La pena non può consistere in trattamenti disumani: in carcere si rispetti la dignità di Francesco Viganò* La Repubblica, 6 ottobre 2023 Sabato al polo universitario del penitenziario “Lorusso e Cutugno” di Torino si terrà la lectio “Punire secondo Costituzione”. La partecipazione sarà riservata ai detenuti. Se è vero che la missione essenziale della Costituzione è quella di proteggere diritti fondamentali della persona, il carcere è il luogo del paradosso. La Costituzione proclama come inviolabili i diritti della persona, a cominciare dalla sua libertà di movimento; eppure, nel carcere, questi stessi diritti vengono drammaticamente compressi, in funzione della pur necessaria tutela della società e delle vittime dei reati. Per questo i padri e le madri costituenti - molti dei quali avevano conosciuto il carcere sulla propria pelle - hanno voluto dedicare una speciale attenzione alla pena. L’articolo 27 della Costituzione ci dice, anzitutto, che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità. Letta in positivo, questo principio significa che il condannato partecipa della stessa umanità che è in ciascuno di noi. Chi sta in carcere non è “altro” rispetto all’innocente, ma resta persona dotata dell’inalienabile dignità di ogni essere umano. L’articolo 27 ci dice poi che la pena deve tendere alla rieducazione del condannato. In altre parole, la Costituzione scommette sul cambiamento: il condannato deve essere pensato come una persona aperta a una possibile evoluzione, qualunque sia il reato che ha commesso, anche il più orribile. Nessuno è perduto per sempre, secondo la Costituzione italiana. Di qui l’incompatibilità con la nostra Costituzione di un ergastolo senza possibilità di riacquistare la libertà, come è purtroppo previsto in molti stati nordamericani. Di qui, ancora, il principio di progressività trattamentale, che è alla base dell’attuale ordinamento penitenziario, e che ruota attorno all’idea di un cammino graduale del condannato dall’interno all’esterno del carcere. Questo principio non è affatto in contraddizione con il valore della “certezza” della pena, di cui parlava già Beccaria, e che consiste nella necessità di irrogare con prontezza la pena, una volta che il reato sia stato commesso. Progressività trattamentale significa, invece, che quando una persona è stata condannata, poniamo, a dieci anni di reclusione, le modalità esecutive di quei dieci anni potranno e dovranno legittimamente variare a seconda dell’andamento del percorso rieducativo individuale del condannato: che potrebbe rimanere in carcere sino all’ultimo giorno, oppure beneficiare, durante l’esecuzione della pena, di misure extramurarie sempre più significative, dal lavoro all’esterno sino alla liberazione condizionale. Certo, la realtà del carcere in Italia è ancora molto distante dagli ideali costituzionali. La qualità delle carceri italiane, ancora gravemente sovraffollate, è a macchia di leopardo: accanto a strutture moderne, in cui fervono le iniziative rieducative e i contatti con l’esterno, il nostro paese conosce ancora istituti fatiscenti, in cui il lavoro dei detenuti si riduce spesso ai soli servizi interni di pulizia o di distribuzione dei pasti e della biancheria. Ma la grande sfida che ci lancia oggi il paradosso del carcere è quella di avvicinare sempre più questa realtà agli ideali di umanità e di rieducazione iscritti nella Costituzione, favorendo le condizioni perché chi esce possa incontrare reali opportunità di reinserimento sociale, a cominciare - magari - da occasioni di lavoro pensate proprio per gli ex detenuti. Il tutto anche nell’interesse della società: perché un ex detenuto pienamente reinserito è un criminale in meno, che non costa ai contribuenti quanto costerebbe se fosse tenuto in carcere a vita, e che potrà invece apportare, con il proprio lavoro, un contributo al benessere di tutti. Questa è, in fondo, la profonda saggezza pratica - oltre che ideale - contenuta nei principi che la nostra Costituzione dedica alla pena. *Giudice della Corte