Il sistema carcerario ha bisogno di una riflessione culturale prima ancora che politica di Gian Maria Fara* leurispes.it, 9 ottobre 2023 Da sempre l’Eurispes è attento osservatore del sistema della Giustizia. Di particolare interesse sono stati, negli anni, i temi affrontati dal nostro Istituto partendo dalla necessità di descrivere un universo complesso. Le indagini che abbiamo proposto, già dai primi anni Ottanta, si sono concentrate nel sondare la qualità del rapporto esistente tra i cittadini e la Giustizia anche in termini di volontà di cambiamento della normativa che regola il nostro sistema. Tra i tanti temi che abbiamo portato all’attenzione dell’opinione pubblica, sicuramente quello relativo ai meccanismi reali dello svolgimento del processo penale e quello dell’ingiusta detenzione legata agli errori giudiziari sono ben rappresentativi dello sforzo che l’Istituto ha sempre posto in direzione di una sempre maggiore necessità di individuare le falle di un apparato, quello della Giustizia, che resta essenziale per la vita democratica. In una fase storica in cui quello della Giustizia appare come uno dei nodi prevalenti del dibattito politico e, più in generale, delle riflessioni sullo sviluppo del Paese, la questione del sistema carcerario si pone con un’urgenza nuova, culturale prima ancora che politica. Esiste in primo luogo un problema, tecnico per certi versi, di affollamento delle attuali strutture penitenziarie e di conseguenti precarietà delle condizioni sociali, fisiche e sanitarie dei detenuti. Correlata a quest’ordine di considerazioni, ma su un piano non necessariamente strumentale, appare la dinamica della individuazione di forme alternative alla reclusione fisica, attraverso le quali sia possibile favorire il recupero e il reinserimento sociale del condannato e limitare il danno sociale dell’attività criminosa. Contemporaneamente cresce il bisogno di sicurezza, intensificato per i molti episodi di microcriminalità e per l’efferatezza di alcuni eventi di cronaca. Tale istanza, raccolta da ampi settori dell’informazione mass-mediale, si pone come uno dei temi quotidiani dell’agenda politica nazionale e rappresenta uno degli argomenti forti intorno al quale si va strutturando la trasformazione del sistema penitenziario. Il ruolo della detenzione varia notevolmente nei confronti dei diversi delitti - Il carcere riveste infatti un ruolo di primo piano nella risposta sociale alla devianza, presentandosi come passaggio oggettivo e strategico nel controllo e nel contrasto alla criminalità. Una riflessione critica e approfondita sul ruolo e sulla funzione del carcere risulta indispensabile all’interno di un processo di lettura e di analisi del significato culturale e sociale del reato, e per l’esame delle cause e degli effetti del disagio sociale. Un processo di continua ridefinizione e mutamento investe la ricerca di senso delle sue stesse funzioni: punitive, rieducative, reclusorie, di tutela. La percezione dei confini e dell’importanza relativa di queste funzioni è soggetta a processi di evoluzione e di crescita della sensibilità sociale e sottoposta alle sollecitazioni dell’opinione pubblica, della classe politica e dei responsabili istituzionali. Il ruolo della detenzione varia notevolmente nei confronti dei diversi delitti; si presenta quindi la necessità di adottare molteplici princìpi ordinatori e, di conseguenza, differenti prassi carcerarie per le diverse tipologie di reclusi. Il sistema carcerario italiano sembra soffrire ancora di una conoscenza parziale delle sue criticità, lontana da una lettura sistemica - Questa mutevole percezione sociale che circonda gli obiettivi, il significato e il valore dell’istituzione carceraria sembra aver influito negativamente sulla normativa e sulla vita pratica dell’istituzione, dove spesso le soluzioni sono state affidate alla buona volontà dei giudici e dei funzionari. Inoltre, gli attuali vincoli e le difficoltà di bilancio impongono anche alla istituzione carceraria una gestione sempre più attenta e trasparente delle risorse. Le condizioni di vita e il trattamento economico del personale rappresentano un impegno che l’Amministrazione carceraria è chiamata ad affrontare e a risolvere con una conoscenza chiara ed approfondita delle esigenze degli operatori, conoscenza indispensabile per adeguare la normativa e la spesa. Il sistema carcerario italiano sembra, dunque, soffrire ancora di una conoscenza parziale delle sue criticità, lontana cioè da una lettura sistemica, con conseguenti difficoltà di proposta e di attivazione di politiche settoriali ampie, efficaci e condivise dall’opinione pubblica. Giustizia e insularità, la reclusione non può essere esclusione dalla società civile - Proprio nei giorni scorsi l’Osservatorio dell’Eurispes sull’Insularità guidato dal Prof. Aldo Berlinguer ha promosso un incontro sul tema delle isole carcere al quale hanno preso parte, tra gli altri, il Ministro Nello Musumeci, il Vice Ministro alla Giustizia, Francesco Paolo Sisto, il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Giovanni Russo, e Debora Serracchiani, componente Commissione Giustizia della Camera dei Deputati. Esse sono un’isola nell’isola del mondo della detenzione. Possiamo dire, infatti, che rappresentano un unicum, una peculiarità tutta italiana. Le isole-carceri infatti sono ancora presenti sul nostro territorio, in molti casi si tratta di strutture dismesse ma non avviate ad altri usi. Esse si trovano in maggioranza sulle isole minori che costellano il nostro mare. Storicamente il tema dell’insularità e della relegazione si intrecciano in maniera inesorabile, soprattutto in una concezione arcaica che ha costruito un sistema di carcerazione in cui il detenuto è reietto e va allontanato il più possibile dalla società civile. L’isolamento come condizione da superare e non come mezzo punitivo - Proprio per questo, oggi è necessario affrontare il tema delle isole destinate ad accogliere strutture detentive sotto due diversi punti di vista. Il primo è quello del riportare il detenuto in una dimensione di recupero - dunque di prossimità rispetto all’ambiente sociale - e con esso anche gli addetti alla detenzione che condividono e subiscono lo stesso isolamento e dunque, in parte, la stessa pena. Il secondo aspetto riguarda invece il riportare questi micro-territori ad un utilizzo più confacente rispetto agli obiettivi della sostenibilità, ma anche indirizzarli verso un percorso di accoglienza, nel pieno rispetto dei nuovi paradigmi ambientali, che possa usare la leva del turismo come volàno per aree attualmente marginali e impoverite. *Presidente dell’Eurispes Beniamino Zuncheddu, innocente in carcere da 33 anni? Intervista a Irene Testa di Cinzia Santoro mentinfuga.com, 9 ottobre 2023 Otto gennaio 1991, a Sinnai paese di appena tredicimila anime, nell’area metropolitana di Cagliari, in un gelido ovile in contrada Cuile is Coccus, vengono ammazzati Gesuino e Giuseppe Fadda e il loro dipendente Ignazio Pusceddu. Si salva un giovane, genero del titolare, che resta ferito. Viene riconosciuto e arrestato come autore della strage Beniamino Zuncheddu. Il testimone chiave dichiarerà di aver riconosciuto il killer in un secondo momento. Non avendo un alibi e essendo stato protagonista di una “faida” tra pastori circa l’uso dei pascoli in quel territorio, l’accusato è ancora in carcere dopo 33 anni. Zuncheddu si è sempre dichiarato innocente. Potrebbe confessare e avere la libertà condizionale, ma preferisce urlare la sua innocenza. Le nuove indagini le riapre la procuratrice generale Francesca Nanni, tre anni fa. La stessa dichiara che ascoltando delle intercettazioni, era venuta a conoscenza del depistaggio che indirizzava verso la colpevolezza del giovane a beneficio di alcuni confidenti del giudice Luigi Lombardini, implicati nel sequestro dell’imprenditore Gianni Murgia. Tutti i testimoni chiave vengono riascoltati davanti ai giudici della corte d’appello di Roma. Tre i punti convergenti con la tesi innocentista. Al testimone era stata mostrata una foto di Zuncheddu da un carabiniere, prima che avvenisse il riconoscimento ufficiale durante l’interrogatorio. Inoltre la strage fu compiuta nelle ore serali, al buio e quindi era impossibile vedere il volto dell’assassino. E poi Beniamino Zuncheddu non possedeva terra o bestiame, quindi non c’era alcun motivo di ammazzare i tre pastori. Si è mobilitata l’intera comunità di Burcei, incluso il sindaco Simone Monni, tutti convinti dell’innocenza dell’uomo. Vengono organizzate manifestazioni a favore di Beniamino, ormai provato nel corpo e nello spirito dalla ingiusta detenzione. Vi partecipano numerosi esponenti del partito radicale, tra cui Gaia Tortora, figlia del compianto Enzo che fu anche lui protagonista di uno dei più scandalosi errori giudiziari italiani e Irene Testa, Garante dei diritti delle persone sottoposte a privazione della libertà della Regione Sardegna. Abbiamo raggiunto al telefono la dottoressa Irene Testa che è anche militante e tesoriera del Partito Radicale. Conduce la rubrica Lo stato di diritto su Radio radicale ed e è autrice di diverse pubblicazioni tra cui Il fatto non sussiste Storie di orrori giudiziari. Dottoressa Testa come sta il signor Zuncheddu? Il signor Zuncheddu non sta bene. È chiaro che, dopo 33 anni di carcere, le intercettazioni venute fuori tre anni fa e la riapertura del processo hanno cambiato la sua prospettiva di vita. Beniamino non sopporta più la sua iniqua detenzione carceraria. Psicologicamente e fisicamente è molto provato. Costa sta facendo per il caso? Come ha detto il parroco di Burcei, il paese di Beniamino, Don Giuseppe Pisano, noi dobbiamo “brillare” per lui, ossia accendere un faro su questa vicenda, affinché gli errori commessi possano essere rimediati. La giustizia talvolta sbaglia ma vi è anche una parte di magistratura sana che può porre rimedio. Infatti, in questa vicenda, la procuratrice dottoressa Nanni ha portato alla luce tutti i punti oscuri del primo processo e ne ha richiesto l’apertura. Dobbiamo aiutare Beniamino a fare in modo che i giudici, che in questo momento si stanno occupando della sua vicenda giudiziaria, possano arrivare alla conclusione in tempi rapidi. La revisione del processo è in piedi da tre anni e questo tempo è stato impiegato a trascrivere le intercettazioni che in parte erano in dialetto sardo. Le intercettazioni a favore della piena innocenza di Beniamino e la prova labile con cui il signor Zuncheddu fu condannato, depongono all’assoluzione piena dopo 33 anni di ingiusta detenzione. Come mai i tempi della giustizia sono così lenti? Dobbiamo continuare ad avere fiducia nella giustizia. Purtroppo i tempi della giustizia sono lenti e questo lo denunciamo da sempre anche come Partito radicale. I nostri tribunali sono invasi da procedimenti civili e penali che occupano le scrivanie dei giudici mentre il cittadino ha bisogno di una giustizia rapida. Occorrerebbe comunque una riforma urgente della giustizia, per tutti i cittadini che ogni anno vengono arrestati e condotti in carcere in attesa di giudizio e per tutti i detenuti innocenti come il nostro Beniamino Zuncheddu. La giustizia è la madre di tutte le riforme. basti pensare che la carcerazione preventiva nel nostro paese conta nel totale, tra primo e secondo grado di giudizio, 22 mila persone senza condanna definitiva ospitate le nostre carceri. una vergogna assoluta, spesso protratta per mesi e anni ai danni di donne e uomini, di corpi ammassati all’interno delle nostre galere, che aspettano un giudizio. È dimostrato che oltre il 15% risultano poi innocenti. Uomini che vengono considerati niente di più che fascicoli di carta o semplicemente un numero di matricola. Intere famiglie vengono lasciate nel limbo, nella sofferenza e nell’ attesa. esasperati da un magistero, quello della giustizia che dovrebbe essere quello più vicino ai cittadini. Invece i cittadini di quel magistero hanno paura. Da anni come Partito Radicale ci logoriamo nel chiedere alla politica non solo di trovare il coraggio di riformare la giustizia ma almeno di dibatterne. Invece questo dibattito è sempre rimasto ai margini. I cittadini italiani hanno il diritto di pretendere una giustizia che funzioni improntata davvero su principi garantisti come la Costituzione ci consegna, perché potrebbe capitare a tutti di essere potenziali vittime di leggi che non funzionano e di indagini viziate o viziose e di venire ingiustamente incarcerati. Le stime di chi studia il fenomeno ci dicono che ogni 8 ore una persona finisce ingiustamente in carcere per un totale di 3 persone al giorno, di 1.000 ogni anno, con un costo che non è solo umano ma anche economico che lo Stato italiano paga con i soldi dei contribuenti italiani. E su questo per sapere con precisione l’ammontare totale della spesa, oggi sappiamo che un giorno di carcere costa allo Stato 230 euro e un giorno ai domiciliari circa 117 euro ma per avere il totale e un quadro completo che si otterrebbe solo attraverso il Mef che si occupa dei risarcimenti veniamo a sapere che il Ministro dell’Economia e delle Finanze non può fornire i dati che vanno dal 2015 al 2020 perché questo richiederebbe uno sforzo immane e manderebbe in tilt il lavoro del ministero che non ha le risorse umane a disposizione. La conseguenza è che abbiamo milioni di documenti mai digitalizzati, non esiste un database e quindi i documenti sono sparsi qua e là all’interno di fascicoli di pagamento. Ecco quanto vale la vita di un uomo che magari