Entrate in un carcere e capirete: il suo fine è la morte per oblio di Enzo Musolino L’Unità, 8 ottobre 2023 Ho visitato la prigione di Reggio Calabria, ho sentito racconti di caccia ai topi, di svenimenti per il caldo, di pastiglie per anestetizzare l’esistenza. Ho visto volti di giovanissimi che non studieranno né lavoreranno. Il crimine è solo tra i carcerati? L’ultima battaglia di Pannella è stata quella per il “diritto alla conoscenza”. Alla fine di settembre, con Nessuno tocchi Caino e la Camera Penale, sono entrato nel Carcere “San Pietro” di Reggio Calabria. Ho visto poco più che bambine dietro le sbarre (come definire diversamente una ventenne che condivide la cella con la mamma, entrambe condannate per fatti di droga?), donne anziane di etnia Rom, di quasi settant’anni, che lamentano scompensi cardiaci cronici. Ho ascoltato racconti di caccia ai topi dentro la cella a otto letti, e di svenimenti per caldo dentro un buco per due. Mi hanno detto di medici e sanitari alle prese con ferri vecchi e di pastiglie contro l’ansia prescritte quasi a tutti per anestetizzare l’esistenza. Sono entrato in aule scolastiche a quattro posti, dedicate alla sola alfabetizzazione, mentre sarebbe necessaria l’istruzione superiore. In mezzo a tutto questo, insomma, mi sembra che l’ultima battaglia di Pannella vada declinata diversamente o, meglio, che vada compresa in un senso davvero radicale, un senso già presente nell’intuizione del leader libertario. È il “dovere alla conoscenza” che va attivato nell’intimo dei cittadini italiani. In carcere si “deve” entrare! È d’obbligo conoscerlo per comprenderlo davvero, per sentir raccontare, ad esempio, di piogge che riattivano l’odore ferroso delle sbarre arrugginite e che impedisce il sonno, per osservare i volti di giovanissimi che per cinque o sei anni non studieranno, non lavoreranno, non miglioreranno, e che poltriranno fino rovinarsi cervello e fisico in una struttura “concentrazionaria” che non ha alcuna finalità civile, rimanendo funzionale solo alla propria sopravvivenza istituzionale. Il crimine è solo tra i carcerati? Non si alligna anche nelle pieghe di un sistema che si arrotola su sé stesso senza davvero svolgersi? Non è criminale che tutto si riduca alla burocrazia securitaria della privazione della libertà che non ripara il male, che non sana, che - al più - diviene vendetta e violenza di Stato? Il carcere è questo! Pannella lo sapeva e perciò ha sempre provocato le coscienze alla ribellione, al dovere della verità di fronte a tante bugie, al coraggio della “riforma” radicale di una Istituzione in sé chiusa, per propria natura “casa di sofferenza” e, per tanto, inaccettabile per i fautori di vero progresso e crescita. Basta ristrutturarle le carceri, costruirne di nuove, sanificare le celle dopo l’ingresso del terzo o quarto topo? Basta passare da otto letti a cinque, sotto i 45° d’estate a Reggio Calabria? L’uomo è più del fatto brutto che lo ha attraversato, inchiodandolo all’evento. L’uomo, in quanto essente libero, è possibilità infinita di atti, di persuasione, di salvezza. Non c’è uomo che sia cattivo del tutto, ci ha insegnato Aldo Capitini dietro le sbarre fasciste delle Murate a Firenze. La dovremmo davvero approfondire questa verità, questo comune destino di errore e riscatto. La dovremmo introitare questa lezione “aperta” all’altro, prima di gioire per la morte di questo o quel mafioso o per l’arresto di questo o di quello scafista/mostrificato, o del solito zingaro, o drogato, o “povero diavolo”. Se non la pensassimo così, dovremmo allora essere conseguenziali “in diritto” e non solo “di fatto” (con la violazione surrettizia delle garanzie costituzionali), si dovrebbe cancellare per “Legge” il volto del ristretto, si dovrebbe condannare come eversivo il “tu devi” di Pannella alle prese con la non menzogna e andrebbero condannate come improprie anche le parole di Cristo che da duemila anni ci invita a visitarlo in carcere, ad abbandonare i pregiudizi verso i condannati dalla Storia, verso i cattivi per principio, i reietti. Si dovrebbe avere il coraggio di scriverlo nel Codice: il fine del carcere è la morte per pena, per rinunce, per oblio di speranza e senso. Pensare ed agire per il superamento del carcere non è un’utopia, è l’unica strada sensata che si abbia davvero innanzi. È un moto di coscienza che afferma, qui ed ora, ad esempio con l’iscrizione a Nessuno Tocchi Caino, con le battaglie contro l’affollamento e il trattamento penitenziario degradante, una fede in “Altro” rispetto ai poteri di questo mondo. Perché ammazzando Caino di carcere, non si afferma Abele ma un “carnefice” più terribile, senza volto e, quindi, senza responsabilità e possibilità di riscatto: l’Istituzione di cemento e ferro, infarcita di donne e uomini (carcerati o carcerieri poco importa) che passeggiano in tondo, giorno dopo giorno, senza farci più attenzione, sotto un cartello che dice “pericolo di crollo”, proprio come il cartello presente al “San Pietro” di Reggio, come in tutte le carceri italiane. I penalisti eleggono presidente Petrelli, “guerriero” del garantismo di Angela Stella L’Unità, 8 ottobre 2023 Francesco Petrelli al timone dell’Unione Camere Penali. Non ha bisogno certo di presentazioni ma ripercorriamo brevemente la sua storia. Classe 1957, si laurea nel 1980 alla Sapienza di Roma con 110 e lode discutendo una tesi di laurea in Diritto Processuale Penale dal titolo “La motivazione della sentenza penale e il suo controllo in Cassazione”. È avvocato del foro capitolino dal 1983. Il suo nome è legato a noti processi come quello per l’uccisione di Marta Russo (quando difendeva Giovanni Scattone), quello per la morte di Stefano Cucchi, durante il quale ha assistito il carabiniere Francesco Tedesco, e da ultimo anche quello per la morte del vice brigadiere Mario Cerciello Rega, nel quale difende uno dei due americani. Nonostante sia stato protagonista di vicende di cronaca giudiziaria che hanno attirato molto l’attenzione della stampa, Petrelli ha sempre rifuggito il presenzialismo mediatico. Ma non la scrittura da fine giurista: infatti dagli anni 2014 - 2023 ha pubblicato diversi articoli dedicati alla politica giudiziaria sui quotidiani “Cronache del Garantista”, “Il Tempo”, “Il Foglio”, “Il Corriere della Sera”, “Il Manifesto”, “Il Sole 24 Ore”, “Questione giustizia”, “Il Dubbio”, “Il Riformista”, “L’Unità”. Dal 2004 al 2008 ha ricoperto la carica di Vice-Presidente della Camera Penale di Roma, mentre dal 2014 al 2018 è stato Segretario nazionale dell’Unione Camere Penali Italiane con delega di Giunta alla Formazione, sotto la presidenza Migliucci. Attualmente ricopre la carica di direttore della rivista dell’Ucpi, ‘Diritto di Difesa’. Nel suo recente libro ‘Critica della retorica giustizialista’ (Giuffrè editore, prefazione Biagio De Giovanni) ha ricordato come “nel denunciare, nel lontano 2002, l’uso disinvolto e innovativo del termine ‘giustizialismo’, il Procuratore Generale Borrelli ne sanciva in qualche modo la fortuna, non prevedendo che quindici anni dopo, con un tipico ‘rovesciamento di stigma’, quel termine sarebbe risuonato come un grido di orgoglio nel lessico dei nuovi populismi penali”. Ha fatto parte di una delle Commissioni istituite dall’ex Ministra Marta Cartabia per la riforma del processo penale, in particolare di quella che si è occupata del delicato tema delle impugnazioni. Ha presentato un programma di settanta pagine. Sei capitoli dove descrive la situazione attuale e le linee da tracciare nel prossimo biennio. Ve ne diamo ovviamente solo una minima sintesi. Si parte da una critica a Nordio: “Avevamo apprezzato il dottor Nordio quando affermava che “il legislatore, nell’affannosa ricerca di un consenso immediato ed emotivo, conseguibile attraverso i titoli dei quotidiani o gli slogan dei social, si rifiuta di considerare l’opzione di una riforma organica e di ampio respiro, che occuperebbe tempo e avrebbe un impatto mediatico scialbo e diluito” e che dunque “il politico preferisce affidarsi ai vociferanti proclami delle manette facili, che generalmente suscitano consensi a buon mercato”. Non ci sono parsi, pertanto, in linea con quel condivisibile pensiero i primi atti del Governo caratterizzati da legislazioni volte proprio a rispondere a quelle sollecitazioni che erano state oggetto di condanna, come il D.L. in materia di rave party, o gli inasprimenti di pena nei confronti dei cd. scafisti ed il D.L. avente ad oggetto l’aumento delle pene con riferimento agli incendi boschivi, nonché l’introduzione dell’omicidio nautico, ed infine il D.L. “Caivano”, con il quale si sono introdotte nuove discutibili fattispecie di reato per il contrasto dell’abbandono scolastico, irragionevolmente estese ai minori, misure previste per i soli maggiorenni ed operati nuovi aumenti di pena in materia di stupefacenti al fine di consentire cautele anche per le ipotesi lievi. In tutti questi casi si è trattato di interventi che hanno fatto seguito a singoli casi di cronaca, secondo il copione della legislazione compulsiva reiterato nel tempo da tutti i governi”. Ma quali saranno le priorità su cui concentrarsi? Sicuramente la separazione delle carriere ma occorre anche “rompere l’egemonia non solo ordinamentale ma anche culturale, sociale e mediatica del pubblico ministero, affinché l’asse del processo torni ad essere costituita dalla decisione e la figura del giudice riacquisti quella centralità che la giurisdizione le assegna”. Un’altra questione da affrontare sarà quella dei magistrati fuori ruolo: “ L’invasione dei gangli nodali dei Ministeri, in particolare del Ministero della Giustizia, da parte della magistratura comporta, senza dubbio, l’esercizio diretto o indiretto di ampi poteri, che dovrebbero essere riservati all’esecutivo e talvolta al legislativo, che sono esercitati nell’interesse della propria corrente di riferimento e/o della corporazione, in modo incompatibile con il principio di separazione dei poteri sui quali dovrebbe basarsi una democrazia costituzionale”. Sarà poi “necessario emendare al più presto la riforma Cartabia da tutte le norme che hanno inammissibilmente compresso il diritto di difesa ed i poteri del difensore e contribuire ad una più vasta riforma del processo che recuperi le radici e i valori del modello accusatorio”. In bocca al lupo avvocato Petrelli. L’attacco di Caiazza: “Il populismo penale non è ancora finito” di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 8 ottobre 2023 Non fa sconti al Governo Meloni la relazione con la quale Giandomenico Caiazza chiude il suo mandato di presidente delle Camere Penali. Il congresso di Firenze eleggerà oggi il suo successore e sarà Francesco Petrelli, ma intanto Caiazza non risparmia le critiche alle politiche della giustizia realizzate da un ministro come Carlo Nordio, nei confronti del quali resta una stima di fondo, incrinata tuttavia dalla prassi dei numerosi provvedimenti attuati. E così per Caiazza sono sotto gli occhi di tutti “il grottesco decreto sui rave party; la durissima risposta alla Corte Costituzionale sull’ergastolo ostativo; la premurosa risposta al “grido di dolore” delle Procure, con il rinvio dei decreti attuativi Cartabia; la creazione di una Commissione sull’attuazione della riforma dell’ordinamento giudiziario affidato ad una Commissione composta per i 4/5 da magistrati; il costante rilancio dello strumento della creazione di figure nuove di reato e dell’aggravamento della pena per quelli già esistenti, inseguendo, secondo gli schemi del più vieto populismo penale, le emozioni e la rabbia popolare”. E poi Caiazza attacca ancora: “in questi cinque anni ho avuto a che fare con tre diversi Ministri di Giustizia, e fatemi fiducia se vi dico che non ho mai visto una magistratura ministeriale così forte e così padrona della gestione politica del ministero di Giustizia come quella odierna. Il tema dei fuori ruolo è davvero un tema sempre più cruciale nel definire la persistente anomalia della politica della giustizia nel nostro Paese; una urgenza almeno pari a quella della riforma della separazione delle carriere”. Petrelli, da parte sua, interviene sul tema più caldo del momento, sottolineando come “i Cpr indubbiamente violano i principi costituzionali e questa è una realtà che è stata riconosciuta in più occasioni perché effettivamente si tratta di una limitazione perdurante della libertà