La pena in 41 bis non tende alla rieducazione del condannato di Maria Brucale* Il Domani, 7 ottobre 2023 La legge n. 199 del 2022, in materia di reati ostativi ha escluso i detenuti in regime di 41 bis dall’accesso al permesso premio e alle misure alternative al carcere, sospendendo la Costituzione e la speranza che un detenuto diventi altro rispetto al reato commesso. Le pene, tutte, devono tendere alla rieducazione della persona condannata, qualunque persona, qualunque reato abbia commesso. La Costituzione non ammette che il carcere sia esclusivamente punitivo o retributivo. Retribuzione, d’altronde, disegna immediatamente un concetto di perequazione corrispettiva che evoca la vendetta: occhio per occhio, dente per dente; tanto male hai fatto, tanto ne riceverai; a morte, morte, a orrore, orrore. È un ragionamento che apre le porte ad aberrazioni violente e insensate che escludono a monte la finalità di recupero quali, tanto per evocare una terribile minaccia del presente, la castrazione chimica. Niente di più lontano dall’imperativo costituzionale e convenzionale che orienta la sanzione penale alla restituzione di ogni individuo in società. Orienta, appunto, deve tendere, dice l’articolo 27 della Costituzione. In quel “deve” c’è il carattere cogente della norma, scaturigine dell’obbligo per lo Stato di offrire ad ogni ristretto strumenti idonei a ritrovare la coscienza sociale e a progredire nel ripristino della vita libera. Con l’ingresso in carcere, dunque, deve attivarsi un sistema di recupero che muova da un progetto di reinserimento individuale e graduale e preservi le potenzialità soggettive da un lato e la sicurezza collettiva dall’altro. Il programma trattamentale - A ogni persona reclusa deve corrispondere un programma trattamentale individualizzante proposto dall’area psicopedagogica all’esito dell’osservazione e sottoscritto dal magistrato di sorveglianza, giudice di prossimità del luogo dove si trova il detenuto cui è affidato il controllo - attraverso visite frequenti - che la carcerazione sia decorosa e coerente allo Stato di diritto e che sia utilmente finalizzata alla riabilitazione di chi ha commesso un reato. La vicinanza territoriale del giudice di sorveglianza è caratteristica sostanziale del trattamento voluta dal legislatore perché a decidere del progressivo reinserimento del ristretto in società sia chi, conoscendolo di persona, nella continuità dell’osservazione, sia in grado di valutarne il percorso e di seguirne lo sviluppo. Si legge nelle schede del Ministero della giustizia, nella sezione riservata al trattamento dei detenuti, che l’ordinamento penitenziario radica nell’osservazione scientifica della personalità il metodo attraverso il quale l’amministrazione deve favorire il reinserimento sociale dei condannati, mediante la rimozione delle cause di disadattamento sociale ritenute alla base della devianza criminale. L’osservazione è svolta da un’equipe composta da personale dipendente dell’amministrazione: funzionari giuridico pedagogici, funzionari di servizio sociale, personale di polizia penitenziaria e, se necessario, anche dai professionisti indicati nell’art. 80 dell’ordinamento penitenziario: esperti di psicologia, servizio sociale, pedagogia, psichiatria e criminologia clinica, sotto il coordinamento e la responsabilità del direttore dell’istituto. L’équipe di osservazione ha il compito, secondo le rispettive specifiche mansioni e competenze, di conoscere, attraverso frequenti colloqui, il recluso, il suo approccio al reato e alla vita, le capacità di relazione e di elaborazione del sé, le potenzialità di proiezione futura. Un’indagine costruttiva che viene avviata quando la sentenza di condanna è definitiva - quando, per vocazione costituzionale, dovrebbe sparire il reo per fare posto all’uomo e alla sua possibilità di riabilitarsi - e che si traduce in una relazione finale contenente una proposta di programma di trattamento che dovrà essere approvata con decreto dal magistrato di sorveglianza. Il programma di trattamento consiste nell’insieme degli interventi rieducativi che gli operatori penitenziari propongono di attuare nei confronti del condannato o internato nel corso dell’esecuzione della pena. Lo schema operativo illustrato rende la pena coerente alla Carta fondamentale anche nella lettura della Corte Edu che in più occasioni ha correlato la dignità della persona, definita il cuore del sistema, alla possibilità che dallo Stato deve essere offerta a ognuno di sperare nella restituzione alla vita libera. Un progetto ben congegnato che muove dalla centralità dell’uomo e dalla comprensione della sua mutevolezza, dell’inclinazione all’errore come al recupero, di una osmotica convivenza in ciascuno di bene e male che si nutrono di contesto ambientale, studio, frequentazioni, relazioni familiari, solitudini, capacità economica, bisogni, vulnerabilità, anche patologiche e tutto ciò che una persona è nella sua essenza ed unicità. La prima formulazione del piano di recupero di ogni ristretto dovrebbe essere redatta dopo sei mesi dall’inizio dell’esecuzione della condanna. Naturalmente, però, quel che è sulla carta non trova espressione coerente nella realtà perché a causa della endemica e mai adeguatamente affrontata carenza di risorse umane e materiali, nelle carceri gli operatori sono numericamente del tutto inadeguati a farsi carico e a prendersi cura delle storie, delle vite, delle aspirazioni delle persone detenute. Così, assai di frequente, chi ha pene brevi da espiare arriva alla scarcerazione senza che nessuno si sia occupato delle sue attese di restituzione in società. Per gli altri, le valutazioni c.d. personologiche arrivano con ritardo incidendo gravemente sui tempi di accesso alle prime occasioni di approccio con l’esterno o alle misure alternative al carcere. I reati ostativi - Per chi espia un reato ostativo, tra quelli dell’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario, i tempi si allungano ulteriormente, non solo perché la legge che ha consentito - costretta dalla Consulta e dalla CEDU - la speranza di un graduale ritorno alla vita libera la ha oppressa con mille legacci, insormontabili oneri dimostrativi e appesantimenti istruttori, ma anche perché tanti tra i reclusi per quei gravi reati che fino al 2019 non aspiravano neppure al primo permesso premio non avevano mai avuto un programma trattamentale che ne ipotizzasse il reinserimento in ragione dello sbarramento, dapprima insuperabile, della mancata collaborazione utile con la giustizia. Quella stessa legge, n. 199 del 2022, che ha fatto ingresso nel nostro ordinamento con D.L. e la giustificazione della necessità ed urgenza di impedire alla Corte Costituzionale la demolizione di un istituto già ritenuto illegittimo, ha espressamente escluso coloro che sono detenuti in regime di 41 bis dall’accesso al permesso premio e alle misure alternative al carcere. Sul piano logico tale estromissione sembrerebbe ragionevole dal momento che si presume che chi si trova assoggettato alla carcerazione derogatoria esprima ancora una capacità di comando nelle associazioni criminali di riferimento che rende opportune le limitazioni di contatto con l’esterno connesse al regime. La logica, tuttavia, viene meno e lascia il posto a una grave violazione della Costituzione perché tutto il sistema ordinamentale è destrutturato per chi si trova in 41 bis. La norma che lo disciplina prevede che si sospenda in tutto o in parte il trattamento penitenziario - come chiarito, espressione della coerenza alla Costituzione di ogni pena - attraverso gravi e pressanti limitazioni che incidono sullo studio, sul lavoro, sulle relazioni affettive e i rapporti familiari, sulla libertà di informazione, sulla salute fisica e psichica. Il decreto ministeriale - La sospensione della Costituzione, nel suo precetto di tensione alla rieducazione, è disposta incredibilmente con decreto ministeriale, un provvedimento amministrativo, che è oggetto di valutazione giudiziaria solo ove sia stato tempestivamente reclamato e molti mesi dopo la sua prima applicazione o la sua reiterazione: quest’ultima, a seguito di una modifica normativa del 2009, avviene per la prima volta dopo quattro anni e poi ogni due (dapprima ogni anno, fin dalla prima applicazione) con provvedimenti che si ripetono all’infinito sempre uguali a sé stessi e che arrestano la valutazione della pericolosità sociale del ristretto ai titoli di reato in espiazione cristallizzati nelle sentenze di condanna ed alla constatazione che nei territori di origine la mafia, in tutte le sue declinazioni, ancora c’è, esiste, sebbene non siano dimostrabili connessioni soggettive con il detenuto. Sempre dal 2009, il criterio di valutazione è mutato con un capovolgimento dell’onere probatorio che ha fatto ricadere sul ristretto la prova impossibile della sua incapacità, ove allocato in una sezione detentiva di Alta Sicurezza, di riallacciare i contatti con l’ambiente delinquenziale. Non solo. La novella del 2009 ha stabilito che il solo giudice dei reclami al 41 bis sia il tribunale di sorveglianza di Roma con la dichiarata intenzione di determinare una fissità giurisprudenziale nella materia e, dunque, fuori dalle righe, di spogliare della valutazione il giudice naturale, quello di prossimità che dovrebbe conoscere ogni recluso e disegnarne il programma trattamentale individualizzante. Così in sede di reclamo la persona scompare del tutto e resta in vita, solo oggetto di indagine, la sua storia criminale. Il tribunale di Roma in sede istruttoria si accontenta di acquisire una nota comportamentale perché per i reclusi di quel “mondo senza” nessuno ha mai scritto una relazione di sintesi, nessuno li ha mai osservati, nessuno ne ha ipotizzato il ritorno. Gli operatori del carcere, d’altronde, sono troppo pochi e troppo sfiniti per potersi occupare anche di chi non ha alcuna speranza di accedere un giorno a un permesso premio o a una misura alternativa, di chi, in caso di pena temporanea, dal 41 bis sarà sputato fuori, libero, senza che qualcuno abbia seguito e accompagnato, anche a tutela di esigenze di sicurezza collettiva, il suo ritorno in società o ancora di chi, in caso di condanna all’ergastolo, aspetterà la morte senza il conforto degli affetti, senza un abbraccio di madre. La sospensione della Costituzione si protrae indisturbata, diuturnamente, a colpi di provvedimenti amministrativi, senza che il detenuto possa dimostrare, se con collaborando utilmente con la giustizia, di essere altro dal reato, di avere disegnato un’altra storia, di aver costruito una volontà nuova, di avere abbracciato pensieri diversi. Si ammette, insomma, che ci sia una categoria di detenuti irredimibili, tutti capi mafia per sempre, chiusi e dimenticati, circa 750 persone, sottratti sempiternamente alla rieducazione ed al reinserimento in aperta e rasserenante violazione della Costituzione e della Cedu. *Avvocato Dentro i numeri del carcere di Carlo Alberto Romano* nlr.plus, 7 ottobre 2023 Le persone detenute nelle carceri italiane al 31 luglio 2023 erano 57.749 e di essi 18.044 (pari al 31,2 %) erano cittadini stranieri. Come è composta questa consistente fetta di popolazione del carcere? Le nazionalità censite dal Ministero nelle statistiche carcerarie nazionali al 31 luglio sono oltre 150 cui si sommano 18 detenuti di nazionalità non definita. Fra quelle maggiormente rappresentate, e citando solo valori superiori al migliaio, troviamo il Marocco con 3748 detenuti, la Romania 2049, l’Albania 1879, la Tunisia 1812 e la Nigeria 1176. Molte nazionalità sono però rappresentate da un unico cittadino recluso. Un numero così elevato di persone straniere recluse non può non produrre una rilevante difficoltà nella loro gestione, in un sistema già alle prese con molte e altre cronicità. Una su tutte: il sovraffollamento, che dopo la parentesi dell’emergenza pandemica, è tornato a farsi sentire in modo preoccupante. Sempre al 31 luglio u.s., i posti disponibili nei 189 istituti penali italiani, calcolati sulla base del criterio di 9 mq per singolo detenuto + 5 mq per gli altri, (cit. Ministero della Giustizia, infra) risultavano infatti 51.285, che a fronte del già citato totale di 57.749, produce un indice di sofferenza del 112,6. Valore non certo irrilevante. Al problema del sovraffollamento si è cercato di rispondere attraverso l’edilizia penitenziaria, aumentando la capienza tra il 2010 e il 2018 del 12,3 %, (ISTAT, annuario statistico,2019) e tuttavia il risultato non è stato per nulla soddisfacente e la questione resta tragicamente di attualità. Un più efficace (ed “europeo”) programma di intervento, da un lato avrebbe dovuto consentire ai condannati di accedere più agevolmente all’esecuzione penale esterna, e dall’altro avrebbe dovuto limitare gli ingressi con finalità cautelari (ovvero il carcere sofferto prima che una sentenza accerti definitivamente la responsabilità, per motivi specificati dal vigente codice di procedura penale). Non sembrerebbero queste essere le strategie adottate. Specialmente per gli stranieri. Esiste infatti uno scarto molto evidente fra detenuti cautelari italiani e stranieri. Perché accade ciò? Un motivo potrebbe risiedere dalla maggior facilità con cui gli italiani accedono a misure non detentive (il cd. piede libero o gli arresti domiciliari); la difficoltà, comune a molti stranieri, di dimostrare di possedere un alloggio idoneo o un lavoro regolare o una rete relazionale attiva sembrerebbe incidere sulla scelta del provvedimento cautelare applicabile nei loro confronti dalle autorità giudiziarie. Gli stranieri accedono meno anche alle misure alternative alla detenzione; Antigone, da tempo, (XV rapporto sulla detenzione in Italia, Antigone) prendendo a riferimento la detenzione domiciliare ai sensi della Legge 199 / 2010, rilevava già nel 2019 un disvalore di circa il 5% . La questione della scarsa disponibilità di alloggi per le persone in esecuzione penale