aveva disturbi psichici, una storia di tossicodipendenza, prima di approdare a Busto era stato detenuto in altri penitenziari. “Ditemi cosa gli è successo quel giorno”, chiede tra le lacrime in un intervento a Radio Radicale, e soprattutto lancia un Sos al sistema penitenziario: “Curateli questi ragazzi, avete i mezzi per salvarli con le cure giuste e la rieducazione. Mio figlio non è stato seguito. Non si può morire in carcere a ventinove anni”. L’ultimo colloquio con il ragazzo lo aveva fatto il primo giugno: “Era spento, era ingrassato. Aveva dolori al petto. Mi disse che in infermeria, quando chiedeva una visita, si limitavano a dargli gocce e psicofarmaci. Non è così che risolvono i problemi”. La storia del ragazzo, arrestato nel 2017 per una serie di rapine, è quella di tanti altri detenuti che escono di scena silenziosamente, salvo casi d’eccezione. Giovedì nella iper affollata casa circondariale di via per Cassano la campana è suonata due volte: per un quarantenne marocchino, stroncato da un malore e per un trentatreenne italiano che si è tolto la vita impiccandosi con le lenzuola annodate. Era il gennaio del 2013 quando la Corte europea dei diritti dell’uomo condannò l’Italia per le condizioni di reclusione di sette detenuti di Busto Arsizio e di Piacenza. Dieci anni non sono bastati per dare una svolta incisiva, viceversa gli ospiti dell’istituto bustese sarebbero 250 invece di 430. E da qualche settimana l’amministrazione deve fare i conti con un fenomeno ormai conclamato: lo spaccio di stupefacenti interno. È la scoperta dell’acqua calda (che tra l’altro dietro le sbarre non è neppure garantita)? Può essere, ma quando dalle leggende metropolitane si passa al riscontro concreto bisogna prenderne atto. E quindi i pochi agenti di Polizia penitenziaria in servizio ora dovranno concentrarsi sulle indagini che consentano di individuare chi tiri le fila del mercato della droga, che è inaccettabile in un luogo deputato alla rieducazione e al reinserimento nella società di chi ignora la legge. Il rischio è che ne risenta il sistema di sicurezza, tanto per il personale della Polpen quanto per i detenuti. Con più agenti e meno ristretti forse ieri l’istituto di via per Cassano non sarebbe stato in lutto. “Ogni storia è a sé”, premette il segretario generale della Uilpa, Gennarino De Fazio. “Ma il trend allarmante si conferma: siamo al quarantanovesimo suicidio nelle celle italiane dall’inizio del 2023. Il Governo non ne prende atto, non si vedono interventi incisivi. L’organico della Polpen, a livello nazionale, è inferiore di 18mila unità. Il fronte della sanità penitenziaria è altrettanto drammatico. È arrivato il momento di programmare investimenti seri e immediati. Siamo davanti a una catastrofe che non ha nulla di naturale ma che è provocata dall’incuria e dall’immobilismo politico. Servono la dichiarazione dello stato di emergenza e la nomina di un commissario straordinario per gestire l’emergenza”. Udine. Un giorno nel carcere, magazzino di corpi senza speranza di Matteo Dordolo L’Unità, 10 settembre 2023 Si trova nel centro della città, eppure è invisibile. Le persone parcheggiano nelle vie adiacenti per evitare i pedaggi, noncuranti delle vite parcheggiate lì dentro. Che cosa ti lascia il carcere una volta che ci sei entrato? Rispondere è profondamente difficile. Come profonda è la disperazione che serpeggia tra chi in carcere è costretto a viverci. Molti direbbero per scelta. Tuttavia, entrandovi si comprende come nessuno, se non per puro masochismo, intraprenderebbe la scelta di vivere in mi istituto di pena italiano. Questo vale anche per il carcere di Udine. Luogo di reclusione collocato nella prossimità del centro cittadino, a due passi dal teatro, dalla Facoltà di Giurisprudenza in cui io studio. Eppure, nella noncuranza più totale, esso, come cancellato, scompare. Via Spalato, il luogo ove esso si trova, è una strada comoda in cui parcheggiare, dove evitare i pedaggi che affollano il capoluogo friulano. Allo stesso modo, in quel magazzino di corpi privati di ogni speranza e prospettiva di vita, sostano gli abitanti della Casa circondariale. Parcheggiati in attesa di una sentenza, o di una misura alternativa che possa permettergli di varcare la soglia anche solo per qualche giorno. Tuttavia, li sono e lì, secondo l’opinione comune, devono restare. Non come me, che ci sono entrato in visita il 16 agosto con Nessuno tocchi Caino. Io non resto. Io sono lì per vedere. Di questo senso devo dotarmi mentre mi accingo ormai a entrare. Le porte si aprono, le serrature si chiudono. Il primo incontro non si ha con le persone, ma con i rumori e l’odore, forti e pungenti, che ti colpiscono sin da subito. Poi mi concentro sull’edificio, sulla sua struttura fatiscente e obsoleta, sino a quando non arrivo in prossimità della sezione. Allora entro davvero, ed entro con i detenuti in una quotidianità avvilente, fatta di costrizioni, di giornate perlopiù trascorse stipati in celle sovraffollate, costretti con compagni che non ti sei scelto, in una città che non hai scelto, in condizioni che non hai scelto. Gli sguardi di chi si affaccia dalle sbarre sono spesso vuoti, come privi di qualsiasi volontà. Come se volessero comunicarti che lì dentro la vita non è uno slancio in avanti ma mi subire continuo, mi ricacciare la testa verso il basso, in silenzio. Vengono aperte le celle e noi entriamo. Sfortunatamente nel farlo interrompiamo il pasto di alcuni dei detenuti. In quella cella tre su quattro sono stranieri, quello italiano ha una settantina d’anni. Mangiano su un tavolino delle dimensioni di un banco, uno di loro seduto sul letto e chino su una sedia. Lo spazio non è abbastanza, come non è abbastanza quando devo passare dai letti al bagno: per farlo devo piegarmi di traverso. Tutti vogliono che entriamo a vedere. Il tempo non è sufficiente. Noi dobbiamo uscire. Non possiamo restare perché nulla ci condanna o ordina di farlo. Organizziamo allora degli incontri nelle stanze adibite al tempo libero, proprio nel luogo dove il tempo non puoi scegliere come viverlo, creato dall’umanità per privare una persona della libertà. I detenuti cominciano a parlare dei problemi: sovraffollamento (a Udine il tasso è del 176%), rara concessione dei benefici penitenziari, eccessiva somministrazione di psicofarmaci, alto numero di tossicodipendenti e di persone affette da patologie psichiche, carenza di educatori (1 sui 4 previsti), esiguità del lavoro interno (solo 23 i detenuti che lavorano). Tutti sono accomunati da una cosa: la voglia di dimostrarti che sono meglio della scelta che li ha condotti lì, che si impegnano, che ci provano. Vorrei aiutarli, dire di continuare, di non rassegnarsi e continuare a sperare. Come farlo in quell’edificio, creato per punire nella dimenticanza, fino a che non ti dimentichi davvero di essere umanità anche tu, di essere parte di chi resta fuori, o di chi come noi tra qualche ora fuori ci tornerà. È venuto il momento, dobbiamo uscire. Devo uscire, con la coscienza affollata di pensieri, di domande sul come si possa davvero pensare che quello che ho visto sia il modo di applicare la funzione, costituzionalmente prevista, rieducativa della pena. Risocializzare richiede fiducia, volontà di costruire, progettando futuri diversi dai passati di chi ha sbagliato. Ciò che ho visto è il frutto della sfiducia, della volontà di relegare ai margini chi pensiamo ci finisca sempre e solo per una sua scelta. Nessuno sceglie il carcere, tantomeno mio ove le condizioni sono inumane e degradanti. II carcere lo sceglie chi resta fuori, chi vuole separare giusti e delinquenti, dimenticandosi che così a essere vinto non è il male, ma