prima di prendere quel risarcimento è morto. Il caso Catania: se il giudice si chiede “cosa rischio?” di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 9 ottobre 2023 Dal latinorum bisognerebbe magari ricordarsi anche un’altra formuletta, “sine spe et sine metu”, e cioè la certezza che il magistrato da cui attendono risposta non coltivi speranze di vantaggi né tema ripercussioni dalla decisione che sta prendendo. La seconda domanda. Nessuno se ne sta preoccupando, eppure è quella cruciale non dal punto di vista di magistrati e politici, ma dei cittadini. Perché la disamina della fondatezza giuridica dell’ordinanza della giudice catanese Apostolico, le riflessioni sull’opportunità per le toghe di surfare sui social e partecipare a manifestazioni, gli interrogativi sui fornitori ministeriali del magma mediatico riversabile sulla toga o sul politico o sul giornalista sgraditi, sono dita rispetto alla luna vera, che si vede solo se si uniscono tutti i puntini di questa stagione di giudici messi dal ministro della Giustizia sotto procedimento disciplinare per aver motivato gli arresti domiciliari di un russo poi evaso prima dell’estradizione. Di pm preventivamente diffidati dal governo a non azzardarsi a verificare la segretezza o meno del documento ministeriale passato da un sottosegretario al coinquilino compagno di partito, e da questi utilizzato per attaccare in Parlamento l’opposizione. Di magistrati tacciati da Palazzo Chigi di aver “scelto di svolgere un ruolo attivo di opposizione” quando una ministra fa finta di non sapere di essere indagata da un anno, o a una Procura tocca verificare la denuncia di una ragazza contro il figlio del presidente del Senato. Di giudici accusati di lesa maestà imprenditorial-sindacale perché, contestando il caporalato in salari da fame contrastanti con l’articolo 36 della Costituzione pur se contrattualmente sottoscritti, inducono le aziende commissariate a sistemare 11mila lavoratori e restituire all’Erario centinaia di milioni di euro. Di caccia all’uomo togato dopo ogni femminicidio, benché a cadavere ancora in strada nemmeno si sappia se e quali elementi di conoscenza quel magistrato avesse negli atti. E di ostruzionismi a magistrati rei di passate decisioni sgradite al partito dei consiglieri Csm che ora gli fanno la guerra, così che tutti imparino quanto le loro carriere future possano ormai dichiaratamente essere scrutinate alla luce del favore o sfavore politico del loro lavoro. L’adagio per cui “il magistrato come la moglie di Cesare dovrebbe non solo essere ma anche apparire imparziale” viene brandito contro la giudice Apostolico che 5 anni fa non trattava procedimenti di immigrazione, ma curiosamente non contro l’ex senatore forzista Enrico Aimi che l’ha già pubblicamente condannata pur essendo il presidente della Commissione Csm che dovrá giudicarne l’incompatibilità ambientale invocata da tutta la destra. Ecco perché dal latinorum bisognerebbe magari ricordarsi anche un’altra formuletta, “sine spe et sine metu”, precondizione della fiducia dei cittadini sottoposti a giudizio o in cerca di tutela: e cioè la certezza che il magistrato da cui attendono risposta non coltivi speranze di vantaggi né tema ripercussioni dalla decisione che sta prendendo nell’esercizio della giurisdizione. Ma se nella testa del giudice, accanto alla prima domanda che dovrebbe essere anche l’unica (chi ha ragione in questo caso in base alle leggi?), inizia a ronzare pure una seconda domanda (se prendo la decisione verso cui mi sto orientando per legge, mi accadrà qualcosa di bello o di brutto? Mi troverò la vita setacciata dai cassetti del ministro e dai suoi media fiancheggiatori? Sarò favorito o danneggiato nei contesti istituzionali che avranno voce in capitolo sulla mia vita professionale?), allora la sua indipendenza è già intaccata, e il conformismo alle decisioni più comode già incoraggiato. E accadrà che quando un magistrato dovrà decidere se un poliziotto abbia picchiato un fermato o ne sia calunniato; se l’imperizia di un medico abbia concorso alla morte del paziente o i familiari denuncianti siano solo accecati dal dolore; se il sospettato di un fatto di cronaca eclatante debba o no essere messo intanto nel carcere invocato dalla piazza urlante; se si debba sequestrare una fabbrica che inquina una comunità, oppure evitare l’errore di buttare per strada gli operai; se una lancinante questione di bioetica legittimi nuove dinamiche familiari; se di fronte a una segnalazione di abusi sessuali in famiglia debba precipitarsi a togliere la figlia al padre (col rischio poi di vedersi addebitare il suicidio di un innocente in carcere), o essere impermeabile alla strumentalità di una denuncia frutto di conflittualità familiare (col rischio invece di sentirsi rimproverare di aver lasciato la figlia in mano all’orco vero): ecco, in tutti questi casi, d’ora in avanti il cittadino avrà di fronte a sé un magistrato che si sta facendo “la seconda domanda”. E il fatto che questa seconda domanda inevitabilmente finisca per sfavorire la parte più debole, qualunque sia nel contenzioso dalla cui soluzione il magistrato abbia da temere contraccolpi o attendersi gratificazioni, smette di essere un affare tra magistrati e politici. E comincia a fare paura a ogni a cittadino. L’autodifesa a priori che fa male alle toghe di Alessandro Campi Il Messaggero, 9 ottobre 2023 La polemica che occupa la cronaca politica di questi giorni sembra una riedizione della classica storiella del dito e della luna. Cosa indicare come prioritario nel caso che sta contrapponendo il ministro Matteo Salvini (e con lui il governo di centrodestra) alla giudice catanese Iolanda Apostolico? Il principio ordinamentale della terzietà del giudice, che si vorrebbe sempre distinto ed equidistante dalle parti su cui ci si pronuncia, o l’agitazione propagandistica e strumentale messa in opera da un leader politico con toni in effetti forzati? Detto diversamente, è più grave che un magistrato partecipi a una protesta di piazza contro il governo, per poi pronunciarsi contro di esso sulla stessa materia oggetto della protesta, o che venga diffuso un filmato che, ritraendola in prima fila nella manifestazione, ne mette seriamente in discussione l’imparzialità? Sui giornali si stanno leggendo in questi giorni interventi accorati sui rischi di una deriva politica illiberale. Si parla di attacchi alla magistratura che minano le fondamenta della democrazia repubblicana e di un pericoloso ritorno ai dossieraggi di Stato. Si sprecano le solite citazioni di Piero Calamandrei e degli articoli della Costituzione che tutelano l’indipendenza dei giudici. Una campagna ben orchestrata, come tante in passato nello stesso stile, che glissa però colpevolmente su un punto tanto semplice quanto dirimente: la passione ideologico-militante che brucia nel petto di una frazione della magistratura italiana a rischio d’offuscarne il rigore professionale e la legittimità funzionale nel quadro dei diversi poteri dello Stato. È un problema, quello della magistratura politicizzata che non nasconde di esserlo e agisce di conseguenza, che ci si trascina da trent’anni almeno, durante i quali - per chi non se fosse accorto - si è però realizzato un cambio di umore collettivo che dovrebbe far riflettere tutti coloro che oggi indossano una toga e tengono seriamente al loro ruolo istituzionale e agli equilibri democratici. Dall’inizio di Tangentopoli, per una lunga fase, la figura del magistrato combattente a difesa dei cittadini contro i soprusi operati dalla classe politica ha goduto una vasta simpatia. Un pezzo significativo dell’opinione pubblica italiana ha effettivamente creduto che toccasse a procuratori e giudici salvare la democrazia dai nemici che la stavano corrodendo dall’interno. Ma quest’immagine redentiva e tutelare, di un potere moralmente integro e professionalmente capace chiamato a supplirne uno corrotto e impotente, lentamente è venuta meno. E non perché, come si dice, la politica, dopo molti scacchi, sia stata capace di prendersi la sua terribile vendetta su chi l’aveva messa alla sbarra. Ma per ragioni tutte dipendenti dal modo debordante rispetto ai suoi reali compiti con cui la magistratura, sotto la spinta del favore popolare, ha finito per interpretare la sua azione: un misto di pedagogia civica, moralismo di Stato dal sapore giacobino, spirito missionario e ambizioni da contropotere politico senza mandato elettorale. Un eccesso di protagonismo mediatico da parte di singoli appartenenti al corpo giudiziario, la manifesta collusione di alcuni di loro con partiti e movimenti politici in una chiave spesso antagonistica e radicale, troppe inchieste e processi che spesso si sono risolti in grandi passerelle mediatiche, cittadini che invece di sentirsi protetti hanno preso a sentirsi minacciati da una giustizia dai tratti inquisitoriali… Insomma, il vento è rapidamente cambiato. Complici anche le faide interne alla corporazione e i connessi scandali, l’immagine complessiva della magistratura italiana ne è uscita sempre più compromessa, alla stregua di una casta che mentre attacca i privilegi della politica si tiene ben stretti i propri, che si arroga il diritto di giudicare tutti senza mai voler essere giudicata, che non ritiene di dover pagare alcun prezzo per i suoi errori spesso marchiani. La sua rappresentazione quasi eroica ha lasciato il posto negli ultimi anni a un disincanto crescente dei cittadini verso l’intero universo della giustizia, del quale chi opera al suo interno probabilmente non si rende completamente conto, come se l’ossequio formale ad essa dovuto fosse in sé un segnale di fiducia incondizionata. Evidentemente, si immagina che il problema dell’Italia sia ancora rappresentato solo e soltanto dalla politica: valutata ancora inefficiente e rapace, dunque non affidabile, a dispetto dei terremoti che l’hanno attraversata. Che è però esattamente il sentimento che il cittadino medio ormai riserva anche a chi in sua vece dovrebbe far rispettare la legge. E’ su questo sfondo di diffidenza generalizzata, che ormai coinvolge anche la magistratura al di là delle sue complessive responsabilità, visto che l’ala militante e settaria rappresenta comunque una minoranza per quanto mediaticamente ben sostenuta, che la vicenda della giudice Apostolico va inquadrata. Oggi più che mai, alla luce della storia controversa che abbiamo alle spalle in materia di rapporti tra politica e giustizia, un giudice palesemente schierato per definizione non può dare garanzie d’equilibrio e autonomia. Qualunque sua decisione diviene sospetta e giustifica - esattamente come è accaduto - la reazione della controparte, in questo caso politica, che si ritiene oggetto di una valutazione discriminatoria. La cosa grave è che la politica ha strumenti di attacco che un cittadino normale, che a sua volta rischia di non sentirsi tutelato da un giudice schierato più a difesa delle sue idee che della legge, non possiede. L’indipendenza e l’autonomia della magistratura sono l’altra faccia della sua imparzialità - che deve essere, oltre che effettiva, anche percepita e sentita dalle parti. Esattamente quel che non accade in Italia da anni per responsabilità di una minoranza che sarebbe interesse dell’intero corpo giudiziario, a questo punto, isolare e neutralizzare, invece di abbandonarsi, come successo anche in quest’occasione, a riflessi di autodifesa corporativa o alle solite lamentazioni contro gli attacchi di un potere che mai nella storia è stato tanto debole: un cane che abbaia senza mordere se è vero che in trent’anni la riforma integrale della giustizia è rimasto solo un paragrafo nei programmi elettorali dei partiti, senza mai trovare attuazione. Di tutto questo bisognerebbe dunque parlare (la luna). Poi, se si vuole, anche di chi ha girato e diffuso le immagini galeotte (il dito). Invertire le priorità è solo un banale trucco a fini di polemica politica. Separazione delle carriere dei magistrati: cosa significa, come funziona nel mondo e qualche consiglio di Giuseppe Di Federico L’Unità, 9 ottobre 2023 Non meno importante è l’assenza, nei progetti di riforma, di specifiche indicazioni su chi dovrebbe controllare la corretta applicazione delle priorità. Senza indicazioni a riguardo, gli ambiti di piena e incontrollata discrezionalità del PM corrono il concreto rischio di rimanere più meno come ora. Tra le previsioni dei progetti di legge costituzionale che possono essere efficaci per raggiungere le finalità della divisione delle carriere vi sono certamente quelle di reclutare separatamente giudici e PM, di creare due diversi Consigli superiori a composizione paritaria dei togati e dei laici. Molte sono le questioni che a riguardo andrebbero precisate, ma ciò può essere fatto successivamente con leggi ordinarie. Vengo ora alle proposte che, a mio avviso, non sono efficaci. Nelle relazioni dei progetti di legge costituzionali in esame si riconosce che per rendere pienamente efficace la divisione delle carriere ed i suoi benefici effetti per il cittadino è necessario regolare la discrezionalità del PM nell’iniziativa penale, una discrezionalità che i PM ora esercitano in piena, irresponsabile indipendenza, decidendo in tal modo anche buona parte delle politiche pubbliche nel settore penale e spesso pregiudicando gravemente lo status del cittadino sotto vari profili (sociale, politico, economico, familiare e della stessa salute). Per risolvere questo problema la normativa proposta stabilisce semplicemente di far decidere dal Parlamento