Costituzionale L’Arci lancia la battaglia “Liberare il carcere” di Marco Solimano* e Carlo Testini** L’Unità, 6 ottobre 2023 Non è solo una questione di sovraffollamento, le prigioni italiane sono piene di ingiustizie e contraddizioni. Il nostro impegno per garantire dignità e diritti ai detenuti e a chi lavora negli istituti di pena. Negli ultimi mesi si è ricominciato a parlare di carcere anche al di fuori della stretta cerchia di chi se ne occupa da sempre. La situazione disastrosa della vita di chi vive e lavora negli istituti di pena è ormai nota. Almeno a chi non ha perso quel minimo di umanità necessaria per riconoscere che tutte le persone hanno gli stessi diritti, che siano detenute o meno. I tanti suicidi e le periodiche rivolte nelle carceri, ci dicono quanto sia critica la situazione. Non è solo il sovraffollamento a rendere difficilissima la vita dei detenuti ma sono anche la penuria di assistenti sociali, psicologi, medici, operatori esperti che possono dare sollievo ai tanti problemi di chi sta scontando la sua pena. Per non parlare della condizione delle tante fragilità estreme che non vengono trattate come tali: da chi ha seri disturbi psichici e viene confinato in cella al pari dei manicomi aboliti, ai bambini che vivono in carcere con le loro madri in condizioni inumane. Come ha scritto bene recentemente Franco Corleone “il carcere è sostituto autoritario delle politiche di welfare, è campo di concentramento per i poveri, a dispetto delle retoriche sulle “culture della legalità” che hanno imperato negli ultimi decenni, sottraendo capacità di analisi e di proposta”. Infatti sappiamo bene che del totale dei 58.428 detenuti (agosto 2023) circa 12.000 sono in alta sicurezza, nelle sue diverse forme. Tutti gli altri hanno commesso reati che dipendono dalle leggi che regolano, male, fenomeni sociali che avrebbero bisogno di una risposta diversa: si tratta del prodotto della legge proibizionista sulle droghe, di quella sull’immigrazione, della persecuzione dei poveri. Situazione che peggiorerà se continua l’assurda deriva di questo governo nell’inasprire le pene per reati minori e prevedere il carcere ogni qualvolta non si riesce a dare una risposta sociale e culturale ai problemi di una comunità sempre più sfilacciata, abbandonata nelle sue contraddizioni e ai margini dei quartieri più ricchi delle nostre città. La discussione di queste ore sull’utilizzo delle risorse del bilancio dello stato è imbarazzante. Non ci saranno investimenti nella sanità, nella scuola, nella cultura e molto probabilmente nulla neppure per il mondo del carcere. Il governo ha scelto la strada degli oboli da dare ai poverissimi e alla riduzione di tasse per un ceto medio sempre più impoverito proprio dall’aumento dei costi dei servizi privati alternativi a quelli, universali, pubblici. Con l’abolizione di ogni forma di “reddito minimo” e il rifiuto di occuparsi seriamente del diffuso lavoro povero e precario la situazione sociale peggiorerà e la riposta securitaria, pure. L’Arci si è sempre occupata dei diritti delle persone detenute e delle condizioni di vita e lavoro in carcere. Spesso ha contribuito a realizzare, in collaborazione con alcuni istituti di pena, percorsi di reinserimento lavorativo. Sono tanti anche i progetti culturali per migliorare la vita nel carcere. Recentemente abbiamo aderito alla campagna di Sbarre di Zucchero, Ristretti Orizzonti e Conferenza Nazionale del Volontariato della Giustizia per aumentare il numero di telefonate che i detenuti possono fare ai loro cari. Con l’appuntamento nazionale “Liberare il carcere” vogliamo rafforzare il nostro impegno in questo ambito, chiamando a ragionare insieme la maggior parte dei soggetti che si occupano da anni dei problemi del nostro sistema penitenziario e che hanno un approccio che condividiamo di difesa e tutela della dignità umana delle persone che vivono in carcere: da Antigone alla Conferenza Nazionale Volontariato e Giustizia, dalla conferenza dei Garanti delle persone private della libertà a