l’umanità. E noi, i giusti, non saremo innocenti verso questa perdita. Roma. Il carcere di Regina Coeli è inadeguato, mozione per la chiusura presentata in Comune L’Osservatore Romano, 10 settembre 2023 Il carcere di Regina Coeli è vecchio e inadeguato per svolgere una funzione riabilitativa della pena, quindi va chiuso: è quanto chiede una mozione presentata nei giorni scorsi in Comune dai consiglieri del partito di maggioranza. La mozione è formalmente rivolta al sindaco di Roma, Roberto Gualtieri, dalla sua stessa maggioranza, ma ha l’obiettivo di avviare con il Governo e il ministero della Giustizia una trattativa che porti alla chiusura dell’istituto carcerario. La struttura di via della Lungara risale al 1642. Fu prima usata come convento, prima di essere stata convertita in istituto di pena. Questo, oltre a renderla strutturalmente vecchia, la vede anche priva di quegli spazi necessari per dare effettiva applicazione all’art. 27 della Costituzione, che prevede per le persone detenute un percorso di recupero e di reinserimento sociale e lavorativo, da svolgersi in strutture conformi. Si legge nella mozione che “oltre ad una evidente inadeguatezza strutturale, il carcere romano di Regina Coeli ormai da decenni versa in condizioni di costante sovraffollamento, con picchi di presenze fino al 150% della sua capacità ricettiva ed anche sotto questo profilo si è, quindi, dimostrata una struttura del tutto inidonea e insufficiente alla sua attuale destinazione. Regina Coeli versa anche in condizioni sanitarie allarmanti, sia sotto il profilo delle cure mediche, sia sotto l’aspetto della salute e della cura mentale, tanto che in questi primi sette mesi dell’anno si sono già registrati purtroppo, al suo interno, ben tre suicidi, che seguono ai tre del 2022”. “Si tratta in un edificio vecchio, inadeguato e in perenne sovraffollamento: una struttura che non garantisce i diritti minimi delle persone detenute e nemmeno il rispetto del dettato costituzionale”, dichiara la consigliera Erica Battaglia. “Chiediamo che finalmente se ne parli apertamente - spiega -. La certezza della pena passa anche da un sistema carcerario capace di riabilitare le persone con spazi adeguati allo scopo. Chiediamo quindi al Governo una riflessione seria, politica, al di là della propaganda”. L’Aquila. Matteo Messina Denaro trasferito in terapia intensiva: peggiorano le sue condizioni La Stampa, 10 settembre 2023 Sono “in netto peggioramento” le condizioni di salute del superboss della mafia Matteo Messina Denaro, ricoverato all’ospedale San Salvatore per essere sottoposto alle cure specifiche per un tumore al colon che lo affligge da anni. L’aggiornamento filtra dalla spessissima cortina di riservatezza eretta per tutelare la privacy del “padrino”. Si sa che lo scorso 5 settembre è stato trasferito dal reparto di terapia intensiva, dove era stato ricoverato per gestire i postumi di un intervento chirurgico, al reparto per detenuti allestito all’interno del nosocomio. Ala dell’ospedale sotto strettissima sorveglianza da parte degli agenti della Polizia penitenziaria e delle forze dell’ordine in genere. A quanto si è riusciti ad apprendere, in questo momento gli sforzi di medici e infermieri sono tutti dedicati alla gestione del dolore, conseguenza della gravità della patologia che affligge l’ex superlatitante. Per questo viene sottoposto a cure specifiche con la somministrazione di farmaci che possano in qualche modo lenire la sofferenza e migliorare le condizioni generali dopo l’intervento subìto. Non ci sono né conferme né smentite, invece, rispetto a un’indiscrezione filtrata ieri circa una presunta volontà del padrino di non essere rianimato in caso di necessità. Si tratta di un argomento assai sensibile che viene, per questo, trattato con la massima cautela possibile, rimanendo nelle competenze esclusive di pochissime persone. Quello che invece si sa per certo è che gli avvocati del boss avevano predisposto una istanza per chiedere la scarcerazione definitiva e la detenzione in ospedale, atto che è stato al momento sospeso proprio a causa dell’aggravarsi delle sue condizioni di salute. L’avvocato Lorenza Guttadauro, nipote del boss, sarebbe in questi giorni in città. Matteo Messina Denaro è stato sottoposto a un intervento chirurgico nel mese di agosto per gestire problemi di natura intestinale. A giugno era stato invece portato in ospedale per cure di natura urologica non strettamente collegate al tumore. Avellino. Carcere e tutela dei diritti dei detenuti, visita al carcere di Ariano Irpino avellinotoday.it, 10 settembre 2023 Nel pomeriggio proiezione docu-film e conferenza-dibattito. Prosegue “Il viaggio della speranza: visitare i carcerati”, organizzato dall’Unione Camere Penali Italiane (Osservatorio Nazionale Carcere) con l’Associazione Nessuno Tocchi Caino, in uno al Movimento Forense e al Garante campano per i diritti dei detenuti. La Camera Penale di Benevento, insieme a Nessuno Tocchi Caino, organizza una conferenza - dibattito che si terrà presso la sede della Casa Circondariale di Ariano Irpino il giorno 12 settembre 2023, in orario pomeridiano, post visione di docu-film, sul tema carcere e tutela dei diritti dei detenuti. La conferenza avrà luogo all’esito di una visita presso la medesima Casa Circondariale da parte di una delegazione della Camera Penale di Benevento e di una delegazione delle predette associazioni, nell’ambito di un progetto più ampio che ha visto e vede - come detto - lo svolgersi di accessi presso le diverse strutture carcerarie della Campania (istituti di pena di Lauro, di Arienzo, di Santa Maria Capua Vetere, di Benevento, di Airola, di Sant’Angelo dei Lombardi, di Avellino e di Salerno), e di tutta Italia, in quello che è stato definito come sopra “Viaggio nelle carceri”. Questo il programma della giornata. Martedì 12 settembre 2023, a partire dalle ore 10,00: - ore 10.00 la visita all’Istituto di Ariano Irpino ai sensi dell’art. 117 del DPR 30 giugno 2000, n. 230; - a seguire, alle ore 14,30/15.00 circa, e sempre nello stesso Istituto, la presentazione del docu-film di Ambrogio Crespi Spes contra spem - Liberi dentro. - a seguire, alle ore 16.30 circa, conferenza-dibattito sul tema carcere e tutela dei diritti dei detenuti. Il Docu-film, realizzato nel 2015 nella Casa di Reclusione di Opera. si compone di immagini e interviste con condannati all’ergastolo e con dirigenti e operatori dell’amministrazione penitenziaria. Il Docu-film, è stato già proiettato in numerose carceri, tra cui Milano Opera, Roma Rebibbia, Parma, Voghera, Napoli Secondigliano, Vibo Valentia. Dopo la proiezione, come già anticipato, si svolgerà un ampio dibattito sui contenuti del film con la partecipazione di dirigenti e iscritti a Nessuno tocchi Caino, Operatori del diritto, Avvocati e Magistrati, e rappresentanti istituzionali. L’evento mira a fornire gli approfondimenti indispensabili sulle condizioni detentive sussistenti presso le nostre strutture penitenziarie e a sensibilizzare operatori del diritto e società civile sull’attuazione dei principi costituzionali che sovrintendono l’esecuzione della pena e la sua funzione rieducativa. Oltre che sul tema scottante dell’ergastolo ostativo. In considerazione del rilievo di interesse pubblico che l’evento comporta, si mira ad organizzare in quella sede un dibattito che sia realmente costruttivo e proficuo sulle questioni più generali attinenti all’amministrazione della giustizia e del sistema dell’ esecuzione penale nel nostro Paese. Al dibattito, moderato dal giornalista Gerardo De Ioanni, come detto, parteciperanno gli esponenti degli enti promotori, dirigenti dell’Associazione Nessuno Tocchi