è ben conosciuta da chi si occupa di questi temi, e la enorme difficoltà a reperire alloggi idonei per gli stranieri (lato sensu intesi) è cosa analogamente nota. Indicazioni sui reati commessi dagli stranieri ce le fornisce sempre Antigone, il cui report afferma che “La maggior parte dei reati che interessano i detenuti stranieri sono contro il patrimonio (25,7%), contro la persona (22%), e per violazione del testo unico in materia di stupefacenti (18%).” Purtroppo queste tipologie di reato, sono proprio quelle che possiedono un evidente, stretto, rapporto con la percezione di insicurezza generatasi in alcuni settori della cittadinanza e questo non favorisce una lettura attenta e pacata del fenomeno. Guardando alle fasi antecedenti la carcerazione, Istat (dati.istat.it) dice che in Italia, nel 2021, il numero degli autori di reato stranieri denunciati o arrestati dalle Forze di Polizia è pari a 265.150, su un totale di 831.137 denunciati, il che rappresenta un preoccupante valore percentuale del 31,9 %. Vi è da dire che la maggior parte delle denunce a carico degli stranieri riguarda l’area della presenza irregolare, e che gli stranieri, a causa della loro vulnerabilità soggettiva, specialmente se costretti nella suddetta condizione di irregolarità, sono assai spesso a rischio di vittimizzazione più che di divenire autori di reato; inoltre, talo stato di vulnerabilità, li espone notevolmente al reclutamento del lavoro nero o addirittura della criminalità organizzata (ma spesso le due cose coincidono). Anche solo per questo motivo, le posizioni di irregolarità, andrebbero sanate con la maggior efficacia e rapidità possibile. Insomma, il problema degli stranieri all’interno del circuito penale richiederebbe di essere inquadrato in modo corretto, partendo dal presupposto che si tratta di un tema da affrontare non disgiuntamente dall’analisi del sistema giustizia in generale e dalla normativa vigente in tema di immigrazione. La corretta lettura delle statistiche relativa a dimensioni e tipologie delle condotte illecite degli immigrati unita a un impegno concreto nella formazione alla legalità, magari partendo proprio da una significativa riflessione riguardante il rapporto fra le diverse comunità etniche e i connazionali detenuti in carcere, potrebbe essere un buon punto di partenza. *Docente di Criminologia all’università degli Studi di Brescia La lezione dei liberali di ieri e l’indifferenza degli illiberali di oggi di Donatella Stasio La Stampa, 7 ottobre 2023 Calamandrei metteva in guardia dall’invadenza della politica sulle sentenze e l’indipendenza dei giudici. Ora spuntano schedature di magistrati non allineati alla cultura delle destre e la nostra democrazia regredisce. Ci sono i liberali di oggi, imperturbabili di fronte a quel che sembra un “dossieraggio” sui magistrati (e non solo), usato dal vicepremier Matteo Salvini per spiarne le idee e magari i gusti nel vestire, come all’epoca di Berlusconi, e che si sentono invece minacciati dalle toghe “politicizzate”, ma solo se sono “rosse”. Ci sono invece i liberali di una volta, come Piero Calamandrei, che mettevano in guardia dall’incidenza del clima politico sulle decisioni dei giudici e sulla loro indipendenza, soprattutto quando “circolano liste di proscrizione contro magistrati sospetti di criptocomunismo”, e che avvertivano: “Quando nell’aria si respira il disfattismo costituzionale”, è più difficile che i giudici “riescano ad assumere su di sé il compito faticoso, e spesso pericoloso, di difendere la Costituzione contro gli arbitrii del governo”. Ci sono i liberali di oggi, quelli che considerano un normale “commento” il tweet a caldo della presidente del Consiglio Meloni (dunque urbi et orbi), in cui non si limita a dirsi “basita per la sentenza del giudice di Catania” ma, con toni da assetto di guerra sostiene che quella decisione “si scaglia contro i provvedimenti di un governo democraticamente eletto” e annuncia: “Continueremo a fare quel che va fatto per difendere la legalità e i confini dello stato italiano. Senza paura”. E ci sono, invece, i liberali di una volta, che denunciavano il pericolo del “conformismo giudiziario, dell’indifferenza burocratica e della irresponsabilità anonima” del giudice; spiegavano che la sentenza “non è il prodotto di un’operazione aritmetica ma la conclusione di una scelta morale”; e ricordavano che il giudice deve essere indipendente, “solo con la propria coscienza”. Si potrebbe continuare per misurare la distanza siderale tra i liberali di ieri e di oggi, non più argine politico e culturale all’esondazione dei poteri delle destre di governo rispetto ai giudici e, in generale, agli organi di garanzia. Non c’è bisogno di avere le squadracce lungo le strade per essere preoccupati; come se non bastasse quanto è già acceduto, ecco di nuovo spuntare schedature di giudici e di molti altri non allineati con la cultura delle destre. È capitato a tanti colleghi, ad esempio, e anche a me, qualche anno fa, e capiterà ancora se continua questa sorta di accondiscendenza verso la cultura illiberale che sta essiccando la nostra democrazia costituzionale. La parola d’ordine sembra essere: minimizzare la reazione del governo. Oppure accusare i giudici di fare politica come ai tempi di Mani pulite, un refrain stanco e vuoto, ma gravemente delegittimante, che non è utile nemmeno a una pur necessaria riflessioni critica su quegli anni ma solo a confondere i cittadini, facendo regredire, piano piano, la nostra democrazia nell’indifferenza generale. Che distanza dalle piazze di Israele, che per mesi si sono riempite contro la riforma della giustizia del governo Netanyahu e a difesa della Corte suprema! Le piazze non si sono riempite, invece, né in Polonia né in Ungheria, i paesi amici della nostra destra, dove i “governi democraticamente eletti”, come li chiama Meloni, hanno eroso indisturbati lo stato di diritto, proprio con l’attacco ai giudici, alle Corti e alla loro indipendenza. Alla giudice di Catania si contesta di non essere stata imparziale. E la prova regina starebbe in un video spuntato ora, che la ritrae, seppure silente e vigile, in una manifestazione del 2018 per far sbarcare i migranti a bordo della nave Diciotti. L’imparzialità del giudice è un valore fondamentale da rispettare sempre, e non in modo formalistico. Bisogna essere, e apparire, imparziali, si raccomandava sempre Calamandrei. Proprio perché non esistono divieti che hanno a che fare, ad esempio, con la libertà di manifestazione del pensiero, spetta dunque al giudice valutare l’opportunità di alcuni suoi comportamenti. Ci vuole prudenza. Va pur detto, però, che nel terzo millennio, nella società in cui tutto finisce per essere pubblico, non si può pensare di chiudere in casa le persone e di trasformare l’imparzialità in una clava da brandire contro chi, paradossalmente, è più trasparente di altri nei comportamenti, peraltro legittimi, senza ipocrisie, consapevole che l’imparzialità, l’indipendenza e la terzietà sono un esercizio quotidiano di fronte alle vicende umane da giudicare. Lo stesso Calamandrei ripeteva che il giudice deve essere un “uomo sociale”, immerso nella società e non chiuso in una torre d’avorio. Eppure, questi giudici vengono additati come “nemici” della nazione e della sicurezza, donne e uomini che vogliono mettere “paura” al governo “democraticamente eletto”. Parole obiettivamente improprie, toni bellicosi, ancora una volta incontrollati. E poiché è il tono che fa la musica, non ci si può non preoccupare di questi squilli di tromba. Per di più se poi, senza imbarazzi, si arruolano nel governo giudici di provata fede culturale, politica, religiosa, per svolgere incarichi di fiducia. Quale credibilità ha un governo che mette alla gogna la giudice di Catania, accusandola di non essere imparziale, ma che ha nei suoi ranghi, come sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, un giudice di Cassazione con alle spalle anni di militanza politico-parlamentare nelle file di Alleanza nazionale? Nonostante questa fortissima identità politica, quel giudice è stato rispettato nella sua imparzialità, e giustamente, fino a prova contraria. Non è stato messo alla gogna. È il bello della democrazia costituzionale. Ma deve valere per tutti. “La democrazia è un impegno - diceva Calamandrei -. Noi non sappiamo che farcene dei giudici di Montesquieu, esseri inanimati fatti di pura logica. Vogliamo i giudici con l’anima, giudici impegnati, che sappiano portare con vigile impegno umano il grande peso di questa immane responsabilità che è il rendere giustizia”. Nel vuoto di cultura che sta soffocando il nostro paese, le parole di vecchi liberali come Calamandrei sono ossigeno. E così quelle di tanti altri “vecchi” che hanno fatto la storia politica, culturale e istituzionale dell’Italia. Per esempio le parole di un grande socialista, “Il combattente” lo chiama Giancarlo De Cataldo nel suo bel libro uscito per Rizzoli nel 2014, con il sottotitolo “come si diventa Pertini”, forse il presidente della Repubblica più amato dagli italiani. Nell’estate del 1984, ai vincitori del concorso in magistratura ricevuti come da prassi al Quirinale, Sandro Pertini diceva: “Non crediate di essere diventati chissà che cosa solo perché avete vinto un concorso. Vi attende un compito difficile. Siate estremamente attenti e rispettosi dell’uomo, della sua dignità. Si può e si deve rispondere sempre alla propria coscienza. Siate giudici immersi nella realtà. Non togliete mai a un uomo, anche al peggiore, la sua dignità. Io ho conosciuto la galera. E nella galera, persone eccezionali, di gran lunga migliori di quelle che ce le avevano spedite. Ricordate: c’è sempre un giudice a Roma”. E anche a Catania. Caro Nordio, i garantisti confidano troppo in lei perché possa deluderli di Giuseppe Gargani Il Dubbio, 7 ottobre 2023 Siamo ad un anno dalle elezioni politiche del settembre 2022 ed è opportuno tentare un bilancio delle iniziative del governo, delle sue realizzazioni, del suo comportamento. Il bilancio più importante da fare è quello sulla giustizia che è negativo e sotto tanti aspetti preoccupante è pericoloso. Il riferimento alla cultura liberale istituzionale e la convinzione che per risolvere qualunque problema che riguardi la società e il cittadino, ci porta a dire che sia necessario curare la giustizia nel senso del rispetto della libertà della persona, dei suoi diritti fondamentali, del garantismo delle norme necessario per la convivenza civile. La scelta del ministro della Giustizia nella persona di Nordio da parte della presidente Meloni ci aveva dato grandi speranze e abbiano espresso giudizi molto positivi. La legislatura del 2018- 2022 è stata negativa sul piano della giustizia e delle istituzioni e ritenevo che vi fosse la consapevolezza di ciò nel movimento di Fratelli d’Italia, perché, essendo stato all’opposizione, era sempre stato critico rispetto a tutte le storture legislative operate dai 5Stelle. A quelle storture avevano contribuito in tanti, compreso il Pd che aveva già perduto la stella polare propria di un partito democratico, che è appunto il rispetto delle istituzioni e la ispirazione democratica. Pensavo cioè che la Meloni, più del suo movimento, volesse rigenerarsi, scrollarsi di dosso la caratteristica di destra… giustizialista e che la indicazione di un rappresentante del mondo giudiziario ma rispettoso della giurisdizione e della libertà delle persone nel governo, servisse per cambiare metodo e strategia. Perché il garantismo è il rispetto delle libertà fondamentali ed è il contrario del giustizialismo che sollecita e alimenta una continua condanna preventiva di tutto e di tutti, a dispetto della Costituzione e delle leggi che pure vi sono! Nordio nei suoi scritti aveva inequivocabilmente sostenuto la necessità di riforme adeguate per ottenere un processo civile e penale, “vero”, con garanzie di tutela della persona. Siccome, come ormai osservatori attenti mettono in evidenza, la Meloni professa rigorosamente idee diverse da quelle che, con enfasi eccessiva, aveva pronunciato alla Camera per il passato e trasmesse con il suo programma elettorale, si poteva ipotizzare che in materia di giustizia volesse seguire uno schema diverso, con delega piena a Nordio. Abbiamo in tanti sbagliato e riteniamo irrecuperabile la situazione perché si sta andando con lo stesso metodo della passata legislatura e si sono inferte altre picconate al nostro ordinamento giuridico, si sono inventati nuovi reati inutili, si sono aggravate le pene inutilmente per tanti reati con il consenso ahimè! Di Nordio. Restano le dichiarazioni del ministro Nordio più volte ripetute della necessità di una riforma organica e l’attesa è ancora tanta ma la speranza è minima. Mentre scriviamo la stampa informa che in autunno bisogna dare priorità alle riforme istituzionali e quindi la riforma del pm e del giudice può aspettare. Non posso non rilevare che un Parlamento che approva in materia di giustizia quello che il governo ha proposto in questo anno non può affrontare riforme importanti e sistematiche: questa la valutazione di tanti. Da cinquant’anni è costante una levata di scudi da parte della magistratura e della sua Associazione contro qualunque riforma con argomenti che non fanno onore a giuristi che fanno esperienze particolari, e che se fossero sereni, dovrebbero ammettere, per fare l’esempio più clamoroso, che il processo penale non va, è un falso perché il processo accusatorio si svolge tra le parti con il giudice “terzo”. Eppure registriamo ogni giorno lezioni da parte dei pubblici ministeri che dovrebbero tenere a mente che, nonostante tutto, nei processi di Tangentopoli e nei processi della mafia sono stati vistosamente disattese le loro “indagini” e le loro richieste, da parte dei “colleghi” giudicanti fino alla Cassazione. Come mai non fanno ammenda e evitano di discettare? Le riforme indicate nel programma di Nordio avrebbe un significato particolare perché risolverebbero tanti problemi che ostacolano il percorso sereno della magistratura e forse risolverebbero il problema grave per la democrazia della prevalenza del potere giudiziario sul potere politico che ha alterato fortemente l’equilibrio di poteri. La “cultura della giurisdizione” sempre indicata dall’Associazione dei magistrati come necessaria per i pm è importante certamente perché essa, non è altro che “amore” per un processo sereno e regolare come il codice richiede! La prevalenza assoluta dell’accusa per la posizione anomala del pm è il contrario della cultura della giurisdizione, ma determina un falso potere che inquina il giudizio. Le correnti all’interno della magistratura per il passato avevano un grande significato perché approfondivano questi problemi ma ora sono un male, non hanno un valore culturale e dialettico e le funzioni diverse irrigidiscono il rapporto e quindi alimentano le divisioni. Ma queste divisioni all’interno della magistratura e i contrasti con le altre istituzioni sono alimentate, ahimè!, in questi giorni da una presa di posizione del presidente del Consiglio contro l’ordinanza del giudice di Catania che non ha convalidato il trattenimento di alcuni migranti come previsto da un decreto-legge del governo. Non possiamo non constatare che l’onorevole Meloni non si è limitata a criticare e a non condividere la decisione del giudice, cosa più che legittima, ma ha detto che il responso del popolo che ha legittimato questa maggioranza di governo non può essere messa in discussione per “favorire l’illegalità” e.