personale degli individui, sia pure definita come una sorta di limitazione di tipo amministrativo, ma poi nei fatti si risolve nella limitazione delle libertà”. Il futuro presidente aggiunge che “mentre la detenzione in carcere è oggetto di sorveglianza da parte di un magistrato - ha aggiunto - questo genere di limitazioni della libertà non è sottoposta ad alcun controllo se non quello del giudice di pace che è un giudice al quale è inibita l’applicazione di misure detentive”. E, in termini più strutturali, tra i molti obiettivi delle 70 pagine del suo programma, Petrelli colloca il superamento delle criticità della riforma Cartabia, per esempio su processo a distanza e disciplina delle notifiche, entrambi punti che comprimono il diritto di difesa. Sisto al Congresso Ucpi: “Separare le carriere? Lo abbiamo promesso e lo faremo” di Valentina Stella Il Dubbio, 8 ottobre 2023 L’intervento del viceministro alla convention delle Camere Penali a Firenze. “Il Governo è determinato: non ci sono esitazioni, ma occorre solo rispettare le dinamiche parlamentari. Si darà la priorità alla sessione di bilancio ma la determinazione del Governo e del Ministro è totale per portare a termine la separazione delle carriere. Lo abbiamo promesso agli elettori e lo faremo”: così stamattina il vice Ministro alla Giustizia Francesco Paolo Sisto al Congresso dell’Unione Camere Penali. Il senatore forzista ha proseguito: “Controllore e controllato non possono coincidere: per questo la separazione è un obiettivo da raggiungere”. È poi intervenuto l’avvocato Beniamino Migliucci: “da una parte mi sento tranquillizzato ma dall’altra preoccupato. Conosco l’intenzione di Nordio però l’Anm si oppone. Ce ne faremo una ragione a meno che non ci sia sempre quel timore che serpeggia nella politica di trovare accomodamenti per non scontentare qualcuno. Le riforme non vanno fatte per gli avvocati, ma per la società, per le ansie dei nostri assistiti. Non cederemo mai”. E ha chiarito: “se la riforma necessita di tempo, allora bisogna partire subito per portarla avanti, perché se immaginiamo di fare una legge che non sia costituzionale la separazione verrà affondata”. Nella sua replica Sisto ha chiesto tutto l’appoggio alle Camere Penali per raggiungere l’obiettivo ma come ha fatto notare il past president Valerio Spigarelli: “Sull’acuta domanda di Beniamino Migliucci in merito a che tipo di riforma (costituzionale o legge ordinaria, ndr) il Governo ha davvero in mente di fare, Sisto non ha risposto e per me questa è già una risposta”. I riflessi del “caso Catania”: inaccettabili e inquietanti di Glauco Giostra Il Domani, 8 ottobre 2023 Inaccettabile e inquietante il polverone polemico sollevato intorno al provvedimento della giudice di Catania che non ha convalidato un trattenimento in Cpr (ometto il nome perché i magistrati non devono comparire in prima pagina, né per esecrabili linciaggi mediatici, come in questo caso; né per narcisistici sfoggi autopromozionali, come pure è accaduto: la collettività deve giudicare le parole della giustizia, non le labbra che le hanno pronunciate). Ovviamente, la decisione, come ogni altro provvedimento giurisdizionale può essere valutata e, se del caso, criticata, censurando l’itinerario logico-giuridico che ne è alla base, con argomenti di diritto, usando parole tanto più misurate, quanto più alto è il ruolo istituzionale ricoperto. Ove si sia legittimati, poi, si possono naturalmente attivare i rimedi giurisdizionali: ineccepibile, al riguardo, il preannuncio di un ricorso in Cassazione del Ministro Piantedosi. Inaccettabile è, invece, la lapidazione mediatica con pietre verbali gravemente lesive dell’immagine e della reputazione del magistrato di cui non si condivide il pronunciamento. Accusare la giudice che ha emesso il provvedimento in questione di essere “nemico della sicurezza nazionale”, “legislatore abusivo”, “scafista in toga”, “toga rossa che rema contro” significa ammettere di dover ricorrere ad argomenti ad personam in mancanza di argomenti ad rem. E significa anche confessare il proprio analfabetismo costituzionale. Inquietante, poi, il rimedio invocato per evitare che simili, non gradite decisioni si ripetano. Più di una penna di noti giornalisti in questi giorni si è avventurata a sostenere che la vicenda in questione conferma quanto sia urgente una riforma della giustizia. Sarebbe interessante capire quale riforma, diversa da una selezione politica dei magistrati tale da renderli fedeli funzionari della maggioranza al potere, possa dare l’auspicata garanzia. Il vice presidente del Consiglio Salvini ha spiegato che, quanto al presente, “la Lega chiederà conto del comportamento del giudice siciliano in Parlamento” (un anacoluto costituzionale), quanto al futuro, bisognerà evitare che i tribunali possano “essere trasformati in sedi della sinistra”, precisando che “è con questo spirito” che sarà apprestata “la riforma della Giustizia, con separazione delle carriere e responsabilità civile dei magistrati che sbagliano”. Ad una persona dell’esperienza e della cultura politica del ministro Salvini non sfugge di certo che la separazione delle carriere non ha nulla a che fare con l’obbiettivo perseguito. A meno che, con rispettabile franchezza, non voglia far capire che la separazione dovrà secondo lui comportare una dipendenza del pubblico ministero dall’esecutivo, in modo che il governo possa garantirsi un presidio politico in sede giudiziaria. Ma soltanto l’altro ieri il Ministro Nordio al congresso dei magistrati di Area ha solennemente affermato che la dipendenza del pubblico ministero dall’esecutivo è una bestemmia. Non resta che sperare che questi opposti “catechismi” governativi in materia paralizzino la preannunciata riforma della giustizia penale di cui, prima ancora che gli effetti, preoccupano le ragioni ispiratrici. Dietro alle quali talvolta affiora anche l’allarmante obiettivo della normalizzazione giudiziaria, esplicitato con ruvida schiettezza dall’on. Gasparri: “la magistratura è da tempo il primo problema del Paese. Altro che riforma, servirebbe una rifondazione di una Istituzione che appare nemica delle esigenze primarie degli italiani”. Pinelli (Csm): “Magistrati, siate credibili anche in privato” di Simona Musco Il Dubbio, 8 ottobre 2023 “I comportamenti dei singoli magistrati, anche in ambito privato, contribuiscono a determinare la credibilità complessiva della magistratura nel Paese, e debbono essere continenti e manifestati con prudenza istituzionale”. Non c’è ascoltatore che non abbia pensato a Iolanda Apostolico, la giudice di Catania finita nel mirino del governo per non aver convalidato il trattenimento di tre migranti e filmata alla manifestazione contro Matteo Salvini nel 2018, ascoltando le parole di Fabio Pinelli, vicepresidente del Csm, intervenuto a Firenze al congresso degli avvocati penalisti. Un tema che da giorni tiene banco a Palazzo dei Marescialli, dove dopo la richiesta di apertura di una pratica a tutela è circolata la voce, smentita da tutti, della richiesta di una pratica di trasferimento per incompatibilità ambientale, “desiderata” dai laici di centrodestra. Pinelli, richiamandosi più in generale alla crisi di immagine delle toghe, ha ricordato che “le Istituzioni hanno un loro prestigio e i comportamenti devono avvalorare e suffragare questo prestigio”. E “si reggono sulla reputazione”, ha aggiunto, richiamando anche la necessità che i confini tra magistratura e politica “siano definiti, senza improprie invasioni di campo”. Insomma, la discussione non accenna a sopirsi. E a Palazzo dei Marescialli è un continuo vociare. “Quelle sulla richiesta di trasferimento per incompatibilità ambientale sono illazioni senza fondamento - spiega un togato - se anche qualcuno volesse provarci, non c’è alcun margine di manovra”. Il presunto affondo da parte dei laici del centrodestra al Csm teorizzato da Repubblica andrebbe, dunque, a vuoto. Teoria che fa infuriare chi, come Ernesto Carbone, ieri si è ritrovato ad essere indicato come promotore di pratiche contro la magistrata. “È la Cassazione ( Sezioni Unite 8906/ 98) che impone di escludere anche il sospetto di imparzialità - spiega al Dubbio -, ma io non ho mai detto che la giudice sia incompatibile e vada trasferita né ho firmato per alcuna apertura di pratica, altrimenti lo avrei comunicato apertamente. Personalmente, a me non spaventa se c’è una dialettica tra poteri dello Stato: così come un magistrato può criticare un provvedimento legislativo, un politico può legittimamente criticare l’operato di un magistrato. Toni e metodi, poi, appartengono alla singola persona”. A suscitare il dubbio di un tentativo di far trasferire Apostolico (che il presidente del Tribunale ha ritenuto di non spostare ad altro incarico) erano state le dichiarazioni del laico di Forza Italia Enrico Aimi, che giovedì aveva sottolineato come “l’immagine pubblica di imparzialità, e non solo l’imparzialità nella singola vicenda processuale, costituisce un dovere deontologico fondamentale del magistrato”. Ma è lo stesso consigliere a smentire al Dubbio l’ipotesi lanciata da Repubblica: “Non esiste allo stato nessuna richiesta in tal senso”. Dalla contesa si tirano fuori anche i togati di Magistratura Indipendente, che hanno preferito non mettere la propria firma nemmeno sulla richiesta di apertura di una pratica a tutela: “Mi sembra che sia una notizia priva di fondamento e da parte di MI non vi è, allo stato, alcuna intenzione di richiedere alcuna pratica”, spiega Bernadette Nicotra. In segreteria tutto tace, in attesa di analizzare in prima commissione, a inizio settimana, la richiesta di pratica a tutela. Anzi, spiegano alcuni consiglieri, “la volontà del centrodestra, dopo aver incassato l’enorme successo mediatico di Meloni che sicuramente è riuscita a mettere in cattiva luce tutta la magistratura italiana grazie a tre provvedimenti opinabilissimi spiega una fonte -, è quella ora di calmare le acque”. Una volontà manifestata anche in casa MI, dove le posizioni dei vertici della corrente e quella dei componenti consiliari, nei giorni scorsi, sembravano divergere. “Molti sono profondamente irritati” con i loro leader, spiega un togato, secondo cui la pratica a tutela avrebbe anche dato l’occasione per discutere di come conciliare un provvedimento - per alcuni sbagliato - con la “pregiudiziale ideologica. Ma si è preferito non disturbare il manovratore”. Il segretario Angelo Piraino, al Dubbio, prova però a smentire qualsiasi spaccatura. Partendo dall’autonomia dei consiglieri, secondo il segretario la scelta di non votare l’apertura della pratica sarebbe stata fatta “proprio per evitare che la richiesta assumesse una connotazione politica: per aprire una pratica basta la richiesta anche di pochi consiglieri, mentre una richiesta avanzata da tutti i magistrati togati, che rappresentano i due terzi del Consiglio, avrebbe significato mettere un’ipoteca sulla successiva delibera. Nel nostro comunicato abbiamo segnalato la necessità di discutere di come il nostro dovere di apparire imparziali vada declinato nell’era dei social media”. Però “una cosa è la discussione sul provvedimento, che deve necessariamente avere ad oggetto la sua motivazione, altra cosa è la valutazione della condotta del magistrato. Non si può affermare che un provvedimento è sbagliato, senza valutarne la motivazione, sol perché il giudice che l’ha emesso adotta condotte ritenute sconvenienti. Il nostro comunicato ha solo ribadito questi concetti, non ha difeso la collega”. Che difficilmente, spiegano al Csm, può essere punita disciplinarmente: “Come si fa a costruire un articolo 2 su una roba di cinque anni fa e di cui fino a ieri nessuno sapeva niente? - spiega un togato - Il clima a Catania è più di stupore che di agitazione. È più probabile che si tratti solo di una cosa buttata lì per far da contrappeso, dal punto di vista mediatico, alla richiesta di una pratica a tutela”. Mentre rimane da capire cosa farà il ministro della Giustizia Carlo Nordio, invitato da Maurizio Gasparri ad intervenire. “Nulla da dire”, si limitano a rispondere, per il momento, i collaboratori del Guardasigilli alla richiesta se esista la possibilità che si avvii un’azione disciplinare o si inviino gli ispettori a Catania. Anche perché una scelta così estrema, fanno notare ancora dal Csm, potrebbe essere una vera e propria