Caino, delegato del COA di Benevento, il Presidente della Camera Penale di Benevento, un suo delegato, il Presidente della Camera Penale Irpina, i Responsabili, nazionale e regionale, dell’Osservatorio Carcere dell’UCPI, rappresentante del Movimento Forense e il Garante regionale per i diritti dei detenuti, nonché naturalmente il Direttore della Casa Circondariale di Ariano Irpino e il Magistrato di Sorveglianza di Avellino. Napoli. Contadini oltre le sbarre di Antonio Averaimo Avvenire, 10 settembre 2023 Viaggio nel centro di detenzione di Secondigliano, dove il riscatto di 5 persone ad alta sicurezza passa attraverso il lavoro della terra: un progetto che li fa sentire sempre più parte della società. La cooperativa “L’uomo e il legno”, da dieci anni ha dato vita a “Campo aperto”: i prodotti coltivati dai detenuti (pomodori, melanzane e zucchine) vengono anche venduti online. Come tutti i normali agricoltori, si recano di buon mattino sui terreni da coltivare. Lì raccolgono i loro pomodorini rossi e gialli, le loro melanzane, le loro zucchine, producono il loro olio. Tutti prodotti che, con la speranza del buon esito, finiranno sulla tavola degli italiani. I contadini in questione sono contadini “speciali”: cinque ergastolani detenuti nel carcere “Pasquale Mandato” di Secondigliano. Ma a sentire Rita Caprio, presidente della cooperativa “L’uomo e il legno”, che ha dato vita dieci anni fa a questo progetto denominato “Campo aperto” insieme con l’ex direttore del penitenziario napoletano, questo particolare è bilanciato da non pochi fattori positivi. “Il lavoro nei terreni agricoli del carcere - spiega la presidente della cooperativa nata trent’anni fa a Scampia, a poca distanza dall’istituto - alleggerisce lo stato di detenzione: stiamo parlando di detenuti dell’Alta sicurezza. L’impegno al mattino e il lavoro, regolarmente retribuito, dà loro dignità. Non solo: anche l’incontro quotidiano con noi, cioè con persone esterne al carcere, li fa sentire ancora parte della società da cui sono stati strappati per i reati che hanno commesso”. Non vanno sottovalutati inoltre, prosegue la direttrice, “il rapporto con la terra, capace di restituire a chi la lavora un grande senso di libertà, e il fatto che progetti del genere consentono di applicare alla lettera l’articolo 27 della Costituzione, che attribuisce alla pena una funzione rieducativa”. Ai cinque detenuti-agricoltori si aggregano anche altri, per ora solo volontari. Tutti sono seguiti dalla presidente della cooperativa “L’uomo e il legno”, che li assiste insieme con un agente penitenziario e l’agronomo Gerardo Rusciano. “Il contributo dato dai volontari è ancor più lodevole - spiega la responsabile della cooperativa - perché è frutto di una reale motivazione. Tra i nostri principali obiettivi c’è anche quello di riuscire ad aumentare il numero dei detenuti impegnati nel progetto. Ed è a questo che punta la vendita dei nostri prodotti, che avviene online o sfrutta canali privilegiati come le altre realtà del Terzo settore del territorio. Sempre a tale scopo, mettiamo in vendita durante le feste natalizie il “Pacco dal carcere” composto da prodotti confezionati nel centro detentivo di Secondigliano e in tre altre carceri campane, nelle quali sono attivi progetti simili a “Campo aperto”. Tra i cinque detenuti-agricoltori del carcere di Secondigliano c’è anche uno che ha ottenuto la semilibertà e ha deciso di diventare socio della cooperativa. Oppure un altro che è tornato a casa in regime di detenzione domiciliare a causa di una grave malattia, ma si è detto già pronto, una volta guarito, a tornare a coltivare i terreni del penitenziario nel quale fino a poco tempo fa era recluso. Un altro ancora si è laureato in Sociologia nel polo universitario dell’istituto. Nata come falegnameria destinata a tossicodipendenti, ragazzi con precedenti penali o con una situazione di degrado familiare alle spalle, la cooperativa “L’uomo e il legno” è una delle realtà del variegato mondo del Terzo settore di Scampia, nato a due passi dalle Vele, simbolo del degrado e dell’oppressione su questo quartiere messa in atto dai clan della camorra. Solo in seguito è entrata nel campo della formazione e del reinserimento sociale dei detenuti. “Campo aperto” nasce proprio così, grazie a un’intuizione del fondatore e allora presidente della cooperativa di Scampia, Vincenzo Vanacore. Fedele alla sua vocazione originaria, nel carcere della periferia nord napoletana “L’uomo e il legno” gestisce anche la falegnameria interna al carcere. Il suo direttore tecnico è Vittorio Attanasio, marito della presidente della cooperativa. Anche lui era un ragazzo con un passato difficile alle spalle quando entrò a 16 anni nella bottega fondata da Vanacore. Ed è lì che conobbe la sua futura moglie, che all’epoca era una volontaria. Ora quel ragazzo è diventato un uomo e insegna agli altri ciò che gli altri hanno insegnato a lui: un’altra bella storia, la sua. Franco Mussida: “Porto in carcere la musica del mondo. È un antidoto contro l’odio” di Angiola Codacci-Pisanelli L’Espresso, 10 settembre 2023 Negli istituti di pena italiani risuonano melodie nate in tutti i Paesi, opera di autori classici o pop. Una sola regola: sono brani strumentali, perché il testo può essere divisivo. La nuova missione del chitarrista in arrivo a Roma per il Poetry Village. Dalla newsletter de L’Espresso sulla galassia culturale araboislamica. Franco Mussida è molto di più che lo storico chitarrista della Premiata Forneria Marconi: è il fondatore di una delle più serie scuole di musica italiane, il Cpm-Centro Professionale Musica di Milano, è autore di saggi di storia e musicologia ed è anche l’ideatore di CO2, iniziativa che porta la musica nelle carceri ì, coinvolgendo i detenuti nella scelta della “colonna sonora” delle loro giornate. L’occasione per parlarne è l’arrivo del musicista al Poetry Village della Garbatella: il 9 settembre l’incontro con Mussida su “Il Pianeta della Musica. Verso un’ecologia del suono” sarà il gran finale della kermesse romana, organizzata da Asia Vaudo per il Festival europeo di poesia ambientale. Una due-giorni (a cui collaborerà anche chi scrive) che metterà in contatto poeti affermati come Antonella Anedda e Franco Arminio con autori in erba, per chiudere con un focus sulla poesia spagnola condotto da Carlo Pulsoni, docente di filologia romanza all’università di Perugia. Mi ha colpito molto il progetto CO2: ci racconta come è nato e a che punto è ora? E in quali ambiti del carcere viene trasmessa la vostra musica? “Il progetto CO2 nasce dagli studi fatti sui fenomeni che legano la musica alle emozioni durante un trentennio di ricerche. Ricerche e principi presenti in diversi miei libri tra cui “La Musica Ignorata” (Skira 2013) e “Il Pianeta della Musica” (Salani 2019). Il progetto nasce incrociando la volontà di promuovere iniziative musicali nelle carceri da parte dell’ex presidente Siae Gino Paoli. Oltre che professionalmente, ci eravamo conosciuti nel carcere di Poggioreale di Napoli, dove stava nascendo un laboratorio di pratica Musicale strumentale e corale sul modello di quelli da me iniziati nel 1987 nel carcere di San Vittore, organizzati dal Cpm, i primi dopo la legge Gozzini che consentiva iniziative promosse da associazioni esterne al carcere. Nel 2013 però le carceri erano totalmente cambiate, non solo per la presenza maggioritaria di gente straniera, ma per la proposta di tante attività culturali, anche musicali. Così quando mi si chiese di occuparmene, pensai di coinvolgere tutti, ovvero invitare chi la musica normalmente la ascolta”. In carcere c’è la possibilità di ascoltare musica? “Radio e televisioni sono