… che i magistrati che decidono in quel modo sono “scafisti in toga”. Non si può non riconoscere che questa espressione pronunziata da un presidente del Consiglio mette il governo fuori dallo spirito della Costituzione Repubblicana e dalla separazione dei poteri fondamento della democrazia moderna, e davvero compromette l’equilibrio dei poteri. Una cosa è criticare l’assoluta prevalenza del giudiziario sulla politica e porre riparo con riforme adeguate che finora, come detto, il Parlamento non fa, altra cosa auspica la prevalenza del legislativo giudiziario. D’altra parte uguale forte critica meritano le dichiarazioni fatte al Congresso di Magistratura Democratica, il congresso “politico” di Palermo della settimana scorsa, nel quale si è ripetuto quello che il procuratore generale Nello Rossi aveva detto qualche settimana fa. “Dobbiamo uscire dalle aule dei tribunali” si dice nel comunicato conclusivo “è partecipare al dibattito pubblico per spiegare ai cittadini che il drastico ridimensionamento del controllo giudiziario prima di ogni altra cosa colpisce l’effettività dei loro diritti, coinvolgendo nella riflessione e nella critica le voci politiche, sociali e culturali che sono più affezionate al bilanciamento tra i poteri garantito dalla Costituzione, ma anche l’avvocatura ed il personale amministrativo, che con noi partecipano alla costruzione della giurisdizione”. Questo non è assolutamente il compito della magistratura. Le prese di posizione del governo e quelle dei magistrati sono entrambe inaccettabili e pericolose per la democrazia: ci portano fuori dallo spirito e dalle norme della Costituzione. Il ministro della Giustizia deve intervenire per evitare questa deriva. La politica faccia la sua parte per ridurre i tempi della giustizia di Rossella Marro Il Domani, 7 ottobre 2023 Possiamo incidere come vogliamo sulle norme processuali, ma se si continuano ad addossare sulla magistratura tutte le inefficienze statali, assegnando alla stessa una “funzione salvifica” che non può e non deve avere, non potranno mai essere risolti i problemi connessi ai tempi della giustizia. A fine anno 2022 è entrata in vigore la Riforma Cartabia che rappresenta dopo anni la prima grande “riforma sistematica” del processo penale e del processo civile. Il massiccio intervento legislativo modifica profondamente la normativa processuale e ha la finalità espressa di ridurre i tempi di trattazione dei giudizi e rispettare, di conseguenza, gli impegni assunti dall’Italia in relazione al PNRR. L’altro versante della Riforma Cartabia ha riguardato l’ordinamento giudiziario; alcuni aspetti sono oggetto di una delega al Governo, rispetto alla quale da poco risultano conclusi i lavori di una commissione di studio istituita presso il Ministero della Giustizia; ma vi sono poi una serie di norme, immediatamente precettive, in materia ordinamentale, organizzativa e disciplinare, di eleggibilità e ricollocamento in ruolo dei magistrati e di costituzione e funzionamento del Consiglio superiore della magistratura. Nelle mie brevi riflessioni i due settori di intervento della riforma, processuale e ordinamentale, necessariamente si intrecciano. La riduzione dei tempi - È ingenuo ritenere che i risultati auspicati in termini di riduzione dei tempi della risposta giudiziaria possano essere raggiunti semplicemente con interventi processuali, e neanche esclusivamente con aumenti di risorse di persone e mezzi. Questi interventi necessari e doverosi, che producono senza dubbio effetti positivi, devono essere accompagnati necessariamente da interventi strutturali e di sistema che non devono riguardare la giustizia ma la buona amministrazione del paese. Se non si incide, riducendola entro margini fisiologici (vedi dati statistici europei) sulla domanda di giustizia in Italia, nessun intervento processuale o ordinamentale sulla giurisdizione potrà essere risolutivo. C’è tutto un segmento fondamentale, che precede la “patologia” sulla quale interviene la giurisdizione, che richiede interventi urgenti, che abbiano un orizzonte temporale di medio-lungo periodo. E, invece, noi assistiamo dinanzi allo sfacelo “sociale” e “culturale” che attraversa il nostro paese ad interventi che aggravano ancora di più la macchina giudiziaria con introduzione di nuovi reati, assegnazione di compiti di supplenza alla giurisdizione (penso al fine vita), il continuo inasprimento delle pene; mentre sarebbe necessario in via preventiva rafforzare il sistema dei controlli amministrativi, rafforzare il controllo da parte dello Stato sul territorio (è sotto gli occhi di tutti il fallimento del controllo del territorio, sotto il profilo urbanistico, da parte dei Sindaci dei Comune: si potrebbe immaginare di spostare su altri organi, non soggetti al consenso elettorale, questo nevralgico settore, che nella fase patologica intasa i Tribunali con previsioni sanzionatorie irrisorie), incrementare gli investimenti nel sociale, nella scuola, nella cultura (diceva giustamente Gesualdo Bufalino: “La mafia sarà vinta da un esercito di maestre elementari”); garantire che la pubblica amministrazione paghi ciò che deve ai cittadini e alle imprese, subito e senza interessi, che si accumulano per anni, riducendo così il contenzioso (anche per rinsaldare la fiducia del cittadino nello Stato ed ottenere un importante effetto culturale: lo stato adempie alle proprie obbligazioni, altrettanto devono fare i contribuenti con lo Stato). Possiamo incidere come vogliamo sulle norme processuali ma se si continuano ad addossare sulla magistratura, anello terminale della catena, tutte le inefficienze statali, assegnando alla stessa una “funzione salvifica” che non può e non deve avere, non potranno mai essere risolti i problemi connessi ai tempi della giustizia. Con il rischio poi di vedere additata la giustizia e la magistratura come causa di inefficienza e ragione di incertezza del diritto che allontana gli investimenti. La giustizia giusta - Non sempre una giustizia veloce è una giustizia giusta. Non c’è dubbio che una risposta che arriva a distanza di anni dai fatti non può essere giusta anche qualora la decisione risulti corretta. I tempi della risposta sono fondamentali. La giustizia è un servizio per i cittadini e deve essere efficiente anche in termini temporali, ma il dispiegarsi del processo fino alla decisione ha i suoi tempi. Si pensi alle condizioni attuali del lavoro in Corte di cassazione (c’è stato un tempo “lontano” in cui i giudici della cassazione avevano modo e tempo di studiare le monografie per risolvere i casi che si prospettavano; oggi, la Corte di Cassazione è definita un “sentenzificio”, che sempre con maggiore difficoltà consente di assolvere adeguatamente al fondamentale ruolo di nomofilachia). Ai giudici deve essere garantito un tempo necessario e prezioso, che nella prospettiva di efficientamento degli ultimi tempi scompare, che è il tempo della decisione! Quante volte la decisione deve maturare nel convincimento del giudice, dinanzi a diverse opzioni che si prospettano nella valutazione del fatto e nella interpretazione giuridica? Ecco, ai giudici non deve mai essere sottratto questo tempo, perché il rischio è la creazione di una categoria ottusa e burocrate, attenta alle forme e alle procedure, ma indifferente rispetto all’in sé della giurisdizione, ossia il contenuto della decisione. E non aiutano in questa prospettiva tutte le norme della riforma Cartabia che accentuano il carrierismo e la verticalizzazione degli uffici giudiziari, anche giudicanti, ad esempio introducendo le “pagelle” o nuovi illeciti disciplinari, per il mancato rispetto delle “direttive” (quali? Con quale contenuto?). Ecco, in conclusione, chiediamoci se la figura di giudice, pressato dalla richiesta di una sempre più alta produttività, impaurito dalla introduzione di nuovi illeciti disciplinari, asservito nelle gerarchie degli uffici giudiziari, possa svolgere con serenità ed autorevolezza il gravoso compito di amministrare la giustizia che gli è stato affidato. La prescrizione, quello strumento di civiltà giuridica che si continua a riformare di Alessandro Parrotta* Il Dubbio, 7 ottobre 2023 Ritorna a gran voce il dibattito intorno a uno degli istituti più dibattuti e divisivi del sistema processuale penale italiano: la prescrizione. Sebbene considerata, da alcuni, indispensabile strumento di civiltà giuridica e di contrasto all’irragionevole durata dei processi, da altri, strumento che frusta le esigenze di chi, domandando giustizia, per via del mero decorso del tempo, se la vede negare a tutto “vantaggio” di chi quel reato ha commesso, non andrebbe tuttavia mai dimenticata la sua intima finalità: l’istituto della prescrizione è espressione - prima di tutto di un ben preciso concetto, ossia che con l’allontanarsi del momento della commissione del reato si affievolisce sempre più la funzione della pena, dal punto di vista general- preventivo e, ancor più, da quello special-preventivo. A dimostrazione di quanto questa materia sia più viva che mai, valga ricordare come non meno di un paio di settimane fa chi scrive commentava (con qualche riserva) la proposta del Guardasigilli Nordio di modificare il regime di decorrenza del termine prescrizionale non più, come ora, dal tempus commissi delicti - quindi dal momento di consumazione del reato - bensì da quello della scoperta da parte dell’Autorità inquirente, momento che formalmente si fa coincidere con l’acquisizione della notizia di reato e la sua immediata iscrizione a registro da parte del Pubblico Ministero. È notizia di pochi giorni fa quella per cui la Commissione giustizia della Camera ha votato come testo base la proposta di Pietro Pittalis di Forza Italia, che, come detto sia dallo stesso autore sia dal relatore di maggioranza Andrea Pellicini (FdI), porterebbe a un ritorno alla ex Cirielli, dunque a un’autentica prescrizione a carattere interamente sostanziale. In buona sostanza il tempo di estinzione dei reati correrebbe in tutti i gradi di giudizio, cancellando tanto l’improcedibilità della riforma Cartabia quanto il blocco dopo la sentenza di primo grado della riforma Bonafede e impedendo la dichiarazione della prescrizione in fase di impugnazione come previsto dalla riforma Orlando. La riforma Cartabia, come noto, introduceva una prescrizione processuale (rectius improcedibilità dell’azione penale) fissando un termine temporale entro il quale avrebbero dovuto concludersi i giudizi di impugnazione, altrimenti il processo si sarebbe estinto. Molteplici - come noto - sono state le questioni sollevate dal nuovo impianto normativo, tanto sul piano della costituzionalità quanto dal punto di vista processual-penalistico e operativo. Con l’attuale proposta si va verso un ritorno anche in secondo e terzo grado della prescrizione sostanziale (cioè l’estinzione del reato e non del processo) che scatta una volta trascorso un tempo equivalente al massimo della pena prevista (aumentato, di regola fino a un quarto, per effetto delle interruzioni). Sulla base del testo licenziato, del tutto provvisorio, si tratterebbe di una modifica ai due articoli del codice penale in materia di sospensione e interruzione del corso della prescrizione. L’idea della prescrizione processuale nasce, per l’appunto, dall’equivoco che la prescrizione sostanziale sia funzionale a garantire la ragionevole durata del processo. E, tuttavia, tale assunto è destinato a rivelarsi fallace se si guarda alle due finalità effettive della prescrizione sostanziale: da un lato, la funzione rieducativa della pena, che sarebbe frustrata se la pena fosse eseguita a troppa distanza dalla commissione del fatto, dall’altro, l’oblio che il decorso del tempo determina sulla memoria del reato, riducendo progressivamente l’interesse alla sua persecuzione. Tanto la funzione rieducativa della pena quanto l’oblio sulla memoria del reato, connesso al trascorrere del tempo, esigono che i termini di prescrizione siano commisurati non alla durata del processo ma alla distanza tra il tempo di commissione del reato e quello di espiazione della pena; dunque, è solo in rapporto a tali estremi che va valutata l’adeguatezza dei termini di prescrizione. Le tappe successive della proposta di legge seguiranno l’ordinario iter parlamentare: successivamente alla presentazione degli emendamenti al testo base adottato in Commissione Giustizia, per la cui