dichiarazione di guerra: “Dubito vogliano riattizzare la polemica - fa sapere un togato -. Confideranno nell’impugnazione”. Giovanni Maria Flick: “La giudice non ha violato le regole, è incivile profilare i magistrati” di Giuseppe Salvaggiulo La Stampa, 8 ottobre 2023 “La giudice Apostolico non ha violato alcuna norma. Giudicare una sentenza dalla vita del magistrato e non dai suoi argomenti ci porta fuori dalla civiltà giuridica”, dice Giovanni Maria Flick, ex magistrato, ex ministro della giustizia, ex presidente della Corte Costituzionale e docente di diritto penale. Lei avrebbe partecipato alla manifestazione di Catania, come la giudice Apostolico? “Posso solo dire quello che ho fatto in passato, da magistrato e da giudice costituzionale: non ho mai partecipato a manifestazioni che potessero avere, o anche solo ingenerare, connotazione politica, qualunque fosse il significato”. Per quale motivo? “Perché ritenevo che il riserbo del magistrato e la necessità di apparire imparziale, oltre a esserlo, sconsigliassero di farsi trovare in situazioni connotate dal rischio di condividere, o anche solo assistere, alla manifestazione di posizioni o comportamenti che non condividevo”. Non si è mai sentito limitato, come cittadino? “Mai. Ho interpretato con particolare rigore lo spirito delle prescrizioni che l’articolo 98 della Costituzione dà al cittadino magistrato, consentendo limiti di iscrizione a partiti politici alla pari di militari, poliziotti e diplomatici”. Dunque la giudice Apostolico ha sbagliato? “Non ho titolo per esaminare posizioni altrui. Ma non mi sento di giudicarla in questi termini. Non mi pare abbia violato alcuna norma disciplinare. Quanto alla deontologia, peraltro raramente applicata, è rimessa alla sensibilità del singolo”. Partecipare alla manifestazione non ne compromette l’immagine di imparzialità? “Ma andiamo: come si può utilizzare la partecipazione di cinque anni prima a una manifestazione per un’accusa di parzialità ora? Come può un giurista motivare un’affermazione simile?”. C’è differenza tra una manifestazione convocata da associazioni e una di partito? Non è politica, comunque? “La differenza è enorme. Partecipare a una manifestazione civile può voler dire aderire a campagne per i diritti politici e le libertà di tutti, non di una parte. Infatti le norme disciplinari vietano l’iscrizione la partecipazione sistematica e continuativa all’attività dei partiti, nonché ogni altro comportamento che leda l’imparzialità anche sotto il profilo di apparenza”. Appunto, l’apparenza. Si è molto evocata, in questi giorni, l’immagine della moglie di Cesare... “Attenzione. Da ministro, mi ero battuto per rendere tassativi gli illeciti disciplinari dei magistrati, allora molto vaghi. Finalmente, nel 2006 ciò è stato fatto. Ora il catalogo è preciso. La legge vieta la pubblica manifestazione solo se connessa a un procedimento in corso”. Che vuol dire? “Non è la mera partecipazione a una manifestazione che ti rende sospetto di parzialità, ma la manifestazione di assenso o dissenso in un procedimento in corso”. Rileva anche il fine della manifestazione? “Certo. Quella di Catania chiedeva il rispetto di diritti civili fondamentali, coperti dalla Costituzione. Insensato ipotizzare che ciò si riverberi negativamente sull’imparzialità del magistrato. Anzi: difendere principi umanitari e costituzionali è un dovere civile per tutti”. Secondo il presidente del Senato, la giudice avrebbe dovuto astenersi dal trattare ricorsi in materia di immigrazione. “Cinque anni dopo? Davvero parliamo di un obbligo attuale di astensione per aver partecipato cinque anni prima a una manifestazione sui diritti civili? Non lo vedo proprio”. Crede che ci saranno iniziative come ispezioni e azioni disciplinari? “Mi sembrano ipotesi cariche di eccessiva enfasi. C’è una distanza insormontabile tra un comportamento che si ritiene sintomatico di non imparzialità - e ho i miei dubbi che lo sia, visto che era una manifestazione sui diritti civili - e un illecito disciplinare. O vogliamo avviare ispezioni anche su Emergency e gli scout, che promossero quella manifestazione?”. Ricorda altri casi di partiti di governo che chiedono il licenziamento di un giudice per un provvedimento sgradito? “Non è un partito, sono singole posizioni politiche. Dal punto di vista istituzionale, mi piacerebbe che critiche sempre legittime aspettassero la verifica del giudice superiore. Un singolo provvedimento, giusto o sbagliato che sia, non vuol dire che la magistratura combatte il governo”. Il governo cercherà di riscrivere i rapporti con la magistratura? “Non mi pare il momento più opportuno per discuterne. Occorre ritrovare un equilibrio, ma evitando polemiche e strumentalizzazioni su un singolo provvedimento. La realtà è che la magistratura ha assunto, soprattutto per inerzia della politica su molti temi, un ruolo che non è più di accertamento di fatti specifici e responsabilità individuali, ma di attore di sistema”. Si continuerà a fare lo screening ideologico dei giudici? “Dovremmo concentrarci su come un giudice lavora e motiva i provvedimenti. Ma la tendenza c’è. Negli Usa l’intelligenza artificiale viene usata con applicazioni sofisticate per ricostruire vita, abitudini, pensiero, patrimonio dei giudici”. Da chi? “Sono servizi sul mercato. Gli avvocati se ne servono per impostare la difesa su base predittiva. So che giudice ho di fronte, valuto se andare a giudizio o fare una transazione”. Non è giusto sapere chi è il giudice? “Una cosa è la trasparenza totale, altra è utilizzare una massa sterminata di dati per profilare il giudice. Chi reclamizza questi servizi, dice: “Noi non guardiamo la legge o i fatti, ci interessa il lavoro di ricerca a tappeto sulla vita precedente del giudice”“. Dunque Salvini è al passo con gli Stati Uniti? “Ah, non lo chieda a me. Certo lo è ora in Italia”. E in Europa, ci sono esperienze analoghe? “L’Inghilterra pare adeguarsi agli Usa. Al contrario e per fortuna, la Francia ha introdotto una legge che punisce con pene fino a 5 anni chi riutilizza i dati di identità del magistrato per valutare, analizzare o predire pratiche professionali reali o supposte”. Che significa? “Che non puoi profilare il giudice per valutare come deciderà e censurare le sue decisioni alla luce della sua vita precedente, sia professionale che personale”. È una questione rilevante? “Mi preoccupa un mondo in cui si passa il pettine sulla vita del giudice. Ci porta fuori dalla civiltà giuridica. L’impatto del digitale sulla giustizia è vorticoso. Non si tratta di digitalizzare un fascicolo, ma di arrivare a una giustizia robotica”. Ma in fondo una giustizia robotica, più prevedibile, non garantisce meglio la certezza del diritto? “Non credo che un algoritmo salverà il mondo. Vede, molti anni fa sono entrato nel mondo del diritto con la convinzione che la certezza fosse fondamentale. Ora ne sto uscendo con la convinzione che la cosa fondamentale è il ragionevole dubbio”. I magistrati invocano la difesa della “privacy” di Apostolico. Ma loro non l’hanno mai rispettata di Maurizio Crippa Il Foglio, 8 ottobre 2023 Intercettazioni illegali, violazioni della corrispondenza privata, trojan a strascico e gogna a mezzo stampa. Troppa ipocrisia di Anm. L’indagine al di sotto di ogni sospetto sui calzini celestini del giudice Mesiano, commissionata da giornalisti del Cav. più zeloti che zelanti per denigrare il presunto nemico, spiandolo addirittura sotto l’orlo dei calzoni, resterà nella storia come dimostrazione grottesca di quanti danni possa fare l’intrusione illecita nelle vite degli altri. I calzini azzurri di Mesiano spiccano come una mosca nera su un muro bianco, ma non bastano certo per nascondere una verità meno ridicola, anzi tragica: perché, a parti invertite, il potere di ferire la vita degli altri, con metodi spesso degni della Ddr, sono talvolta i magistrati, e persino apparati dello stato. Intercettazioni illegali che non hanno risparmiato nemmeno le più alte cariche istituzionali, violazioni della corrispondenza privata di parlamentari, trojan e strascico, la diffusione di fatti e fatterelli perfettamente privati, perfettamente legali, utili solo alla costruzione del nemico da abbattere attraverso la complicità corriva di mezzi di informazione. Tutto questo orrore di cui gronda la nostra storia giudiziaria rende poco credibile la difesa della “vita privata”, allorché si tratta della giudice Apostolico, messa su da una parte dei suoi colleghi. “Le vite dei pm” difese, con un bel tasso di ipocrisia, addirittura dal presidente di Anm, Giuseppe Santalucia, secondo cui “si accentua la tendenza a giudicare la terzietà del giudice” attraverso “lo screening della persona, cioè vedere chi è questo giudice”. Per il membro del Csm Roberto Fontana, “scandagliare la vita delle persone delegittima tutti”. Per Eugenio Albamonte “si preferisce la strada dell’aggressione”. A chiarire che non è così basterebbe la sentenza di Cassazione (1998) secondo cui il magistrato ha “il dovere non soltanto di essere esente da ogni ‘parzialità’ ma anche ‘al di sopra di ogni sospetto di parzialità’”. Ancora più esplicito, il presidente Mattarella alle toghe nel giugno scorso: “L’imparzialità della decisione va tutelata anche attraverso l’irreprensibilità e la riservatezza dei comportamenti individuali, così da evitare il rischio di apparire condizionabili o di parte”. Nel caso Apostolico non siamo di fronte a “una involuzione molto forte nel rispettare il ruolo della magistratura”, sono i suoi comportamenti a risultare privi della “irreprensibilità e riservatezza” necessarie. Ma il video della magistrata alla manifestazione, che potrebbe valere i calzini di Mesiano, si sta trasformando in un caso di dossieraggio, con tanto di esposto in procura di Angelo Bonelli, e il governo e la stessa Meloni, a smentire. Ma ad apparire inaccettabile è l’invocazione della privacy dei magistrati, dopo che tali invocazioni non si sono udite per un numero enorme di inchieste condite di intrusioni indebite che hanno distrutto “le vite degli altri”. E non si parla solo di Berlusconi, sopravvissuto a decenni di campagne ossessive sul suo stile di vita privato. O della propalazione di dettagli personali irrilevanti. La ministra Guidi fu inchiodata al ludibrio non per l’inchiesta Tempa Rossa (archiviazione) ma per l’intercettazione senza valore della “sguattera del Guatemala”. Materiale raramente giornalistico: il più delle volte uscito dai tribunali mentre la stampa gridava al “bavaglio”. E ancora c’è chi finge di non sapere come nascano inchieste pochade come Santa Marinella. Del film di Henckel von Donnersmarck ricordiamo la cupa atmosfera poliziesca. Ma anche il titolo del romanzo che il protagonista pubblica anni dopo: “Sonata per gli uomini buoni”. Dedicato “a HGW XX/7, con gratitudine”, cioè all’agente che lo aveva spiato ma poi salvato. Chissà se tutti i difensori delle vite dei pm potrebbero specchiarsi in quel magnifico titolo. Brescia. Detenuto di 51 anni muore per un arresto cardiaco in carcere, aperta un’inchiesta La Repubblica, 8 ottobre 2023 “La sua bombola dell’ossigeno era scarica”. L’episodio si è verificato nel carcere bresciano di Canton Mombello. Il detenuto soffriva di varie patologie, la seconda bombola è arrivata troppo tardi. La procura di Brescia ha aperto un’inchiesta per fare chiarezza sulla morte di un detenuto di 51 anni avvenuta all’interno del carcere bresciano di Canton Mombello. L’uomo è morto per un arresto cardiaco, ma secondo la prima ricostruzione al momento dell’intervento di soccorso la bombola dell’ossigeno utilizzata era scarica e si è così reso necessario un secondo intervento che è risultato però inutile: quando è stata portata una bombola piena, le condizioni del detenuto erano ormai compromesse. A quanto si apprende anche al detenuto è stata fatta anche una puntura di adrenalina, iniettata direttamente nel cuore, che però non è servita a salvarlo. Il detenuto soffriva di alcune patologie e aveva chiesto di essere trasferito al quarto piano del carcere bresciano: questo nonostante i detenuti con problemi di salute vengano tenuti al piano terra, proprio per facilitare l’eventuale intervento. La procura ha disposto l’autopsia. Il magistrato di turno che indaga sull’episodio ha sentito i detenuti presenti al momento del decesso del cinquantunenne. “Crediamo si tratti di una morte