presenti nei normali luoghi di detenzione. Ma non esistevano né audioteche né luoghi dedicati all’ascolto. Si sono così immaginati e realizzati dei luoghi franchi in cui poter fare silenzio, per sentirsi intimamente, non più per ascoltare distrattamente canzonette, ma per lasciar parlare il suono degli strumenti. Lasciare a loro, a violini, chitarre, strumenti dell’orchestra classica e moderna, agli strumenti etnici, il compito di riempire di contenuti emotivi di qualità l’anima di quelle persone in pena. Elaborai il progetto, mi circondai di un comitato scientifico (psicologi, sociologi, criminologi, rettori di università e musicisti) che avvalorassero e promuovessero la sperimentazione. Presentato il progetto al Ministero, all’ex viceministro della Giustizia Luigi Pagano che conosco dal 1987 (era il direttore di San Vittore, tutto cominciò con lui) e alla SIAE che lo aveva chiesto, venne elaborato un software in grado di offrire una precisa modalità di ascolto e di valutazione di migliaia di brani di musica strumentale di tutti i tipi e generi, divisi per stati d’animo: 27 stati d’animo divisi in nove famiglie”. E questa quantità di musica come è disponibile? “L’audioteca consiste in un computer con un database di brani, e di terminali tablet su cui si agisce, si scelgono musiche partendo da una scelta primaria di tipo emotivo cliccando su icone emotive riconoscibili. Le prime carceri coinvolte nel progetto dal 2013 al 2017 furono Rebibbia femminile, Secondigliano, Opera, e il carcere di Monza. Nel 2017 il progetto si allargò a 12 carceri. Le audioteche sono state poi tutte donate ai singoli carceri”. E con il covid com’è andata? “Dopo il covid che bloccò tutto, le attività di “ascolto emotivo consapevole” che stanno alla base del progetto proseguono però nel Carcere di San Vittore dove un gruppo di circa 30 detenuti della Nave (sezione dei tossicodipendenti) guidati da me e dall’equipe della Nave, selezionano brani di musica strumentale per playlist che vengono diffuse in spazi interni al carcere. La diffusione è stata realizzata con il contributo del Carcere di San Vittore, del Cpm e di Slow Music. A San Patrignano c’è invece uno speciale spazio dedicato con un’audioteca CO2. Il progetto coinvolge una dozzina di custodi che svolgono corsi di aggiornamento con me, e gli ospiti della comunità divisi per i vari settori produttivi. Quest’audioteca è in continua evoluzione”. Chi ha partecipato alla preparazione delle playlist? “I brani sono stati selezionati in base ai gusti personali dei donatori. Hanno partecipato alla creazione delle playlist studenti di Musica del Cpm e di istituti collegati, insegnanti di musica, musicisti affermati, giornalisti o semplici ascoltatori. Tra gli amici che hanno contribuito ricordo Claudio Baglioni, Paolo Fresu e Roberto Vecchioni (Massimo Germini il suo chitarrista e Luca Nobis sono stati per anni insegnanti sul campo nella fase sperimentale). Ma anche produttori come Andrea Rodini, jazzisti come Massimo Colombo. Ricordo che nel 2017 per presentare il sito co2musicaincarcere.it andai a Sanremo, incontrai tanti amici musicisti che non si capacitavano di cosa stessi facendo li: ovviamente le battute sulla galera si sprecavano. In realtà ho sempre mantenuto questa attività come qualcosa di privato, di personale rispetto alla mia attività concertistica. Per presentarlo venni ospitato nello spazio della SIAE che ha sostenuto il progetto dall’inizio fino alla sua conclusione”. In Italia come altrove molti detenuti sono stranieri, quindi le loro tradizioni arricchiscono l’offerta musicale. Può dirci qualcosa di com’è la musica di altri Stati? “Nelle audioteche sono presenti tutti i tipi di musica strumentale. La peculiarità di poter arricchire le playlist in continuazione ci ha consentito di inserire nel tempo non solo i brani della tradizione classica, jazzistica, brani della tradizione pop, magari risuonati da gruppi e orchestre, ma anche musica delle tradizioni etniche europee come quella napoletana o irlandese, di etnie medio orientali e balcaniche. Ad oggi specie nelle playlist di San Vittore, proprio per rappresentare l’eterogenea popolazione carceraria, sono presenti musiche provenienti dal Sudamerica, Colombia, Perù, e poi da Egitto, Libia, Turchia e altre”. CO2 unisce musica classica e leggera, jazz e pop, senza fare classifiche di dignità. Ma come reagiscono i detenuti all’ascolto dei generi musicali? Ci sono differenze o diffidenze, passioni impreviste o forme di rifiuto? “L’attitudine a sentire musica strumentale, non solo per il suo prevalente significato verbale, fa si che ci si abitui a tante diverse forme musicali. Ciascun detenuto, facilitato da playlist che offrono i brani non solo per generi, ma per emozioni, ha la possibilità di fare esperienze d’ascolto che lo portano man mano a frequentare altri territori musicali rispetto ai suoi di origine, e a sperimentare e a cercare musica nuova. Ciò emerge anche dai risultati delle ricerche fatte dall’Università di Pavia. Come racconto nei miei scritti, il codice musicale è composto da sei elementi, 5 oggettivi e uno soggettivo. Quello soggettivo siamo noi. È il nostro unico e irripetibile filtro musicale, che coincide perfettamente con le nostre singole propensioni temperamentali. Emotivamente funzioniamo per simpatia: funzioniamo esattamente come il principio musicale che vede vibrare una corda immobile senza che alcuno l’abbia colpita per metterla in movimento. Questa si muove solo grazie al vibrare di quella accanto. Al vibrare delle emozioni degli altri vibriamo noi stessi. È un continuo inconsapevole contaminarsi. Per questo educare al sentire musicale aiuta a conoscerci meglio intimamente. A riconoscere davvero se un certo vibrare emotivo proviene da noi stessi o da altri. Ad esempio la rabbia in carcere, ma non solo, è un fattore fortemente contaminante. La musica in quanto naturale stabilizzatore dell’umore, è un “medicamento” sonoro con alti contenuti di bellezza, che non ha pari per ritrovare una pace, un’armonia necessaria. Vorrei ricordare che CO2 oltre ad essere un elemento a volte molto inquinante, è anche la sigla di “Controllare Odio”. Diffidenze ce ne sono sempre, come forme di rifiuto. In carcere c’è grande sofferenza inespressa, ci si chiude cosi tanto, si sta proni al buio della solitudine, che un singolo raggio di sole può far male, in questo caso può far piangere, ma ben venga se è vero pianto liberatorio. Mi viene in mente una frase di un brano di Gaber che amo “Illogica Allegria”: “E sto bene. Io sto bene come uno quando sogna. Non lo so se mi conviene, Ma sto bene: che vergogna”. Ho letto che si tratta solo di musica senza parole, perché? Forse perché le parole non sono comprensibili a tutti, mentre la musica non ha bisogno di traduzioni? O, al contrario, perché le parole possono presentare dei rischi? “Siamo abituati a utilizzare le parole in senso lato. La parola musica, aldilà della sua etimologia che rimanda ad immagini del periodo greco, viene usata, purtroppo, proprio in senso lato. Tutto ciò che contiene suono organizzato dall’uomo viene chiamato musica. Ma la musica è un’arte non verbale. Per questa ragione viene definita “linguaggio universale”. Il linguaggio dei suoni esiste per se stesso. È la sua essenza vibrante primaria che prescinde dalle forme, che provoca l’accendersi di sentimenti e strati d’animo. Malinconia, nostalgia, gioia si trovano in tutte forme musicali. In fondo cerchiamo solo quello. Forme estetiche e generi sono il prodotto dell’assemblaggio oggettivo del suo codice da parte di persone che per cultura e gusto, anche inconsapevolmente (i non musicisti e persone che non ne conoscono i principi