scadenza è stata calendarizzata la data del 9 ottobre, il provvedimento sembrerebbe esser atteso in Aula alla Camera il 27 ottobre; sempre che non arrivi prima il Guardasigilli Nordio, anch’egli deciso a rinnovare la materia, con un disegno di legge di fonte governativa. *Avvocato, Direttore Ispeg Il tentativo inaccettabile di asservire i pm alla politica di Glauco Giostra* Il Domani, 7 ottobre 2023 Il vicepremier Matteo Salvini ha attaccato la magistrata del tribunale dell’immigrazione, chiedendo la separazione delle carriere. Ma i due fatti non possono avere nulla a che vedere uno con l’altro, a meno che non voglia far capire che la separazione serva a fare in modo che il governo possa garantirsi un presidio politico in sede giudiziaria. Inaccettabile e inquietante il polverone polemico sollevato intorno al provvedimento della giudice di Catania che non ha convalidato un trattenimento in Cpr. Ometto il nome perché i magistrati non devono comparire in prima pagina, né per esecrabili linciaggi mediatici, come in questo caso; né per narcisistici sfoggi autopromozionali, come pure è accaduto: la collettività deve giudicare le parole della giustizia, non le labbra che le hanno pronunciate. Ovviamente la decisione, come ogni altro provvedimento giurisdizionale, può essere valutata e, se del caso, criticata, censurando l’itinerario logico-giuridico che ne è alla base, con argomenti di diritto, usando parole tanto più misurate, quanto più alto è il ruolo istituzionale ricoperto. Ove si sia legittimati, poi, si possono naturalmente attivare i rimedi giurisdizionali: ineccepibile, al riguardo, il preannuncio di un ricorso in Cassazione del ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi. Inaccettabile è, invece, la lapidazione mediatica con pietre verbali gravemente lesive dell’immagine e della reputazione della magistrata di cui non si condivide il pronunciamento. Accusare la giudice che ha emesso il provvedimento in questione di essere “nemico della sicurezza nazionale”, “legislatore abusivo”, “scafista in toga”, “toga rossa che rema contro” significa ammettere di dover ricorrere ad argomenti ad personam in mancanza di argomenti ad rem. E significa anche confessare il proprio analfabetismo costituzionale. Inquietante, poi, il rimedio invocato per evitare che simili, non gradite decisioni si ripetano. Più di una penna di noti giornalisti in questi giorni si è avventurata a sostenere che la vicenda in questione conferma quanto sia urgente una riforma della giustizia. Sarebbe interessante capire quale riforma, diversa da una selezione politica dei magistrati tale da renderli fedeli funzionari della maggioranza al potere, possa dare l’auspicata garanzia. Cosa c’entrano le carriere? Il vicepresidente del Consiglio, Matteo Salvini, ha spiegato che, quanto al presente, “la Lega chiederà conto del comportamento del giudice siciliano in parlamento” (un anacoluto costituzionale), quanto al futuro, bisognerà evitare che i tribunali possano “essere trasformati in sedi della sinistra”, precisando che “è con questo spirito” che sarà apprestata “la riforma della giustizia, con separazione delle carriere e responsabilità civile dei magistrati che sbagliano”. A una persona dell’esperienza e della cultura politica del ministro Salvini non sfugge di certo che la separazione delle carriere non ha nulla a che fare con l’obbiettivo perseguito. A meno che, con rispettabile franchezza, non voglia far capire che la separazione dovrà secondo lui comportare una dipendenza del pubblico ministero dall’esecutivo, in modo che il governo possa garantirsi un presidio politico in sede giudiziaria. Ma soltanto l’altro ieri il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, al congresso dei magistrati di Area, ha solennemente affermato che la dipendenza del pubblico ministero dall’esecutivo è una bestemmia. Non resta che sperare che questi opposti “catechismi” governativi in materia paralizzino la preannunciata riforma della giustizia penale di cui, prima ancora che gli effetti, preoccupano le ragioni ispiratrici. Dietro alle quali talvolta affiora anche l’allarmante obbiettivo della normalizzazione giudiziaria, esplicitato con ruvida schiettezza dall’onorevole Maurizio Gasparri: “La magistratura è da tempo il primo problema del paese. Altro che riforma, servirebbe una rifondazione di una Istituzione che appare nemica delle esigenze primarie degli italiani”. *Giurista Chi giudica deve essere indipendente, non neutrale di Mariano Croce* Il Domani, 7 ottobre 2023 A proposito della giudice Apostolico di Catania, s’è fatta una scoperta che scandalizza le anime belle: i/le giudici hanno idee, e tentano di farle valere. Idee tutte loro, che rischiano d’inquinare la terzietà del giudizio, specie quando chi giudica ne dà esecrabile sfogo in pubbliche manifestazioni. Questa scoperta a me sembra un’ingenuità studiata. S’è fatta una scoperta che scandalizza le anime belle: i/le giudici hanno idee, e tentano di farle valere. Idee tutte loro, che rischiano d’inquinare la terzietà del giudizio, specie quando chi giudica ne dà esecrabile sfogo in pubbliche manifestazioni. Questa scoperta a me sembra un’ingenuità studiata. Certo - si dirà a proposito della giudice Apostolico - la questione non è tanto nutrire idee, quanto renderle pubbliche in forme troppo vistose (e a portata di videocamera). Ma al di là della deontologia professionale, di cui qui non tratto, c’è una questione, se si vuole, assai più prosaica, che formulo a mo’ di domanda: il grado con cui un? giudice dissemina di convincimenti personali la propria attività di giudice dipende forse dalla vistosità dei comportamenti che li manifestano? Mi sento di dubitarne, perché immagino esistano in gran numero magistrat? che orientano le proprie decisioni sulla base di una specifica comprensione del mondo, benché nessun? ne sia a conoscenza, persino tra le mura domestiche. È ora di farsi un’idea meno incantata di cos’è e come funziona il diritto, magari per sfruttarne appieno le potenzialità e limitarne altresì i rischi d’esorbitanza. Quanto da decenni vien fuori nei reiterati, spesso pretestuosi, battibecchi tra la classe politica e la magistratura non è tanto l’accanita tendenza del potere giudiziario a intronarsi censore dei costumi e precettore sociale - tendenza che esiste, vivace e vivida, da che l’essere umano ha inventato il diritto alcuni millenni fa. C’è assai di più: cigola e cricchia quell’impalcatura un po’ vetusta che a lungo ha presentato il potere giudiziario come la bouche de la loi, cioè come il fedele applicatore della volontà del potere legislativo, capace di recepire ed eseguire l’indirizzo del legislatore come fosse l’automa meccanico delle principesche Wunderkammer. Si trascura in tal modo un dato di sconcertante evidenza: le più importanti riforme nel campo dei diritti civili, specie (ma non solo) quelli relativi alle minoranze sessuali, hanno riportato i primi successi nelle aule di tribunale. Le Corti si sono dimostrate meno pavide e più ricettive nei riguardi di pretese di cittadin? che riportavano discriminazioni e lamentavano inefficienze. I tribunali hanno servito sia da cassa di risonanza sia da promotori di conflitti tra parti contrastanti della legge, così da muovere il legislatore all’intervento, per quanto pigro e perlopiù manchevole. A mio avviso, quel che più rileva dell’attività di chi giudica non è la neutralità (se per questa s’intende la chimerica assenza di preferenze politiche e orientamenti etici), bensì l’imparzialità e l’indipendenza. Chi giudica deve servirsi del testo di legge come filtro e guida nella comprensione di quanto accade per dare piena applicazione alle tutele previste dal diritto. Chi giudica, com’è ovvio, non può far uso del diritto per assicurare privilegi a una parte anziché a un’altra. Ma soprattutto, chi giudica dev’essere indipendente, vale a dire, non deve orientare la condotta e fare valutazioni sotto la costrizione, circostanziale o strutturale, del potere politico. L’attività delle Corti, oggi più che in passato, opera di fatto da motore ausiliario entro un più ampio e informale processo legislativo. Prima ci si avvede di questa metamorfosi in fieri, meglio la si potrà disciplinare per una più efficace ripartizione delle competenze tra i poteri. Se ne dispiaceranno i followers di certi profili social - almeno fintantoché non servirà loro ricorrere in giudizio per le palesi iniquità che certe leggi, per colpa o dolo, producono nelle loro vite. *Filosofo Non c’è nulla a cui dover “resistere”: è ora che i magistrati scendano dalle montagne di Tiziana Maiolo Il Dubbio, 7 ottobre 2023 La vecchia Magistratura Democratica, quando era l’unica corrente di sinistra delle toghe, l’ha sempre teorizzato, che i giudici dovessero immergersi anima e corpo nella società per proteggere i deboli dalla forza del Potere, scritto sempre con la P maiuscola. Erano gli anni dei “pretori d’assalto” e dei processi collettivi. E furono anche gli anni in cui gran parte della sinistra comunista abdicò alla “lotta di classe” per trasferirsi armi e bagagli nelle aule di tribunale, a delegare ai compagni magistrati il compito della presa della Bastiglia. Una certa forma di lotta politica entrò allora, erano gli anni settanta del novecento, nei palazzi di giustizia. E non ne uscì più. Generazioni di magistrati si formarono su quella storia. Nacquero ed entrarono nei palazzi di giustizia discendenti di quei pretori, già politicizzati. E convinti di essere portatori di un diritto in più, quello di scrivere la storia. Con questo nobile retroterra alle spalle, non stupisce quindi che una nuova corrente sindacale di sinistra dei magistrati, che si chiama “Area”, abbia svolto un congresso mettendo a sedere in prima fila come interlocutori privilegiati Elly Schlein e Giuseppe Conte. E poi, senza che i due prestigiosi interlocutori politici abbiano battuto ciglio di fronte a un palese tentativo di tracimare oltre il principio della divisione dei poteri dello Stato, abbiano lanciato un appello a “resistere alla restaurazione, uscendo dalle aule dei tribunali”. Davide Varì, sul Dubbio del 4 ottobre scorso, ha già posto domande di non poco conto, chiedendosi se sia compito dei magistrati lasciare le proprie case, cioè i tribunali, per andare a prender parte del pubblico dibattito. E anche se sia legittimo, da parte di un soggetto che non può essere politico anche perché non viene eletto, cercare il consenso dei cittadini al proprio operato. Magari mettendosi ance in posizione critica dei confronti di chi è legittimamente al governo. Ma quel che colpisce maggiormente, è l’uso di quel verbo, “resistere”. Che ci ricorda altri personaggi e altri comportamenti. Non è una forma di resistenza, per esempio, da parte di un magistrato, partecipare a una manifestazione pubblica di protesta contro provvedimenti del governo (ma anche del Parlamento), come per esempio quelli sull’immigrazione, soprattutto se qualche frangia estremista urla slogan violenti contro la polizia? Nulla di personale nei confronti della giudice di Catania che ha emesso la sua discussa sentenza su tre casi di immigrazione. Però credo che nessuno di noi, di destra o di sinistra, vorrebbe essere giudicato da un magistrato che si è dimostrato, nella sua vita pubblica, essere così di parte. E’ quel che è successo a Augusto Minzolini, che si è ritrovato a essere indagato o giudicato da un magistrato che nella vita precedente era stato suo oppositore politico in Parlamento. Porte girevoli, ma non solo. Urgenza di separare le carriere, ma non solo. Speranza in un futuro riformatore in cui il pubblico ministero debba render contro a qualcuno del proprio operato e non essere un soggetto che può muoversi come una variabile impazzita che agisce con le regole della roulette russa. Ma non solo. Il verbo “resistere” è inquietante, se pronunciato da una toga. Perché la colloca immediatamente in un altrove dove albergano le opposizioni politiche. Cioè coloro che hanno perso le elezioni, ma che comunque si sono sottoposti, legalmente e pubblicamente, al giudizio dei cittadini. I magistrati non vincono le elezioni, vincono un concorso. Se lo superano vuol dire che hanno studiato, che conoscono regole, leggi e codici. Il che per noi cittadini è confortante. Ma da loro ci aspettiamo giustizia, e soprattutto terzietà. Non resistenza. Non parliamo di quella sui monti con il fucile in mano, per lottare contro una dittatura. Ma neanche di quella contro la legalità di un risultato elettorale. La giudice Iolanda Apostolico da un lato, e dall’altro i suoi colleghi di Area, sul piano della “resistenza” hanno un illustre predecessore, il procuratore di Milano dei tempi di Mani Pulite, Saverio Borrelli. Il suo nome è ricomparso sui giornali proprio ieri, in occasione della decisione del Comune di Milano di ospitare al Famedio, il Pantheon di coloro che fecero grande Milano, Silvio Berlusconi. La figlia del magistrato scomparso ha lamentato la contiguità delle spoglie dei due personaggi compianti. Per chi non dimentica quel “resistere, resistere, resistere” pronunciato a un’inaugurazione dell’anno giudiziario a Milano da quel procuratore nei confronti proprio del governo Berlusconi, la lamentazione della figlia appare quanto mai incongrua. Se fosse nel loro stile, e non lo è, non stupirebbe la protesta da parte dei figli di Berlusconi per quella convivenza. Perché quel giorno il procuratore di Milano aveva veramente oltrepassato ogni limite del principio della divisione dei poteri. Ma ancora maggior danno aveva fatto, alcuni anni dopo, quando aveva esplicitamente detto che se avesse saputo quel che sarebbe accaduto dopo la fine della prima repubblica, cioè la vittoria di Berlusconi alle elezioni del 1994, forse non sarebbe valsa di pena di tutto quel che era stato fatto sul piano giudiziario. La conferma dello scopo politico delle inchieste su Tangentopoli. Ecco perché sarebbe bene non solo che i magistrati evitassero