naturale, ma sicuramente qualsiasi decesso in carcere distrugge gli equilibri sociali e crea tensione in una situazione già tesa” ha detto al Giornale di Brescia Luisa Ravagnani, garante dei detenuti che in queste ore sta raccogliendo gli sfoghi della popolazione carceraria. Ivrea (To). Violenze in carcere: non fu tortura, prosegue l’indagine per lesioni aggravate quotidianocanavese.it, 8 ottobre 2023 Nessuna tortura da parte degli agenti della polizia penitenziaria nei confronti dei detenuti all’interno del carcere di Ivrea. La Corte di Cassazione ha confermato la decisione del tribunale del Riesame di Torino e ha respinto il ricorso presentato dalla procura di Ivrea. Gli agenti erano stati inizialmente sospesi per un anno dal tribunale eporediese, su richiesta della procura, in merito ad un’indagine su presunti maltrattamenti all’interno della casa circondariale d’Ivrea. Un’inchiesta, con una quarantina di indagati, partita dalla denuncia di due detenuti. Con la conferma della decisione del tribunale del Riesame, gli agenti possono tornare al lavoro. I giudici, infatti, pur rilevando alcune condotte che potrebbero essere penalmente rilevanti, non hanno trovato elementi per confermare il reato di tortura nei confronti dei detenuti. Già il Riesame parlava di assenza di riscontri specifici per quanto riguardava i casi che avevano determinato la sospensione degli agenti, soprattutto in merito al fatto che non ci sarebbe stata una continuazione del reato con episodi ripetuti nel corso del tempo. Le dichiarazioni dei detenuti, tra l’altro sono state giudicate non del tutto attendibili o comunque non verificate a sufficienza: uno degli agenti è riuscito a dimostrare che si trovava in permesso durante uno degli episodi contestati. L’indagine della procura di Ivrea resta in piedi ma chiaramente si dovrà procedere per lesioni aggravate. Milano. Svolta a San Vittore, cabine telefoniche per i carcerati di Giovanna Maria Fagnani Corriere della Sera, 8 ottobre 2023 “Più riservatezza e dignità nelle comunicazioni con la famiglia”. Cinque cabine telefoniche di design per i detenuti di San Vittore. Per offrire riservatezza e comfort ai detenuti durante le chiamate ai familiari o agli altri destinatari autorizzati. A disegnarle, gratuitamente, è stato Aldo Cibic, architetto e designer, docente alla la Tongji University di Shanghai. Si concretizza così il progetto “CaRa” (Cabine telefoniche nei raggi) nato nella casa circondariale milanese su impulso della polizia penitenziaria nel difficile periodo della pandemia, quando le restrizioni avevano inasprito la condizione dei detenuti. Le cinque cabine sono state consegnate venerdì, in accordo con il direttore Giacinto Siciliano, e la loro installazione è in corso in altrettanti reparti di San Vittore. Saranno attivate al più presto e diverranno luogo di contatto e vicinanza con il mondo familiare e affettivo per le persone detenute. Favorire il collegamento con la rete esterna è un elemento imprescindibile del trattamento penitenziario, mentre attivare spazi più adeguati per le comunicazioni telefoniche si configura anche come intervento volto a migliorare la vita all’interno del contesto detentivo. L’Associazione Quartieri Tranquilli, animata dalla presidente Lina Sotis e da anni presente a San Vittore con diverse iniziative, ha sostenuto il progetto “CaRa” coinvolgendo l’architetto Aldo Cibic, che si è reso disponibile a inventare e disegnare il nuovo modello secondo i requisiti voluti dalla polizia penitenziaria. “Abbiamo cercato di fare una cabina che non fosse esageratamente artistica, ma che avesse forme semplici e colori vivi, dando un senso di dignità e serenità alle persone, inserendosi felicemente nel contesto degli spazi carcerari in modo gentile e riconoscibile” spiega. Il progetto ha poi trovato realizzazione grazie al sostegno di alcune figure eccellenti dell’imprenditoria e del mondo della moda italiana. Tre cabine sono state donate, a titolo personale, dall’architetto e designer Carlotta de Bevilacqua (gruppo Artemide), una quarta dal gruppo Prada e una quinta dal gruppo Giorgio Armani. Torino. LiberAzioni Festival dialoga col carcere partendo dai detenuti Gazzetta di Alba, 8 ottobre 2023 Dal 9 al 15 ottobre a Torino, con film, incontri ed eventi. L’estate è una stagione terribile per chi sta in carcere, perché in questo periodo nelle persone detenute aumenta la consapevolezza di sentirsi abbandonate e senza prospettive. Non è un caso, infatti, che proprio d’estate aumenti il tasso di suicidi. È necessario riflettere e andare in profondità nei fenomeni intorno alla vita in carcere, un settore della società troppo abbandonato a se stesso. È quello che fa LiberAzioni - festival delle arti dentro e fuori, che quest’anno giunge alla quarta edizione biennale e approfondisce la relazione fra carcere e società. Un programma, dal 9 al 15 ottobre in diversi luoghi della città, realizzato da Amnc-Associazione Museo Nazionale del Cinema in collaborazione con l’Ufficio della Garante dei diritti delle persone detenute della Città di Torino, attraverso il percorso ‘Per un dialogo con il carcere’, anche sottotitolo del festival. Apre il programma il 9 ottobre un evento dedicato al Sudan al Cine Teatro Baretti, con il film ‘del 2019 ‘You Will Die at Twenty’ di Amjad Abu Alala alla presenza di Yagoub Kibeida, executive director di Mosaico e vicepresidente di Ecre - European Council on Refugees and Exiles. La proiezione del film, che ha ottenuto a Venezia il Leone del Futuro opera prima, sarà l’occasione per parlare della drammatica situazione che vive la popolazione civile in Sudan, dopo il processo non violento compiuto dalla cittadinanza che avrebbe dovuto portare la democrazia nel paese. L’opera ha rappresentato per la prima volta il Sudan agli Oscar nel 2021. L’edizione 2023 avrà una forte connotazione femminile grazie alla presenza di alcune ospiti come Annalisa Cuzzocrea, Monica Cristina Gallo, Tizza Covi, Vera Gemma e Kasia Smutniak, che a diverso titolo porteranno la propria opinione nel dibattito attuale sul carcere. “Ad accomunare le donne - aggiunge Valentina Noya, direttrice di Amnc - c’è però un’altra categoria sociale inascoltata, sofferente, abbandonata e senza prospettive: i giovani. Sulla loro pelle si giocano le sorti dell’architettura della giustizia minorile attraverso nuovi percorsi di criminalizzazione e stigmatizzazione, ma anche del futuro del Paese”. Non sarò solo lavoro di Sandro Bonvissuto La Stampa, 8 ottobre 2023 Se prendiamo ad esempio il senso con il quale i latini opponevano l’otium al negotium, (e sarebbe il riposo al lavoro), possiamo vedere come il valore degli elementi della locuzione sia del tutto cambiato nella storia. Anticamente le due cose erano entrambe presenti nella giornata dei cittadini, e se l’etica del tempo invitava a prediligere l’attività rispetto all’inattività, era solo perché durante le ore di lavoro si svolgevano iniziative volte al bene comune dei cittadini, al benessere di tutti. Nelle ore di lavoro, dunque, si lavorava per gli altri, in primis per gli interessi della città, mentre nelle ore di ozio i cittadini potevano coltivare interessi contemplativi e umanistici, per la gloria dell’arte e della filosofia. Il rifugio letterario - Gente come Catullo e Lucrezio finirono addirittura per disertare ogni impegno politico, e rifugiarsi nell’ozio letterario. Di certo nell’antichità il lavoro fisico era considerato come il vero degrado di ogni individuo libero, un destino riservato agli schiavi. Non diversamente da oggi, quindi, con l’aggravante che ai giorni nostri, si lavora non per servire un popolo, ma un interesse privato, un individuo solo, o un’unica azienda, si obbedisce, insomma, ad un padrone. Il moderno rapporto di lavoro salariato nasce nell’800, figlio delle rivoluzioni industriali europee; la modernizzazione e la conseguente ascesa della borghesia, determina nelle società un fenomeno imprevisto: la nascita della classe lavoratrice. Per gli imprenditori una specie di sgradito effetto collaterale. La coscienza dei lavoratori - Le associazioni dei lavoratori sono inizialmente fuorilegge, si tenta di fare qualcosa con le trade unions inglesi. Ma non esiste una guida collettiva europea del mondo operaio fino al 1846, quando a Londra si riunisce la Prima Internazionale. Ma per i lavoratori le cose si mettono male da subito, perché la storia della sinistra è una storia di strazianti divisioni. All’incontro ci sono dunque i rappresentanti di tutte le nazioni europee, Italia compresa, anche se da noi non esistono ancora realtà industriali. Per il nostro paese c’è una delegazione di mazziniani, che abbandoneranno i lavori del congresso molto presto. Stesso destino per i seguaci anarchici di Proudhon e Bakunin. Marx è l’unico vero vincitore morale di un summit che è in realtà il festival delle divergenze interne. Scarsi passi avanti sui diritti dei lavoratori europei conclamano l’esistenza di tante anime all’interno del pensiero socialista europeo. Il marxismo attecchirà nei paesi più industrializzati, le tesi anarchiche, soprattutto di Bakunin, in quelli più arretrati. Ma la storia del lavoro salariato è lunga e penosa, la schiavitù dell’uomo sull’uomo ha un percorso che viene da lontano, e che pare, da quel momento in avanti, desinato ad un grande futuro. Al termine dell’esperienza della Prima Internazionale sappiamo almeno che ora la classe proletaria esiste. Poi grazie all’elettricità, al petrolio, al motore a scoppio, i pneumatici, il telefono, arriviamo alla fabbrica per come la conosciamo oggi. Aumenta il numero dei beni prodotti in modo esponenziale nasce la televisione, la pubblicità, il consumismo. Taylor e Ford, che non avevano niente di meglio da fare, inventano la catena di montaggio e l’alienazione dell’operaio è completa. La prigione dell’uomo - E il lavoro si mostra per ciò che è, prigione dell’uomo, concetto violento e artificiale, coercizione a fare una cosa che altrimenti non si farebbe mai nella vita. Prima, per convincere la gente a lavorare si usava la forza la violenza e la sottomissione, ora si paga il lavoro con i soldi, in genere sempre pochi, orrendi oggetti che nascondono al loro interno di nuovo violenza e coercizione, i sentimenti peggiori dell’uomo. Il tutto benedetto dalla chiesa di Roma e ancora di più da quella protestante, grandi madri del capitalismo. La frittata è fatta. Ma oggi sappiamo che per via del forte legame che sussiste fra i concetti di essere e tempo, l’uno sta all’altro così da rendere le due grandezze non intelligibili in modo separato. Più a lungo il tempo costringe l’individuo ad essere solo lavoro, più la persona non sarà altro che quel lavoro, tempo trascorso in un rapporto di inferiorità rispetto ad un altro ente qualunque che presiede e paga (poco) il rapporto di schiavitù. Assieme a l’orso polare, la tigre e le tartarughe marine, altre cose al giorno d’oggi sono a serio rischio di estinzione. Una di queste è il rispetto per la storia; purtroppo senza la conoscenza del passato il futuro sarà sempre nebuloso e incerto, fino a quel mattino nel quale non sorgerà più alcun sole dell’avvenire. La fotografia diventa speranza e libertà di Laura Leonelli Il Sole 24 Ore, 8 ottobre 2023 I riconoscimenti di Terna. La giuria ha premiato il lavoro di Dione Roach che ha ritratto alcuni detenuti della prigione di New Bell in Camerun: sognano foreste, fiumi e quotidianità. Sono di quei suoni che rimangono nella memoria. Una serratura scatta, il cancello si apre, pochi secondi di apnea in cui la porta gira sui cardini, e alle spalle senti le sbarre che si chiudono e sei dentro il carcere. E anche quel rumore resta dentro e fa di te una donna libera, bianca, europea, che cammina sorridendo in una delle prigioni più affollate del Camerun, la storica New Bell, costruita dai tedeschi alla fine dell’Ottocento per poche centinaia di prigionieri e che oggi, quasi negli stessi spazi, accoglie fino a seimila uomini e poco più di quaranta donne. In questa fortezza nel cuore di Douala, capitale economica del Camerun, porto immenso sul golfo di Guinea, Dione Roach è arrivata nel 2017 per svolgere un anno di servizio civile insieme all’Ong italiana Coe, Centro Orientamento Educativo. Ma per intensità e unicità l’esperienza è diventata una scelta di vita, sei mesi in Camerun, sei in Italia, sei mesi accanto ai musicisti dell’etichetta Jail