teorici) lo usano, lo forgiano, per offrire un prodotto emotivo in modo che ciascuno possa poi decodificarlo in modo soggettivo per il suo proprio piacere. Torno a ribadire che la musica è un’arte non verbale: un’arte che unisce, in quanto tocca in modo diretto il sentire delle persone di ogni paese ed etnia. Il codice verbale suo malgrado divide. La parola va tradotta, adattata, a seconda delle lingue. Oppure va “non compresa”, cioè trattata come suono. È il caso del portato anglosassone che si è fatto largo nel mondo per la sua ritmicità musicale più che per l’elemento significante. Aver perso il senso del vero ruolo del suono e della musica nella nostra uniformata società occidentale, non riuscire a parlare di differenze tra qualità di suono, mettere astrattamente sullo stesso piano qualitativo esperienziale ciò che si prova sentendo un pianoforte a 220 corde e un campione Midi: di questo e d’altro parlerò nel mio prossimo intervento al Poetry Village di Roma”. Siamo un po’ stanchi della libertà? di Beppe Severgnini Corriere della Sera, 10 settembre 2023 Anche nelle democrazie occidentali la libertà è a rischio. Non perché ce la vogliono portare via. Perché molti sembrano disposti a farne a meno. Il Tempo delle Donne, l’incontro di fine estate del Corriere, è giunto alla decima edizione. Quest’anno ha indicato come parola-guida “libertà”. La scelta potrebbe apparire scontata, e non lo è. C’è chi interpreta la libertà come diritto di fare tutto ciò che passa per la testa. David Sedaris, scrittore satirico americano, dal palco della Triennale di Milano ha detto che per qualcuno, negli Usa, “libertà è poter sparare a un orso da un’auto in corsa”. Non sa che agli orsi sparano anche qui in Italia, sebbene li conoscano per nome (povera Amarena). Al Tempo delle Donne ho fornito il mio piccolo contributo venerdì, parlando di libertà e maternità. Oggi, dal Festival della Comunicazione di Camogli, vorrei aggiungere un post-scriptum. Anche nelle democrazie occidentali la libertà è a rischio. Non perché ce la vogliono portare via. Perché molti sembrano disposti a farne a meno. Non parliamo soltanto degli Stati Uniti, dove già si sentono i tuoni del temporale Trump in arrivo. Parliamo della nostra Italia, edonista e distratta. Ci sono connazionali per cui la libertà è sostanzialmente una seccatura. Bisogna scegliere, bisogna decidere, bisogna votare, bisogna sopportare: che noia. Meglio affidarsi all’autorità. Si occupi di tutto, e ci lasci in pace! Il fascismo lo aveva capito al volo. Molta gente — la maggioranza, al tempo — era disposta a barattare la libertà con la tranquillità (apparente). Benito Mussolini, in un articolo sulla rivista “Gerarchia” nel 1923, scriveva: “La verità palese ormai agli occhi di chiunque non li abbia bendati dal dogmatismo è che gli uomini sono forse stanchi di libertà. Ne hanno fatto un’orgia...”. Cos’è seguito a questa stanchezza lo sappiamo: violenza, guerra, tragedia. Oggi, cent’anni dopo, corriamo gli stessi rischi? Temo di sì. Per fortuna non si vedono in giro nuovi Mussolini (gli imitatori sono comici), ma la mancanza di orgoglio per la nostra democrazia quotidiana è evidente. Le idee di libertà che alcuni sventolano (libertà di non vaccinarsi! libertà di girare imbottiti di cocaina!) sono grottesche; la malcelata ammirazione con cui molti parlano di un dittatore feroce come Putin è sconvolgente. Non sono stupide, queste persone: sono incoscienti, superficiali, pigre. E questo è ancora più grave. “Violenza sulle donne: o si investe sull’educazione o non ne usciremo mai” di Giuseppe Fantasia L’Espresso, 10 settembre 2023 L’ultimo femminicidio è quello di Marisa Leo. Più di settanta donne uccise per mano di un uomo. Linda Laura Sabbadini: “È la cultura maschilista che genera il seme e che lascia sole le vittime. Un circolo vizioso intergenerazionale terribile. Che va spezzato”. Sono più di 70 le donne uccise dall’inizio dell’anno, storie impossibili da dimenticare che seguono quasi sempre lo stesso copione: l’assassino che è è il partner o un ex e una relazione che è già finita o a cui volevano mettere fine. L’ultimo femminicidio accaduto vicino Marsala, in provincia di Trapani, lo dimostra. Marisa Leo, 39 anni, è stata uccisa con colpi di arma da fuoco dall’ex compagno che poi si è suicidato. Sui social la vittima si era esposta più volte contro la violenza di genere e nel 2020 aveva anche denunciato l’ex compagno per stalking senza però ottenere alcun aiuto. Ne abbiamo parlato con Linda Laura Sabbadini, ex direttrice dell’Istat, pioniera europea delle statistiche per gli studi di genere e tra le protagoniste della 12esima edizione del Festival della Politica, in programma a Mestre fino al 10 settembre prossimo con il titolo “La globalizzazione dopo la globalizzazione”. Come è possibile che accadano ancora episodi del genere? “Perché la violenza contro le donne è l’espressione della volontà di possesso e di dominio dell’uomo sulla donna. È l’espressione di una simmetria che c’è nella divisione dei ruoli e di una cultura del possesso del corpo delle donne di cui non ci siamo ancora liberati. Questa cultura maschilista trova molte donne in difficoltà nel riuscire ad arginare la violenza, perché sono in piena solitudine”. Perché la maggior parte delle donne che subisce una violenza non chiede aiuto? “Per tantissimi motivi. Prima di tutto perché la violenza viene da chi ti sta più vicino, dalla persona che loro amano o che amavano. Nutrono sempre la speranza che il problema possa risolversi. Non chiedono poi aiuto perché sanno che se lo chiedono, se denunciano, non saranno affatto tutelate. Non chiedono aiuto perché se devono andare sotto processo, dovranno dimostrare di non essere state consenzienti e di aver subito veramente violenza. Il problema è che la violenza contro le donne è una violenza che ha in primis una caratteristica familiare molto forte. Sono principalmente i partner o gli ex che uccidono le donne, che le violentano, che fanno violenza fisica e psicologica. I centri anti-violenza che sono fatti da donne, anche appassionate che si dedicano ad aiutare le altre, sono troppo pochi e non ce la possono fare. Non sono neanche tanto conosciuti”. Quale potrebbe essere la soluzione secondo lei? “O si investe seriamente su questa grandissima rete in modo che altre donne accompagnino altre donne nell’uscita dalla violenza oppure non ne usciremo. Ma in primis, bisogna investire sull’educazione”. I figli, laddove ci siano e assistano a quelle violenze, che reazioni avranno? “Se sono presenti, i dati mondiali - e non solo quelli delle ricerche Istat - ci dicono che se sono maschi hanno una maggiore probabilità rispetto agli altri bambini di diventare a loro volta da adulti autori di violenza. Se sono femmine, c’è il rischio che diventino a loro volta vittime, perché introiettano quei modelli. Tutto ciò è terribile, perché abbiamo una violenza, quella di oggi, che già ha creato il seme della violenza di domani. Questo circolo vizioso di violenza intergenerazionale, va spezzato”. In che modo? “Con un forte investimento in formazione. La scuola deve intervenire in modo deciso, perché la famiglia non basta, perché in molte famiglie la violenza continua purtroppo ad esserci”. Allarme suicidi tra i giovani: in Italia due vittime al giorno. “Casi raddoppiati in un anno” di Chiara Comai La Stampa, 10 settembre 2023 Una morte ogni dieci ore. Telefono Amico: “Serve una rete di prevenzione”. Cresce il numero di suicidi e di tentativi di togliersi la vita. In occasione della Giornata Mondiale per la Prevenzione del suicidio, sono numerosi i dati e gli allarmi diffusi dalle associazioni che si occupano di monitorare e