di andare alle manifestazioni, ma anche e soprattutto che il loro sindacato, di qualunque corrente si tratti, si rendesse conto del fatto che il giudice non deve proprio “resistere” a un bel niente. In Italia non c’è il fascismo, come non c’era ai tempi di Berlusconi e Borrelli. Sarebbe ora che un po’ tutti se ne facessero una ragione. E che iniziassero a scendere dalle montagne. Brescia. Detenuto muore in cella: indagini sui soccorsi e sulle cause del decesso di Andrea Cittadini giornaledibrescia.it, 7 ottobre 2023 Di certo c’è solo l’epilogo. Drammatico in un contesto non facile. Se questo poteva essere evitato lo dovranno stabilire le indagini. La Procura ha infatti aperto un’inchiesta sulla morte a Canton Mombello di un detenuto bresciano di 51 anni. Un “veterano” del carcere cittadino, soprattutto per reati legati allo spaccio di droga. Mercoledì è stato stroncato da un arresto cardiaco nella sua cella al quarto piano. Pur affetto da patologie, e quindi destinato al pian terreno di Canton Mombello per una maggiore comodità di intervento in caso di necessità, aveva ottenuto, firmando una liberatoria, di poter essere trasferito al quarto piano per stare con altri detenuti. Trento. Carcere di Spini, Nordio assicura più risorse e personale di Alessandro Rigamonti Corriere del Trentino, 7 ottobre 2023 All’Università di Trento ieri il grande ospite è stato il ministro della Giustizia Carlo Nordio, il quale ha partecipato al convegno organizzato alla facoltà di Giurisprudenza. A margine del suo intervento, il ministro ha parlato anche del caso della giudice Apostolico, del carcere di Trento e di Chico Forti. L’incontro in Università era intitolato “La responsabilità per colpa: per una elaborazione condivisa del concetto di colpa nel giudizio di responsabilità civile e penale”. Il ministro ha parlato soprattutto della “colpa professionale” del medico e l’utilizzo della medicina difensiva: “Noi dobbiamo passare dalla ragion pura alla ragion pratica. Non possiamo ignorare che sotto le discussioni che si fanno ci sono dei problemi pratici da risolvere - ha spiegato Nordio - Ad esempio i costi della medicina difensiva: il medico per tutelarsi spesso prescrive esami costosi e inutili”. La soluzione, grazie anche al lavoro che una commissione ad hoc sta svolgendo, è quella di “introdurre delle riforme procedurali per mantenere la serenità del medico, che poi è la serenità del paziente”. All’uscita dall’incontro, intercettato dai giornalisti, Nordio ha commentato anche alcune delle partite che animano il dibattito locale, parti re dalla mancanza di personale nel carcere di Spini: “Stiamo già provvedendo, i numeri non posso darli, ma sono già operative le iniziative e, nei limiti del possibile, sarà potenziato il personale e il patrimonio di risorse impiegato”. Dentro la casa circondariale di Spini di Gardolo, secondo gli ultimi dati, ci sono 362 detenuti, oltre il 50% della capienza prevista. Nordio ha anche parlato della questione riguardante la giudice di Catania Iolanda Apostolico. La giudice è al centro delle polemiche perché, do poche non ha convalidato il trattenimento di quattro tunisini, è stata accusata di non essere imparziale. Soprattutto dopo che il Vicepremier Matteo Salvini, sui suoi canali social, aveva condiviso un video della giudice in un corteo del 2018 per la nave Diciotti. Le opposizioni hanno accusato il governo di dossieraggio. “Dell’episodio di Catania sappiamo quello che abbiamo letto sui giornali, quindi notizie ufficiose sulle quali è giusto fare accertamenti. È nostro dovere accertare quello che è stato detto, anche per le interrogazioni parlamentari - ha affermato Nordio - In linea più generale vorrei dire che mi sembra molto singolare che si parli di invasività della sfera privata di una persona quando vengono diffuse le sue immagini in un evento pubblico: se l’evento è pubblico la privacy non viene violata. Mi sono dolorosamente stupito che questa osservazione, su invasività e addirittura dossieraggio, riguardi comportamenti che sono pubblici. Così come sui social network è stata la stessa persona a voler esporre la propria privacy”. Invece, il ministro ha affermato che non c ‘è nessuna novità per quanto riguarda il caso di Chico Forti, l’ex imprenditore trentino condannato all’ergastolo negli Usa per omicidio e da 23 anni in un carcere della Florida. Ferrara. Mancata nomina del Garante dei detenuti, delusione a livello regionale estense.com, 7 ottobre 2023 Roberto Cavalieri, Garante regionale dei detenuti: “Nonostante fossero pervenute candidature con profili di interesse nella commissione consiliare competente è stato annunciato l’annullamento del bando”. Roberto Cavalieri, garante regionale dei detenuti dell’Emilia-Romagna, esprime delusione per la mancata nomina del garante dei detenuti del Comune di Ferrara. Infatti, “nonostante fossero pervenute candidature con profili di interesse - rimarca il garante - nella commissione consiliare competente è stato annunciato l’annullamento del bando”. “Rimane, quindi, delusa l’attesa nomina del nuovo garante dei Detenuti del Comune di Ferrara. La casa circondariale di Ferrara, dunque, resterà senza un garante, che manca dallo scorso febbraio quando è improvvisamente scomparso Francesco Cacciola che ricopriva l’incarico dal 2021?. “Alla delusione - sottolinea Roberto Cavalieri - si affianca un sentimento di preoccupazione per la sorte della necessità di ascolto dei bisogni dei ristretti nella Casa circondariale di Ferrara, un istituto complesso e che deve anche affrontare l’ampliamento con un nuovo padiglione per 80 detenuti”. “I garanti locali dell’Emilia-Romagna - continua - quest’anno hanno dato vita a un coordinamento regionale dei garanti, che, purtroppo, continuerà a registrare l’assenza del collega di Ferrara”. Nell’istituto di Ferrara, che ospita 368 detenuti (di cui la metà stranieri) in una struttura con una capienza regolamentare di 244 posti, sono reclusi detenuti di media sicurezza, parte dei quali autori di reati di riprovazione sociale, condannati per reati di terrorismo e collaboratori di giustizia. “Lo scorso anno - conclude il garante Cavalieri - il ministero della Giustizia aveva annunciato nuovi investimenti di edilizia carceraria nell’ambito dei fondi complementari al Pnrr, prevedendo la costruzione di un nuovo padiglione per 80 detenuti. Una scelta che rischia di amplificare le criticità già presenti nell’istituto”. Palermo. Bernardini sul caso al Pagliarelli: “Nordio prima di firmare almeno legga le carte…” di Angela Stella L’Unità, 7 ottobre 2023 “Nella risposta all’interrogazione di Giachetti si mette nero su bianco la compressione del diritto di difesa. Non so chi prepara queste risposte, ma lui potrebbe dare un’occhiatina”. Il Ministro Nordio ha risposto all’interrogazione del deputato di Italia Viva Roberto Giachetti, avente ad oggetto una presunta lesione del diritto di difesa di un detenuto con pena definitiva ristretto al Pagliarelli di Palermo. I fatti: l’avvocato marsalese Vito Cimiotta ha presentato una denuncia perché al suo assistito “è stato imposto di specificare i motivi specifici che lo hanno indotto ad avanzare la richiesta di colloquio telefonico con il suo difensore. L’avvocato ha inviato una segnalazione anche alla Ong Nessuno tocchi Caino”. Secondo quanto riferito all’interrogante dalla presidente di Nessuno tocchi Caino, Rita Bernardini, “la prassi di dover motivare la richiesta di colloquio telefonico con il difensore è diffusa in molti istituti penitenziari, soprattutto per i detenuti condannati a pena definitiva”. Pertanto Giachetti ha chiesto delucidazioni al Guardasigilli che ha fornito una complessa risposta. In pratica “Richiedere ai ristretti di precisare i motivi processuali o valutare la vicinanza temporale del colloquio visivo con il difensore, non risponde per la direzione penitenziaria a un rigetto in senso assoluto, bensì all’applicazione più autentica del principio di equità che, nel caso di specie, si traduce nella valutazione differenziata dei casi pratici di volta in volta posti all’attenzione dell’Autorità competente a decidere, proprio in virtù delle differenze oggettive che li caratterizzano”. Da “verifiche effettuate a campione, sono emerse modalità organizzative differenti: vi sono infatti istituti penitenziari dove i detenuti, sia comuni che alta sicurezza, possono contattare i difensori tutti i giorni senza alcun limite quantitativo e vi sono istituti dove invece i detenuti possono fruire di un numero limitato di telefonate ordinarie, per cui, se chiedono di effettuare ulteriori telefonate, queste vengono conteggiate come straordinarie e devono presentare apposita istanza autorizzata dal Direttore”. Per Nordio “il diritto al colloquio col difensore - sia esso visivo o telefonico - non può ritenersi suscettibile di compressione; nel suo concreto esercizio, tuttavia, e ragionevolmente, esso potrà essere modulato - e non bilanciato - rispetto agli altri interessi in gioco e segnatamente alle esigenze tecnico-materiali e organizzative dell’istituto di pena”. Commenta Rita Bernardini, Presidente di Nessuno Tocchi Caino: “Io non so chi prepara le risposte a Nordio, certo è che potrebbe dare un’occhiata prima di metterci la firma. Nella sostanza, si ribadisce che per parlare con il proprio difensore i detenuti definitivi devono essere autorizzati dalla Direzione indicando nella richiesta i motivi per i quali si intenda telefonare. Il diritto di difesa, viene scritto nero su bianco, viene così compromesso nella fase dell’esecuzione penale. Mi chiedo: se un detenuto deve consultarsi con il proprio legale perché ha subito un pestaggio, ha senso che motivi al Direttore la sua richiesta?”. Bolzano. Corsi antiviolenza per gli uomini: iscrizioni triplicate di Daria Shmitko Corriere dell’Alto Adige, 7 ottobre 2023 Osthoff (Caritas): insegniamo a gestire i conflitti ma valori patriarcali sono ancora radicati. In due anni il numero degli iscritti al training antiviolenza organizzato dalla Caritas è quasi raddoppiato, complice una cresciuta consapevolezza degli uomini rispetto alla violenza di genere. Ma è anche una conseguenza del Codice Rosso che obbliga gli uomini a intraprendere questo percorso. Il responsabile Guido Osthoff: “Insegniamo a gestire i conflitti, ma viviamo in una società nella quale i valori patriarcali sono ancora molto radicati. L’importante è responsabilizzare”. Le iscrizioni al corso sono in crescita? “Nel 2021 erano 36, nel 2022 il numero è aumentato a 58. Quest’anno siamo già a 78, e potrebbero ancora arrivare nuove persone. Un aumento notevole che però non significa che la violenza sia aumentata. Sempre più uomini sono disposti a frequentare il training di loro spontanea volontà ma ci sono anche casi in cui sono obbligati”. In che senso obbligati? “Grazie alla legge n del 2019 conosciuta come Codice Rosso. Se fanno questo percorso, possono evitare il carcere oppure ottenere uno sconto della pena. Anche i servizi sociali e il Tribunale dei minori inviano uomini violenti che, grazie alla frequenza, saranno facilitati a incontrare i figli. Anche se è solo una proposta senza vincoli legali funziona da incentivo. Chi è condannato per reati da Codice Rosso deve pagare il costo del training, 1800 euro. Per altri è gratuito”. Però i migliori risultati si ottengono quando la partecipazione è volontaria... “Certo perché l’uomo prende consapevolezza dei suoi problemi di aggressività e frustrazione all’interno della coppia e cerca una soluzione insieme alla sua compagna in modo pacifico. Chi arriva al nostro training non è riuscito a trattenersi, ha dato una spinta, uno schiaffo o aggredito verbalmente. A volte nel primo incontro l’uomo nega la violenza. Ma a volte capita che si vergogni a raccontare la sua esperienza, che può essere un segnale positivo, l’importante è rendersi conto che bisogna cambiare. Purtroppo gli uomini consapevoli di aver bisogno del training sono solo un’esigua minoranza”. È un percorso di gruppo, però alcune sedute sono individuali… “Per prima cosa l’uomo si mette in contatto con noi. Facciamo i primi tre colloqui, individuali. Se l’uomo nega totalmente i fatti, non può partecipare al training. Noi ci scambiamo informazioni con i servizi sociali, le case delle donne e i tribunali e non mi è mai capitato che la violenza fosse falsa. Offriamo poi alla vittima consigli riguarda la sua sicurezza e per sapere la sua versione dei fatti. La collega che contatta le vittime non incontra mai gli autori di violenza e non è influenzata dalle loro risposte. Questo per assicurare che la vittima e i minori siano protetti, che è il nostro primo obiettivo”. Che strategia usate per elaborare la violenza? “Importantissimo è responsabilizzare. Ad esempio, può accadere che la mia compagna si sia comportata male con me, ma sono sempre io il responsabile delle mie azioni. Posso decidere di chiudere il rapporto perché lei mi ha ferito, non devo per forza agire con violenza, ma piuttosto trovare altre strategie per uscire dal conflitto in modo pacifico. Il lavoro più difficile è sulla cultura delle relazioni: i valori patriarcali e di violenza sono ancora molto radicati nella nostra società. Fino agli anni 80, se un uomo uccideva la moglie e poteva dimostrare che lei lo aveva tradito, otteneva la riduzione della pena. In Germania invece la donna prima di firmare il contratto di lavoro doveva avere il consenso del marito. Un’altro esempio è la Svizzera dove le donne hanno ottenuto il diritto di voto da soli 50 anni”. Dopo il corso? “Io consiglio sempre agli uomini di continuare ad essere seguiti da noi per affrontare disagi, delusioni o frustrazioni. Questo abbassa di molto i rischi di ricaduta nella violenza, perché in realtà gli uomini sono a rischio anche dopo il training”. Palermo. Rita: “A piccoli Passi, la nostra missione con i bimbi dello Zen” di Elisabetta Soglio Corriere della Sera - Buone Notizie, 7 ottobre 2023 La giovane educatrice con la collega