le priorità nell’azione penale. Non dice chi dovrebbe elaborare i criteri di priorità, che è un compito molto complesso che non può essere svolto in Parlamento, come mostrano le esperienze dei due paesi in cui ho svolto ricerca a riguardo (e cioè Regno Unito e Olanda); non dice nulla sull’esigenza di regolare l’uso dei mezzi di indagine anch’esso di fatto ampiamente discrezionale e anch’esso di grande rilievo per la protezione dei diritti del cittadino e la sua eguaglianza di fronte alla legge (ne sono testimonianza anche le 4265 interviste da me fatte agli avvocati penalisti delle camere penali). Non meno importante è l’assenza, nei progetti di riforma, di specifiche indicazioni su chi dovrebbe controllare la corretta applicazione delle priorità. Senza indicazioni a riguardo, gli ambiti di piena e incontrollata discrezionalità del PM corrono il concreto rischio di rimanere più meno come ora. In tutti gli altri paesi democratici a consolidata democrazia, sia di common law che di civil law, si cerca di dare soluzione a questo e ad altri importanti problemi di funzionalità, prevedendo una struttura gerarchica ed unitaria del pubblico ministero, una struttura gerarchica e unitaria con al vertice un soggetto che è politicamente responsabile di fronte al Parlamento ed ai cittadini delle politiche pubbliche nel settore penale e del corretto funzionamento della struttura organizzativa del PM. Un soggetto che nella maggior parte dei paesi democratici è il Ministro della giustizia, in altri l’Attorney General (come nel Regno Unito), in altri un Procuratore Generale nominato pro tempore dal capo dello Stato su indicazione del Governo (come in Spagna e Portogallo). Per la verità questa soluzione nella sostanza viene evocata, a me sembra, anche nella relazione al progetto di legge costituzionale predisposto dalle camere penali nella scorsa legislatura e riproposto integralmente in tre dei progetti di riforma costituzionale ora in esame, laddove nelle relazioni, dopo aver indicato le disfunzioni derivanti dalla irresponsabile discrezionalità con cui operano i nostri PM e la pericolosità di questa discrezionalità per il cittadino, si conclude dicendo testualmente “È una discrezionalità che, a differenza degli altri Paesi democratici, viene da noi esercitata in piena indipendenza da chi in nessun modo può essere chiamato, neppure indirettamente, a rispondere delle scelte politiche”. La sollecitazione ad adottare soluzioni simili agli altri paesi democratici appare evidente. Sia come sia, l’evidente sproporzione tra disfunzioni segnalate nelle relazioni e la soluzione proposta nella normativa (cioè la semplice attribuzione al Parlamento del compito di definire le priorità) ha anche una spiegazione. Nel trattare delle disfunzioni del PM nella relazione che precede la normativa sono state sostanzialmente ripresi brani e informazioni tratte da miei scritti sul PM, senza poi tenerne conto nelle proposte normative. È di un certo interesse ricordare che solo nei nove paesi europei usciti da una dittatura (fascista o comunista) si è scelto di porre al vertice della struttura gerarchica e unitaria del PM non il Ministro della giustizia ma un procuratore generale pro tempore scelto nell’ambito del processo democratico e cioè: oltre alla Spagna e Portogallo che ho già ricordato, la Repubblica Ceca, la Bulgaria, la Slovenia, l’Estonia, l’Ungheria, la Lettonia, la Repubblica Slovacca. In Italia, invece, il nostro costituente ha scelto non solo di non assegnare quel compito al ministro della giustizia, con l’intenzione di evitare come negli altri nove paesi appena citati i guai di un passato dittatoriale, ma anche che non fosse neppure necessario, cosa unica tra i paesi democratici, avere un soggetto istituzionale cui attribuire la responsabilità politica per le politiche pubbliche nel settore penale e per il corretto funzionamento delle strutture inquirenti-requirenti. Con il risultato che a livello operativo esse vengono di fatto delegate a, e gestite da un corpo burocratico, cioè la magistratura, che non ne porta responsabilità alcuna. Sottrarre in tal modo buona parte delle politiche pubbliche nel settore penale al controllo democratico è una grave anomalia del nostro assetto democratico che produce effetti gravemente negativi non solo con riferimento alle prospettive di una efficace divisione delle carriere ma anche ad altre disfunzioni del sistema paese. Reggio Calabria. Relazione di fine mandato del Garante metropolitano dei detenuti ilreggino.it, 9 ottobre 2023 Paolo Praticò si congeda illustrando tutte le attività poste in essere nei cinque anni del suo mandato. Il garante metropolitano dei detenuti Paolo Praticò in vista della scadenza del suo mandato, ha stilato una relazione circa l’attività compiuta in questi anni. “Tra poco più di sei mesi - scrive - scadrà il mio mandato come Garante metropolitano e desidero fare una breve sintesi dei cinque anni d’attività negli Istituti Penitenziari di Reggio Calabria e provincia. L’impegno per garantire i diritti di “persona” ai detenuti è stato intenso, continuo, a volte gratificante altre deludente, ma non è mia intenzione elencare gli interventi, gli ultimi dei quali in sinergia con l’avv. Luca Muglia, Garante regionale, che hanno visto riconosciuti diritti primari come quello alla salute, all’affettività mediante avvicinamento ai luoghi di residenza e sostenuto con successo istanze per permessi premio, domiciliari o ricoveri per malattie. Abbiamo implementato un patronato per l’assistenza previdenziale e attivato un servizio autentica firme con la collaborazione della Polizia metropolitana. Servizio disatteso dal comune nonostante un protocollo d’intesa che lo prevedeva. Mi preme, perciò, evidenziare semplici cose, che ancora non funzionano come dovrebbero e che in stato detentivo diventano complesse come appunto lo sportello anagrafe o peggio ancora il riconoscimento di paternità che in carcere diventa impossibile se non a costi eccessivi o con procedure di sicurezza complicate, mentre basterebbe che l’ufficiale di stato civile venisse autorizzato a portare i registri all’interno del carcere e in questo senso ci stiamo adoperando con il magistrato di sorveglianza. Tanti i progetti presentati e attuati, sottolineo quelli in essere o pronti ad essere avviati in collaborazione con alcune associazioni di volontariato come “Non una di meno”, laboratori di scrittura creativa, teatro, insegnamento dell’italiano agli stranieri, mediatori linguistico culturali e screening periodici per le donne grazie all’associazione medici nel mondo, associazioni che sono coadiuvate dalla consigliera pari opportunità della città metropolitana. Sono tutte attività che favoriscono la riabilitazione, termine che ritengo più confacente allo stato di detenzione piuttosto che rieducazione. Quest’ultimo dà l’idea di coartazione a comportamenti stereotipati, così come il termine “punizione”, poiché il linguaggio determina il comportamento e nel voler punire si rende consequenziale l’atteggiamento aggressivo di chi esegue. La società è formata da un insieme di persone e ne fa parte anche chi delinque, nessuno può essere considerato come altro e se le responsabilità sono personali, il gruppo non può essere esente, anche solo per la mancata integrazione, perché negata. Se a causa di un trauma ci fatturiamo un arto, lo ingessiamo limitandolo nella libertà di movimento ma non per punirlo, bensì per riabilitarlo, perché fa parte di noi, del nostro corpo e dobbiamo prenderci cura fino alla completa riabilitazione. Altra considerazione che ritengo di dover fare è il rapporto tra gli agenti e i detenuti. Sarebbe interessante eseguire uno studio approfondito per capire cosa si potrebbe migliorare. Dalla osservazione empirica che ho potuto effettuare nel corso di questi anni come Garante ma anche prima come partecipante a dei progetti riabilitativi, posso dire che ho rilevato una eccezionale empatia tra le agenti e le detenute oltre che, attraverso gli scritti di alcune di loro, soprattutto dal comportamento e questo è osservabile anche nelle sezioni maschili. Tuttavia si verificano casi di maltrattamento e la cronaca documenta quelli più eclatanti, dovuti certamente allo stress di una condizione che accomuna taluni agenti e i più facinorosi tra i detenuti ed in questi casi uno studio approfondito potrebbe essere utile per trovare soluzioni di supporto. Concludo questa mia relazione, con la consapevolezza di aver fatto quanto ho potuto non certo quanto avrei voluto”. Terni. Il caso Sabbione all’attenzione di Nordio: “Impegno per il turn over del personale” di Nicoletta Gigli Il Messaggero, 9 ottobre 2023 Il guardasigilli risponde all’interrogazione di tre parlamentari pentastellati. A Sabbione l’organico della penitenziaria segna un meno 46 con una significativa carenza di sovrintendenti e un esubero di agenti assistenti. A fronte di un organico previsto in 241 unità, ne risultano presenti 195. La situazione a dir poco esplosiva del carcere di Terni, con eventi violenti e suicidi fronteggiati da un personale ridotto all’osso è all’attenzione del ministro della giustizia, Carlo Nordio, che fa il punto rispondendo all’interrogazione presentata dai deputati Stefania Ascari, Emma Pavanelli e Gaetano Amato del movimento 5Stelle. “Relativamente al ruolo degli ispettori - scrive il ministro, Nordio - all’esito del concorso interno, l’organico della casa circondariale di Terni è stato incremento di 8 unità maschili. E’ in corso ulteriore procedura concorsuale al cui esito il Dap terrà nella massima considerazione le esigenze del penitenziario ternano, attraverso l’assegnazione di un adeguato numero di unità del ruolo. Per quanto riguarda il ruolo dei sovrintendenti, a conclusione della procedura concorsuale e del relativo corso di formazione, è prevista l’assegnazione al carcere di Terni di 12 unità maschili e una femminile, personale che raggiungerà gradualmente l’istituto entro la fine dell’anno”. Il “caso” Sabbione, messo nero su bianco dai tre parlamentari pentastellati, è ben noto al ministero della giustizia. Le criticità, accanto alle carenze di personale per gestire un istituto sovraffollato, sono legate alle ripetute aggressioni tra detenuti e nei confronti del personale infermieristico e ai recenti casi di suicidio. “L’analisi statistica degli eventi critici riferibili al carcere di Terni - scrive il ministro, Nordio - evidenzia che nel 2022, si sono registrati 58 episodi di autolesionismo, 7 atti di aggressione fisica ai danni del personale di polizia penitenziaria e 35 colluttazioni tra detenuti. Nel periodo compreso tra il primo gennaio e il 3 luglio di quest’anno risultano 23 atti di autolesionismo, 4 aggressioni al personale di polizia penitenziaria e 13 colluttazioni tra detenuti”. Rispondendo ad Ascari, Pavanelli e Amato che chiedevano iniziative urgenti dopo la morte di un detenuto psichiatrico che a giugno è deceduto per il denso fumo sprigionato nella sua cella dove aveva appiccato il fuoco, il ministro conferma l’impegno per Sabbione: “Poniamo forte attenzione alle esigenze di garantire un efficace turn over del personale, risultando indubbie le criticità evidenziate e derivanti da organici ridotti o comunque fortemente limitati - scrive Nordio. Riduzione, come è noto, operata dalla legge Madia e rivista da successivi interventi normativi, che hanno rimodulato al ribasso la dotazione complessiva del corpo della polizia penitenziaria su cui andrà, evidentemente, reimpostata una politica di implementazione”. In arrivo a Sabbione, dopo l’assegnazione di sette funzionari giuridico-pedagogici, anche “un adeguato numero di agenti-assistenti”. Brescia. Formarsi per poter aiutare i detenuti di Anna Belometti lavocedelpopolo.it, 9 ottobre 2023 Un corso per volontari in ambito penitenziario perché acquistino le competenze per il servizio in carcere e per accompagnare i detenuti al di fuori. Un corso formativo per volontari in ambito penitenziario, perché acquistino le competenze necessarie per muoversi nel carcere e per assistere i detenuti anche al di fuori, evitando passi falsi e improvvisazioni: parte domani sera “Farsi prossimi con competenza. Percorso per volontari in ambito penitenziario” che durerà fino al 24 novembre, per quattro venerdì dalle 18.30 alle 20, all’istituto Missionari Comboniani di viale Venezia, 112. Questa sarà la prima parte attinente al diritto (l’anno prossimo, invece, partirà la seconda, più motivazionale, che verterà sul valore del volontariato) dell’iniziativa proposta dall’Unione Giuristi Cattolici, la Caritas Diocesana e il Vol.Ca (Volontariato Carere) ODV di Brescia, rivolta a tutti coloro che sentono di voler intraprendere un percorso di formazione per diventare volontari fuori e dentro le carceri. “Noi Unione Giuristi Cattolici prestiamo attenzione agli ultimi e ai fragili, mettendo la nostra professionalità al servizio della formazione di chi ne necessita” ha affermato la presidente dell’Unione Silvana Bini. Il corso si impegna, infatti, a fornire ai volontari la conoscenza delle norme fondamentali relative all’ordinamento penitenziario, all’esecuzione della pena, alle figure che operano all’interno degli istituti penitenziari e agli aspetti più importanti per sostenere efficacemente le persone detenute, sia nel periodo della custodia cautelare sia in quello dell’esecuzione penale per favorirne il reinserimento nella società. Avere volontari formati quindi è “fondamentale - ha aggiunto Marco Danesi, vicedirettore di Caritas Diocesana - perché il volontario svolge un’azione di supporto al detenuto sia dentro la struttura carceraria, sia fuori, in fase di accompagnamento al reinserimento sociale, che è la parte più critica, dove se lasciato solo rischia la recidiva, quindi, il volontario è essenziale per offrire percorsi e stimoli alternativi di rieducazione”. Un ruolo perciò “di grande responsabilità e delicatezza, per questo necessita di una formazione permanente e consapevole - ha spiegato la presidente del Vol.Ca (Volontariato Carcere) ODV Caterina Vianelli. Crediamo molto nel recupero della persona che ha commesso reato, per questo il volontario diventa un punto di riferimento per il detenuto”. Attenzione però “la figura del volontario non deve andare a sostituire quella dell’avvocato: non deve dare consigli legali, ma capire, comprendere e raccogliere le esigenze del detenuto in modo da poterle poi riferire in maniera corretta a educatori, direzione del carcere, etc ? ha aggiunto l’avvocato Alessandro Bertoli coordinatore del corso ?. Durante gli incontri, tratteremo anche il tema della giustizia riparativa, una novità introdotta dalla riforma Cartabia ancora in fase di sperimentazione: vogliamo dare ai volontari un’infarinatura anche su questo argomento perchè può essere che i detenuti facciano poi domande a riguardo. Inoltre, la Caritas di Bergamo ha già costituito da anni un centro di giustizia riparativa che sta lavorando bene, perciò potremmo valutare in futuro di portare quest’esperienza anche a Brescia”. Ventisette le persone già iscritte al corso, maschi e femmine sotto i 50 e sopra i 60 anni (per iscriversi, volca.bs@gmail.com), in partenza quindi, domani con il primo incontro dal titolo “Costituzione e diritto penitenziario” a cura degli avvocati Bertoli e Mauro Bresciani; il 20 ottobre sarà la volta delle “Misure cautelari ed esecuzione penale esterna” con gli avvocati Ennio Buffoli e Stefano Paloschi; a seguire, il 10 novembre “Ultima tra gli ultimi” tenuta da Bertoli e dall’avvocato Gabriella Pezzotta e infine, il 24 novembre “Giustizia riparativa e mediazione penale” con la partecipazione degli Avvocati Alessandro Bertoli, Mauro Bresciani insieme a Filippo Vanoncini co-fondatore e referente del centro di Giustizia Riparativa della Caritas di Bergamo. Varese. Fernando Muraca incontra i detenuti ai Miogni e presenta il suo libro varesenews.it, 9 ottobre 2023 Il giorno venerdì 13 ottobre 2023 alle ore 10.00, su proposta del Cappellano Don Giuseppe Pellegatta, in collaborazione con i volontari che prestano attività nella struttura, si terrà presso la Sala colloqui familiari dell’Istituto penitenziario di Varese, l’incontro con lo scrittore Fernando Muraca che presenterà ai detenuti il suo libro “Liberi di cadere liberi di volare”. Una storia vera sulle soglie della prigione: Alina, la protagonista della vicenda, ha un figlio in carcere che le ha fatto un torto irreparabile, lo odia ma non riesce a strapparselo del tutto e per sempre dal cuore. Tutto sembra risucchiarla all’inferno ma un incontro imprevedibile, con un sacerdote, la aiuta a riconsiderare le cose in una nuova prospettiva diversa fino a prendere decisioni che parevano impossibili. Una storia vera, quindi, quella scritta da Muraca, diventata un emozionante romanzo, che può ispirare tanti. “Il libro, sottolinea la Direttrice, gravita intorno al carcere, è infatti all’interno di un penitenziario che si svolgono i vari passaggi della storia che ha origine da un fatto tragico e reale. Per questo l’incontro è rivolto ai detenuti ma coinvolge tutti gli operatori. Ringrazio pertanto il Cappellano e i volontari che hanno proposto questo momento, nonché l’autore per la sua testimonianza nel nostro Istituto” Torino. “Tutta colpa di Giuda” a Liberazioni: occhi sul carcere di Davide Ferrario Corriere Torino, 9 ottobre 2023 Mercoledì la proiezione al Massimo, nell’ambito del festival Liberazioni, di “Tutta colpa di Giuda”, che girai nel 2008 nel carcere delle Vallette. Lo so, la settimana entrante, per il cinema a Torino, sarà quella di Tim Burton. Purtroppo, una programmazione fatta con largo anticipo farà coincidere mercoledì la masterclass del suddetto con la proiezione al Massimo, nell’ambito del festival Liberazioni, di “Tutta colpa di Giuda”, che girai nel 2008 nel carcere delle Vallette. Il film ha come protagonisti Kasia Smutniak e Fabio Troiano, nonché Luciana Littizzetto nei panni di una suora: ma, soprattutto, veri detenuti e veri agenti del Lorusso e Cutugno. Forse dovrei lamentarmi del destino, ma non lo faccio: anzi. Trovo che ci sia una sorta di poetica casualità in questa coincidenza, nel fatto che la fantasia di Burton possa convivere, per una sera, con lo sbilenco realismo del mio film. È la forza del cinema, che riesce a tenere insieme marziani, fantasmi e carcerati. D’altra parte Tutta colpa di Giuda non è certo un esempio di tradizionale film di denuncia. È una specie di musical il cui vero tema è la religione, e che solo in carcere poteva svolgersi come volevo. L’ho girato dopo dieci anni di volontariato, prima a Milano a San Vittore e poi alla Vallette. Il film non è mai stato l’obiettivo della mia attività, è solo successo a un certo punto: ma nel farlo ho potuto metterci dentro un decennio di esperienze e di relazioni. Credo che, alla fine, il commento più bello sia stato quello di chi nel carcere ci vive e ci lavora (detenuti, personale, dirigenti): e cioè che quello che si vede nel film è come davvero si sta “dentro”. Purtroppo, rispetto ad allora, la situazione al Lorusso e Cutugno, ma non solo, è peggiorata in maniera terribile. Il carcere di Torino è diventato uno dei più problematici in Italia: e vedere oggi “Tutta colpa di Giuda” può dare la dimensione di cosa potrebbe essere una galera non abbandonata a se stessa. C’è stato un decennio, il primo di questo secolo, in cui amministrazioni illuminate e una società meno giustizialista hanno prodotto un’idea di detenzione che non fosse solo pena e vendetta, ma anche un tentativo di recupero dei “ristretti”, come si dice in gergo, a termini di Costituzione. Non che fossero rose e fiori. Alcune, troppe facce presenti nel film non ci sono più, perse nei gorghi della vita. Si è suicidato Rodolfo, uno dei detenuti. Ma è morto anche uno degli agenti, nel terribile omicidio-suicidio nella mensa del carcere del dicembre 2013. Non ho mai dato retta a chi cercava di strapparmi una dichiarazione politicamente corretta sul carattere salvifico dell’arte in galera, non è un film che risolve i problemi. Ma una cosa la posso e la voglio dire. Per le settimane che abbiamo preparato e girato Giuda, qualcosa era cambiato, dentro, e in meglio. E so esattamente perché: perché tutti collaboravamo, ciascuno a modo suo, a un progetto. Avevamo un obiettivo e ci davamo da fare per raggiungerlo insieme. Il vero problema del carcere non è la privazione della libertà: è l’inutilità. Il tempo che non ha senso, che si riempie come si può, con la noia, con le droghe illecite e con quelle lecite delle “terapie” fornite dall’istituto; con l’annullamento di se stessi, sotto forma banalmente quotidiana - oppure estrema, con il suicidio, sempre più frequente, proprio a Torino. Se qualcosa di buono è venuto fuori da quell’esperienza (oltre al film in sé, spero) è stata proprio la condivisione, tra chi stava dentro e chi veniva da fuori, di un tempo positivo, rivolto alla realizzazione di qualcosa, qualcosa che desse senso alla giornata. È durato quello che è durato, ma nella vita nulla dura per sempre. Resta, appunto, il film. E se qualcuno, dopo essersi incantato alle affascinanti storie che sicuramente racconterà Tim Burton, avrà voglia di attraversare via Verdi ed entrare al Massimo, scoprirà forse un mondo che, nella sua quotidianità, è più sorprendente di qualsiasi stravaganza hollywoodiana. Giornata mondiale della salute mentale: in Italia più di 4 milioni di persone con disturbi mentali redattoresociale.it, 9 ottobre 2023 In pochi hanno accesso alle cure: secondo la Asl Roma 2, la più grande d’Italia, sono 900 mila le persone con disturbi che fanno riferimento ai centri di salute mentale. Un fenomeno in aumento specialmente tra i giovani. Lo psichiatra Vento: “Ecco i segnali d’emergenza”. Secondo i dati forniti dall’Organizzazione mondiale della sanità, nel corso del 2023, si stima che circa un miliardo di individui in tutto il mondo, cioè una persona su otto, stiano affrontando disturbi mentali. In Italia sarebbero 4,5 milioni le persone con problemi di salute mentale. Solo circa 900 mila fanno riferimento ai centri di salute mentale. Un fenomeno in aumento specialmente tra i giovani: nella fascia 15-19 anni il suicidio risulta la seconda causa di morte dopo gli incidenti stradali. Ad aumentare il disagio negli ultimi tre anni il Covid, la guerra, la crisi economica e l’inflazione. A lanciare l’allarme Alessandro Vento, psichiatra dell’Asl Roma 2, la più grande Asl d’Italia. L’esperto segnala quando allarmarsi e rivolgersi ad uno specialista e come prevenire il disagio mentale. Organizzata dalla Asl Roma 2 Romens, il Festival della Salute Mentale, è un evento annuale che si tiene a Roma con conferenze, workshop, spettacoli artistici e musicali, attività ricreative. Il festival, dal 3 al 10 ottobre 2023, è organizzato dal Dipartimento di Salute Mentale dell’Asl Roma 2 si concentra sulla promozione della consapevolezza e della comprensione della salute mentale e ha lo scopo di abbattere il pregiudizio, lo stigma e la diffidenza verso la malattia mentale. Quali sono i campanelli d’allarme per quanto riguarda la salute mentale? “Nelle fasce d’età giovanili i principali campanelli d’allarme sono il ritiro scolastico e il calo di funzionamento. Un ragazzo che prima andava a scuola e poi comincia a non andarci rappresenta un segnale di allarme. Questo può riguardare anche altre attività come, ad esempio, smettere di frequentare un’attività sportiva. Il calo del funzionamento globale, questo è un campanello d’allarme molto importante e da tenere in forte considerazione. Questo poiché di solito tutte le malattie psichiatriche e anche tutte le problematiche relative alle dipendenze di alcol, cannabis e droghe varie, si mostrano con questi primi segnali, con il calo del funzionamento. Possono presentarsi altre manifestazioni che hanno a che fare con l’alterazione dell’umore: per esempio l’irritabilità, la disforia, rispondere male, rompere oggetti, aggressività, ecc. Molto importanti i sintomi che riguardano il sonno: non dormire la notte o fare incubi ci fanno pensare a problematiche psicologiche o psichiatriche che riguardano in generale la qualità del sonno. Per quanto concerne una persona con una storia psichiatrica pregressa, dobbiamo distinguere i sintomi che variano a seconda del tipo di malattia. Nella depressione i segnali di allarme saranno di un tipo, nel disturbo bipolare ci potrebbero essere campanelli di allarme di tipo maniacale, nella schizofrenia ci possono essere di tipo psicotico, ecc. Molto spesso la riacutizzazione della malattia in questi pazienti si nota con la sospensione della cura, in momenti di particolare stress o nei momenti nei quali la persona rimane isolata. L’isolamento sociale rappresenta un grande fattore di rischio per questi pazienti”. Come sapere se rivolgersi ad uno psicoterapeuta o a uno psichiatra in caso di necessità? “Il riferimento primario è il medico generale di famiglia. Si può partire da qua per chiedere dei consigli iniziali. È bene sapere che per effettuare una diagnosi più completa e per la prescrizione di farmaci il riferimento è lo psichiatra. Viceversa, per affrontare dei temi di disagio soggettivo, psicologico, che non impattano su funzioni varie di tipo biologico, lo psicologo può essere una buona risorsa”. Cosa fare in caso di emergenza? “In caso di emergenza bisogna recarsi all’ospedale. Se si è conosciuti, ci si può rivolgere al proprio Centro di Salute Mentale. Quello che noi facciamo come servizio Asl è un lavoro di pianificazione con degli appuntamenti, con un flusso di lavoro costante, che ci permette di seguire il paziente nel corso del tempo”. Quali sono le buone pratiche per tutelare la salute mentale? “Le buone pratiche che accompagnano una buona salute mentale vengono dall’infanzia. Si parte dalle corrette pratiche dei genitori verso i figli, delle quali noi facciamo promozione di salute, psicoeducazione e insegniamo alle persone a comportarsi con dei corretti stili di vita. Se i bambini sono allevati bene dal punto di vista educativo: nell’interazione, nel sonno, se sono amati, e una serie di criteri di questo tipo, verosimilmente svilupperanno meno malattie mentali. Ovviamente ci può essere una base genetica di partenza. In questo caso si opera attraverso la prevenzione, colloqui di supporto e operazioni che bilanciano la componente biologica. Per tutelare la propria salute mentale è bene evitare l’uso di alcol, cannabis, sostanze psicoattive. Se ad un individuo con predisposizione genetica a disturbi mentali, si aggiunge una famiglia non educativa, fa uso di sostanze stupefacenti, è molto più probabile che sviluppi un disturbo psichiatrico rispetto ad un individuo che non ha queste caratteristiche. Parliamo di malattie multifattoriali, su un modello che si chiama bio-psico-sociale”. Splendori e miserie del #metoo. Rivoluzione o delazione? di Daniele Zaccaria Il Manifesto, 9 ottobre 2023 Il movimento ha liberato la parola delle donne abusate, ma ha anche innescato una violenta deriva giustizialista per cui basta una denuncia per