di offrire supporto alle persone. Secondo quanto riportato dall’Osservatorio Suicidi della fondazione Brf, il gesto viene compiuto in media da una persona ogni 10 ore. Un aumento di quasi il doppio dei casi rispetto all’anno scorso. Da gennaio ad agosto 2023 sono stati segnalati 608 episodi (l’anno scorso erano 351) e 541 tentativi (391 nel 2022). “Si tratta di un dato al ribasso e purtroppo non scientifico - spiega lo psichiatra Armando Piccinni, presidente della Fondazione -. Bisogna considerare che non tutti i tragici eventi sono coperti dai media, specie per quanto riguarda i tentativi. In ogni caso si tratta di numeri drammatici. Servono adeguate politiche di prevenzione, che coinvolgano tutti gli attori in gioco: psicologi, psichiatri, insegnanti, famiglie”. La situazione risulta particolarmente allarmante per i giovani. Telefono Amico Italia, uno sportello di ascolto e supporto gratuito, da inizio anno ha ricevuto 3.700 richieste di aiuto, il 37% in più rispetto al 2022. Si tratta di oltre 20 chiamate al giorno. “Il periodo che stiamo vivendo sicuramente non aiuta a trovare un equilibrio psicologico e ad arginare preoccupazione ed ansia - spiega Monica Petra, presidente dell’associazione: le crisi si susseguono una dopo l’altra e molto spesso sono amplificate dal linguaggio dei media. Questo può avere un impatto negativo in particolare sui giovani, categoria particolarmente fragile”. Secondo quanto riportato dall’associazione, le richieste di aiuto sono arrivate soprattutto da ragazzi tra i 19 e il 35 anni (il 35% delle chiamate), e da adulti tra i 46 e i 55 anni (il 16%). Negli ultimi anni si è registrato un aumento di contatti anche da parte dei giovanissimi, chi ha meno di 19 anni. Secondo l’associazione, il maggior numero di richiesta di aiuto può essere conseguenza di un disagio che si fa sempre più pesante, oppure frutto di una maggiore apertura da parte delle persone sul tema. L’ipotesi è che questo tabù, quello del suicidio, potrebbe star piano piano scomparendo. E che quindi ci sia meno paura di chiedere aiuto. Per un tema così complesso e personale non ci si possono aspettare soluzioni univoche. Esistono però degli elementi protettivi, atteggiamenti quotidiani che possono evitare di accumulare malessere e disagio psicologico. “Spesso l’individuo cade in ginocchio quando più fattori si mettono insieme e sperimenta un “dolore mentale” - spiega Maurizio Pompili, direttore dell’unità di Psichiatria al Sant’Andrea di Roma -. Le persone a rischio di suicidio vorrebbero alleviare questo dolore, non pensare alla morte. Giocano quindi come elementi protettivi l’avere una rete sociale e familiare efficace, coltivare hobby o interessi, il limitare l’attività lavorativa e avere un buon riposo notturno”. Telefono Amico Italia oggi scenderà in venti piazze italiane con l’evento “Non parlarne è un suicidio”. L’obiettivo è proprio ribadire che di suicidio si può e si deve parlare. Il primo passo per fare prevenzione è rompere questo tabù. Per contattare Telefono Amico Italia esiste un numero unico telefonico nazionale (0223272327), un servizio di chat Whatsapp Amico (3240117252) e una email, accessibile attraverso la compilazione di un form anonimo sul sito www.telefonoamico.it. Una giornata importante, quella di oggi, anche per riportare alla luce il tema della salute mentale nelle carceri italiane. L’Ordine dei medici di Torino ha espresso un ricordo per le quattro persone detenute al penitenziario di Torino che si sono tolte la vita nell’ultimo anno. “Chiediamo che venga compiuto un coraggioso e rapido cambio di passo per intercettare bisogni e fragilità di queste persone” ha detto Guido Giustetto, presidente dell’Ordine. Il proibizionismo telefonico: ma siamo certi che sia davvero utile? di Alfonso Celotto La Stampa, 10 settembre 2023 Misure eccessivamente drastiche, se non accompagnate da effettivo controllo e prevenzione, non fanno altro che favorire illegalità e il mercato nero. Il telefonino ormai rappresenta il nostro terzo braccio (o, forse, il secondo cervello). Non ne possiamo fare a meno, al punto che se lo dimentichiamo una mattina a casa, ci sentiamo persi, disconnessi da tutto. I cellulari sono così fondamentali che ormai si pensa che proibirne l’uso possa diventare una misura di prevenzione della criminalità. Nel Comunicato stampa del Consiglio dei ministri dello scorso giovedì leggiamo che fra le varie misure per contrastare le baby gang si prevede “che il Questore possa proporre all’Autorità giudiziaria di vietare, a determinati soggetti di età superiore ai 14 anni, di possedere o utilizzare telefoni cellulari e altri dispositivi per le comunicazioni dati e voce quando il loro uso è servito per la realizzazione o la divulgazione delle condotte” illecite. Ovviamente dobbiamo attendere il testo del decreto in Gazzetta ufficiale per capire esattamente come funzionerà questa misura, che ha già creato molti dubbi. Innanzitutto, sulla sua reale efficacia. Ma siamo certi che vietare a una persona che vive ai margini della criminalità di usare il proprio cellulare sia una misura reale, o sia facilmente aggirabile, considerato che oggi in Italia ci sono all’incirca 80 milioni di cellulari attivi? Una misura del genere al limite può funzionare in un regime illiberale. Come ad esempio in Cina, che sta introducendo il limite di uso dei cellulari per i minori: 40 minuti per i bimbi sotto gli 8 anni; 1 ora fino a 16 anni e 2 ore tra i 16 e 18. Ma con una limitazione che viene imposta alla fonte, cioè ai produttori di telefonini, ai quali è stato anche chiesto di introdurre strumenti di controllo dei contenuti, per promuovere i valori fondamentali del socialismo e la cultura socialista avanzata, la cultura rivoluzionaria e l’eccellente cultura tradizionale cinese! Ebbene sì. Ma torniamo ai paesi liberali. Siamo certi che il proibizionismo sia davvero utile? Tutti ricordiamo cosa accadde con l’alcool negli Stati uniti. Il fervore fu tale che nel 1919 approvarono addirittura un emendamento alla Costituzione (il XVIII) per vietare fabbricazione, vendita, importazione e trasporto di alcool. L’effetto come tutti ricordiamo fu soltanto quello di sviluppare il mercato nero e il contrabbando, con enorme espansione del potere gangster, con in testa Al Capone, al punto che nel 1933 venne nuovamente modificata la Costituzione per riammettere l’alcool nel mercato legale. Misure eccessivamente drastiche, se non accompagnate da effettivo controllo e prevenzione, non fanno altro che favorire illegalità e il mercato nero. Si dovrebbe piuttosto pensare a misure efficaci per limitare la violenza, soprattutto nei giovani, anche educando, loro come noi, a un uso intelligente ed equilibrato degli strumenti digitali. Migranti. Il governo: più espulsioni e Cpr. Ma il piano Piantedosi è inutile di Vitalba Azzollini* Il Domani, 10 settembre 2023 Nel mese di agosto, a fronte del crescente numero di sbarchi, il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha annunciato un nuovo decreto in tema di immigrazione. Inquadrare quanto anticipato dal ministro nell’attuale contesto normativo può aiutare a capirne ex ante gli effetti. La valutazione preventiva degli impatti da parte del legislatore dovrebbe sempre precedere l’introduzione di nuove disposizioni, ma raramente viene fatta. Gravi reati - Piantedosi ha detto che il decreto di prossima emanazione conterrà “misure per facilitare il rimpatrio dei migranti irregolari che si sono distinti per condotte violente o pericolose”. Attualmente, il Testo unico dell’immigrazione (d. lgs. n. 286/1998) prevede che l’autorità giudiziaria, a seguito di condanna - tra gli altri - per reati che comportano l’arresto