Time Records (jailtimerecords.com), e sono detenuti che suonano rap, afrobeat, hip-hop (da ascoltare sul canale youtube), e sei mesi nei boschi della Toscana, tra Poggibonsi e Castellina in Chianti a editare le fotografie e i video girati in Africa. Sono immagini toccanti per compostezza e discrezione, doni rari nello spazio violento e doloroso della prigione. E ben si comprende il verdetto della giuria del Premio Driving Energy 2023-Fotografia Contemporanea, concorso istituito da Terna, curato da Marco Delogu e con la giuria presieduta da Lorenza Bravetta, che ha scelto il lavoro di Dione Roach per la categoria senior, e insieme ha premiato Martina Zanin, vincitrice del Premio Giovane, Beatrice Aiello, sua la Menzione Accademia, Antonio Vacirca per la categoria Amatori. Tema di Dione il sovrappopolamento carcerario, dove gran parte dei detenuti sono dentro per spaccio e consumo di droghe - in Camerun, ricorda Dione, c’è un’epidemia di crack di cui non parla nessuno - e dove il servizio di sicurezza è affidato ai prigionieri più palestrati. Eppure lavorando da ormai cinque anni in una prigione grande quasi come un campo da calcio, divisa in quartieri come un villaggio e dove il centro è una piazza, di giorno mercato e di notte teatro e dormitorio, Dione ha sentito che l’equilibrio più autentico e irrinunciabile era quello che bilanciava la reclusione e l’apertura immaginaria su altri orizzonti. Venturi: abbiamo parlato a lungo di ri-forma del Terzo Settore, ora è il tempo della ri-sostanza di Lorenzo Bandera secondowelfare.it, 8 ottobre 2023 Parlando del tema sfidante delle Giornate di Bertinoro 2023 il direttore di Aiccon ci ha spiegato che le organizzazioni del Terzo Settore devono ritrovare la “consapevolezza del valore di ciò che si fa”. Solo chi ce l’ha, infatti, “guarda la complessità come una sfida positiva, innova senza chiedere il permesso e ha un approccio pragmatico e intraprendente”. “Viviamo in un’epoca in cui alla bulimia dei mezzi corrisponde l’atrofia dei fini”. È la frase di Paul Ricoeur che apre il concept note con cui Aiccon, il Centro Studi dell’Università di Bologna, presenta il tema delle Giornate di Bertinoro per l’Economia Civile 2023: “Oltre la forma. Risignificare le organizzazioni per generare cambiamento”, che si svolgeranno il 13 e 14 ottobre a Bertinoro. Una frase, quella del filosofo francese, perfetta per introdurre il cuore del documento: un testo breve ma denso di spunti che, senza troppi giri di parole, mette ben in evidenza la profonda crisi in cui è immersa la nostra società. E che ormai sembra essere sempre più forte pure nel Terzo Settore. Anche questo mondo sembra infatti essere immerso in una crisi di senso in cui standard, certificazioni, modelli, processi e forme soffocano continuamente le aspirazioni e le visioni. E con loro, appunto, gli ideali che dovrebbero muovere le azioni di singoli e organizzazioni del Terzo Settore. A volte sembra quasi che non ci sia più spazio per immaginare, aspirare, sognare… forse addirittura sperare. E questo porta necessariamente all’incapacità di cambiare. O quanto meno di cambiare in meglio. L’impressione è che ogni idea, ogni moto di cambiamento non incanalabile a priori, non riesca a farsi strada, rimanga imprigionato nelle sempre più numerose sovrastrutture che dovrebbero rendere più efficienti le azioni ma che, invece, le svuotano di principio. In breve anche nel Terzo Settore, e più in generale nel mondo dell’Economia Civile, si guarda di continuo alla forma ma nella maggior parte dei casi manca la consapevolezza del fine, di quel senso profondo, di quella sostanza che dovrebbe essere il motore di ciò che si fa. E di come lo si fa. Abbiamo chiesto a Paolo Venturi, direttore di Aiccon, di aiutarci a capire meglio queste questioni e di dirci cosa si aspetta che emerga dalle tante sessioni previste nel programma delle Giornate di Bertinoro di quest’anno. Paolo, il tema di quest’anno è davvero sfidante ma anche “scomodo”, perché sottolinea senza giri di parole come il Terzo Settore, che per tanti anni secondo me si è creduto immune alla più ampia crisi di senso che investe molti ambiti della nostra società, stia invece venendo meno ad alcuni principi e caratteri quasi ontologici che lo hanno sempre contraddistinto. Perché lo avete scelto? Perché facendo ricerca, formazione e osservando la realtà ci è apparso un tema urgente e necessario. Abbiamo sempre pensato che “mezzi e fini” di un’organizzazione “not for profit” potessero procedere di pari passo ed in maniera coerente, in maniera naturale, automatica. Non è così. Oggi assistiamo ad una crescente separazione fra le finalità - spesso consegnate solo allo statuto - ed i modelli organizzativi e le motivazioni al centro del lavoro, dovuta in parte alle trasformazioni esterne e in parte all’incapacità di molte organizzazioni di affrontare la sfida del cambiamento. Abbiamo parlato, giustamente, per molto tempo di ri-forma. Credo sia arrivato il tempo di aprire un cantiere sulla ri-sostanza delle organizzazioni. In questo senso la sfida che lanciate è quella di “risignificare le organizzazioni”, perché solo così si possono realizzare cambiamenti che ci potranno portare fuori da questa crisi. Ma nel concreto cosa vuol dire? Come si fa a risignificare? Alle Giornate di Bertinoro non arriviamo mai con un pacchetto di soluzioni, ma non abbiamo timore di portare una prospettiva, quella dell’Economia Civile, e delle proposte. Il primo passo - come detto - sta nel ridisegnare le istituzioni legando insieme 3 livelli quasi sempre frammentati: motivazioni, modelli organizzativi e fini. Un tema che rilancia la necessità di mettere mano tanto alle questioni del “giusto compenso” quanto a quelle del senso e della soddisfazione dei lavoratori. Gallup ha stimato che in Italia il 4% dei lavoratori si dichiara soddisfatto. Questo dato è tragico, perché una persona insoddisfatta è depotenziata nella capacità di agire sulla realtà. Nel sociale questo tema è fondante ed il crescente indebolimento del desiderio nel lavoro è una patologia che mina le fondamenta della diversità dell’economia sociale. Ri-sostanziare significa riappropriarsi della consapevolezza del valore di ciò che si fa. Chi ha questa consapevolezza guarda la complessità come una sfida positiva, innova senza chiedere il permesso e ha un approccio pragmatico e intraprendente. Chi rinuncia a questa sfida è molto probabile che cada nella trappola della tecnocrazia o della tecnica. La spinta di regole, metriche, bandi e di una compliance sempre più invasiva, richiede un forte ancoraggio a ciò che differenzia queste organizzazioni da Stato e Mercato. Un passaggio necessario in un’epoca di grandi trasformazioni. Cambiamenti che necessitano della diversità del Terzo Settore. Il rischio che vedo è quello di una convergenza su una idea di sostenibilità economica e sociale, orfana però di relazioni, beni comuni, comunità e democrazia economica. Il terzo pilastro, infatti, non serve a riparare, ma a riqualificare lo sviluppo. Perché questo avvenga servirebbero dunque un ecosistema adeguato, alleanze, una politica sussidiaria… Assolutamente. Questo è un tema centrale. Non si genera trasformazione - ma potremmo dire educazione, inclusione, innovazione… mi fermo solo per esigenze editoriali - in solitudine. La trasformazione, ossia la capacità di costruire oggi qualcosa di migliore e più giusto per domani, implica una moltitudine di apporti e logiche cooperative. Tutte le sfide che abbiamo di fronte son dilemmi cooperativi, serve perciò apertura. In molti prevale la tentazione dei “fabbricanti di candele”, tema di un celebre saggio di Frédéric Bastiat in cui si raccontava come le corporazioni dei produttori di candele chiedessero al Parlamento francese una legge per tenere chiuse le finestre di giorno… Una richiesta pensata per continuare a fare quello che han sempre fatto. Per non cadere in questa tentazione conservatrice, occorre una robusta azione di apertura e investimento in reti territoriali, ma anche al pensiero critico e alle istanze della comunità. L’incapacità di innovazione nel tempo alimenta la tecnocrazia. Dal punto di vista ideale il tema che proponete è bellissimo, perché aiuta ad alzare lo sguardo dai tanti orpelli, meccanismi e regole con cui le realtà di Terzo Settore devono confrontarsi, o forse sarebbe meglio dire scontrarsi, ogni giorno. Ma nel concreto come si possono accompagnare le organizzazioni e le persone che le compongono in questo cambiamento? Serve un piano nazionale per l’educazione all’economia sociale nelle scuole e nelle università. Serve una strategia contributiva di tutta l’economia sociale per rendere le politiche più includere e sostenibili. Serve un investimento sulla formazione a tutti i livelli per potenziare le competenze e ri-aggiornarle in termini digitali e ambientali. Servono luoghi dove rilanciare conversazioni, pensieri e progettazioni intorno ad aspirazioni e desideri. Servono reti per incoraggiare e finanziare l’innovazione sociale. Serve un riconoscimento economico rilevante e radicale del lavoro di cura. Potrei andare avanti nella lista, ma mi fermo perché oggi il tema non è cosa ma come. Ri-sostanziare le istituzioni significa non fermarsi al cosa, ma prendersi la responsabilità di dire come. In questo senso l’amministrazione condivisa deve diventare metodo non appena per conservare l’esistente, ma per ridisegnare percorsi fra soggetti diversi che hanno una comune responsabilità pubblica e per potenziare la contribuzione delle comunità, cedendo loro più potere. Ultima domanda: cosa ti aspetti che emerga dai tanti panel previsti dal programma delle Giornate di Bertinoro di quest’anno? Spero che la gente possa tornare a casa un po’ inquieta, ma profondamente soddisfatta e incoraggiata. Andare in overdose di “politicamente corretto” farà fuggire i ragazzi di Antonio Polito Corriere della Sera, 8 ottobre 2023 Il gusto di sfidare le regole della buona condotta ce l’hanno già, come noi alla loro età. Evitiamoci le cantilene retoriche. Ci sono vere e proprie conquiste della civiltà liberale che rischiano di essere rifiutate se non le sappiamo presentare con intelligenza ed equilibrio. “La plastica nell’umido/ le sigarette in mare/ non ce ne frega niente/ noi vogliam solo inquinare”. Spopola tra gli adolescenti il coretto politicamente scorretto che si è inventato Tony da Milano, l’”anarco-stalinista” de La Zanzara. Naturalmente noi genitori benpensanti inorridiamo. Poi però ci ricordiamo quanto alla loro età piacesse anche a noi sfidare tutte le regole di buona condotta che ci venivano ripetute ogni giorno, a scuola o in famiglia, come un mantra di educazione civica. L’unica differenza è che noi non avevamo i social e dunque nessuno ci faceva caso. Perciò mi sono chiesto se non siano eccessive le dosi di “politicamente corretto” che somministriamo ai nostri ragazzi da qualche tempo in qua. Distinguere il bene dal male è ovviamente una cosa importante, e gli adulti devono aiutare i giovani a farlo. Ma recitare loro come una cantilena il breviario del buon cittadino può sortire effetti opposti. È giusto che la pedagogia sull’ambiente e sulla raccolta dei rifiuti sia diventato uno dei pasti principali serviti nella scuola italiana. Ma se si trasforma in pura retorica, se assume il tratto burocratico e pedante di cui già tante altre materie soffrono, può provocare un colpo di frusta: i ragazzi sanno essere micidiali nel ricorrere al sarcasmo e alla parodia. È un tema che dovremmo porci non solo a scuola. Ci sono vere e proprie conquiste della civiltà liberale che rischiano di essere rifiutate da larghe fette di opinione pubblica se non le sappiamo presentare con intelligenza ed equilibrio. Penso per esempio alla decisione dei giudici di Busto Arsizio che hanno accettato la richiesta di Davide Fontana, reo confesso dell’uccisione, dello smembramento e dell’occultamento del cadavere della povera Carol Maltesi, di accedere al programma di “giustizia riparativa”. Ma che cosa può mai “riparare” l’autore di un delitto così efferato da essere per definizione “irreparabile”? L’unico effetto che questa prima applicazione ha sortito è di aver gettato discredito su un nuovo istituto di civiltà giuridica che può invece rivelarsi di grande valore, se applicato ai reati dei minori o ai reati minori che in effetti richiedono una “riparazione” sociale più profonda