ritrovarsi colpevoli. “La rivoluzione mangia i suoi figli” esclamò la girondina Charlotte Corday dopo aver pugnalato a morte l’artefice del Terrore Jean-Paul Marat. È il 1793 e in Francia la rivoluzione che spazzò via clero e nobiltà era diventata una guerra civile, delazione generalizzata, paranoia collettiva nel marasma dell’”isteria giacobina” come scrisse qualche anno dopo Friedrich Engels per descrivere il cupio dissolvi e la deriva cannibale di quella straordinaria generazione di agitatori politici e di intellettuali. Una parabola a cui sembrano destinati tutti i movimenti di improvvisa e violenta rottura, di ribaltamento sociale o di cambiamento culturale, come se il peso dell’antica oppressione restasse aggrappato alle sagome dei nuovi liberatori, finendo per schiacciarli, rendendoli troppo simili agli oppressori. Non fa eccezione il #metoo, l’ondata di denunce che oltreoceano ha liberato la parola delle donne vittime di molestie e aggressioni sessuali: sul proprio posto di lavoro, per la strada, in famiglia, un po’ ovunque si è spezzato il muro del silenzio e della paura e si è scoperchiato il sessismo che governa le relazioni di potere tra uomini e donne. L’epicentro è stata Hollywood, la Babilonia di celluloide e testosterone, la fabbrica dei sogni che al suo interno partorisce incubi reali, un mondo nascosto e patriarcale di sopraffazione, quasi a contrastare le luccicanti illusioni che riempiono gli schermi. Il 5 ottobre del 2017 il New York Times pubblica un’inchiesta in cui diverse attrici americane affermano di aver ricevuto ripetute molestie e vere e proprie aggressioni da parte di Harvey Weinstein, il produttore più potente di Hollywood. Cinque giorni dopo tocca al New Yorker chiamare in causa Weinstein sempre per gli stessi poco nobili motivi. A denunciarlo una pletora di stelle del cinema, Ashley Judd, Rosanna Arquette e Rose McGowan, Jessica Mann, l’italiana Asia Argento che lo accusa di uno stupro avvenuto al festival di Cannes nel 1997. L’attrice Alyssa Milano propone di condividere in rete le testimonianze di tutte le vittime di comportamenti sessisti invitando le donne di qualsiasi ambiente ed estrazione sociale a venire allo scoperto. Per farlo utilizza l’hashtag #metoo, presente su Twitter già da dieci anni. L’effetto è dirompente, in ventiquattro ore l’hashtag produce oltre 12 milioni di interazioni. Parlano le donne dello spettacolo, ma anche dell’economia, parlano le sportive, le donne all’interno delle imprese e del mondo accademico, descrivendo le continue molestie, gli abusi, le discriminazioni quotidiane subite dai loro colleghi maschi. Ma i riflettori rimangono puntati soprattutto sul cinema e le sue star. Di fronte alle prove schiaccianti della sua colpevolezza che mettono in luce il suo sistema predatorio di violenze e ricatti viene condannato 39 anni di prigione, il che significa che passerà il resto della vita dietro le sbarre. Una condanna che legittima il movimento ma anche tutti i suoi eccessi, come la distruzione della presunzione di innocenza. Ma anche la psicosi di massa che getta nel calderone dei sospetti figure che non hanno nulla a che vedere con il #metoo e le sue denunce, su tutti il cineasta Woddy Allen chiamato in causa senza alcun motivo per via delle accuse di pedofilia che anni prima gli aveva rivolto l’ex moglie Mia Farrow. Ma il primo grande nome di questa deriva giustizialista è Kevin Spacey, tra gli attori più celebri e pagati del pianeta che all’epoca spopolava con la serie House of cards. Almeno tre ragazzi sostengono di aver avuto rapporti non consensuali con lui, di aver subito palpeggiamenti e molestie. L’effetto sulla carriera di Spaecey è immediato senza bisogno che ci sia un processo e un verdetto, ormai basta il sospetto: il regista Ridley Scott decide di cancellare tutte le scene con spacey in All the money in the World, mnetre Netflix straccia il contratto milionario eliminando lo da House of cards. Sei anni dopo Spacey è assolto da tutte le nove accuse di abusi sessuali, il calvario giudiziario è finito ma anche la sua carriera che mai potrà tornare ai fasti del passato. La calunnia corale avanza, e uno dei casi più emblematici coinvolge Asia Argento, l’accusatrice di Weinstein è denunciata a sua volta dall’attore Jimmy Bennet che sostiene di essere stato violentato quando aveva 17 anni e lei 37. Con il consueto zelo Argento viene immediatamente esclusa dalla giuria di X Factor anche se poi le accuse contro di lei si rivelano inconsistenti e la vicenda termina con una causa per diffamazione nei confronti di Bennet. Un asterisco potrà davvero salvare il mondo? Non confondiamo il marketing social con la politica di Chiara Lalli Il Dubbio, 9 ottobre 2023 C’è una versione del femminismo che ha scelto una strada cieca: l’esperienza personale come unità di misura del mondo e come mezzo per cambiarlo. Mia nonna non poteva votare e non aveva la lavatrice. Se le due mancanze vi sembrano non paragonabili dovreste riascoltare Hans Rosling (The magic washing machine, Ted, dicembre 2010). Roslin aveva solo 4 anni quando vede la madre caricare per la prima volta quello strano macchinario. I suoi genitori avevano messo da parte i soldi per anni per comprarla e quel giorno è un giorno speciale. Il cestello che gira è uno spettacolo incredibile, un miracolo. Non è difficile da immaginare, dopo aver lavato a mano per decenni - non riusciamo nemmeno a immaginarlo. Ma quel miracolo è per il mondo privilegiato, perché ci sono ancora tantissime persone senza lavatrice. E come fanno? Lavano a mano, e sono principalmente donne, costrette a fare un lavoro faticoso e noioso, che una macchina potrebbe fare per loro. L’altra sera mi sono ritrovata in una discussione tra asterischi, MeToo e diritti. Come spesso succede, c’è una impossibilità di capirsi tra chi ha un animo identitario e chi ha invece una propensione liberale (in senso classico), tra chi è convinto che un asterisco salverà il mondo e chi pensa che prima della schwa ci sono ancora delle leggi discriminatorie e non proprio femministe. Insomma, mentre qualcuno vuole cambiare il linguaggio per cambiare la realtà, per renderla più giusta, io penso alla lavatrice. E penso a tutti i diritti che ancora non ci sono - seppure nel nostro angusto mondo privilegiato. Certo, intrinsecamente potrebbe non esserci una contraddizione ma è anche vero che le nostre energie e il nostro tempo sono limitati e forse ci sono delle cose più importanti di altre. L’impeto del MeToo si è attenuato ma restano tutte le domande e forse tutte le questioni che lo hanno fatto nascere. Come ottenere un mondo meno ingiusto? Come eliminare le discriminazioni sessiste e le disparità di genere? Le leggi non bastano a migliorare il mondo ma sono certamente una condizione necessaria. Se posso sposare Giovanni e non Giovanna, se non posso accedere alle tecniche riproduttive e all’adozione solo con Giovanni (e non con Giovanna e nemmeno da sola), se rischio di fare una caccia al tesoro per sapere dove posso abortire, in che mondo vivo? Non in un mondo giusto, ovviamente, ma abbiamo la lavatrice, possiamo votare, possiamo fare il lavoro che vogliamo (almeno non ci sono divieti), lo stupro non è più un reato contro la morale, riparabile con il matrimonio riparatore, la contraccezione e l’aborto non sono più illegali, il matrimonio non è un vincolo eterno e la maternità non è più un destino ineluttabile. Non basta, come ho già detto. Ma non basta nemmeno scriversi slogan sulle mani o pensare che tutto sia sessista e tutto sia violenza imperdonabile. Perché se tutto è sessismo e tutto violenza imperdonabile, niente lo è più. C’è una versione del femminismo che ha scelto una strada cieca: cancelletti, mansplaning, l’esperienza personale come unità di misura del mondo e come mezzo per cambiarlo. La percezione spesso è considerata sufficiente per condannare o assolvere qualcuno o qualcosa, non servono dati e non servono buoni argomenti. È molto comune la fallacia rivendicativa che è meglio fare qualcosa di niente, così come comuni sono i ricatti delle buone cause e delle buone intenzioni. Non ci sono soluzioni facili, ma possiamo imparare qualcosa dalla furia (comprensibile, per carità) giustizialista del MeToo? Dalle accuse e dagli esiti processuali di persone usate come capri espiatori di un sistema (da Woody Allen, sempre ripescato a caso, a Kevin Spacey)? È possibile passare dall’ignorare o dal sottovalutare le denunce delle donne a una valutazione attenta delle circostanze e alla verifica (per quanto possibile) delle prove e delle responsabilità senza per forza attraversare una fase di cieca e aprioristica condanna (in quanto uomo, in quanto figlio di un sistema tossico e patriarcale, in quanto qualcosa)? Siamo cattive femministe se rifiutiamo la lagna come arma retorica, gli slogan semplicistici, la gogna come punizione e la punizione come giustizia? Siamo cattive femministe se ci dà fastidio il “tutti gli uomini” e l’annientamento della responsabilità personale? Siamo cattive femministe se non ci convince la natura femminile angelicata e se vogliamo rivendicare anche il diritto di essere stronze? Se ci viene da ridere invece di offenderci in-quanto-donne per lo scandalo del giorno (che spesso è solo un pretesto per mostrarci quanto siamo buoni e dalla parte giusta per dimenticarcene il giorno dopo) o per una vecchia canzone e ci piacerebbe garantire a tutte la possibilità di scegliere e uguali diritti e non una uguaglianza sostanziale e moralistica? Non ci sono soluzioni facili, ma intanto potremmo cominciare a non perdere tempo con le scemenze. E a non scambiare il marketing dei social per politica. Difendo un uomo accusato di abusi, assolto da tutto ma fatto a pezzi. Sono forse una cattiva femminista? di Margaret Atwood* Il Dubbio, 9 ottobre 2023 Sembra che io sia una “cattiva femminista”. Posso aggiungere questa alle altre cose di cui sono stata accusata dal 1972, per esempio di aver raggiunto la fama scalando una piramide di teste di uomini decapitati (un giornale di sinistra), di essere una dominatrice decisa a soggiogare gli uomini (uno articolo di destra, corredato da un’illustrazione di me in stivali di pelle con una frusta) e di essere una persona orribile che, con i suoi poteri magici di Strega Bianca, può annichilire chiunque sia critico nei suoi confronti nei ristoranti di Toronto. Sono così spaventosa! E ora, sembra, sto conducendo una guerra contro le donne, in qualità di misogina-cattiva-femminista a favore dello stupro. Come si presenta una buona femminista agli occhi dei miei accusatori? La mia posizione fondamentale è che le donne sono esseri umani, con l’intera gamma di comportamenti sacri e profani che questo comporta, inclusi quelli criminosi. Non sono angeli, incapaci di fare del male. Se lo fossero, non avremmo bisogno di un sistema legale. Non credo neanche che le donne siano bambini, incapaci di agire o di prendere decisioni morali. Se lo fossero, saremmo tornati al XIX secolo, e le donne non dovrebbero avere possedimenti, carte di credito, accesso all’educazione superiore, o il controllo sulla propria riproduzione e il diritto al voto. Nel Nord America ci sono potenti gruppi che spingono in questa direzione, ma generalmente non sono considerati femministi. (...) Supponiamo allora che le buone femministe che mi accusano, e la cattiva femminista che sarei io, convergano su questi punti. Su cosa siamo in disaccordo? E come ho fatto a finire nei guai con le buone femministe? Nel novembre 2016 ho firmato - per questione di principio, come ho firmato numerose petizioni una lettera aperta in cui si chiedeva di ritenere la University of British Columbia responsabile per il suo processo fallito e il trattamento riservato a uno dei suoi ex impiegati, Steven Galloway, già capo del dipartimento di scrittura creativa, così come per il trattamento di coloro che si sono aggiunti come ricorrenti nel caso. Diversi anni fa, l’università si espose pubblicamente sui media nazionali, prima che ci fosse un’inchiesta e prima ancora che l’accusato potesse conoscere i dettagli dell’accusa nei suoi confronti. Prima che lo scoprisse, Galloway dovette firmare un accordo di riservatezza. L’opinione pubblica - me compresa - si era convinta che quest’uomo fosse un violento stupratore seriale, e chiunque era libero di attaccarlo pubblicamente, dal momento che lui stesso non poteva dire nulla in propria difesa in base all’accordo firmato. Seguì una raffica di invettive. Ma in seguito, dopo un’inchiesta durata mesi, con molte vittime e interrogatori, il giudice ha stabilito che non c’era stata alcuna aggressione sessuale, secondo le dichiarazioni rilasciate da Galloway attraverso i suoi legali. Fu licenziato comunque. E tutti ne sono stati sorpresi, me compresa. (...) I giustizieri - con una condanna senza processo - arrivano sempre come risposta a una mancanza di giustizia - o il sistema è corrotto, come nella Francia prerivoluzionaria, o non ve n’è alcuno, come nel selvaggio West - e così le persone prendono in mano la situazione. Ma una comprensibile e temporanea giustizia fai da te può trasformarsi in un’abitudine culturale al linciaggio di massa, in cui il sistema giudiziario è gettato dalla finestra per istituire al suo posto strutture di potere extralegali. Cosa Nostra, per dire, cominciò come resistenza alla tirannia politica. Il MeToo è il sintomo di un sistema legale che si è inceppato. Troppo spesso le donne e chiunque abbia denunciato abusi sessuali non hanno ricevuto la giusta attenzione presso le