in flagranza o la reclusione per più di due anni oppure reati legati al traffico di stupefacenti, possa decidere l’espulsione dello straniero che abbia già scontato la pena. In questo caso l’espulsione è una “misura di sicurezza”, applicata al condannato che sia ritenuto dal giudice persona socialmente pericolosa. L’espulsione può essere disposta anche come “misura sostitutiva” oppure “alternativa” alla reclusione, a seguito di condanna dello straniero irregolare a una pena detentiva non superiore a due anni. Forse Piantedosi intende estendere il novero dei reati per i quali può procedersi a espulsioni, nonché ampliare i casi in cui il relativo ordine può essere impartito anche dal prefetto. Ma, come si vedrà, non basta aumentare i provvedimenti di espulsione per ottenere effettivi rimpatri. I Cpr - Il ministro dell’Interno ha dichiarato che intende “realizzare altri Cpr, i Centri di permanenza per i rimpatri”, ove i migranti sottoposti a ordine di espulsione vengono trattenuti in attesa del rimpatrio. I Cpr sono centri di detenzione amministrativa, e non prigioni, ma le condizioni sono pure peggiori, mancando spesso anche le garanzie basilari a tutela di diritti essenziali previste dall’ordinamento penitenziario. Ed è difficile accedervi per qualunque ente voglia verificarne la situazione. La Corte europea dei diritti dell’uomo è intervenuta più volte in tema di Cpr, e nel 2016 ha accertato (sentenza Khlaifia e altri c. Italia) la violazione della Convenzione europea dei diritti umani da parte dello Stato italiano per il trattenimento illegittimo di migranti a Lampedusa. Aumentare questi centri, con la finalità dichiarata di effettuare maggiori rimpatri, non garantisce automaticamente tale risultato, in mancanza di più accordi con i paesi di origine. Pertanto, con i nuovi Cpr si continuerà ad alimentare la permanenza degli stranieri irregolari in luoghi più degradati rispetto alle prigioni, senza che l’obiettivo di allontanarli dal paese possa sempre essere realizzato, anzi. Anche per questo motivo il Garante dei detenuti ha affermato che la detenzione nei Cpr rappresenta un “meccanismo di marginalità sociale, confino e sottrazione temporanea allo sguardo della collettività di persone che le Autorità non intendono includere, ma che al tempo stesso non riescono nemmeno ad allontanare”. Nuove procedure - Piantedosi ha anche parlato dell’attivazione delle “nuove procedure accelerate previste dal decreto legge approvato a Cutro” (n. 20/2023), sempre al fine di agevolare i rimpatri. Si tratta di un iter più rapido, per chi presenti una richiesta di protezione all’ingresso in Italia provenendo da “paesi d’origine sicuri”. Sono i paesi nei quali, in via generale, non si registrano persecuzioni, torture, violenze indiscriminate o altro (direttiva 2013/32/UE), e che pertanto sono inseriti in un apposito elenco. L’Italia oggi considera “sicuri” 16 paesi. Il decreto Cutro stabilisce una presunzione di infondatezza della richiesta di asilo da parte degli stranieri che arrivano da tali paesi, e ciò garantirebbe la velocità della relativa procedura. Il migrante può dimostrare di aver diritto ad accoglienza per la propria situazione personale, ma verso la sua istanza resta comunque una valutazione negativa ex lege. Ciò suscita molti dubbi. La protezione internazionale esige una valutazione caso per caso, e non in via generale in base alla nazionalità. La procedura accelerata non assicura che i rimpatri siano velocizzati. Non basta - lo si ribadisce - ordinare l’espulsione, sebbene attraverso un iter semplificato, per allontanare un migrante. Peraltro, solo con l’espulsione mediante accompagnamento coatto - procedura complessa e costosa - si è certi del rientro in patria. Mentre il mero ordine di lasciare l’Italia con mezzi propri - secondo tipo di espulsione - non fornisce alcuna garanzia, poiché si limita a dare al migrante un periodo di tempo entro cui partire. Questo è il motivo per cui gli stranieri irregolari effettivamente rimpatriati sono inferiori rispetto al numero di atti di espulsione. Piantedosi vuole inoltre modificare la cosiddetta Legge Zampa (n. 47/2017) sui minori non accompagnati, ponendo a loro carico l’onere di dimostrare di non essere maggiorenni, poiché “troppi giungono in Italia dichiarando un’età inferiore per avvantaggiarsi delle tutele previste per i minorenni”. Ma per chi ha affrontato una traversata in mare, e talora un naufragio, provare la propria età può essere impossibile. Il Cisr - Un ultimo cenno va fatto al Comitato interministeriale per la sicurezza della Repubblica (Cisr), organismo inserito nel Sistema di informazione per la sicurezza, cioè nei Servizi, con a capo il presidente del Consiglio e composto dai ministri di affari esteri, interno, difesa, giustizia, economia e sviluppo economico. Nell’ultimo Consiglio dei ministri, Giorgia Meloni ha affermato che il Cisr raccorderà ogni azione sull’immigrazione. In questo modo, il Viminale viene “commissariato” e il ministro dei Trasporti, Matteo Salvini, resta escluso. A parte questo, coinvolgere il Cisr significa affrontare il tema sul piano esclusivamente della sicurezza, e non dell’integrazione. Nonostante si tratti di un fenomeno strutturale, la logica rimane quella emergenziale. Peraltro, da aprile vige uno stato di emergenza per l’immigrazione, e non è chiaro quali benefici abbia apportato. Con l’intervento del Cisr può immaginarsi che calerà su dati e informazioni una coltre di “segreto” ancora più spessa di quella attuale. Oggi non c’è trasparenza su rimpatri, uso delle risorse destinate a paesi africani, situazione dei Cpr e molto altro, come invece servirebbe per consentire alle persone di farsi un’idea fondata, al di là delle “narrazioni”. Chi esercita poteri pubblici dovrebbe sempre rendere conto. Purtroppo, spesso non lo fa. *Giurista Droghe. La guerra del governo alla cannabis: vietati anche aromi, oli e cosmetici di Rita Rapisardi L’Espresso, 10 settembre 2023 “Così si distrugge un intero settore industriale”. Tra pochi giorni entra in vigore l’obbligo di ricetta medica per tutti i prodotti con CBD, la molecola non psicotropa e che non crea dipendenza contenuta nella pianta. Che invece ora sarà equiparata alle sostanze stupefacenti a rischio abuso. Anche se la scienza dice tutt’altro. Made in Italy, piccola e media impresa, settore agricolo italiano. Dal suo insediamento il governo Meloni ripete ossessivamente queste parole d’ordine, in continui spot tra ministeri appositi e comparsate nelle fiere di settore: eppure pare esserseli dimenticati. È infatti nella direzione opposta che viaggia il nuovo decreto firmato Schillaci che inserisce il cannabidiolo (CBD), molecola non psicotropa e che non crea dipendenza, contenuta nella pianta di cannabis, quando destinata ad uso medico, tra le sostanze stupefacenti a rischio di abuso. Una decisione che va a toccare nel vivo l’intero settore della canapa industriale italiana che oggi conta 12mila occupati (senza contare l’indotto) e con un’alta percentuale di under 35 al suo interno, e che cambia dall’oggi al domani la vita lavorativa di migliaia di persone. Infatti inquadrando una qualsiasi sostanza tra quelle a rischio d’abuso si entra in pieno conflitto con la commercializzazione dello stesso per altre destinazioni lecite come quella cosmetica e in prospettiva come integratori alimentari “novel food”. “Tra pochi giorni festeggeremo un anno di attività, siamo ottimisti, ma sappiamo che è dura, certe mattine è veramente difficile”, racconta Erika Pozzetti, che con i suoi due fratelli ha fondato la Treepoties, un’azienda specializzata in Canapa che prende ispirazione da una lunga tradizione familiare di