della sola condanna penale. Qualche giorno fa, poi, un coro di sdegnate reazioni si è levato contro un innocente spot della Esselunga, accusato di mostrare la tristezza di una bambina per la separazione dei genitori. Si è sostenuto che è un attacco alle nuove famiglie, un pericoloso rigurgito anti-divorzio; addirittura che - l’ho sentito alla radio - il dolore dei figli divisi tra mamma e papà non sarebbe altro che un portato culturale, acquisito, imposto proprio dall’ideale di famiglia sbandierato dal tradizionalismo patriarcale. Mentre mi pare lampante che qualsiasi bambino, anche il figlio di una famiglia “non tradizionale”, soffrirebbe per la separazione dei genitori. Ci sono emozioni per così dire “naturali” negli esseri umani, in tutti gli esseri umani. Provare a negarle per un malinteso spirito di “correttezza politica” rischia solo di portare acqua al mulino di chi sostiene che ormai il mondo va al contrario: il peggiore degli esiti. In Italia aumentano i disagi mentali ma mancano psichiatri e strutture di Paolo Russo La Stampa, 8 ottobre 2023 L’80% della popolazione afferma di aver avuto modo di relazionarsi con persone che hanno problemi psichici. A rivelarlo l’indagine realizzata dalla Bva Doxa per il Festival della Salute Mentale RO.Mens contro il pregiudizio. Domani monumenti e palazzi si illumineranno di verde, il colore della salute mentale di cui si celebra la giornata mondiale. Ma in Italia i servizi pubblici che dovrebbero garantirla sono a rosso fisso limitandosi oramai ad offrire una risposta solo a una piccola fetta di quegli italiani che accusano un qualche disagio psichico. “Disturbi apparentemente non gravi, come l’ansia o la depressione ma che se non intercettati possono sfociare in qualcosa di più grave o, in rari casi, anche in epiloghi tragici, come le esplosioni di violenza che affollano le cronache”, spiega Emi Bondi, Presidente della Sip, la società italiana di psichiatria. Ma anche per i malati psichici gravi, con schizzofrenia o disturbo bipolare la legge Basaglia del ‘78 resta una grande incompiuta. Le case sparse sul territorio sono una rarità e molte volte affitto e bollette sono a carico dei pazienti mentre la Asl passa psichiatri e infermieri. Eppure su queste strutture, nemmeno recensite dal ministero della Salute, molto puntava la “180” per lo sviluppo delle capacità dei malati psichiatrici, favorendone le relazioni sociali. Al loro posto sono invece dilagate le “comunità psichiatriche”, 1.983 sparse per l’Italia, che in alcuni casi riproducono in piccolo i vecchi manicomi arrivando ad avere fino a 20 letti e una degenza media di ben 3 anni. Ma buona parte di chi ha problemi seri resta a carico delle famiglie, e la penuria degli operatori psichiatrici ha spinto le case farmaceutiche a creare psicofarmaci a rilascio così lento da garantirne gli effetti per ben 6 mesi. Così per risparmiare tempo il paziente lo si finisce per vedere due volte l’anno. Che a corto di soldi e personale le circa 3.800 strutture dei Centri di salute mentale (Csm) facciano fatica a star dietro alla domanda lo racconta un numeretto, 3,3, ossia la percentuale sul totale degli accessi al pronto soccorso di chi ci va per un problema psichico. In media oltre 1.300 persone al giorno, delle quali però appena il 14,6% viene poi ricoverata, la metà in reparti di psichiatria. “E’ evidente che c’è un rilevante accesso improprio, correlato alla carenza di risposte che i cittadini ricevono dal territorio”, commenta Massimo Cozza, Direttore del più grande dipartimento di salute mentale d’Italia, quello della Roma 2. Con un sempre minor numero di psichiatri e infermieri i servizi territoriali arrancano, “così riusciamo a dare risposte a una parte dei casi gravi quando sono in fase acuta di crisi, ma perdiamo per strada la fascia sempre più ampia di popolazione meno critica ma ugualmente sofferente. Molti avrebbero bisogno di fare psicoterapia che resta per lo più un miraggio”, ammette a sua volta Vincenzo Villari, direttore del dipartimento salute mentale della Citta della salute di Torino. “Ansia e depressione sono in aumento del 30%, ma i servizi intercettano meno della metà di chi avrebbe bisogno almeno di ascolto”, gli fa a sua volta eco la presidente Sip.Del resto i numeri parlano chiaro. Ad avere almeno la percezione di un disturbo mentale sono circa 4 milioni di italiani, quelli che hanno presentato domanda all’Inps per ottenere il bonus psicologico. Elargito poi appena a 41mila di loro. A fronte di questa domanda il pubblico offre però sempre meno. Prima di tutto perché mancano 13mila operatori psichiatrici, volendo stare al parametro di almeno un operatore ogni 1.500 abitanti, fissato dal “Progetto obiettivo” approvato dalla Stato-Regioni nel lontano 2001. A mancare all’appello sono oltre 1.400 psichiatri, entrati in blocco nel 1978, quando la legge Basaglia chiuse i manicomi, e altrettanto in blocco passati alla pensione mentre le sostituzioni sono arrivate con il contagocce. Ma le carenze più marcate, oltre 10mila addetti, sono tra personale infermieristico, tecnici della riabilitazione psichiatrica, assistenti sociali. “Tutte figure essenziali per una buona presa in carico da parte del territorio, senza riversare tutto sull’ospedale, dove si gioca la partita di ritorno quando abbiamo perso quella d’andata che si gioca nelle strutture territoriali”, rimarca il professor Villari. Il confronto con gli altri Paesi europei poi è disastroso. Come numero di psichiatri, dicono i dati Ocse, l’Italia è al numero 20 della classifica, mentre non va oltre il 14° di quella di infermieri e psicologi. Va ancora peggio se il confronto lo si fa con le risorse pubbliche destinate alla psichiatria. Anche in questo caso siamo ventesimi in Europa, ma la distanza è siderale rispetto a Paesi come Francia, Germania e Regno Unito che alla salute mentale dedicano il 10-15% dei loro stanziamenti per la sanità, tra l’altro maggiori dei nostri, mentre l’Italia, seguendo il passo del gambero, è scesa al 2,75% rispetto a quel 5% che pure era stato fissato nel Progetto obiettivo di 22 anni fa. Se lo si vuole tradurre in soldoni fanno quasi tre miliardi che mancano all’appello. Una enormità se rapportati al budget della psichiatria che è di poco superiore. In più, come spiega Villari, “una parte abnorme di risorse in rapporto alle persone da prendere in carico è assorbita dagli ex detenuti degli ospedali psichiatrici giudiziari”. Chiusi per sempre ma senza che le risorse fossero riassegnate ai dipartimenti di salute mentale. Questo mentre i 39% dei ragazzi è incline ad accusare disturbi mentali, secondo un’indagine Doxa commissionata in occasione del Festival della salute mentale Ro.MENS, organizzato questi giorni dalla Asl Roma 2. E questo disagio tra giovani e giovanissimi sfocia sempre più nell’abuso di sostanze, alcol in testa. Ansia e depressione colpiscono sempre di più i giovani di Chiara Bidoli Corriere della Sera, 8 ottobre 2023 Le malattie mentali stanno per superare quelle cardiovascolari in Italia e nel mondo. A esserne colpiti sono soprattutto i giovani: il diffuso isolamento del periodo della pandemia ha prodotto (e continua a produrre) oltre che insicurezza e problemi di autostima, immobilismo e difficoltà a immaginare un futuro. I disturbi della psiche sono in aumento. L’Oms (Organizzazione Mondiale della Sanità) stima che, dopo la pandemia, riguardino 1 persona su 8 nel mondo e che nei Paesi ad alto reddito (Ue e Usa) circa la metà di chi ne soffre non ha una diagnosi o non viene curata, percentuale che sale all’80/90% nei Paesi a basso e medio reddito. In particolare, depressione e ansia sono cresciuti rispettivamente el 28% e del 26% rispetto al periodo pre-Covid a testimonianza che, mentre è ancora dibattuto se considerare il periodo della pandemia tra le cause dirette dell’aumento dei problemi psicologici a livello mondiale, sicuramente ne è stato un acceleratore. “La trasformazione verso il digitale, conseguenza della post pandemia, ha provocato oltre a una sensibile riduzione del movimento, inteso sia come quantità di attività fisica praticata sia come spazio occupato nell’ambiente, anche una maggiore “immobilizzazione” emozionale. La connessione virtuale, infatti, ha “svuotato” le emozioni e ciò ha, a sua volta, facilitato lo sviluppo di un pensiero dalle connotazioni più pessimistiche, influendo sulla difficoltà a maturare un pensiero lungo, costruttivo, orientato al futuro”, spiega Claudio Mencacci, presidente emerito Neuroscienze - Fatebenefratelli di Milano e co-presidente della Società Italiana di Neuro-Psico-Farmacologia (Sinpf). Delle diverse forme di depressione, in ancora troppi casi banalizzate e declassate a forme di tristezza o di debolezza, può soffrire chiunque, indipendentemente da sesso, età, classe sociale, ma ciò che emerso dagli ultimi studi è che l’area della prima e seconda adolescenza, gli anziani e il genere femminile hanno risentito maggiormente dell’isolamento sociale, della riduzione di scambi relazionali e della possibilità di coltivare interessi”. La giornata della Salute Mentale: gli appuntamenti in programma - Tra gli obiettivi primari di lavoro della Società Italiana di Psichiatria (SIP), che compie 150 anni, ci sono le nuove generazioni, in particolare gli adolescenti. “La psichiatria deve rinnovarsi per rispondere alle nuove esigenze. Tra le priorità occorre intercettare più precocemente gli esordi delle malattie, concentrandosi soprattutto sui giovani, e lavorare non solo sulla cura ma anche sulla prevenzione, a partire dalla diffusione di stili di vita sani. Dobbiamo anche riorganizzare l’assistenza territoriale, puntando sull’individualizzazione delle cure che devono diventare personalizzate. E poi occorre combattere lo stigma, che significa far riconoscere la malattia mentale come una malattia e dare a tutti la possibilità di curarsi”, spiega Emi Bondi presidente della Società Italiana di Psichiatria (Sip). Due gli appuntamenti in programma: - Il 9 ottobre alla Sala ISMA del Senato (dalle 11 alle 13, Piazza Capranica 72) ci sarà un incontro dedicato alla stampa per celebrare l’anniversario dei 150 della Società italiana di psichiatria tra passato e presente - il 10 ottobre si celebrerà la Giornata mondiale della Salute mentale promossa dalla Federazione Mondiale per la Salute Mentale WFMH. Il tema di quest’anno è: “La salute mentale è un diritto universale”. Per l’occasione, oltre a tante iniziative locali, monumenti istituzionali in tutta Italia si coloreranno di verde per sensibilizzare l’opinione pubblica sull’importanza di combattere lo stigma sulle malattie mentali che colpevolizza dolorosamente chi ne soffre. Una sfida sociale - La depressione riduce le aspettative di vita in media dai 10 ai 14 anni poiché aumenta sensibilmente l’insorgere dei quattro “big killer” (malattie cardiovascolari, malattie polmonari, diabete e tumori), delle loro ricadute e anche di maggiori ospedalizzazioni e per questo “rappresenta una crisi sanitaria che richiede risposte a più livelli, rendendo necessarie azioni congiunte per trasformare gli approcci alla cura e alla prevenzione della malattia mentale a livello globale - continua Mencacci -. Le ultime ricerche mostrano che la depressione potrebbe avere anche un ruolo nel favorire il decadimento cognitivo in età anziana. Se fosse confermato, potrebbe aprire nuovi approcci di diagnosi e cura della demenza, dell’Alzheimer o di altre patologie neurodegenerative e mentali correlate all’invecchiamento”. I pericoli in cameretta - In Italia sono almeno 700 mila gli adolescenti dipendenti da web, social e videogame che rischiano di perdere il senso della realtà e sostituire il reale con l’irreale virtuale, secondo uno studio condotto dall’Irccs Stella Maris di Pisa e la Ausl di Bologna e promosso dal Dipartimento Politiche Antidroga della Presidenza del Consiglio dei Ministri e dal Centro Nazionale Dipendenze e Doping dell’Istituto Superiore di Sanità. “Per i maschi il rischio maggiore è la dipendenza dai videogiochi, le femmine invece “vivono” di Social, in particolare TikTok, Instagram e Twitch, ma il risultato non cambia: sono abitudini che fanno aumentare l’isolamento emotivo e la rottura con il mondo sociale con conseguenze sulla loro salute mentale”, spiega Emi Bondi. I ragazzi oggi sono impauriti, disorientati e trovano nel web, social e con i videogiochi, un mezzo