istituzioni, quindi si è trovato un nuovo strumento: Internet. Le star sono cadute dal loro piedistallo. Questo è stato molto efficace, ed è stato visto come un segnale di risveglio collettivo. Ma cosa accadrà dopo? Il sistema legale può essere aggiustato, o la nostra società potrebbe sbarazzarsene. *Estratto dell’editoriale pubblicato dalla scrittrice canadese su “The Globe and Mail” il 13 gennaio 2018 “Ma io dico, cari uomini: le donne non sono mai complici di uno stupro” di Francesca Spasiano Il Dubbio, 9 ottobre 2023 Per Dacia Maraini il metoo è vivo e vegeto: “Ma i movimenti per i diritti hanno sempre suscitato nervosismo e spirito di vendetta”. L’epitaffio del MeToo è stato scritto più volte negli ultimi anni. Qualcuno ha bollato il movimento esploso nel 2017 come una “caccia alle streghe” che non ha retto alla prova dei tribunali, altri sono certi che il colpo inferto al sistema di abusi nel mondo dello spettacolo sia stato ben assestato. Persino lo storico slogan - Believe (all) woman/credi a (tutte) le donne - è motivo di polemica nel dibattito americano: credi alle donne, sì - è il ragionamento - ma proprio a tutte? “Può succedere, anche se sono casi rarissimi, che una donna menta raccontando un fatto non accaduto e sarà giusto condannarla per questo, ma non per essere stata complice, perché non esiste complicità in uno stupro”, dice al Dubbio Dacia Maraini. La quale non ha dubbi: il MeToo è vivo e vegeto. Ma gli esiti giudiziari delle vicende più note, come la recente assoluzione di Kevin Spacey, hanno decretato anche la fine del Movimento, secondo alcuni... A me risulta che Spacey sia stato assolto per mancanza di prove, non per inesistenza dei fatti. Comunque non credo affatto che il MeToo sia morto. I movimenti spontanei, soprattutto quelli delle donne, che hanno poca abitudine storica all’organizzazione sociale, hanno un andamento carsico. Spariscono e poi rispuntano in occasioni diverse. Chi è stato critico nei confronti del Me Too ha evidenziato la deriva giustizialista che avrebbe danneggiato il movimento travolgendo anche il femminismo. Cosa ne pensa? I movimenti per i diritti delle donne hanno sempre suscitato nervosismo e spirito di vendetta. Se si vanno a leggere le reazioni alle suffragette che chiedevano il diritto di voto, si trovano le stesse insofferenze, gli stessi insulti e quello che è peggio, le stesse prese in giro. Le coraggiose suffragette sono state ridicolizzate sia con articoli che con film e testi teatrali. In un editoriale del 2018 dal titolo “Sono una cattiva femminista?”, Margaret Atwood sostiene che il MeToo sia il “sintomo di un sistema legale che si è inceppato. Troppo spesso, in passato, le denunce delle donne e delle altre vittime di abusi sessuali non avevano ricevuto la giusta attenzione presso le istituzioni, quindi si è trovato un nuovo strumento: Internet”. È d’accordo? Il disaccordo ci rende “cattive femministe”? Sinceramente non capisco cosa voglia dire essere cattive femministe. O si è dalla parte dei diritti e delle libertà o si è contro. I nomi che si danno ai vari movimenti dipendono dal momento in cui nascono. Internet è uno strumento che può essere usato bene o male come tutti gli strumenti. Dipende da chi li usa e per quale ragione. In un suo recente articolo Lei ha scritto: “L’idea che la donna stuprata debba dimostrare che non c’è stato consenso è aberrante”. Vale sempre? Se una persona viene rapinata e va a denunciare non le si chiede se sia stata connivente. Lo stupro è una rapina. Può succedere, anche se sono casi rarissimi, che una donna menta raccontando un fatto non accaduto e sarà giusto condannarla per questo, ma non per essere stata complice, perché non esiste complicità in uno stupro. Lo slogan recita: “Believe women”. E non “believe all woman”: c’è una differenza, come si sottolinea nel dibattito americano? Believe Woman è un invito a dare maggiore fiducia alle donne, che troppo spesso non vengono credute. La cronaca ci racconta casi drammatici di donne che hanno denunciato varie volte le violenze familiari ma non sono state prese sul serio. E alla fine sono state uccise... La legge italiana, a suo parere, tutela le donne che subiscono violenze o le rende vittime due volte? La legge italiana parte da una cultura arcaica in cui le donne erano proprietà del padre o del marito e quindi non avevano diritto a un pensiero e una volontà proprie. Oggi, soprattutto nei paesi democratici, abbiamo fatto dei grandi passi avanti rispetto al passato. Abbiamo ottenuto un certo grado di parità. Ma proprio queste nuove libertà femminili non vengono tollerate da quegli uomini che identificano la propria virilità col possesso e il dominio sulla donna che hanno accanto. Sia chiaro che non parlo di una guerra fra i due sessi, ma di due culture, una tradizionale che non crede nell’evoluzione dei costumi, e una che si fida della storia e sa che le cose cambiano in continuazione e che il tempo non si può fermare, ma solo guidare con intelligenza e giustizia. Quando è esploso il caso La Russa Jr, le militanti di Non una di meno Milano hanno affisso dei cartelli di protesta con il volto del presidente del Senato e di suo figlio Leonardo Apache, con lo slogan “el violador eres tu”. Come giudica la protesta? Le proteste quando sono pacifiche, sono da considerarsi legittime. Comunque non mi sembra un insulto gratuito ricordare al ragazzo che il violentatore è lui. Troppo spesso si rovesciano le verità e si cerca di rendere colpevole la vittima accusandola di avere bevuto, di essersi messa la gonna corta, di avere accettato una compagnia non ben conosciuta, ecc. Sono giustificazioni ingiustificabili. Lo stupro per me è un atto di aggressione sociale e culturale, che compie un uomo fragile e impaurito per ribadire la sua superiorità e il suo diritto secolare alla superiorità sulla donna. Migranti. Due italiani su tre approvano i nuovi decreti di Alessandra Ghisleri La Stampa, 9 ottobre 2023 L’aumento degli sbarchi un fatto strutturale per il 57,1%, un attacco al governo per il 23,3%. Guadagnano consensi Fratelli d’Italia, 5 Stelle, Pd e Renzi, la Lega invece torna sotto al 10%. Può sembrare impensabile che in un periodo così complicato come quello che stiamo vivendo nel nostro Paese esistano dei movimenti migratori di popolazioni che per diverse spinte legate alla lotta contro la fame o alle guerre o semplicemente per motivi politici si muovano verso l’Italia. Il nostro Paese giudicato severamente dai suoi stessi cittadini, rappresenta comunque, per chi decide di attraversare il mediterraneo, una nazione sicuramente più sviluppata e ricca di occasioni che si presentano con un maggior numero di possibilità di lavoro, migliori condizioni di vita o semplicemente per avere una maggiore libertà. I flussi migratori dal nord Africa e dal vicino oriente sono ormai una realtà assodata da anni, considerato un “fatto naturale e strutturale legato a fattori sociali, storici, economici e politic”i dal 57.1% dei cittadini italiani secondo un sondaggio realizzato da EuromediaResearch per la trasmissione Porta a Porta. Un cittadino su 4 li considera degli “invasori” (23,3%), mentre esiste un 10,3% che è convinto che esista una macchinazione stabilita a tavolino dal governo per giustificare i massicci tentativi di coinvolgere l’Europa nella possibilità di organizzare una migliore distribuzione dei migranti. Dal 1 gennaio 2023 al 6 ottobre 2023 sul territorio italiano sono sbarcati 135.941 migranti -fonte: dipartimento della pubblica sicurezza-, mentre lo scorso anno confrontando lo stesso periodo ne erano arrivati 72.721, e l’anno ancora prima, nel 2021, arrivarono 47.959 persone. Seguendo questo schema è facile intuire che il fenomeno della migrazione è in crescita e si sta lentamente trasformando in strutturale nelle sue modalità. Le intese per bloccare le partenze animano i dibattiti pubblici, resta il fatto che i patti devono essere trattati con autocrati locali spesso poco rispettosi dei diritti civili. Così nella convulsa ricerca di una via di uscita il Governo propone nuovi decreti come quello sull’espulsione diretta quando esistono gravi motivi di pubblica sicurezza, o quello sulla stretta sui minori che prevede l’accoglienza mista con gli adulti degli adolescenti tra i 16 e i 18 anni nel caso in cui si presentasse la momentanea indisponibilità di strutture ricettive per migranti minorenni. Entrambe le soluzioni proposte ottengono la condivisione della maggioranza del campione di intervistati: il 63,6% per l’allontanamento disposto direttamente dal prefetto se ricorrono gravi motivi di pubblica sicurezza e il 56,5% per l’accoglienza provvisoria del minore con età superiore ai 16 anni in strutture dedicate agli adulti. Il che sottolinea che il tema non è solo di natura divulgativa, ma comportamentale. Non è che strillando più forte si riesce a convincere gli italiani che l’argomento abbia trovato una sua soluzione politica, oppure che non ce ne sia. Le immagini fortemente emotive degli arrivi dei migranti scuotono l’opinione pubblica, ma non ne destabilizzano le importanti certezze di voler difendere ad ogni costo il proprio piccolo nucleo di quotidianità. L’aumento generale dei prezzi, nonché delle bollette certificate anche dalle Agenzie competenti, insieme al fenomeno dell’inflazione che non molla il morso, sono in cima alle priorità degli italiani unitamente al desiderio di avere una sanità più accessibile. L’immigrazione è una possibilità di disagio vissuta oggi in maniera collaterale dalla maggior parte della popolazione. Si sente, si ascolta, si giudica, ma si è più facilmente distratti da altre precedenze. In qualche caso ci sono spinte che cercano di influenzare le scelte del pubblico politico mettendo l’accento sui fatti negativi connessi al fenomeno o esaltando le grandi aperture dell’accoglienza, tuttavia, anche se in ogni caso le spinte possono nascere con le migliori intenzioni, si evidenzia la mancanza di una cultura della sperimentazione per poter essere in grado di prevedere i risultati dei provvedimenti. A tutto ciò è necessario aggiungere la confusione che si è generata con il caso del tribunale di Catania, dove è stato accolto il ricorso di un migrante sbarcato a metà settembre a Lampedusa e poi portato nel nuovo centro di Pozzallo, giudicando il nuovo “decreto Piantedosi” illegittimo in più parti. Il 46,2% non trova corretto questo intervento del magistrato, mentre il 32,7% lo approva. Gli elettori di centro destra in maggioranza bocciano la sentenza, di contro gli elettori delle opposizioni la giudicano favorevolmente. L’evoluzione sulle presunte partecipazioni politiche della pm Iolanda Apostolico che ha scritto questa sentenza ha di fatto aumentato la confusione rispetto al trentennale conflitto tra magistratura e politica… e il dibattito mina ancora una volta il valore dell’Istituzione. La vittoria a metà sui migranti rafforza politicamente Meloni di Lorenzo Castellani Il Domani, 9 ottobre 2023 La Germania ha ceduto alle pressioni italiane, e l’accordo sulle migrazioni è passato nonostante la contrarietà di Polonia e Ungheria. Saprà risolvere la crisi migratoria? Il governo registra una mezza vittoria in Europa con l’accordo sull’immigrazione. Giorgia Meloni pareva essere in un vicolo cieco dopo aver bocciato la prima bozza europea dell’accordo sull’immigrazione per l’eccessiva protezione che questo garantiva alle Ong. Quel riferimento è stato cancellato nella seconda versione, la Germania ha ceduto alle pressioni italiane, e l’accordo è passato nonostante la contrarietà di Polonia e Ungheria. L’accordo saprà risolvere la crisi migratoria? Difficile fare previsioni e per questo la vittoria resta a metà, ma sul piano diplomatico Giorgia Meloni ha dato prova di concretezza e prudenza. La presidente del Consiglio ha negoziato con pazienza con le altre grandi nazioni europee e ha rotto l’alleanza con i sovranisti dell’est Europa sull’immigrazione. Sulla carta l’Italia ha strappato un buon accordo che si pone a metà tra la linea della fermezza propugnata dalla maggioranza e la ricerca di una soluzione europea, integrata con la volontà degli altri Stati membri. Una vicenda utile per inquadrare meglio anche il profilo politico di Giorgia Meloni. Non siamo di fronte al prototipo del politico populista, incendiario e sovraesposto a livello mediatico, ma ad una leader esperta che ha imparato a dosare il rapporto tra esigenze di governo e consenso di popolo. Meloni, in altre parole, non è Salvini e questo le dà una forza maggiore. Il presidente del consiglio non straparla, sa inabissarsi e soprattutto è disposta alla negoziazione e al compromesso. Una capacità trasformistica - C’è nello stile di Meloni una capacità, senza dubbio trasformistica, che le ha reso possibile per ora trasformare le promesse mancate della campagna elettorale in una politica governativa realista è accettabile per l’establishment italiano e per le istituzioni europee. I sondaggi danno ragione alla maggioranza che nelle ultime rilevazioni ottiene numeri in linea con i risultati elettorali dello scorso anno, mentre l’opposizione è divisa e non riesce ad intaccare l’elettorato della destra. Ciò naturalmente non significa che il governo sia al riparo da rischi e problemi. Costo del debito, recessione, ritardi del Pnrr incombono sull’esecutivo che però può continuare ad andare avanti fino a che non esistono alternative politiche. Meloni potrà affrontare queste difficoltà dando un segnale diplomatico ai mercati e all’Unione Europea. Ai primi con una