attività nella cosmesi naturale e negli integratori. “Abbiamo deciso di concentrarci sulla canapa, per i benefici della pianta a tutti i livelli, e per entrare in un mercato innovativo e tanto richiesto in Europa. Ma anche per combattere un pregiudizio, con la voglia di fare divulgazione”. Sono infatti sempre di più le persone che valutano alternative a farmaci “pesanti” e che trovano la risposta nel CBD che ha proprietà antinfiammatorie, antiepilettiche e antiemetiche. “Si mette in ginocchio un settore e le persone che nel CBD hanno trovato una risposta migliore e che per esempio per dormire meglio usano l’olio di CBD per non prendere le benzodiazepine che creano dipendenza”, conclude Pozzetti. In pratica tra un mese, quando il decreto entrerà in vigore, per acquistare l’olio a base di CBD servirà una ricetta medica (non ripetibile) come avviene nei farmaci considerati pericolosi ed alto rischio abuso, come gli ansiolitici e gli antidepressivi. “È qualcosa che non avremmo permesso per nessun altro settore, pensiamo ai tassisti che tengono in mano il paese, per chi lavora la canapa invece, neppure una parola. Una spallata a un intero settore, senza una proposta alternativa - commenta Antonella Soldo di Meglio Legale - persone che hanno investito soldi e preparazione in aziende, creato posti di lavoro e innovazione, che pagano le tasse”. Le mire proibizioniste del governo sono note, ma quello che non torna nella decisione presa da Schillaci, e che in realtà riesuma un decreto approvato per la prima volta dal ministro Speranza nel 2020, poi sospeso, è la valutazione scientifica del tutto sbagliata sul CBD: “Il vero problema è dove è stato inserito il CBD, cioè tra le sostanze psicotrope, quando questa non lo è. Questo inquadramento tra le droghe a rischio di abuso non ha nessuna prova scientifica. Legalizzare o meno la cannabis è una scelta politica, antiproibizionista o no, ma scientificamente qui non c’è valore”, spiega Mattia Cusani di Canapa Sativa Italia, un’associazione nazionale di settore che si sta già muovendo per fermare il decreto. “Abbiamo già scritto ad Aifa e al ministero della Salute a riguardo e speriamo venga ritirato o corretto, ad esempio inserendo il CBD nei farmaci senza prescrizione medica e divieti di pubblicità, ma se ciò non avvenisse abbiamo già in mente di ricorrere al Tar ed eventualmente alla Commissione Europea”. La regolazione del CBD infatti è di competenza europea e la sua commercializzazione è consentita proprio perché è una sostanza sicura. La decisione del governo Meloni va completamente in direzione opposta rispetto a quanto avviene in Europa, dove da tempo è stato avviato un percorso per una normativa comunitaria sui cosiddetti “novel food”. Un percorso, quello europeo, che legittima la libera circolazione del CBD per i cosmetici e gli integratori alimentari e non si fa alcuna menzione del rischio di abuso. Di più, alcuni paesi stanno andando oltre. La Francia ha approvato una legge per considerare il CBD un integratore: il Senato ha stimato un mercato che potrebbe fatturare fino a 2,5 miliardi di euro all’anno. “Qual è lo scopo di questo decreto, dare i soldi alle aziende straniere? Un prodotto da 100 ml da noi il consumatore lo paga 250 euro iva inclusa, con una ricetta non ripetibile come farmaco stupefacente invece, lo Stato, e quindi tutto noi, pagherà 1700 euro senza iva da una società britannica “, commenta Costantino Gianfrancesco di Green Labs, che produce prodotti a base di CBD, venduti anche nelle farmacie, come burro cacao, creme antiage e oli per massaggi; unica azienda specializzata in Molise e che conosce bene la repressione ideologica nei confronti del settore: da anni infatti subisce controlli indiscriminati come se agisse nell’illegalità. Come lui centinaia di aziende: processi vinti nella totalità dei casi, secondo i dati di Meglio Legale, ma che risultano assai onerosi per l’industria spesso privata della materia prima sottoposta a sequestro. “Dopo che per anni ci hanno tenuti sospesi in assenza di una normativa chiara sull’uso tecnico, ora questo. Registreremo il prodotto per il solo uso cosmetico, ma così non possiamo usare l’estratto. Devo andare ad aprire il mio laboratorio altrove? In Germania o Repubblica Ceca? Così si crea ansia e disagio a un intero settore che da tempo dimostra di fare bene”. “Mentre il settore vinicolo non si tocca, anzi sembra esserci un incentivo di stato all’abuso, come l’iniziativa del ministro Salvini che propone i taxi fuori dalle discoteche si fa una guerra morale e non scientifica - conclude Soldo - Non è un caso che dove le democrazie sono traballanti le leggi sulle sostanze sono pesanti”. Medio Oriente. Flavio Albertini Rossi: “In Israele totale spregio dei diritti di civiltà giuridica” di Michele Giorgio Il Manifesto, 10 settembre 2023 L’avvocato del ricercatore italo-palestinese arrestato da Israele il 31 agosto ha riferito ieri del timore della famiglia che in mancanza di prove la detenzione penale venga sostituita con la detenzione amministrativa, allungando i tempi dell’arresto. La preoccupazione della famiglia di Khaled El Qaisi, il giovane ricercatore universitario italo-palestinese arrestato dalla guardia di frontiera israeliana lo scorso 31 agosto al valico di Allenby al termine di una vacanza a Betlemme, è che in mancanza di prove la detenzione penale venga sostituita con la detenzione amministrativa, allungando i tempi dell’arresto. Quella amministrativa viene applicata dalle autorità israeliane anche in mancanza di accuse formali e di prove concrete e prevede il carcere per periodi di alcuni mesi rinnovabili a discrezione del giudice. A comunicare questi timori è stato ieri l’avvocato Flavio Albertini Rossi, legale della famiglia di Khaled El Qaisi. La detenzione amministrativa, ha spiegato Albertini Rossi, è la “Condizione giuridica nella quale si trovano altri 1200 palestinesi ristretti in carcere senza un’accusa formale, senza alcuna prova e senza poter conoscere le ragioni del loro trattenimento”. Tre giorni fa si è tenuta a Rishon Lezion l’udienza relativa alla proroga del trattenimento in carcere di Khaled. Il giudice ha deciso il prolungamento della detenzione fino al 14 settembre quando il ricercatore dovrà comparire di nuovo davanti alla corte. Durante l’udienza El Qaisi e il suo difensore locale non hanno potuto comparire insieme, perché impossibilitati per legge a vedersi e comunicare e non potranno incontrarsi quantomeno fino al 12 settembre. Si è inoltre appreso del suo trasferimento al carcere di Ashkelon. Albertini Rossi sottolinea il “totale spregio dei diritti di civiltà giuridica operati dalla legislazione israeliana ovvero la violazione di tutele, comunemente riconosciute in Italia (art. 13-24-111 della Cost.) e in Europa (art 6 CEDU) e in seno all’ONU (artt. 9-14 Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici), la cui osservanza consente di definire un processo ‘equo’ e un arresto ‘non arbitrario’”. L’avvocato spiega che al giovane ricercatore non è consentito conoscere gli atti che hanno determinato la sua custodia e la sua possibile durata. E che i motivi del suo arresto sono generici e fondati su meri sospetti. “In considerazione dell’allarmante situazione detentiva di Khaled - conclude Albertini Rossi - e del mancato rispetto dei suoi diritti umani si chiede che si faccia tutto il possibile per ottenerne l’immediata liberazione e il suo ritorno in Italia”. Nel frattempo, cresce la mobilitazione a sostegno della liberazione immediata del giovane italo-palestinese e le iniziative per sollecitare i mezzi d’informazione a riferire con continuità notizie su Khaled e il suo arresto da parte di Israele.