per alleviare la sofferenza, l’incertezza, finendo per diventarne dipendenti. La progressiva riduzione della socializzazione, la diminuzione delle relazioni affettive e di esperienze tipiche del percorso di crescita sono tutti fenomeni in continuo aumento, così come la pressione per le performance scolastiche e sportive. Condizioni che li portano ad essere facili vittime di ansia e depressione”. Occorre, per questo, vigilare sui bambini e ragazzi chiusi per ore nella loro “cameretta” che, con l’avvento del digitale, non può più essere considerato un luogo sicuro. “Il mondo digitale genera dipendenze non diverse da quelle delle droghe: sono coinvolte le stesse aree cerebrali e gli stessi neurotrasmettitori, dopamina e serotonina. Tra i sintomi più diffusi ci sono forme di stress e astinenza associate all’utilizzo e al non-utilizzo dei dispositivi, l’abitudine a mentire sull’uso, la perdita di controllo e di altri interessi. Spesso si associa ai disturbi ossessivo-compulsivo, a quelli dello spettro autistico o da deficit di attenzione e iperattività. Nei Paesi in cui il fenomeno dell’Internet Gaming Disorder è particolarmente diffuso sono state stilate raccomandazioni per l’uso appropriato di internet e sono stati realizzati programmi di prevenzione scolastici. In Asia, per esempio, dove il fenomeno è particolarmente preoccupante, si sono previste misure come il “coprifuoco” per i videogame dalle 22 alle 8 del mattino, o consultori specializzati per imparare a vivere senza internet”, conclude Bondi. Rabbia e vulnerabilità - È sotto gli occhi di tutti un aumento diffuso dei comportamenti antisociali e aggressivi che vedono sempre più protagonisti i ragazzi. “La nostra società sta vivendo un momento di crisi e di transizione in cui c’è una perdita di certezze e sicurezza e un ribaltamento dei valori. È come se ora contassero solo quelli individuali a scapito di quelli comunitari e questo è alimentato soprattutto dai social e dalla rete dove trionfa l’individualismo e il narcisismo - spiega la presidente della Società Italiana di Psichiatria. In crisi sono soprattutto le relazioni “vere” a favore di quelle “virtuali” che isolano e ci rendono più vulnerabili e paurosi. Alla solitudine e alla mancanza di punti di riferimento e di legami si associa anche una ricerca narcisistica della notorietà virtuale, a qualsiasi costo, che poi è il tentativo di abbattere la solitudine ma in maniera profondamente sbagliata. Mancano le relazioni sociali, la base della società, il sentirsi parte di una comunità. Frasi come “la mia libertà finisce dove comincia la vostra” sembrano appartenere a un mondo che non c’è più”. Il digitale ha i suoi pregi - Secondo una review pubblicata su Frontiers in Public Health nel 2022, contenente i risultati di 30 pubblicazioni che analizzano il legame tra la salute mentale e l’attitudine all’utilizzo di strumenti digitali, esiste un’associazione fra il tempo speso sui social (o online) e il rischio di sintomi psichici. “Sopra una certa soglia di esposizione digitale si associa un rischio aumentato di patologie mentali - spiega Giancarlo Cerveri direttore del Dipartimento Salute Mentale e Dipendenze Asst di Lodi. Occorre però precisare che non tutto il mondo digitale presenta gli stessi pericoli. Le comunicazioni one-to-one, il confronto con i pari sui propri stati emotivi in contesti di amicizia online, come pure esperienze divertenti e positive di incontri di gruppo (seppure virtuali) contribuiscono a mitigare i sentimenti di solitudine e di stress. Risulta dunque fondamentale promuovere le attività online che risultano protettive e prestare maggiore attenzione all’utilizzo di strumenti che provocano dipendenza digitale”. Come capire quali sono le attività digitali da promuovere e quelle, invece, che possono essere nocive? “Occorre innanzitutto mettere limiti temporali all’utilizzo del digitale, offrendo ai ragazzi la possibilità di fare altro, possibilmente scegliendo uno sport o un’attività che li appassioni. Gli strumenti digitali sono utili se favoriscono e potenziano relazioni “vere”, caratterizzate dal mutuo scambio e condivisione delle proprie esperienze emotive. L’utilizzo invece dei vari device con sempre maggiore intensità, in una relazione dispersa, con utenti non identificabili e al di fuori in una dimensione relazionale realistica, pone gli adolescenti a un rischio maggiore di eccessiva comparazione sociale che può far generare la paura di restare tagliati fuori da circuiti ritenuti qualificanti per il proprio successo. Attenzione poi all’isolamento sociale e al confinamento che aumentano il rischio di esposizione ai contenuti negativi del web o del dark web”, conclude Cerveri. In aumento il consumo d’alcol, droghe e farmaci - Il disagio e la vulnerabilità dei ragazzi, alimentati da narcisismo esasperato (che provoca depressione) e accelerazione tecnologica (che produce ansia), vengono potenziati anche dall’uso di sostanze come droghe, alcol e ansiolitici presi senza prescrizione medica. “Nella nostra società si è formata una dimensione ludica dell’impiego di droghe, o altre sostanze potenzialmente nocive, considerate accettabili e tendenzialmente prive di conseguenze a livello organico e mentale - spiega Massimo Clerici professore ordinario di Psichiatria, Università degli studi Milano Bicocca -. L’accettazione ormai generalizzata che esistano sostanze “che non fanno male” e che possono essere utilizzate tranquillamente soprattutto se derivano dal “mercato naturale” ha aperto la strada ad un costante abbassamento della soglia di percezione del rischio ed implica una pericolosa condiscendenza verso l’idea non solo dello “sballo” ma della possibilità di modificare il “sé reale” nella dimensione di una rincorsa al “sé ideale” che i social hanno ormai drammaticamente amplificato. Uno degli aspetti più rilevanti di tale rischio comportamentale deriva dalla genesi dell’impulsività e del non controllo degli impulsi di cui le sostanze sono mediatori e attivatori agendo sulle aree del cervello che regolano questi aspetti sia, più in generale, a livello cognitivo con un’errata percezione delle conseguenze negative degli effetti del comportamento”. Migranti. Il teatrino del giudice e del governo di Carlo Vulpio Corriere della Sera, 8 ottobre 2023 Le forze dovrebbero invece essere unite e convergere verso Bruxelles, perché la verità è che alla Ue, del Mediterraneo, e in particolare della sua sponda sud, interessa poco o nulla.. Ricordiamolo il caso della “Ubaldo Diciotti”, la nave della Guardia costiera italiana che il 16 agosto 2018 salvò 190 migranti in mare aperto. Il salvataggio, che evitò l’ennesima strage, avvenne nelle acque Sar (zona di ricerca e soccorso) di Malta, ma l’Isola se ne disinteressò. Nonostante dia il nome al prestigioso ordine religioso cavalleresco del Sovrano Militare Ordine di Malta, il cui motto è “Difesa della fede e servizio ai poveri”, Malta si girò dall’altra parte. Come fanno del resto tutti gli altri Paesi della Unione europea. E lasciò che fosse la nave italiana a intervenire. La Guardia costiera trasportò 13 persone in condizioni critiche a Lampedusa e condusse le altre 177 nel porto di Catania. Ministro dell’Interno era Matteo Salvini, che decise di bloccare nel porto di Catania i migranti a bordo della nave (sarebbero stati fatti sbarcare il 26 agosto) e che per questo venne indagato per sequestro di persona e alla fine assolto. In quella circostanza, nel porto di Catania, vi furono contestazioni contro il governo e la scelta di non far sbarcare i migranti, con i manifestanti che gridavano “assassini” ai poliziotti. Legittimo. La libertà di parola e di manifestare in maniera non violenta sono sacre e vanno garantite sempre. Tra i manifestanti però c’era anche il giudice di Catania, Iolanda Apostolico, il magistrato cioè che qualche giorno fa ha giudicato illegittimo il “decreto Cutro” nella parte in cui prevede di trattenere il migrante richiedente asilo. Il governo non ha apprezzato, e Giorgia Meloni si è detta “basita”. Salvini non ha apprezzato, e ha tirato fuori il video in cui si vede la Apostolico insieme ai manifestanti (ma silenziosa, non inveiva come gli altri). Successivamente il magistrato ha giustificato la sua presenza in mezzo ai manifestanti sostenendo che era lì “per impedire scontri tra loro e le forze dell’ordine” e ha detto che la maggior parte di coloro che protestavano “erano cattolici e pochissimi di sinistra”. Due toppe peggiori del buco, visto che non si capisce come avrebbe potuto, lei, da sola, evitare eventuali scontri e cosa c’entri il fatto che i manifestanti fossero per lo più cattolici (per il cognome del giudice?). Ora, a noi sta bene che chi chiede asilo non debba essere trattenuto. Ma sta anche bene che l’Italia non venga lasciata sola nel Mediterraneo, per merito o per colpa della sua naturale posizione geografica. E sta anche bene che le sentenze si possano criticare e discutere, tanto più che da una parte e dall’altra (governo e magistrati) esistono gli strumenti giuridici per bocciare un decreto (come ha fatto il giudice Apostolico) o per ricorrere contro quella bocciatura (come può fare il governo). Ciò che non va bene è che un giudice - anche se è libero di manifestare e di esprimere il proprio pensiero - poi non si astenga dal giudicare casi sui quali si sa già come la pensi. È stato detto e ridetto, ma va ripetuto, il magistrato è come la moglie di Cesare, deve non solo essere imparziale, ma anche apparire tale. Apostolico in questo caso doveva semplicemente astenersi. Stesso discorso, visto che ci siamo, per il generale Roberto Vannacci: può scrivere tutti i libri che vuole e dire ciò che vuole, e su tante cose si può anche essere d’accordo con lui, ma può farlo solo dopo aver lasciato la divisa. Il giudice e il generale sono prima di tutto un giudice e un generale. E Meloni e Salvini sono prima di tutto l’una presidente del Consiglio e l’altro ministro. Quindi tutto questo teatrino dei pupi a mezzo stampa e tv dovrebbe e potrebbe esserci risparmiato. Le forze dovrebbero invece essere unite e convergere verso Bruxelles, perché la verità è che alla Ue, del Mediterraneo, e in particolare della sua sponda sud, interessa poco o nulla. Un nuovo capitolo della tragedia israelo-palestinese di Mario Giro* Il Domani, 8 ottobre 2023 L’ennesimo capitolo della tragedia israelo-palestinese è iniziato ieri quando Hamas ha dato il via ad attacchi e incursioni da Gaza. Decine di morti e di rapiti da poter essere poi scambiati. Come Hezbollah in Libano, Hamas ha una lunga tradizione di rapimenti di soldati e civili israeliani che rilascia solo dopo moltissimo tempo, cadaveri compresi. L’autorità palestinese di Ramallah (Anp) è stata colta alla sprovvista quanto le istituzioni di difesa israeliane. Tale è la sorpresa che i media internazionali già accostano l’attacco di ieri alla guerra del Kippur del 1973. La novità è che oltre ai razzi - a migliaia - lanciati dalla striscia, c’è anche un’offensiva coordinata da parte di squadre militari e di incursori che sono entrati in Israele. “È una guerra” dice il premier Bibi Netanyhau, già accusato da molte parti di essersi fatto trovare impreparato. Il suo governo ha talmente indebolito Israele all’interno, con la polemica sui poteri della corte suprema, che i suoi nemici ne hanno approfittato. È naturale che ora Israele si compatti in difesa del proprio territorio e dei suoi cittadini, sostenuto in questo da buona parte della comunità internazionale. Ciò non toglie che tra israeliani ci sarà molto da dire dopo. Non c’è speranza per Hamas di “vincere” una qualsiasi forma di conflitto contro Israele. Tuttavia non è questo l’obiettivo del movimento islamista che ha altri scopi. Vuole innanzi tutto manifestare di non essere soltanto un gruppo terrorista (come appare fino ad oggi) ma un vero e proprio esercito nazionale palestinese (che utilizza il terrorismo come una tecnica), per scalzare definitivamente i suoi concorrenti interni dell’Anp. L’idea è conquistare il potere anche in Cisgiordania e affermarsi come unico interlocutore palestinese. In secondo luogo Hamas vuole dimostrare che non ci può essere sicurezza senza un negoziato (per ora di là da venire) che lo veda protagonista assoluto. Infine Hamas ha anche un proposito internazionale più ampio: ergersi a soggetto politico-militare all’interno del mondo arabo-musulmano per