politica fiscale assennata, dismettendo la retorica complottista e ponendosi come unica garante della stabilità politica italiana, mentre alla seconda attraverso il tentativo di far parte della prossima maggioranza che governerà a Bruxelles. La trattativa sull’immigrazione è un ramoscello di ulivo ai popolari, segno colto dalla Von der Leyen che protegge Meloni, perché risponde alla richiesta di questi di rottura con Polonia e Ungheria. È un segnale che, se le elezioni europee andranno in un certo modo, Fratelli d’Italia sarà pronta a fare la sua parte per trovare una maggioranza europea insieme ai popolari e ai liberali. Proprio per questo motivo oggi la principale insidia Meloni ce l’ha in casa e si chiama Matteo Salvini. Il leader leghista non scommette sulla trattativa e sull’accordo al centro, ma sul suo fallimento. Egli ha fiutato il potenziale successo elettorale di AfD in Germania e Fn in Francia, punta tutto sulla crescita della destra più estrema per mettere pressione su popolari e conservatori al fine di separarli o radicalizzarli. Se la Lega andasse bene alle europee e i suoi alleati ottenessero un exploit il peso di Salvini e la sua capacità di condizionamento del governo crescerebbero. A quel punto per Meloni si aprirebbe il dilemma: strappare in casa oppure fuori? Perché scegliere strade diverse in Europa può aprire aspri attriti nella maggioranza in Italia. Un altro giudice a Catania non convalida i trattenimenti come la Apostolico: rilasciati sei migranti di Giuseppe Salvaggiulo La Stampa, 9 ottobre 2023 Il provvedimento adottato dal giudice Rosario Cupri. Un altro giudice della sezione immigrazione del tribunale di Catania ha depositato, nella serata di domenica, sei provvedimenti di non convalida dei decreti del questore di Ragusa che disponevano la detenzione di tunisini richiedenti asilo nell’hotspot di Pozzallo, in applicazione delle recenti disposizioni del decreto Cutro. Si tratta di provvedimenti analoghi a quelli firmati una settimana fa dalla giudice Iolanda Apostolico, che hanno suscitato l’ira della premier Giorgia Meloni, che si è detta “basita”, ha definito “incredibili” le motivazioni del provvedimento e poi ha accusato la giudice di “scagliarsi contro un governo democraticamente eletto”. Ora, però, un altro giudice si esprime in modo analogo, rispetto a sei tunisini assistiti dagli avvocati Rosa Emanuela Lo Faro e Fabio Presenti. Anzi rafforza le motivazioni della giudice Apostolico, perché oltre a disapplicare il decreto Cutro per contrasto con la normativa europea, scrive che la Tunisia non può essere considerata “Paese sicuro” e quindi non è utilizzabile la procedura accelerata con detenzione per i rimpatri. In più il giudice non riconosce la procedura accelerata. Nei giorni scorsi, anche il tribunale di Firenze si era espresso nel senso contrario all’inclusione della Tunisia nella lista dei “Paesi sicuri”, effettuata dal governo Meloni a marzo con motivazione giudicata illegittima. Non si vive in paradiso se intorno c’è l’inferno di Nathalie Tocci La Stampa, 9 ottobre 2023 La parola più sentita nelle prime drammatiche ore dell’attacco brutale di Hamas nel sud di Israele è stata “sorpresa”. Ma è sorprendente questa recrudescenza del conflitto, di cui si contano già centinaia di vittime civili israeliane e palestinesi che con il passare dei giorni sono destinate a diventare migliaia? Quale verità si cela dietro lo shock e lo stupore? Implicita in un attacco di questa scala e complessità è una preparazione durata mesi. Le milizie di Hamas, sostenute dall’Iran, non hanno improvvisato un’aggressione come questa; la hanno semmai preparata nei dettagli militari, politici, di intelligence, propaganda e terrore. Eppure, Israele vanta servizi e deterrenza militare tra i più avanzati al mondo. Dalla sorveglianza tecnologica agli informatori politici, dal blocco totale di Gaza - dove due milioni e trecentomila palestinesi vivono in una prigione a cielo aperto dal 2005 - alla collaborazione con i Paesi arabi, a partire da Egitto, Giordania ed Emirati, com’è però possibile che una tale organizzazione sia passata indenne sotto i radar? Soffermarsi sulle falle di intelligence e militari distoglie lo sguardo dal vero fallimento, che è politico. Ed è il fallimento di tutti: di Israele, dell’Autorità palestinese, dei Paesi arabi e dell’Occidente. Israele, guidata dal governo più estremista della sua storia, è stata decisamente “distratta” nell’ultimo anno. Per il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, concentrato internamente sul sovvertimento dell’ordine giudiziario e internazionalmente sul riavvicinamento con l’Arabia Saudita, la questione palestinese era pressoché inesistente. E questo nonostante la violenza a Gerusalemme, in Cisgiordania e a Gaza fosse in netta ascesa: da gennaio all’altro ieri, erano già oltre 200 i palestinesi e 30 gli israeliani uccisi nel 2023 durante manifestazioni, scontri ed operazioni militari, in deciso aumento rispetto all’anno scorso. Ma non solo non se ne parlava; c’era addirittura l’illusione che il conflitto israelo-palestinese fosse dormiente, se non addirittura prossimo alla stabilizzazione attraverso lauti finanziamenti sauditi nel contesto di una normalizzazione dei rapporti con Israele. Ed ecco l’impreparazione di un governo e di uno Stato illusi che la schiacciante forza, assistita dalla sudditanza di un’Autorità palestinese corrotta moralmente e finanziariamente, la quale da anni ormai agisce come braccio armato di Israele in Cisgiordania, fosse sufficiente per dimenticarsi dei diritti calpestati dei palestinesi. Ecco lo shock della società israeliana, convinta della sicurezza garantita dalle proprie Forze armate. Uno shock che si innesta e riaccende il trauma dell’ottobre di esattamente cinquant’anni fa, quando Egitto e Siria colsero Israele in una guerra a sorpresa, quella dello Yom Kippur. È difficile immaginare che la rabbia e il dolore della società israeliana non avranno, a lungo andare, conseguenze per il premier Netanyahu e il suo esecutivo. Ma lo stupore mette a nudo un’illusione. Riportando le parole di un collega israeliano: com’è possibile credere di poter vivere in paradiso quando attorno a noi c’è l’inferno? A ben vedere, la sorpresa e il folle abbaglio non sono stati prerogativa solo di Israele e del suo governo, ma anche dei Paesi arabi. Per mesi le discussioni sul Medio Oriente hanno ruotato attorno ai negoziati sulla normalizzazione dei rapporti tra Israele e Arabia Saudita, mediati dagli Stati Uniti, che avrebbero a loro volta ricompensato Riyadh con un partenariato di sicurezza rafforzato, avvicinandosi a quello di cui gode Israele da decenni. Rilevante, certo, ma trattandosi di una ufficializzazione dei rapporti tra due Stati che non sono in guerra, la distensione israelo-saudita è sempre stata, al massimo, una questione secondaria. I veri nodi in Medio Oriente riguardano i conflitti aperti, a partire dalla madre di tutti i mali, ossia proprio quello tra Israele e Palestina, passando a Libano e Siria, fino ad arrivare al gigantesco nodo regionale con l’Iran. Questo non vuol dire che ci sia stata una regia iraniana dietro all’attacco di Gaza. C’è stato un evidente sostegno iraniano di tipo politico, finanziario, tecnologico e militare, rivendicato apertamente da Hamas, e un chiaro interesse di Teheran a sabotare la normalizzazione tra Israele e Arabia Saudita, che avrebbe rallentato se non addirittura compromesso il proprio riavvicinamento a Riyadh sancito la primavera scorsa, con il ripristino delle relazioni diplomatiche tra i due principali rivali del Golfo. E invece, tutta l’attenzione mediatica e il capitale politico, economico e di sicurezza non sono stati impiegati per sanare le piaghe aperte, ma per mettere un cerotto laddove non esisteva una ferita, illudendosi che i veri problemi sarebbero rimasti dormienti. Le responsabilità sono sì della regione, ma anche dell’Occidente. Solo otto giorni fa il consigliere per la sicurezza nazionale dell’amministrazione Biden, Jake Sullivan, aveva dichiarato che il Medio Oriente non viveva un periodo così tranquillo da decenni. Al netto delle parole grottesche col senno di poi, il dato più eclatante riguarda la gigantesca miopia e ipocrisia che celano, tanto americane quanto europee. Perché se gli Stati Uniti hanno fatto poco di buono in Medio Oriente negli ultimi anni, l’Europa ha fatto ancora meno. In Ucraina sappiamo che non c’è pace senza giustizia, e che la stabilizzazione non arriverà con un “congelamento” del conflitto, lasciando che la Russia continui a occupare territori e reprimere popolazioni ucraine: è per questo che sosteniamo Kyiv. Eppure, in Medio Oriente ci siamo illusi che una soluzione simile fosse possibile, abbiamo lasciato che i “due Stati per due popoli”, quella soluzione nata trent’anni fa con una stretta di mano tra Yitzhak Rabin e Yasser Arafat sul prato della Casa Bianca, morisse nell’hybris di Israele, la debolezza e corruzione morale dell’Autorità palestinese, il cinismo dei regimi mediorientali e l’ipocrisia occidentale. La soluzione è morta nell’oblio, ma il problema, come emerge in questi giorni di drammatica violenza, è fin troppo vivo. Gaza ignorata da tutti negli ultimi 20 anni pagherà col sangue la fine di Netanyahu di Francesca Mannocchi La Stampa, 9 ottobre 2023 La Striscia è una prigione a cielo aperto dal 2007, ma l’estremismo di Hamas la condanna a restare così per sempre. A due giorni dall’attacco di Hamas, le domande guardano tutte al futuro: quanto lunga, violenta e sanguinosa sarà la rappresaglia alle centinaia di morti, agli ostaggi trasferiti dai miliziani di Hamas nella Striscia di Gaza, alle squadre di incursori che hanno attraversato il confine facendo sì che per la prima volta nei 75 anni dalla creazione di Israele, le forze palestinesi siano riuscite a prendere il controllo delle aree all’interno della Linea Verde. Quanto le operazioni militari resteranno circoscritte o se saranno, invece, destinate a coinvolgere le potenze circostanti, il Libano con Hezbollah a fare da capofila. Ma oggi è anche il giorno per guardare al passato e analizzare le condizioni che hanno determinato una giornata destinata a cambiare per sempre le sorti di un conflitto mai risolto e alterare, di conseguenza, gli equilibri regionali. La risposta di Israele su Gaza è in corso, le forze armate stanno riprendendo il possesso dei centri abitati dove sono ancora presenti miliziani di Hamas e pianificando una apparentemente inevitabile invasione di terra nella striscia di Gaza. Sabato notte un’ondata di massicci bombardamenti ha ucciso almeno 370 palestinesi (tra cui 20 bambini), altri 2000 sono stati feriti, e nell’operazione che Israele ha battezzato “Spada di Ferro” sono stati colpiti decine di edifici militari e residenziali, è stato abbattuto e ridotto in macerie il grattacielo di 14 piani che ospita gli uffici di giornali e televisioni nel centro di Gaza e che comprendeva almeno 100 appartamenti. Tra gli edifici presi di mira la casa del leader di Hamas Yahya al-Sinwar, la sede delle istituzioni di beneficenza nel Sud di Gaza, l’edificio al-Hashem nel Nord della Striscia, che ospitava una Ong locale e 15 appartamenti civili. Tutto questo in un’area ancora segnata dalle guerre precedenti. E dove, secondo il Consiglio norvegese per i rifugiati, a febbraio quasi 2.000 case erano ancora in rovina a causa degli attacchi israeliani avvenuti negli ultimi dieci anni. Riferisce Medici Senza Frontiere che le forze israeliane sabato abbiano colpito una clinica e un’ambulanza davanti all’ospedale Nasser, nel Sud di Gaza uccidendo un’infermiera, un autista di ambulanza e danneggiando una stazione di ossigeno. Gli altri ospedali, sovraffollati e dipendenti dagli aiuti internazionali, stanno usando gli ultimi generatori elettrici ancora funzionanti per fare fronte al gran numero di feriti in arrivo e, secondo i dati diffusi dall’Unrwa, l’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso dei rifugiati palestinesi, già in 20.000 hanno lasciato le regioni di confine di Gaza per dirigersi nelle zone più interne cercando rifugio nelle scuole delle Nazioni Unite. Gaza è una prigione a cielo aperto, un gigantesco campo profughi che vive una crisi umanitaria cronica e in costante deterioramento dal 2007, anno della vittoria elettorale di Hamas. Da allora Israele impone sulla Striscia un blocco aereo, terrestre e marittimo. Ecco perché dopo le parole nette di sabato del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu che ha dichiarato: “Israele è in guerra. Lasciate Gaza, ridurremo i covi di Hamas in rovine”, le organizzazioni locali fanno appello alla comunità internazionale per aprire corridoi umanitari e provare a evacuare la popolazione. Sanno che di fronte alle parole “Lasciate Gaza”, la reazione di ogni palestinese nella Striscia è “Nowhere to go”. Non sappiamo dove andare. Era così anche prima, quando sopravvivevano con tre, quattro ore di elettricità al giorno, è così a maggior ragione oggi, sotto i bombardamenti israeliani e dopo che il ministro dell’Energia di Tel Aviv Israel Katz ha annunciato l’interruzione totale della fornitura energetica al territorio assediato. Decisione che si configura come un crimine di guerra. Gaza è stata il grande rimosso degli ultimi anni e il suo destino oggi è il maggiore punto interrogativo della guerra: due milioni di persone che non hanno modo di uscire e che sono destinate a pagare il prezzo degli eventi. Ecco perché l’immagine del bulldozer che sabato ha sfondato le barriere