Miriam accompagnano i piccoli in un percorso didattico nel quartiere Zen di Palermo: il progetto con la Fondazione Con i Bambini. “Quello che stiamo facendo è toccare delle anime, in modo assolutamente reciproco: i bambini toccano le nostre e stanno lasciando un segno nella nostra vita come educatrici. Abbiamo la consapevolezza che stiamo lasciando una parte di noi in loro, e che questa parte potrebbe essere dimenticata, ma comunque rimarrà sempre presente. Ed è forse la parte più bella e soddisfacente del nostro lavoro”. È il racconto di Rita, una delle educatrici del progetto “P.A.S.S.I. - Promozione e Accompagnamento ai servizi e alla scuola dell’infanzia”, selezionato da Con i Bambini nell’ambito del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile e realizzato nel quartiere Zen di Palermo dall’associazione Laboratorio Zen Insieme in partnership con il Comune di Palermo, l’associazione culturale Accademia La bottega delle percussioni, la cooperativa sociale Orto Capovolto e l’associazione culturale Piccolo Teatro Patafisico. Un’esperienza di crescita individuale, ma soprattutto un’occasione collettiva per prevenire la povertà educativa oggi, così da non doverla contrastare domani. A partire dai più piccoli, bambini e bambine da 0 a 3 anni che per la prima volta si ritrovano in un contesto di scolarizzazione e in un ambiente che li aiuta e supporta per potere sviluppare al meglio le loro abilità, dal punto di vista motorio e psicolinguistico. L’obiettivo principale del progetto P.A.S.S.I è preparare i bambini all’ingresso nel mondo della scuola, assieme alle loro famiglie. Un percorso ambizioso che ha come destinatari dodici bambini e bambine presi in carico all’interno dell’istituto comprensivo Sciascia del quartiere Zen. Grazie alla didattica sperimentale dei laboratori artistici e manuali, i bambini apprendono nuovi linguaggi, in un processo educativo che mette al centro i loro desideri, talenti e diritti. Le educatrici Rita e Miriam accompagnano i piccoli in un percorso di gioco e scoperta che sviluppa i cinque sensi. “È un’esperienza formativa unica - raccontano - perché il rapporto che si crea all’interno della classe con i bambini e le bambine è quello di un reciproco scambio: tutto quello che di supporto diamo loro, tanto è restituito a noi durante le attività didattiche”. Tra i linguaggi scelti ci sono anche la musica e il teatro. “La metodologia che utilizzo si basa sul modello Gordon, che insegna quanto la musica sia linguaggio e vada condivisa sin dalla più tenera età in ogni gesto quotidiano - racconta Irene Ientile, educatrice musicale del progetto P.A.S.S.I. - Cerchiamo di somministrare loro materiale musicale non del tutto consueto, partendo dal presupposto che ai bambini e alle bambine non si debba insegnare musica semplice, ma che la diversità dei modi e dei generi musicali sia una grande ricchezza”. Venezia. “Morto per gravi lesioni cerebrali”: ecco i risultati dell’autopsia dell’uomo deceduto a Psichiatria di Vera Mantengoli La Repubblica, 7 ottobre 2023 Ritrovato dai familiari con naso e zigomi rotti ed edema cerebrale. I medici legali scrivono di “lesioni traumatiche all’encefalo del paziente ricoverato”. Sarebbe morto per gravi lesioni cerebrali Bruno Modenese, l’ex pescatore di Pellestrina di 45 anni, entrato di sua spontanea volontà per un ricovero in Psichiatria lo scorso sabato 16 settembre senza più uscirne. Dopo pochi giorni, ai familiari è stato comunicato il decesso martedì 19 settembre per arresto cerebrale, ma nessuno del personale sanitario ha spiegato perché avesse naso e zigomi rotti e un edema cerebrale. L’autopsia - I primi risultati dell’autopsia, eseguita all’obitorio dell’ospedale dell’Angelo giovedì 5 dalla medica legale Barbara Bonvicini e dal chirurgo maxillo-facciale Guido Bissolotti, confermano la presenza di “lesioni pluridistrettuali e, in particolare, lesioni traumatiche sull’arco zigomatico e della piramide nasale, nonché di lesioni traumatiche all’encefalo del paziente ricoverato” come fanno sapere i legali della famiglia, gli avvocati Augusto Palese, Renato Alberini e Gian Luca De Biasi. A breve dovrebbe arrivare venerdì mattina è arrivato il nulla osta che permetterà ai familiari di organizzare il funerale per l’ultimo saluto a un uomo che è stato ricordato pochi giorni fa in una fiaccolata nell’isola partecipata da quasi un migliaio di persone. La cerimonia è prevista per mercoledì 11 ottobre. I tre indagati: due infermieri e un medico - Per adesso nessuno si sbilancia, ma l’ipotesi che sia stato picchiato, come sostiene la famiglia, potrebbe confermarsi vera. A oggi sono indagati due infermieri e un medico del reparto di Psichiatra. Per capire le cause della morte bisognerà però aspettare i risultati di tutti gli esami che via via verranno depositati entro 90 giorni dagli esperti incaricati dalla Procura e dalla pm Daniela Moroni. Tecnicamente sembra che il decesso sia stato causato da gravi lesioni cerebrali, ma le domande che rimangono senza una risposta sono ancora tantissime. È stato picchiato? E da chi? E se così fosse, si sarebbe potuto salvare? Quante medicine aveva in corpo quando è entrato e quando è deceduto? Chi c’era in quei giorni nel reparto? Perché nessuno ha parlato? “Quello scatto violento” - Da quanto riportato da uno dei due infermieri indagati, Modenese, una volta ricoverato, si è opposto con uno scatto violento ai medici che volevano fargli una puntura perché non sopportava gli aghi. A quel punto l’infermiere racconta di essersi mezzo in mezzo tra lui e il medico, ma senza l’uso di violenza. In seguito, il paziente si sarebbe calmato e tutto sarebbe proceduto in maniera normale. Come spiegare allora l’improvviso trasferimento in Rianimazione, avvenuto il giorno dopo? Tanti quesiti che non fanno dormire la famiglia dall’angoscia. Dal suo ingresso in Psichiatria, avvenuto perché era in stato confusionale, i familiari non lo hanno più rivisto fino a lunedì sera. “Quando l’ho visto ridotto in quel modo mi hanno detto che poteva essere caduto in bagno, ma abbiamo testimoni che è entrato sano e senza un graffio”, ribadisce il fratello. In ogni caso il regolamento non prevede che certi utenti vengano lasciati soli, in particolare subito dopo un ricovero. I medici e i consulenti - L’autopsia è iniziata giovedì mattina alle 11 e si è conclusa molte ore dopo. Erano presenti i dottori Gianni Barbuti ed Antonello Cirnelli, consulenti medico legali incaricati dai familiari della vittima, e i consulenti medico legali degli indagati: i dottori Nico Zaramella e Andrea Porzionato per i due infermieri e il dottore Alberto Raimondo per il medico del reparto di Psichiatria. In questa fase la Procura ha proceduto inoltre a repertare l’encefalo e frammenti di tessuti organici e gastrici in modo che si possano in seguito eseguire ai necessari approfondimenti istologici e tossicologici che saranno sempre effettuati alla presenza di tutti i consulenti delle varie parti, come prevede il principio del contraddittorio, imposto in ambito di accertamento tecnico non ripetibile (ex art. 360 Codice di procedura penale). I consulenti dovranno rispondere alla pm Daniela Moroni che ha chiesto loro di accertare le cause del decesso. Chi era Bruno Modenese - Intanto i familiari attendono di poter eseguire la cerimonia per Bruno Modenese. “Vogliamo giustizia e chiarezza”, chiedono i fratelli Emanuele e Marco, mamma Marilena e papà Sergio. Quei giorni sono impossibili da dimenticare. Modenese aveva venduto la sua barca da pescatore qualche anno fa. Era molto inserito nel tessuto sociale dell’isola dove abitano qualche migliaio di abitanti. Sempre gentile e disponibile, devoto religioso con la camera e le tasche dei pantaloni sempre piene di santini, Modenese era stato ricoverato soltanto una volta 19 anni fa per un momento difficile. Non poteva sopportare la sola vista degli aghi ed era terrorizzato dalle punture. Nel corso degli ultimi anni, si recava abitualmente per qualche controllo ogni quattro mesi al Lido, a parlare con una dottoressa che ogni tanto gli prescriveva delle gocce. Stando al racconto del fratello Emanuele, che da subito ha seguito ogni passaggio del caso, Bruno era inserito nell’isola, ma ogni tanto la testa gli si riempiva di pensieri e andava in confusione, proprio come quel 16 settembre. Il ricovero - Il 16 settembre Bruno era fuori a cena con i genitori con i quali abitava. Non era di buon umore perché non dormiva da una decina di giorni. La testa era sempre più in confusione tanto che il papà, preoccupato, aveva deciso per la sicurezza del figlio di chiamare l’ospedale. Inizialmente Bruno non ne voleva sapere e quindi oltre all’ambulanza si erano presentati a casa anche i carabinieri, come prevede la prassi per un ricovero forzato. Quando però era arrivato un maresciallo che anche Bruno conosceva, l’ex pescatore si era convinto che forse era meglio andare in ospedale. Per questo non risulta più nessun ricovero forzato. Modenese è salito con le sue gambe in idroambulanza ed è stato portato all’Ospedale civile. Da questo momento inizia un incubo per la famiglia alla quale viene negato di vederlo: prima viene comunicato che dorme, poi che è intubato perché aveva problemi respiratori, poi perché è peggiorato ed è stato portato in Terapia Intensiva. La pazienza finisce lunedì sera quando, dopo continue insistenze, il fratello Emanuele esige di sapere come sta e lo trova con il volto tumefatto e un trauma cranico. Le indagini e i legali - Il 27 settembre viene predisposta l’autopsia e vengono inscritti nella lista degli indagati due infermieri ai quali si aggiunge dopo pochi giorni anche un medico. Nel frattempo, il paese organizza una fiaccolata partecipatissima. Giovedì, l’autopsia e i primi risultati che sembrano confermare il timore dei familiari. La consulenza, fanno sapere i legali di famiglia, proseguirà con la raccolta di tutta la documentazione medica relativa al caso, sempre alla presenza anche degli altri specialisti nominati, lo psichiatra Pierandrea Salvo e il neurochirurgo Fiorenzo Carta per le persone offese, e la professoressa Rosa Gaudio per uno dei due infermieri. La famiglia di Bruno Modenese è difesa dagli avvocati Renato Alberini, Augusto Palese, Gian Luca De Biasi e Paolo Vianello. Uno degli infermieri dal legale Luca Mandro, l’altro da Andrea Maria Bonaccorso e il medico da Enrico Tonolo e Antonio Marchesini. Roma. “Liberare il carcere”, una giornata dedicata alle condizioni dei detenuti leggo.it, 7 ottobre 2023 Una giornata dedicata alla situazione delle carceri nel nostro paese di fronte ad una situazione che peggiora di giorno in giorno: strutture fatiscenti, sovraffollamento, pochissimi educatori, assistenti sociali e psicologi, condizioni disumane dei più fragili, pochi esempi virtuosi di progetti di reinserimento sociale e lavorativo. ‘Liberare il carcere. Per affermare dignità e diritti per le persone che vivono e lavorano negli istituti di pena’, questo l’evento organizzato da Arci nazionale, in collaborazione con Arci Pietralata e Arci Roma, che si è tenuto presso il circolo Arci Pietralata, già casa del popolo di uno dei quartieri simbolo delle lotte di riscatto delle borgate romane e oggi uno dei pochi centri di aggregazione e attivazione civica del territorio. “Siamo alla vigilia della più grande mobilitazione sociale degli ultimi quindici anni - ha ricordato Walter Massa, presidente nazionale Arci - e questa giornata dedicata al tema carcere e alla privazione della libertà è un segnale per dimostrare di avere la capacità di costruire politiche e rafforzare competenze. Dobbiamo tornare a fare cultura e rendere agibile questo tema nella vita di tutti i giorni, anche in carcere. Come Arci abbiamo una rete sul territorio che lavora in tantissimi istituti di pena in tutta Italia e questa iniziativa vuole non fare sentire solo chi lavora in carcere e per rendere ancora più strutturata una rete straordinaria”. La condizione delle persone detenute è spesso drammatica. Il sovraffollamento è il risultato di leggi che privilegiano la carcerazione preventiva per nascondere il malfunzionamento della giustizia e dell’amministrazione pubblica o che puniscono reati minori senza prevedere pene alternative alla detenzione. Per non parlare della condizione delle persone straniere detenute e lo scandalo dei Cpr (Centri di permanenza per i rimpatri), luoghi terribili di detenzione camuffata. “È una stagione molto difficile per le carceri italiane e per il sistema giustizia - ha sottolineato Stefano Anastasia, Garante dei diritti dei detenuti della Regione Lazio - per via di una crisi che viene da lontano. Non è neanche della destra, ha una storia almeno trentennale alle spalle, anni che hanno visto abbattersi l’ideologia neoliberale, che significa individualismo e non scontare a chi fa errori. Se ciò che distingue chi ha diritti e chi no è chi si comporta bene o male, allora chi è nelle carceri rimane senza diritti. Siamo arrivati a questa enormità che conosciamo, di un sistema punitivo di controllo penale che fino ad alcuni anni fa interessava 40 mila persone ed oggi quasi 160 mila. La parola clemenza è diventata impronunciabile, con il risultato che le persone entrano in carcere anche per scontare due mesi di pena. Su questa condizione precipita la destra al governo con la sua idea del carcere e delle pene”. Ma nessuno vuole vedere, nessuno vuole sapere. E’ come se il carcere fosse una discarica della società, dove non c’è nessuna speranza per persone che hanno rotto il patto sociale attraverso la commissione di un reato, molto spesso strumentale ad una condizione di vita, di fare un percorso di riflessione ed elaborazione dei propri errori per costruirsi un nuovo futuro. “Tutto ciò che riguarda il carcere - ha ricordato Patrizio Gonnella, presidente di Antigone - a partire dagli abbassamenti di garanzie, non va letto come una questione carceraria, ma come una questione che attiene ai diritti dell’essere