Sbarre di Zucchero, dal Forum Droghe a CILD - Coalizione italiana Libertà e Diritti Civili e alla Società della Ragione. Vogliamo anche approfondire due ambiti che ci sembrano particolarmente problematici in questo momento: la condizione delle donne detenute e di quelle che devono gestire le relazioni con i propri cari all’interno del carcere e le problematiche legate alle persone con disagio mentale che spesso non trovano un supporto adeguato da parte dell’amministrazione carceraria. Oltre agli esperti e agli operatori dei nostri progetti, abbiamo invitato a partecipare parlamentari ed esponenti della politica che speriamo possano “liberare il carcere” da contraddizioni, violenze e ingiustizie insieme a tutti quelli che si stanno battendo da anni per ridare dignità e futuro alle persone detenute e condizioni di lavoro decenti al personale degli istituti di pena. L’incontro è organizzato in collaborazione con Arci Pietralata e Arci Roma e si svolgerà oggi 6 ottobre dalle ore 10 presso il circolo Arci Pietralata, già casa del popolo di uno dei quartieri simbolo delle lotte di riscatto delle borgate romane e oggi uno dei pochi centri di aggregazione e attivazione civica del territorio. *Referente nazionale Arci per le persone private della libertà e Garante dei detenuti del Comune di Livorno **Coordinatore nazionale Arci-Lotta alle Disuguaglianze, libertà e Diritti Sociali “Pacchetto giustizia”: avanti su abrogazione abuso d’ufficio, intercettazioni e ordinamento giudiziario di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 6 ottobre 2023 In Commissione Giustizia del Senato continua l’esame del Ddl di iniziativa governativa n. 808 in materia di modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento giudiziario e al codice dell’ordinamento militare. Prosegue in Commissione Giustizia, alla presenza del Viceministro della Giustizia Sisto, l’esame, avviato mercoledì 2 agosto, con la relazione del Presidente Bongiorno, del Ddl di iniziativa governativa n. 808 in materia di modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento giudiziario e al codice dell’ordinamento militare. L’articolo 1 dispone l’abrogazione del reato di abuso d’ufficio, previsto dall’articolo 323 del codice penale (lettera b) che punisce con la reclusione da 1 a 4 anni, salvo che il fatto costituisca più grave reato, il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, intenzionalmente procuri a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero rechi ad altri un danno ingiusto. Sono due dunque le condotte alternative che integrano il reato: la violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità; la violazione dell’obbligo di astensione in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti. Si restringe poi l’ambito di applicazione del traffico di influenze illecite. In particolare, vengono estese le attenuanti per particolare tenuità e per chi efficacemente si adopera per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori e la causa di non punibilità prevista in presenza di autodenuncia e collaborazione con l’autorità giudiziaria. Audito oggi, il magistrato dott. Sebastiano Ardita ha espresso il suo parere critico sia sul ridimensionamento del traffico di influenze che sulla abrogazione dell’abuso d’ufficio. “Si tratta - ha affermato Ardita - di una scelta politica”. Il magistrato ha poi rilevato che “nella storia della nostra giurisdizione penale, ma anche in tutti i sistemi penali europei, credo non esistano modelli nei quali una presa di interesse privato del pubblico ufficiale è considerata legittima o comunque non penalmente rilevante. Si finirebbe per travolgere l’imparzialità e il principio di buona amministrazioni, presidi rispetto ai quali il diritto penale funge da deterrente.” (Le audizioni sono poi proseguite con i professori Vincenzo Maiello e Giulio Garuti). Il viceministro Sisto, invece (nella giornata di ieri) ha confermato l’intenzione di “cancellare l’abuso d’ufficio per l’inizio dell’anno nuovo”. “Questa è la proposta del governo