di sicurezza israeliane ha una enorme potenza simbolica e avrà una lunga eco per la causa palestinese, nel mondo arabo e non solo, perché come dicono gli abitanti di Gaza contattati da La Stampa nella giornata di ieri, rappresenta “la prima vittoria e la resistenza all’occupazione”. Per Samy A. (che non vuole dichiarare il suo cognome e parlava ieri mattina al telefono dalla Striscia) “la violenza dell’azione di Hamas era il solo modo per porre fine alla situazione a Gaza. Lo hanno fatto nel peggior modo possibile - dice - ma hanno ricordato al mondo che esistiamo e che non era più accettabile considerare l’assedio come una situazione che non sarebbe mai cambiata”. Muhammad, trent’anni, anche lui raggiunto telefonicamente, racconta di essere scappato da casa sua nel Sud della Striscia senza prendere niente, se non qualche vestito e delle coperte per far trascorrere la notte ai suoi due bambini piccoli. Per la sua famiglia, come per centinaia di altre, questa guerra è un copione che si ripete. I suoi figli non erano nati durante la guerra del 2014, ma a 5 e 7 anni stavano già subendo le conseguenze dell’assedio: “Lo sapevano tutti che sarebbe successo prima o poi. Non si possono ignorare due milioni di vite in una prigione e pensare che saremmo rimasti passivi per sempre, che avrebbero potuto continuare ad umiliarci così. Ma sappiamo che la ritorsione stavolta sarà diversa. Guardo al futuro e vedo altri morti e altri martiri”. Per quasi vent’anni i leader mondiali - Stati Uniti in testa - si sono accontentati di contribuire alla sola risposta alla crisi umanitaria, anche se in maniera incostante ed insufficiente. Solo osservando eventi e numeri dei mesi appena trascorsi, era chiaro che la situazione era destinata a deflagrare. Era dalla Seconda Intifada dei primi anni 2000 che non si registravano così tanti morti palestinesi e israeliani. A questo si aggiunge la mano libera lasciata dal governo ai coloni nell’ampliamento degli insediamenti illegali in Cisgiordania e un aumento delle irruzioni e delle violenze nella simbolica moschea di Al-Aqsa. Sullo sfondo, lo stallo di Gaza che nessuno ha saputo o voluto affrontare. Perciò, per tutti, oggi è anche il giorno della ricerca delle responsabilità nelle falle della sicurezza dei servizi israeliani ma anche delle responsabilità politiche. Dopo 15 anni quasi ininterrotti di leadership di Benjamin Netanyahu, molti hanno assorbito la sua visione del conflitto, quella cioè di una cristallizzazione dell’isolamento di Gaza. Il quotidiano israeliano Haaretz, ieri mattina, titolava un durissimo editoriale con queste parole: “Netanyahu è responsabile di questa guerra tra Israele e Gaza”. Si legge: “Il primo ministro, che si vantava della sua vasta esperienza politica e della sua insostituibile saggezza in materia di sicurezza, non è riuscito a identificare i pericoli verso i quali stava consapevolmente conducendo Israele quando ha istituito un governo di annessione ed esproprio, quando ha nominato Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir a posizioni chiave, abbracciando al tempo stesso una politica estera che ignorava apertamente l’esistenza e i diritti dei palestinesi”. Tesi rafforzata anche da Anshel Pfeffer, corrispondente da Israele per The Economist, che ieri scriveva: “Netanyahu ha cercato di ignorare Gaza durante i suoi molti anni in carica. Non ha mai fatto progetti per il suo futuro e dopo ogni round di combattimento si è affrettato ad occuparsi di altro. Ora sarà ricordato per sempre dagli israeliani per questo disastro. Questa è la sua eredità”. La ritorsione per l’attacco sferrato da Hamas verrà pagata col sangue dei civili di Gaza, ma le conseguenze politiche dell’accaduto probabilmente saranno due. La prima, la crisi definitiva dell’era Netanyahu. La seconda, il rafforzamento di Hamas in Cisgiordania, dove la popolazione è sempre più lontana dalla politica dell’Autorità Palestinese, considerata troppo debole e compromessa dalla collaborazione con Israele e dal suo leader, Mahmoud Abbas, che non gode più da tempo di legittimità tra i palestinesi. Quello che l’attacco di Hamas, quindi, rischia di generare negli animi dei palestinesi frustrati e soprattutto delle generazioni più giovani, è che il gruppo armato appaia come il solo in grado di riportare al centro una questione troppo a lungo ignorata. C’è tutto questo nell’immagine dello squarcio aperto dal bulldozer che ha demolito la rete che confinava Gaza nell’assedio. Il sangue dei civili e il rischio di nuovi estremismi. Tajani: “Israele, va sventata un’escalation dagli effetti incalcolabili. Serve la mediazione araba” di Paola Di Caro Corriere della Sera, 9 ottobre 2023 Il ministro: condanniamo l’aggressione con fermezza. Preoccupano l’Iran e le immagini di gioia per i massacri. Dalla parte di Israele e del suo popolo che sta subendo un’aggressione “mostruosa” a danno di civili inermi, donne, bambini, anziani e non un mero atto di guerra o terrorismo. Antonio Tajani, ministro degli Esteri, non ha dubbi su quale debba essere il posizionamento dell’Italia nel conflitto appena esploso in Medio Oriente, e anzi crede e auspica che su questo tema “la politica, i partiti, maggioranza e opposizione non si dividano: quello che vediamo, che sappiamo, che ci arriva da quei territori è talmente insostenibile che nessuno potrà negare la propria solidarietà a Israele”. Ma nello stesso tempo, lui stesso e il governo italiano sono impegnati e continueranno a farlo “con forza” perché si giunga al più presto a una soluzione diplomatica della crisi, a una de-escalation immediata e duratura. Perché il rischio di un allargamento del conflitto, con effetti difficilmente immaginabili nella loro gravità, è molto alto. Significa che sarete schierati con Israele anche se la reazione sarà, come annunciato, durissima? “Voglio essere chiaro. L’aggressione di Hamas in territorio israeliano va condannata con la massima fermezza. E noi riconosciamo il pieno diritto di Israele a difendersi, tanto più di fronte ad una aggressione come questa che sta sconvolgendo il mondo per la ferocia, la bestialità - come perfino il vilipendio dei cadaveri - di atti contro civili e non di azioni militari”. Ma? “Ma, al tempo stesso, va sventato il rischio di una escalation che avrebbe conseguenze incalcolabili e incontrollabili sul piano regionale, che andrebbero a sommarsi a un quadro già difficilissimo in altre aree del mondo, a partire dal conflitto in Ucraina. In Medio Oriente vanno tenute debitamente presenti le complesse dinamiche di una regione in movimento”. E come si fa a evitare l’escalation? È probabile che la reazione israeliana sarà durissima, con altro spargimento di sangue da una parte e dall’altra. “La situazione richiama paradossalmente la necessità di riportare il processo di pace al centro dell’attenzione internazionale. Siamo pronti a lavorare per favorire il raffreddamento delle tensioni, come già ottenuto a inizio anno con le intese di Aqaba e Sharm el-Sheikh, e la successiva ripresa di una prospettiva politica”. Quali canali diretti avete, che tipo di opera di convincimento può fare l’Italia perché il conflitto non deflagri? “Io personalmente ho già parlato sia con il ministro degli Esteri israeliano Cohen che con il mio omologo egiziano Shukri e il ministro degli Esteri giordano Ayman Safadi, per auspicare un dialogo che porti a un abbassamento della tensione, e mercoledì sarò in visita ufficiale in Egitto per incontrare il presidente Al-Sisi. Contiamo molto sull’Arabia Saudita, sulla Giordania e sull’Egitto, quest’ultimo ha canali di comunicazione efficaci con Hamas, affinché possano compiere un’opera di mediazione”. In che modo si potrebbe agire, almeno nell’immediato? “Intanto permettendo corridoi umanitari nella Striscia di Gaza per mettere al sicuro bambini, donne, ostaggi civili, che nulla hanno a che fare nemmeno con uno scenario di guerra. Ma poi, tutti i Paesi moderati non vogliono che ci sia alcuna estensione del conflitto, ancor più rischiosa se si considera la saldatura possibile tra le azioni di Hamas ed Hezbollah nel vicino Libano: una realtà a sua volta in preda a una crisi politica profonda, che il coinvolgimento del “partito di Dio” potrebbe far precipitare, destabilizzando ulteriormente il Libano e la regione”. Un conflitto che porterebbe quali conseguenze, quali sono i timori? “È estremamente preoccupante vedere l’atteggiamento dell’Iran, immagini in cui si fanno salti di gioia davanti al massacro di cittadini indifesi. Purtroppo non aiuta lo stallo del Processo di pace, né la percepibile crisi di consensi dell’Autorità palestinese - ma pure di Hamas stesso - presso i suoi cittadini”. E appunto che ruolo può svolgere l’Italia? Schierarsi troppo dalla parte di Israele - come con le bandiere di quel Paese esposte da istituzioni, compreso Palazzo Chigi - non può rendere più difficile una attività di mediazione? “Ma noi siamo da sempre per una politica dei “due popoli, due Stati”, conosciamo bene la complessità della situazione, abbiamo avuto rapporti anche con l’Autorità palestinese, che ce ne ha dato atto. In questo momento però non si può non stare dalla parte di chi viene così vilmente aggredito, di un popolo - quello israeliano - colpito in modo terribile. Stiamo già parlando di un migliaio di morti, con una ferocia indescrivibile. Ovviamente la situazione ripropone la necessità di dedicare attenzione prioritaria sui rapporti con l’area mediterranea e medio orientale, fulcro degli interessi dell’Italia e al centro del dibattito internazionale su temi che vanno dall’energia all’immigrazione. Proprio per questo intendiamo porre con forza anche questo tema sul tavolo della presidenza italiana del G7 nel 2024”. State agendo di concerto con altri Paesi, per una pressione più incisiva? “Manteniamo un costante contatto con i partner internazionali, a iniziare dagli Stati Uniti, e con gli attori regionali costruttivamente impegnati per far avanzare il dialogo tra le parti. Ci siamo riuniti con il quintetto - Usa, Germania, Italia, Francia, Gran Bretagna - per coordinare le posizioni, siamo sempre pronti a ogni iniziativa per evitare appunto l’escalation”. Temete ripercussioni anche in Italia? “Ogni obiettivo sensibile è protetto, siamo attentissimi e non registriamo allo stato particolari allarmi ma è ovvio che ogni misura di sicurezza viene adottata. Per quanto riguarda gli italiani in Israele, sono 18 mila, molti con doppia nazionalità, un migliaio sono nell’esercito, una decina a Gaza, 500 in Israele tra turisti e lavoratori non residenti. La nostra Unità di crisi è sempre attiva e siamo pronti per ogni aiuto possibile”. In questo quadro, la sensazione è che ci sia meno attenzione al fronte ucraino. Si sta raffreddando il supporto internazionale, e anche italiano? Cosa farete con il prossimo invio di aiuti per il sostegno militare a Kiev? “No, l’Italia continua a sostenere Zelensky, facendo quello che è nelle nostre possibilità. Valutiamo un ottavo pacchetto di aiuti, vedremo quali saranno i contenuti, li stabilirà il governo. Faremo la nostra parte per quanto ci sarà possibile, e lavoreremo assieme alle Nazioni Unite per una pace che sia giusta”. Ecuador. Uccisi in carcere i killer del candidato alle presidenziali: è la “giustizia parallela” di Sara Gandolfi Corriere della Sera, 9 ottobre 2023 Svanita ogni possibilità di interrogarli per risalire ai mandanti dell’omicidio di Fernando Villavicencio. Il nome del mandante resterà un mistero. Chi poteva confessarlo è stato messo a tacere. In carcere. Succede in Ecuador, un tempo pacifico paradiso di biodiversità latino-americana, oggi teatro di sanguinarie faide tra bande criminali. Stretto tra Colombia e Perù (grandi produttori di coca), è diventato il canale privilegiato per i “carichi” che poi prendono la rotta degli Usa o dell’Europa. Ad agosto hanno ammazzato a sangue freddo un candidato alle presidenziali, che si concludono domenica prossima al ballottaggio. Fernando Villavicencio era un giornalista che da tempo denunciava gli intrallazzi fra i Cartelli della droga e alcuni pezzi dello Stato. Lo hanno freddato alla fine di un comizio, sparandogli in testa svariati colpi. Sei sicari colombiani sono stati arrestati subito, altri sospetti più tardi. L’Fbi, accorsa a dare una mano alle autorità locali, ha offerto una taglia per una soffiata sui “responsabili intellettuali” dell’omicidio. I killer arrestati avrebbero probabilmente goduto di uno sconto di pena se avessero “cantato”. Ma avevano paura. Non si sentivano sicuri in quel carcere fuori Guayaquil, roccaforte delle narco-gang che dietro le sbarre spesso regolano i conti in sospeso. Volevano essere trasferiti, ma la burocrazia (pare) ha rallentato l’iter. Li hanno trovati impiccati, tutti e sei, durante l’ennesima pseudo-rivolta carceraria. Li chiamano “disordini”, alla fine ci scappa sempre qualche morto. Il giorno dopo, un altro sicario di Villavicencio, ecuadoriano, ha fatto la stessa fine in un carcere di Quito. Bocca chiusa, per sempre. Gli altri arrestati sono avvertiti. La “giustizia parallela” in Ecuador funziona così. Il presidente uscente Guillermo Lasso, che ha anticipato le elezioni per evitare l’impeachment, ha subito silurato il capo della polizia. I due sfidanti al ballottaggio di domenica, Daniel Noboa e Luisa González, intanto finiscono la campagna elettorale con il giubbetto anti-proiettili. Entrambi sembrano troppo fragili al cospetto di uno stato criminale dentro lo Stato che non sembra aver più alcun timore di una legalità che latita.