interrompere l’idillio tra arabi del Golfo e israeliani che si era andato concretizzando con gli accordi di Abramo. Con l’attacco diretto a Israele si allontana sicuramente l’ipotesi di un patto con l’Arabia Saudita, molto più significativo di quelli con gli Emirati ecc. Hamas cerca cioè di spezzare la normalizzazione in atto tra arabo-musulmani (soprattutto sunniti) e israeliani con il beneplacito americano. Sarà da vedere se le violenze di queste ore saranno in grado di mutare le dinamiche geopolitiche in medio oriente. Di sicuro c’è che il clima rinfocolato dalla guerra in Ucraina fa credere a molti che la soluzione delle contese possa venire dalle armi. La storia del conflitto israelo-palestinese è invece la prova migliore del contrario: senza un accordo basato sullo scambio pace per territori (finora rifiutato a fasi alterne) la guerra non avrà mai fine. *Politologo Attacco a Israele: un mondo in bilico di Paolo Mieli Corriere della Sera, 8 ottobre 2023 Siamo sicuri che tutti (proprio tutti) quelli che hanno considerato eccessiva la risposta armata degli ucraini all’invasione russa, definiranno sproporzionata l’azione israeliana contro gli aggressori di Hamas. No, non è come la guerra del Kippur. Anche allora Israele fu colta di sorpresa, ma quelli di cinquant’anni fa erano eserciti (arabi) contro un esercito (israeliano), soldati contro soldati, divise contro divise. Stavolta si tratta invece di miliziani Hamas, che sgozzano abitanti di Israele, i quali non avevano altra colpa se non di aver casa vicino ai confini di Gaza. Bene hanno fatto i giornali e le tv a non mostrare quelle immagini raccapriccianti. Così come fu giusto non pubblicare o mandare in onda quelle altrettanto crudeli delle infamie russe contro gli inermi ucraini. Anche perché stavolta è assai peggio di altre guerre, compresa quella del 1973: quei filmati sono molto molto più crudi ed è impossibile, come ci ha insegnato proprio l’Ucraina, immaginare che la partita si chiuda qui. Perciò, al di là dei nostri auspici, è probabile che nei prossimi giorni vengano alla luce altri massacri. Persino peggiori. Conosciamo tutti la complessità della questione mediorientale (quantomeno ne sanno qualcosa quelli che davvero se ne sono occupati seriamente). E siamo consapevoli del fatto che, in quel contesto, “bene” e “male” non sono collocabili per intero da una parte o dall’altra. Ma fa davvero impressione che ci sia un certo numero di nostri connazionali - cantanti o rettori d’università - i quali, senza concedersi neanche un attimo di rispettoso silenzio al cospetto di incursioni esplicitamente indirizzate ad uccidere “ebrei” (non “israeliani”, “ebrei”), abbiano ritenuto di esaltare i “legittimi attacchi palestinesi”. E abbiano addirittura criticato coloro che anche a sinistra avevano condannato quei misfatti perché - sempre secondo gli stessi cantanti e rettori - non avrebbero “a cuore la libertà e l’autodeterminazione dei popoli”, desiderosi esclusivamente di “servire gli interessi dell’imperialismo occidentale del quale sono servi e portavoce”. Allo stesso modo fa una certa impressione assistere allo spettacolo di quelli che, come accade da decenni, hanno immediatamente girato i riflettori sulla “terribile reazione israeliana”. Una “reazione”, quella israeliana, sottolineiamo. Non un’aggressione. Una risposta ad atti che partono da una terra, la striscia di Gaza, consegnata nel 2005 da Israele ai palestinesi. Striscia da cui, nel corso dei diciotto anni successivi al ritiro da quella terra di ogni cittadino israeliano, sono venuti solo attacchi terroristici. Con l’unica differenza che quelli del passato erano meno spietati di quelli di ieri mattina. Vale la pena di soffermarci su quelle che prevedibilmente nei prossimi giorni saranno le “reazioni alla reazione”. Speriamo di essere in errore ma siamo sicuri che tutti (proprio tutti) quelli che hanno considerato eccessiva la risposta armata degli ucraini all’aggressione russa, definiranno sproporzionata l’azione israeliana contro gli aggressori di Hamas. Diranno che Netanyahu è un assassino e ci mostreranno immagini di innocenti morti a causa di bombe israeliane. Per poi invocare una pace del cui mancato ottenimento il premier israeliano sarebbe l’unico responsabile. Dopodiché l’ecatombe di ieri (come tante altre del passato, sia pure di minore entità) passerà in secondo piano per essere al più presto dimenticata. Ma stavolta sarà più arduo tornare a questo consueto copione. Stavolta è suonata la campana della guerra. Guerra forse scongiurabile solo con un riesame obiettivo di quel che è accaduto negli ultimi mesi. Questo riesame può indurci ad analisi più meditate. Al termine delle quali scopriremmo che tra gli obiettivi delle azioni di ieri, oltre a Israele, potrebbe esserci anche l’Arabia Saudita. Arabia Saudita che nel marzo scorso, sollecitata da una mediazione cinese, aveva firmato un accordo con l’Iran (probabile mandante degli attuali attentati) per il ristabilimento delle relazioni diplomatiche. La stessa Arabia Saudita che, con una imprevedibile giravolta, in settembre si era pubblicamente riavviata sulla strada dell’avvicinamento a Israele. Strada, al termine della quale, Riad sarebbe forse giunta a sottoscrivere il patto degli “Accordi di Abramo” già stipulato nel 2020 da Israele con Emirati arabi uniti, Bahrein e Marocco. Paesi che sono andati ad aggiungersi a Giordania ed Egitto, i quali già da anni avevano normalizzato i rapporti con lo Stato ebraico. Un’ultima osservazione. Apparentemente non c’è alcuna connessione tra gli accadimenti ucraini e quelli israeliani. Ma è solo apparenza. Sergio Mattarella, l’altro ieri, ha evocato il clima che precedette lo scoppio della Seconda guerra mondiale. Ovviamente il Capo dello Stato non poteva conoscere in anticipo quel che stava per accadere in Israele. Ma tra il 1938 e il 1939 andò esattamente come ha detto il presidente della Repubblica: l’Europa non si accorse dell’intima connessione tra fatti gravissimi in apparenza slegati uno dall’altro. E cedette, cedette, cedette finché si trovò di fronte all’inferno. Speriamo di non dover un giorno rileggere le parole di Mattarella di questo ultimo biennio a proposito dell’Ucraina e adesso di Israele, di non doverle rileggere, dicevamo, come una profezia. Parole pronunciate con lucidità e coerenza. Talvolta trascurate. Ma che, diciamolo per inciso, sono l’unico possibile contributo di un concreto impegno per la pace. Crosetto: “Israele? L’intera area è instabile, la Russia potrebbe inserirsi” di Monica Guerzoni Corriere della Sera, 8 ottobre 2023 Il ministro: “Ora la reazione di Israele sarà molto dura”. La linea sull’Ucraina non cambia, ma la guerra è ferma. Guido Crosetto è appena uscito da una call con premier e ministri quando risponde al Corriere e dà voce alla preoccupazione del governo: “È un attacco terroristico, quasi una dichiarazione di guerra, di fronte alla quale non poteva che esserci la solidarietà dell’Italia. Stiamo ragionando sui possibili sviluppi di questa guerra, inattesa soprattutto per l’intensità che non ha eguali negli ultimi 20 anni”. Lei si aspettava l’attacco di Hamas, ministro? “Giorni fa ho detto che mi preoccupava l’Iran forse più dell’Ucraina e tutti mi hanno risposto che avevo preso troppo sole. Hamas non è storicamente vicino all’Iran, ma viviamo una fase in cui si saldano elementi e si individuano nemici comuni. La reazione israeliana sarà molto dura”. Più del raid su Gaza? “Israele ha subìto una ferita profondissima, per la modalità dell’attacco, per il numero di morti e prigionieri e per le immagini di omicidi barbari. La reazione non può che essere forte, riaprendo un fronte in cui si inseriscono tutti gli altri attori che negli ultimi due anni hanno contribuito a destabilizzare il mondo”. L’Onu vede un “precipizio pericoloso”. Il conflitto è destinato ad allargarsi? “Gli elementi di instabilità nella zona sono tanti, dalla Siria al Libano e Iran e Russia possono avere interesse a destabilizzare l’area. Sono preoccupato anche per i 1.200 soldati della missione Unifil dislocati al confine tra Israele e Libano. Lo scontro con Hamas è esploso al Sud, ma il rischio di destabilizzazione riguarda anche il Nord”. Se la sente di rassicurare gli esponenti della comunità ebraica in Italia? “In Italia c’è allerta perché, purtroppo, questi eventi possono comportare una scia di antisemitismo”. Sul sostegno all’Ucraina, l’Europa mostra crepe. La linea italiana dell’appoggio illimitato a Kiev, anche militare, sta per cambiare? “Il sostegno italiano è sempre stato convinto dal punto di vista politico, ma non è mai stato illimitato per possibilità di contributi. Dal punto di vista tecnico è una limitazione di quantità, mentre sul piano della decisione politica non è cambiato nulla”. Giorgia Meloni ha paura che la “stanchezza dell’opinione pubblica” le faccia perdere voti alle Europee? “Non c’è assolutamente nulla di tutto questo. Quello del governo italiano resta un sì, con alcune limitazioni dovute alla lunghezza di un conflitto che dura da oltre un anno e mezzo. Più passa il tempo, più diminuisce la possibilità di aiutare l’Ucraina con risorse che non sono illimitate. Non è una scelta politica, ma un ragionamento banale. Un po’ come a casa, quando finiscono le scorte alimentari”. Quindi l’ottavo pacchetto di armi a cui il governo italiano lavora sarà l’ultimo? “Noi non cambiamo linea, vediamo però che la situazione in Ucraina si sta incancrenendo. Kiev ha grande difficoltà a riconquistare i terreni persi e Mosca non riuscirà mai a conquistare la nazione attaccata. Assistiamo all’impossibilità di risolvere il conflitto sul campo. Per cui noi continuiamo ad aiutare chi ha ragione, ma analizziamo ogni giorno tattiche più proficue per costruire tavoli di dialogo, raggiungere la pace e avviare la ricostruzione di un territorio invaso e smembrato”. Si è chiarito con Tajani, che l’aveva fatta arrabbiare annunciando l’ottavo pacchetto di forniture militari? “Tajani ha correttamente annunciato la decisione politica di lavorare all’ottavo invio, che dovrà poi essere costruito dialogando con l’Ucraina dai “tecnici” della Difesa. Non c’è stato e non c’è nessuno scontro tra me e Tajani”. E tra governo e Colle? Per Mattarella se Kiev cade si rischia la guerra mondiale. “È quello che, absit iniuria verbis, dico da 10 mesi, se cadesse l’Ucraina avremmo i carri armati russi ai confini dell’Europa. Se Kiev perde, rischierebbe di scoppiare la terza guerra mondiale, cosa che molti filo putiniani in Italia fanno finta di non capire”. Dal 2024 servirà un nuovo voto parlamentare. La Lega voterà altri invii di armi? “Suppongo che questo ottavo pacchetto arriverà prima di dicembre”. La giudice Apostolico si deve dimettere, come chiede la Lega di Salvini? “Ognuno ha i suoi modi di porre i temi. Sono anni che io parlo di legittima suspicione rispetto ad alcune manifestazioni pubbliche di certi magistrati. Se la manifestazione esteriore di un giudice genera il dubbio che il suo giudizio non sia equilibrato, ho il diritto di chiederne un altro”. Tirare fuori video o dossier non riapre la guerra tra politica e magistratura? “Non bisogna riaccendere la guerra, ma sollevare i problemi è giusto. Chi lo dice che sia la politica a volere lo scontro? Ogni occasione è buona perché l’altra parte risponda in modo compatto. Se io dico che non mi fido di un magistrato non sto attaccando la magistratura. Cerchiamo di non ampliare la polemica e stiamo ai fatti, cioè alla necessaria terzietà di un giudice”. Come Salvini e Meloni anche lei accusa Apostolico di essere di parte? “Disattendere una legge è gravissimo. Spesso la giurisprudenza ha stravolto le leggi, ma negarle e disapplicarle è eccessivo e allora sì che il tema diventa politico”. La Lega intanto cresce nei sondaggi. Sbaglia la premier a rincorrere Salvini sul dossier immigrazione? “Meloni sta affrontando i problemi principali in modo serio e non approssimativo, senza inseguire nessuno”. I leader sovranisti di Polonia e Ungheria hanno fatto naufragare l’intesa sui ricollocamenti dei migranti. Meloni dovrà ripensare le sue alleanze per le Europee? “La linea è sempre la stessa, sperare che il fronte che mette insieme Popolari e Conservatori sia maggioritario alle Europee. È l’unica boa a cui ancorare la Ue, perché la linea dei socialisti in Italia, Spagna e Germania è distruttiva per l’economia”.