che è passata in consiglio dei ministri e che è in discussione nella commissione Giustizia al Senato”. “Il problema dell’abuso d’ufficio - ha aggiunto - non è il finale, nel 95 per cento è scritto, archiviazione, proscioglimento, assoluzione, ma è il viaggio - prosegue - Hai conseguenze sul piano personale che derivano dalla mera pendenza del processo”. L’articolo 2 modifica il codice di procedura penale in materia di intercettazioni, sulle quali si è appena intervenuti con il Ddl n. 897 di conversione in legge, con modificazioni, del Dl n. 105/2023 approvato ieri in via definitiva dal Senato. Sarà dunque necessario un coordinamento. Nel testo si legge che gli interventi vanno nel senso di rafforzare la tutela del terzo “estraneo” al procedimento. È così introdotto il divieto di pubblicazione, anche parziale, del contenuto delle intercettazioni in tutti i casi in cui quest’ultimo non sia riprodotto dal giudice nella motivazione di un provvedimento o utilizzato nel corso del dibattimento; è escluso il rilascio di copia delle intercettazioni di cui è vietata la pubblicazione quando la richiesta è presentata da un soggetto diverso dalle parti e dai loro difensori; è infine introdotto l’obbligo per il Pm di stralciare dai cd. brogliacci espressioni lesive della reputazione o riguardanti dati sensibili di soggetti diversi dalle parti. In materia di misure cautelari, oltre a essere previsto l’istituto dell’interrogatorio preventivo della persona sottoposta alle indagini preliminari rispetto alla eventuale applicazione della misura cautelare, si introduce la decisione collegiale per l’adozione dell’ordinanza applicativa della custodia in carcere nel corso delle indagini preliminari. Infine, è escluso il potere del Pm di proporre appello avverso le sentenze di proscioglimento per i reati a citazione diretta (articolo 550, commi 1 e 2, del Cpp). L’articolo 3 modifica l’ordinamento giudiziario (Rd n. 12 del 1941), in particolare l’articolo 7-bis, in materia di tabelle infradistrettuali, e l’articolo 7-ter, in materia di criteri per l’assegnazione degli affari penali al giudice per le indagini preliminari, conseguenti all’introduzione della composizione collegiale del giudice per le indagini preliminari prevista dall’articolo 2. L’articolo 4 dispone in sintesi l’incremento di 250 unità del ruolo organico della magistratura, da destinare alle funzioni giudicanti di primo grado. Il concorso sarà indetto all’inizio dell’anno 2024. Gli oneri relativi all’assunzione sono pari a 8.856.853 euro per il 2025, 20.186.658 per il 2026, 24.781.078 per il 2027, 24.781.078 per il 2028, 28.957.678 per il 2029, 32.215.051 per il 2030, 32.242.064 per il 2031, 33.401.988 per il 2032, 33.498.649 per il 2033, 34.658.574 annui a decorrere dall’anno 2034. L’articolo 5 fornisce un’interpretazione autentica dell’articolo 9 della legge 10 aprile 1951 n. 287 relativamente ai requisiti dei giudici popolari della Corte d’Assise, ritenendo che il requisito di età non superiore a 65 anni deve intendersi riferito esclusivamente al momento in cui il giudice popolare viene chiamato a prestare servizio nel collegio ai sensi dell’articolo 25 della citata legge. L’articolo 6 modifica la norma che prevede che al militare sia preclusa la procedura di avanzamento stabilendo che ciò accada solo nel caso in cui nei suoi confronti sia stata emessa, sempre per delitto non colposo, una sentenza di condanna di primo grado, una sentenza di applicazione della pena su richiesta, ovvero un decreto penale di condanna esecutivo, anche qualora la pena sia sospesa in via condizionale. L’articolo 7 contiene disposizioni finanziarie mentre l’articolo 8 stabilisce che le modifiche al codice in materia di decisione collegiale e quelle a essa collegate di carattere ordinamentale si applicano decorsi due anni dalla data di entrata in vigore della legge. Il caso Apostolico spacca il Csm. “È incompatibile, va trasferita”. I renziani d’accordo con la destra di Liana Milella, 6 ottobre 2023 La Repubblica Braccio di ferro tra chi “condanna” la giudice e chi vuole tutelarla. Delmastro attacca il tribunale di Firenze. Stavolta, al Csm, non c’è tutela che tenga per Iolanda Apostolico. A palazzo dei Marescialli, egemonizzato dal centrodestra della politica e delle toghe, in un Consiglio presieduto dall’avvocato leghista Fabio Pinelli, la giudice rischia il trasferimento d’ufficio. Ma su di lei il Csm si spacca due volte in 48 ore. I laici filogovernativi assieme a Italia viva la “condannano” prim’ancora di averla sentita, non proprio all’insegna del garantismo, dando per scontato che sia stata in piazza per manifestare contro Salvini. Dopo che la destra delle toghe di Magistratura indipendente due giorni fa aveva negato la “tutela” chiesta per lei da 13 colleghi dopo l’attacco della premier Giorgia Meloni. Con pari aggressività, intanto, il sottosegretario meloniano alla Giustizia Andrea Delmastro attacca un esperto di immigrazione come Luca Minniti, magistrato di Firenze, “perché non spetta a lui decidere se la Tunisia è un Paese sicuro o meno”. Al Csm il “processo” per Apostolico è già scritto. Lo formalizza addirittura, con una sorta di condanna in anticipo, il presidente della prima commissione che si occupa dei trasferimenti d’ufficio. Enrico Aimi, ex senatore di Forza Italia, di professione avvocato, stavolta veste i panni dell’accusa e chiede che “i giudici siano come la moglie di Cesare”. Proprio mentre il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia ricorda che “si criticano i provvedimenti non sulla base di un video di cinque anni prima preso dal cassetto, che allora non ha creato scandalo, e che semmai andava valutato in quel momento e non oggi”. Aimi la pensa all’opposto perché “l’autonomia e l’indipendenza del magistrato deve riguardare anche la sua proiezione esterna e la toga non deve essere solo terza e imparziale, ma deve anche apparire tale”. Apostolico insomma è già stata condannata. E a pensarla come Aimi è Ernesto Carbone, il laico di Iv, che cita “l’interpretazione granitica della Cassazione che impone di escludere anche il sospetto dell’imparzialità”. Insomma, dice Carbone, “se hai manifestato sotto la nave Diciotti, devi astenerti sui migranti”. Così la pensa Matteo Renzi: “Scandaloso che un magistrato vada in piazza”. Ma è certo che al Csm la battaglia sarà durissima. Perché, almeno in prima commissione, la destra potrebbe perdere sul trasferimento d’ufficio, visto che il centrosinistra può contare su tre togati (Abenavoli di Area, Miele di Md, Forziati di Unicost) e il laico Papa di M5S, a fronte del forzista Aimi e di Paolini di Mi. Ma anche perché prima si dovrà discutere della pratica a tutela chiesta dall’indipendente Roberto Fontana e firmata da 12 colleghi. Proprio Fontana, come Santalucia, ha chiarito che “la giurisdizione si esprime attraverso i provvedimenti, che ovviamente possono essere criticati e impugnati sulla base di ragioni tecnico-giuridiche. Ma spostare l’attenzione sulla vita del magistrato e sulle eventuali attività esterne a quella giudiziaria, è un modo per eludere il confronto sul merito del provvedimento e un tentativo di delegittimare l’attività giurisdizionale”. Lo scontro sarà durissimo, e visti i numeri alla fine potrebbe vincere chi la pensa come Salvini. “I giudici sono cittadini come tutti gli altri. Non a caso ci sono le correnti” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 6 ottobre 2023 Il costituzionalista Michele Ainis dopo il caso Catania: “Ogni sentenza, anche una che riguarda affari di condominio, comunque, ha un effetto politico”. “Nel contesto attuale occorre evitare di personalizzare il conflitto”. Il costituzionalista Michele Ainis interviene sulle tensioni tra governo e magistratura, dopo i provvedimenti della giudice del Tribunale di Catania che ha sbriciolato le certezze del governo in materia di immigrazione. Professor Ainis, le decisioni della giudice Iolanda Apostolico stanno creando di nuovo una contrapposizione tra esecutivo e potere giudiziario. Non è un bel momento? In Italia non è mai un