umano. Stiamo vivendo un cambio di politica ma anche un cambio di retorica. Serve invece ripensare a una dignità di funzione, ma non si può fare individualmente. C’è bisogno che diventi tema di una massa critica. L’articolo 27 della Costituzione non si rivolge solamente ai giudici, ma a tutti: al poliziotto, al direttore, al volontario, ai media. Siamo tutti attori dell’articolo 27”. Perugia. In volo oltre quelle sbarre. Le poesie dei detenuti di Cristina Crisci La Nazione, 7 ottobre 2023 La presentazione del volume “Quando il pianto è un canto”. Farà da apripista a una sezione del premio letterario Città di Castello. “La notte mi sveglio, dalle sbarre della finestra guardo una piccola parte di cielo: in mezzo un puntino luminoso che si trasforma in una stella rivestendo di luce la mia piccola cella…”: quelle che dall’inizio erano solo pagine bianche si sono poi animate di parole, emozioni, ricordi velati di speranza, desideri di libertà. Le poesie come vie di fuga escono dal carcere e sono tutte da sfogliare in un libro che da voce ai detenuti dell’Umbria. “Quando il pianto è un canto” è il titolo della raccolta presentata ieri a Perugia come “un lavoro introspettivo effettuato da recluse e reclusi degli istituti penitenziari di Perugia e Spoleto”. Un progetto non isolato: visto il suo alto valore sociale questa pubblicazione farà da apripista per la creazione di una nuova sezione speciale del Premio letterario Città di Castello, riservata a tutti i penitenziari italiani (dal titolo “Destinazione altrove - La scrittura come esplorazione di mondi senza tempo”). La notizia in occasione della presentazione, nella Sala del Consiglio della Provincia di Perugia, del volumetto pubblicato su iniziativa dell’associazione culturale Tracciati Virtuali e della casa editrice LuoghInteriori. Il progetto letterario è promosso dalla curatrice Francesca Gosti, che ha ideato un corso di scrittura creativa nei due penitenziari umbri, affiancata dall’associazione “Nel Nome del Rispetto”. I proventi della vendita di questa raccolta verranno utilizzati per arricchire e integrare il fondo dei volumi all’interno delle due case di reclusione. Il carcere, “... un quadrato di cemento, ci abitano mille dialetti e forse qualche balbuziente...”, si legge ancora: “Lascia che le parole se le porti il vento perché nessuno mi può dividere più da te”. Nelle poesie dei detenuti c’è tanto amore, ricorre spesso l’infanzia in contrapposizione al presente in cella, i ricordi scorrono nell’inchiostro di queste donne e uomini che hanno sbagliato e ne sono consapevoli, ma hanno ancora cuori per amare. Il trattamento sanitario obbligatorio di stampo psicologico di Sarantis Thanopulos Il Manifesto, 7 ottobre 2023 L’Ordine Nazionale degli Psicologi ha deciso di istituire, attraverso una modifica recente del proprio codice deontologico, un trattamento psicologico obbligatorio, pur evitando di definirlo in questo modo formalmente. Secondo il nuovo codice se lo psicologo ritiene il “trattamento sanitario” necessario, la decisione deve essere rimessa all’”autorità giudiziaria”. Il trattamento sanitario obbligatorio è regolato dalla legge italiana in modo che non lascia spazio a dubbi interpretativi. Perché sia applicato occorrono due pareri medici, un’ordinanza del sindaco e la convalida da parte dell’autorità giudiziaria entro 48 ore. Il trattamento sanitario obbligatorio è una misura di contenimento repressiva transitoria, giustificabile solo dal pericolo reale di un grave danno fisico della persona da contenere o di altri. È un atto di reclusione che deve avvalersi di un trattamento farmacologico sedativo e di un sistema di accudimento relazionale rispondente all’esigenza umana di comunicazione e di ascolto della persona reclusa a cui devono partecipare tutti gli operatori del servizio di salute mentale. Gradualmente nell’accudimento relazionale si può inserire un sostegno psicoterapeutico. Reclusione e sedazione sono misure impositive. L’ascolto e il contatto umano si accordano con un’esigenza naturale di chi soffre che bisogna gestire con attenzione e tatto, senza pretenderla o predeterminarla. Il sostegno psicoterapeutico è per sua natura non impositivo ed è legittimato da chi desidera usarlo e da nessun altro. Nell’ambito della salute mentale la competenza degli psicologi riguarda la psicoterapia (se hanno aver avuto una formazione in essa, accessibile anche ai medici) che in nessuno modo rientra nell’obbligatorietà del trattamento. Il trattamento obbligatorio ha carattere d’urgenza e mira a un’immediata azione contenitiva e sedativa. La decisione e realizzazione di tale azione, che non si ottiene con un intervento psicoterapeutico, non può essere affidata a dei psicologi. L’Ordine degli Psicologi entra, attraverso il suo codice deontologico, in contrasto con la legge dello Stato, pretendendo di sostituirla (Rita Rapisardi ne ha parlato incisivamente su questo giornale) e per di più in un campo non di sua competenza. In realtà l’Ordine gioca con le parole, creando notevole confusione, ma il suo obiettivo è estendere il trattamento sanitario obbligatorio nel campo “psicologico”. Più precisamente ciò che vuole è che i minori possano essere sottoposti a trattamento anche senza il consenso informato dei loro genitori, sul solo parere di uno psicologo rimesso, senza altra mediazione, alla sola autorità giudiziaria. Il fatto che l’obiettivo politico di un Ordine professionale, che dovrebbe sfociare in una richiesta al potere legislativo, abbia acquisito nei confronti degli iscritti, attraverso il codice deontologico che essi sono obbligati a rispettare, Forza di Legge, in contrasto con leggi vigenti dello Stato, è totalmente privo di valore giuridico e, a dire il vero, surreale. Qualsiasi cosa ne pensi la dirigenza attuale degli psicologi italiani, nessuno è obbligato a rendere necessario un trattamento che solo una legge statale può imporre. È importante chiarire che nel campo della sofferenza psichica lo psicologo deve essere formato come psicoterapeuta per poter avere funzioni di cura. Che i genitori non possono essere espropriati della loro responsabilità, a meno che non abbiano legalmente perso la potestà genitoriale. Che il consenso vero (soprattutto con i minori) si realizza nel processo della cura psichica, altrimenti essa è inutile o dannosa. L’espansione di un campo professionale deve avvenire nel rispetto dell’etica e del buon senso. Il benessere psichico (e non genericamente “psicologico”) di una persona, di un gruppo, di una comunità nessuno non lo conosce o lo stabilisce a priori ed è totalmente estraneo alle imposizioni. Il problema migranti richiede la collaborazione di tutti di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 7 ottobre 2023 Una disputa condotta, ancora una volta, sul piano della propaganda non può portare a nulla di buono. Gli accordi bilaterali tra Stati, le intese più o meno durature, i patti su alcuni punti specifici siglati sin qui con le migliori intenzioni, non saranno sufficienti a trovare una vera strategia comune sulla gestione dei flussi migratori. La ritrovata unità con la Germania suggellata dalla dichiarazione comune della premier Giorgia Meloni e del cancelliere Olaf Scholz sono la dimostrazione di quello che potrebbe e dovrebbe accadere per ottenere risultati concreti. Ma il vertice di Granada ha sancito, semmai ce ne fosse stato bisogno, quale sia la vera posta in gioco dei leader: il consenso alle prossime elezioni europee, ciascuno pronto a misurarlo sul piano nazionale. Inutile illudersi che fino ad allora - saranno a giugno del prossimo anno - si riesca a trovare una soluzione per governare arrivi, partenze, sbarchi, rimpatri. E su scala europea, con le possibili maggioranze variabili - alle quali anche l’Italia partecipa cercando appoggi tra chi è sempre stato partner come Francia e Germania, nuovi possibili alleati fuori dalla Ue come il Regno Unito, o vecchi amici della destra come Ungheria e Polonia - nulla è scontato. Come si è visto ancora ieri con il veto posto dai presidenti Viktor Orbán e Mateusz Morawiecki alla dichiarazione finale. Ecco perché è arrivato il momento di affrontare il problema a livello nazionale utilizzando tutti gli strumenti necessari a uscire da quella che viene vissuta come un’emergenza, anche quando non lo è, e potrebbe invece trasformarsi in una risorsa. Perché è giusto ribadire la priorità di combattere i trafficanti di essere umani che sfruttano la disperazione altrui, e impedire a chi non ne ha diritto di rimanere nel nostro Paese; ma è pure necessario ascoltare chi chiede aiuto e asilo per le più disparate ragioni, e assistere chi può essere accolto favorendone l’integrazione. Un salto di qualità che si ottiene soltanto garantendo i diritti di tutti, e pretendendo il rispetto dei doveri da parte degli stranieri che sbarcano o arrivano seguendo rotte terrestri. È la premessa indispensabile per regolarizzare chi può trovare un lavoro e sarà così in grado di pagare le tasse, rispondendo alle esigenze delle aziende in cerca di personale. Vuol dire obbligare chi ha figli minori a mandarli a scuola, sottraendoli ai richiami dei gruppi criminali. Ma vuol dire anche valutare in maniera rigorosa e seguendo le regole del Diritto europeo chi può ottenere asilo - anche se proviene da uno Stato ritenuto “sicuro” - da chi invece deve essere respinto. È un lavoro complesso che va fatto mettendo da parte interessi di parte e propaganda. Quanto sta accadendo in queste ore certamente non contribuisce ad affrontare la questione in maniera costruttiva. E sarebbe opportuno che tutti lo tenessero a mente, magistrati e politici. La sentenza della giudice di Catania che ha restituito la libertà ai migranti irregolari può essere appellata, come ha già annunciato di voler fare il governo, e la sede giudiziaria è quella giusta per confrontarsi. Esiste la libertà di criticare i contenuti di un verdetto, ma non sono accettabili gli attacchi personali per screditarli a priori. Chi non vuole finire nel mirino della delegittimazione dovrebbe però tenere comportamenti e atteggiamenti tali da apparire imparziali, oltre che esserlo quando si prende una decisione. Mentre le immagini della giudice mescolata ai manifestanti che cinque anni fa protestavano contro la polizia sono certamente inopportune e si prestano ad alimentare il dubbio di un’imparzialità negata. Fomentando sospetti che rischiano di travolgere il suo provvedimento giudiziario nell’area della disputa politica, prima ancora di essere valutato nell’aula della Corte di Cassazione. Anche per questo sarebbe auspicabile che si rendesse subito nota l’origine del video in modo da non strumentalizzare ulteriormente la vicenda, spazzando via l’ipotesi inquietante che esista un’azione di dossieraggio e schedatura. La contrapposizione durissima tra maggioranza e opposizione, ma anche le divisioni all’interno degli stessi schieramenti di destra e sinistra hanno posto ancora una volta un argomento serio come la gestione dei flussi migratori al centro di una disputa che, se condotta sul piano della propaganda, non può portare a nulla di buono. Di fronte al rischio che l’onere dell’accoglienza e dell’assistenza ricada prevalentemente su sindaci e governatori, il tema non può diventare esclusivamente materia elettorale. Perché soltanto con la collaborazione e il sostegno di tutti, il nostro Paese si dimostrerà all’altezza della sfida. Immigrazione clandestina, in vigore il Dl su espulsioni e minori non accompagnati di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 7 ottobre 2023 È stato infatti pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 233 del 5 ottobre 2023, il decreto legge 5 ottobre 2023 n. 133 contenente disposizioni urgenti in materia di immigrazione e protezione internazionale, in vigore da oggi. In vigore da oggi, 6 ottobre, la nuova stretta sulla immigrazione clandestina e sui minori stranieri non accompagnati. È stato infatti pubblicato sulla “Gazzetta Ufficiale” n. 233 del 5 ottobre 2023, il decreto legge 5 ottobre 2023, n. 133 - “Disposizioni urgenti in materia di immigrazione e protezione internazionale, nonché per il supporto alle politiche di sicurezza e la funzionalità del Ministero dell’interno”, la cui entrata in vigore è prevista per il giorno successivo alla uscita in G.U. Il testo ora comincerà il suo iter dalla Camera, dove è stato presentato ieri. Il testo si compone di 13 articoli e la premessa spiega che è stato adottato considerate le ragioni di “straordinaria necessità e urgenza” legate ad “arrivi consistenti e ravvicinati di migranti” con l’obiettivo di “garantire l’effettività dell’esecuzione dei provvedimenti di espulsione e di “protezione internazionale e di minori stranieri non accompagnati”. Il via libera al Dm immigrazione e sicurezza è arrivato dal Consiglio dei ministri del 27 settembre scorso. Il provvedimento è stato adottato su proposta del Presidente Giorgia Meloni, del Ministro dell’interno Matteo Piantedosi e del Ministro della giustizia Carlo Nordio. Lo scorso 18 settembre il Cdm n. 50 aveva già approvato un primo giro di vite con il Dl 124/2023 (pubblicato sulla G.U. n. 219 del 19 settembre) che ha modificato il termine di trattenimento nei Centri di permanenza per i rimpatri di chi entra illegalmente in Italia alzato fino ad un massimo di 18 mesi. Mentre il ministero della Difesa è stato incaricato di realizzare nel “più breve tempo possibile” le strutture per trattenere gli immigrati illegali (le misure sono confluite nel Dl sul Rilancio economico del Mezzogiorno d’Italia approvato invece dal Cdm n. 49). Tornando al testo del Dl 133, si interviene sui casi in cui la domanda di protezione internazionale sia ripresentata dal richiedente nella fase di “concreta” esecuzione di un provvedimento di allontanamento. Sarà il Questore, sentito il Presidente della Commissione territoriale, l’autorità competente all’esame. Si interviene poi sulla disciplina dell’allontanamento