bel momento, per quanto riguarda i rapporti tra politica e giustizia. Ciò che, a mio avviso, andrebbe evitato da entrambi i lati è la personalizzazione del conflitto. Personalizzare non va mai bene, d’altra parte si tratta sempre di atti collettivi imputabili a un potere. Questo vale per un decreto legge, deliberato da un intero Consiglio dei ministri e quindi non solo dal presidente del Consiglio, dal ministero dell’Interno o dai ministri interessati, e vale per le decisioni del potere giudiziario, che sono, poi, sottoposte a successivi gradi di giudizio da parte di altre persone. Io credo che non abbiamo necessità di inoculare ulteriori tossine che derivano dalla personalizzazione del conflitto. Una situazione che può avere anche degli effetti intimidatori in grado di ostacolare l’esercizio della funzione giurisdizionale. Ieri, il ministro Salvini ha diffuso un video nel quale compare la giudice Apostolico, presente ad una manifestazione del 2018 nella quale si chiedeva lo sbarco dei migranti a bordo della nave “Diciotti”. È legittimo che un magistrato scenda in piazza e qualche anno dopo disapplichi un decreto del governo che annovera pure un ministro contestato qualche anno prima? In questo caso viene fuori un profilo non di legittimità, ma di opportunità. Calamandrei diceva che il giudice deve non solo essere imparziale, ma anche apparire imparziale. I post su Facebook nel caso specifico di cui si è parlato o la partecipazione attiva a manifestazioni, che hanno un significato politico, possono anche compromettere una decisione che magari è giusta e che però può portare alla strumentalizzazione di certi comportamenti. I giudici non possono iscriversi a partiti, ma per il resto sono cittadini come tutti gli altri. Tanto è vero che la magistratura si divide in correnti, che hanno qualche segno politico senza però che i giudici siano privati del diritto di voto. Su questo punto aggiungerei un’altra cosa. Dica pure… Ogni sentenza, anche una che riguarda affari di condominio, comunque, ha un effetto politico. Interroghiamoci su cosa è la politica: è il governo della polis, il governo generale su tutto ciò che accade nella polis. Il mio maestro, Temistocle Martines, scrisse un libro nel 1956 nel quale metteva in luce, credo per la prima volta in Italia, la forza politica della magistratura, della Corte costituzionale e del Presidente della Repubblica. Sono organi di garanzia le cui decisioni non sono politiche nel senso in cui lo è una legge del Parlamento o un decreto del governo, ma hanno sempre degli effetti politici. Per questo impattano sulla polis, come dicevano i greci, e possono produrre reazioni di tipo politico. Per chi ricopre ruoli importanti e delicati serve più sobrietà? In Italia, più che altrove, il silenzio sarebbe d’oro. Con la questione dei flussi migratori si sottolinea una questione: il ricorso alle norme emergenziali. Si può andare avanti così per regolare fenomeni con i quali occorre fare i conti quotidianamente? L’emergenza è per sua natura temporanea. In Italia abbiamo una serie di emergenze permanenti. Ne abbiamo una proiezione istituzionale presente con l’abuso dei decreti leggi. Il decreto legge è uno strumento emergenziale, ma invece è diventato il primo, se non il solo, veicolo della legislazione. Il guaio è che quando l’abuso viene praticato a lungo diventa uso e nessuno più ci fa caso. Il Parlamento, in questo contesto, in quale posizione viene relegato? C’è una crisi, che non dura da oggi, delle assemblee parlamentari e che deriva in parte dalla crisi dei partiti e da leggi elettorali sbagliate. Sono queste ultime che hanno reciso il cordone ombelicale tra elettori ed eletti con il giochino dei listini bloccati e tutto quello che già sappiamo. In politica, come nella fisica, la natura ha orrore del vuoto. Se qualcuno lascia libera la poltrona su cui stava seduto, la occuperà qualcun altro. In Italia questa situazione si è avuta nei rapporti tra governo e Parlamento. I fatti di questi giorni fanno emergere un altro