ingiustificato che viene sanzionato con la sospensione dell’esame della domanda e la possibilità di richiederne la riapertura, per una sola volta, entro 12 mesi. Nel caso in cui lo straniero non si presenti per la verifica dell’identità, il procedimento si considera estinto. Per i minori stranieri non accompagnati, si prevede che, dopo una prima accoglienza in strutture governative finalizzate a esigenze di soccorso e protezione immediata, siano accolti nella rete dei centri del Sistema di Accoglienza e Integrazione (SAI). In caso di arrivi consistenti e ravvicinati, se vi è una momentanea indisponibilità di strutture, il prefetto potrà disporre il provvisorio inserimento del minore - che ad una prima analisi appaia di età superiore ai sedici anni - per un periodo comunque non superiore a novanta giorni, in una specifica sezione dedicata nei centri e strutture diversi da quelli riservati ai minori. Via libera anche alla procedura per l’accertamento dell’età: l’autorità di pubblica sicurezza potrà disporre rilievi antropometrici o di altri accertamenti, anche radiografici, dando immediata comunicazione alla procura della Repubblica. Si stabilisce l’accesso nelle strutture del Sistema di Accoglienza e Integrazione (SAI) a tutte le donne (non più solo a quelle in stato di gravidanza), in quanto considerate in ogni caso quali soggetti di particolare vulnerabilità. Migranti. La colpa di salvare vite in questo mondo al rovescio di Proactiva Open Arms L’Unità, 7 ottobre 2023 Dopo il colloquio con le autorità, la nave Open Arms ha ricevuto un provvedimento di fermo amministrativo di 20 giorni e una multa da 3 a 10 mila euro. Durante la giornata di sabato, la Open Arms ha effettuato tre diverse operazioni di soccorso in acque internazionali, traendo in salvo in totale 176 persone. Le prime due imbarcazioni avevano a bordo 33 e 36 persone, viaggiavano in condizioni di pericolo e senza equipaggiamento di salvataggio. Dopo aver terminato i primi due soccorsi e aver ricevuto l’indicazione del porto da parte delle autorità italiane, la Open Arms ha ricevuto un mayday dal velivolo aereo Seabird, della ONG Sea-Watch, per una imbarcazione sovraffollata e in pericolo. Il velivolo ci informava che la Open Arms era l’assetto navale più vicino all’imbarcazione in pericolo e che non c’erano altri assetti nelle vicinanze. Abbiamo dunque informato le autorità competenti e ci siamo diretti verso il target che era a circa 20 miglia dalla nostra posizione (2 ore circa di navigazione). Arrivati sul posto, ci siamo trovati di fronte a un gommone sgonfio e sovraccarico con a bordo 109 persone, 94 delle quali minori non accompagnati. Il nostro team ha dunque messo in sicurezza i naufraghi e ha effettuato il trasbordo delle persone sul ponte della nostra nave, sempre informando in tempo reale le autorità italiane che non hanno mai fornito una risposta a nessuna delle mail inviate. Ci siamo dunque diretti verso il porto di Genova che ci era già stato assegnato in precedenza dalle autorità italiane, poi modificato in quello di Marina di Carrara. Dopo lo sbarco in porto, il nostro Capitano e la nostra Capo Missione sono stati ascoltati per oltre 6 ore dalle autorità competenti per una ricostruzione di quanto avvenuto durante la missione. Dopo il colloquio con le autorità, la nostra nave ha ricevuto un provvedimento di fermo amministrativo di 20 giorni e una multa da 3 a 10 mila euro. Riteniamo davvero inaccettabile dover subire un secondo fermo per aver fatto il nostro dovere, per aver cioè rispettato le Convenzioni Internazionali e il Diritto del mare. Ricordiamo che è dovere del capitano di qualunque imbarcazione prestare soccorso a naufraghi in pericolo di vita e che l’omissione di soccorso è quella sì un reato grave punibile dalla legge. Tutte le persone soccorse erano in condizioni di estrema vulnerabilità, provate fisicamente e psicologicamente, tantissimi i ragazzi tra i 14 e i 16 anni soli, molto provati dal viaggio, dalle violenze subite e dal fatto di essere lontani dalle proprie famiglie. “Mi sembra ridicolo che dei bagnini professionisti vengano sanzionati e bloccati per aver risposto a un “mayday” in acque internazionali, ma ciò che mi sembra molto triste e deludente è il ruolo della Guardia Costiera, dovrebbero essere professionisti disposti a disobbedire per non mettere in discussione i propri valori e i propri principi, anche l’intelligenza artificiale farebbe meglio. Dal carcere del fondo del mare purtroppo non c’è modo di uscire” - dichiara Oscar Camps, fondatore Open Arms. Affronteremo anche questo fermo e le conseguenti spese legali, convinti di essere dalla parte giusta della storia, abituati ormai da 8 anni a doverci difendere per un paradossale capovolgimento della realtà per cui chi salva vite viene inquisito, multato e fermato e chi invece incarcera, tortura, ricatta persone vulnerabili viene finanziato e sostenuto con fondi europei. Iran. Il Nobel a Narges Mohammadi che dà voce a tutte le donne iraniane di Francesca Spasiano Il Dubbio, 7 ottobre 2023 Il Premio per la pace all’attivista per i diritti umani rinchiusa nel famigerato carcere di Evin: è stata condannata a oltre 30 anni di carcere e 154 frustate. Sembra che il giovedì e il venerdì non siano giorni di colloquio nel famigerato carcere di Evin, dove il regime iraniano rinchiude la maggior parte dei prigionieri politici. Narges Mohammadi forse scoprirà domani di aver vinto il Nobel per la pace 2023: il comitato norvegese le ha assegnato l’ambito riconoscimento “per la sua lotta contro l’oppressione delle donne in Iran e per la promozione dei diritti umani e della libertà per tutti”. Arrestata 13 volte, condannata cinque volte per un totale di 31 anni di carcere e 154 frustate, l’attivista di 51 anni Narges Mohammadi - attualmente detenuta nella stessa prigione dove fu rinchiusa anche l’avvocata per i diritti umani Nasrin Sotoudeh - è diventata il simbolo delle rivolte esplose lo scorso anno dopo la morte di Mahsa Amini, la 22enne massacrata di botte dalla polizia morale per una ciocca che le usciva dal velo. “Se le autorità iraniane prenderanno la decisione giusta la rilasceranno. Così potrà essere presente per ricevere questo onore, che è ciò che auspichiamo”, ha commentato il presidente del comitato di Oslo Berit Reiss-Andersen, al cui augurio si uniscono governi, istituzioni e associazioni di tutto il mondo. Mentre l’agenzia iraniana Fars non ha perso tempo e ha subito condannato la decisione del comitato norvegese, che avrebbe premiato l’attivista per “le sue azioni contro la sicurezza nazionale”. Quali? La lista delle accuse contro Narges Mohammadi è lunghissima. Ma la feroce repressione che il regime le ha riservato non è mai andata a segno: ad ogni tentativo di metterla a tacere, l’attivista ha sempre risposto alzando la voce un tono di più. L’ultima volta nei giorni scorsi, quando le sue parole sono arrivate fino alla Cnn tramite un messaggio registrato nella prigione di Evin: nell’audio si sentono le compagne di cella di Narges Mohammadi cantare Bella ciao e scandire lo slogan delle rivolte in Iran - “Donna, vita, liberà”. “Questo è stato ed è il momento della più grande protesta in questa prigione”, ha spiegato l’attivista all’emittente americana. Nel 2009 è diventata vicepresidente del Centro per la difesa dei Diritti umani, fondato da Sherin Ebadi, la prima donna iraniana premio Nobel per la Pace nel 2003. Gli ultimi 20 anni della sua vita li ha passati entrando e uscendo dal carcere, subendo violenze, privazioni, umiliazioni. Il regime nella prigione di Evin è di alta sicurezza: stanze anguste e senza finestra, dove sono stipate almeno cinque persone. Gli inquisitori entrano nel reparto femminile a loro piacimento, convocano le prigioniere negli uffici per spezzarle nell’animo. Chiedono loro di “abiurare”, in cambio della libertà. Ma Narges non ha mai smesso di denunciare la condizione delle donne, e anche dalla prigione ha continuato a seguire e sostenere il movimento di piazza dei giovani iraniani. Nata a Zanjan il 21 aprile 1972, il suo impegno politico è iniziato dai tempi dell’università, anni in cui ha fondato il gruppo degli “Studenti illuminati”. Quella contro l’hijab obbligatorio è la battaglia di sempre. Arrestata nel 2010 insieme ad altri attivisti, nel 2011 è stata condannata a 11 anni di carcere per aver “cospirato contro la sicurezza nazionale”. L’anno successivo, dopo una paralisi muscolare, è stata rilasciata per problemi di salute: l’attivista soffre di un disturbo neurologico che può provocare convulsioni, paralisi parziale temporanea e un’embolia polmonare. Nel maggio 2015 è stata nuovamente imprigionata a Evin, dove è rimasta fino a dicembre 2019, quando è stata trasferita nella prigione di Zanjan, a circa 300 km da Teheran, dopo aver organizzato proteste contro le condizioni carcerarie e l’uccisione di centinaia di manifestanti nel cosiddetto “novembre di sangue” del 2019. Nel 2021, insieme ad altri 85 attivisti ha avviato una campagna chiamata “White Torture” contro l’uso dell’isolamento nelle carceri iraniane. “Lo scopo della tortura bianca è quello di interrompere permanentemente la connessione tra il corpo e la mente di una persona - ha spiegato - per costringere l’individuo ad abiurare dalla propria etica e dalle proprie azioni”. Il 12 aprile 2022 è dovuta tornare in carcere per scontare l’ennesima condanna a 8 anni per presunti crimini contro la sicurezza nazionale. Nell’ottobre del 2022 è stata condannata a 15 mesi di reclusione con l’accusa di “propaganda contro il sistema” per aver espresso il suo sostegno al diritto del popolo a manifestare. “Ho sempre detto che la democrazia entra in Iran attraverso la porta dei diritti delle donne - ha chiosato ieri Sherin Ebadi - e spero che questo si realizzi presto”. Iran. Vent’anni fa Shirin Ebadi: “Il regime sappia che il mondo ci guarda” di Farian Sabahi Il Manifesto, 7 ottobre 2023 Nel 2003 a essere insignita del Nobel per la Pace era stata l’avvocata Shirin Ebadi per il suo impegno a favore delle donne. Era stata la prima iraniana e la prima donna musulmana a ricevere il premio. Vent’anni dopo, il comitato ha scelto un’altra iraniana. Tra le due attiviste corre un filo: Narges Mohammadi ha lavorato nel Defenders of Human Rights Center di Teheran fondato da Ebadi nel 2001, fino alla sua chiusura nel 2009. Commentando l’attribuzione del riconoscimento di Oslo a Mohammadi, Ebadi ha dichiarato: “Sono molto contenta che per la seconda volta il Nobel per la Pace sia arrivato in Iran. Narges Mohammadi è in carcere da anni per le sue attività in sostegno dei diritti umani. Spero che il regime si renda conto che tutto il mondo ha gli occhi puntati sulle donne iraniane. Mi auguro che cambi l’approccio nei confronti del popolo, in particolare nei confronti delle donne, mi auguro che il regime torni a ragionare in tempi brevi. Chi comanda in Iran deve capire che esistono i diritti umani e che tutto il mondo tiene sotto osservazione chi governa calpestando i diritti umani”. Cosa c’è di diverso rispetto al 2003? Pur avendo scontato pene detentive, Ebadi poté uscire dall’Iran, ritirare il Nobel, recarsi negli Stati uniti e in Europa tenendo conferenze, per poi tornare a Teheran nonostante le tante difficoltà. Mohammadi è in carcere ed è assai probabile che ci resterà a lungo: difficilmente le sarà concesso di uscire di cella, tanto meno di varcare le frontiere. Oggi la magistratura ha la mano sempre più pesante verso coloro che lottano per i diritti umani. Forse perché nella stanza dei bottoni siedono più pasdaran - militari con la sindrome di accerchiamento - che membri del clero sciita. Se vent’anni fa qualcosa lasciava sperare in un cambiamento positivo, oggi vi è la consapevolezza che la Repubblica islamica non è riformabile: tutti coloro che hanno provato a innescare un miglioramento sono stati arrestati o sono stati costretti all’esilio. A titolo di esempio, i leader del movimento verde di opposizione del 2009 - al tempo del presidente Ahmadinejad - sono spariti dalla circolazione, mentre il filosofo Abdolkarim Soroush, soprannominato il Martin Luther King dei riformisti, è stato obbligato a lasciare l’Iran pur avendo il pedigree del rivoluzionario della prima ora (nel 1979 era stato membro del Consiglio rivoluzionario incaricato delle purghe e dell’islamizzazione delle università). Come vent’anni fa, a comandare in Iran è sempre l’ayatollah Khamenei, il leader supremo: è lui ad avere l’ultima parola su tutto, dalle questioni interne alla politica estera al nucleare. Nel 2003 presidente era il riformatore Khatami, eletto nel maggio 1997 dalle donne e dai giovani che così avevano scongiurato che la poltrona di presidente andasse all’ultraconservatore Nateq-Nouri, che voleva imporre il chador dalla testa ai piedi - e non solo il velo che copre i capelli - alle bambine dai nove anni. I Due mandati presidenziali di Khatami sono passati alla storia come “la primavera di Teheran”: un periodo fiorente per la letteratura e il cinema grazie all’allora ministro alla cultura Ataollah Mohajerani ma, paradossalmente, segnato anche da decine di omicidi di intellettuali. Dopo Khatami (1997-2005) e Ahmadinejad (2005-2013), presidente era diventato Hassan Rohani e la speranza di maggiori libertà si era riaccesa: nel 2015 i negoziatori iraniani sottoscrivevano finalmente a Vienna l’accordo nucleare con i 5+1, i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni unite più la Germania. Doveva essere un momento di svolta, non solo sul nucleare, perché avrebbe comportato lo smantellamento delle sanzioni che avevano messo in ginocchio l’economia iraniana. L’accordo avrebbe portato un riavvicinamento con l’Occidente e una riapertura dell’Iran. Peccato che nel 2018 il presidente statunitense Donald Trump abbia mandato a monte l’accordo, imponendo ulteriori sanzioni e non lasciando alla leadership di Teheran altra scelta se non tessere alleanze più strette con Russia e Cina.