tema, purtroppo, sempre attuale: troppe norme e scritte male? La correggo, mi consenta. Non sono scritte male, ma sono scritte sempre peggio. È uno degli effetti del troppo diritto, del diritto raffazzonato e a casaccio. Se la legge dice abracadabra, se la legge è incomprensibile o comprensibile in quattro modi opposti, poi il decisore non è più né il governo, che scrive il decreto, né il Parlamento che converte quel decreto. Il decisore è il giudice, perché quando gli viene posta una questione deve deciderla, altrimenti sarebbe denegata giustizia. Se non trova nell’ordinamento normativo una bussola precisa, è costretto in qualche modo a diventare legislatore. Sui temi etici avviene continuamente che il Parlamento non riesca a legiferare. Avviene altrettanto quando le leggi sono oscure. La propaganda, in una sorta di campagna elettorale perenne, ha preso il sopravvento sui contenuti politici e sugli interventi che deve fare in Parlamento il legislatore? Siamo immersi in un clima culturale che ci fa vivere in un eterno presente, senza memoria del passato e senza la capacità di proiettarsi sul futuro. Dal punto di vista dell’officina delle leggi significa, ad esempio, rispetto a certi casi concreti, che la risposta immediata sia il pan-penalismo. Aumento i reati e ne introduco di nuovi. Con questo, peraltro, non miglioro, ma peggioro la sicurezza dei cittadini. È stato calcolato che ci sono circa 35mila fattispecie di reato. Vuol dire che ciascuno di noi può commettere un reato, senza nemmeno sospettare di commetterlo. Gli Illuministi dicevano che le caratteristiche distintive della legge sono la generalità e la durata illimitata. Le due cose si legano, nel senso che una legge generale è capace di attraversare stagioni alterne della storia, mentre la legge fotografia, quella che fotografa l’evento del minuto prima, viene spesso superata il giorno dopo. È quindi effimera. Si tratta di un ulteriore fattore di incertezza del diritto con il continuo alternarsi di leggi, che si contraddicono a vicenda per rincorrere il fatto del giorno prima. È un dovere di noi magistrati impegnarsi per i diritti dei più deboli di Armando Spataro La Stampa, 6 ottobre 2023 Inaccettabili le insinuazioni e i sospetti sulla terzietà della giudice Apostolico. Sono legittime le critiche ai provvedimenti, ma non la tracimazione negli insulti. Improvvisamente la questione del giudice Apostolico di Catania che non ha convalidato il trattenimento di tre immigrati irregolari tunisini disposto dal Questore di Ragusa e che ha disposto il loro immediato rilascio ha assunto nuovi caratteri: non più quelli della violenta aggressione politica ed istituzionale nei confronti del giudice per il suo decreto, ma quelli dell’insinuazione e della diffusione di sospetti sulla sua terzietà e serenità di giudicante, attraverso allusioni alla sua vita privata e diffusione di un filmato sulla sua partecipazione ad una manifestazione in difesa dei diritti umani dei migranti. Sul merito del sacrosanto provvedimento, pur nel rispetto della probabile futura decisione della Cassazione sul ricorso preannunciato dal Governo, si sono già pronunciati molti giuristi esperti che hanno richiamato normative e principi nazionali e sovranazionali, insuperabili a parere di chi scrive. Tutti hanno comunque osservato che le critiche ai provvedimenti dei giudici sono assolutamente legittime, ma che è cosa ben diversa la tracimazione nelle offese, come è avvenuto. E sorprende che il Ministro della Giustizia, nel dichiararsi d’accordo con le tesi della Presidente del Consiglio, abbia dichiarato che la reazione dei magistrati ha il sapore di una guerra al potere politico senza però spendere una sola parola in relazione alle accuse di eversione e mancato rispetto delle leggi mosse nei loro confronti. Ma improvvisamente sono state messe in campo altre questioni che riguardano la vita privata del giudice di Catania, cioè quella fuori dai palazzi di giustizia: non è possibile - purtroppo per gli aggressori - ricorrere al consueto ritornello dell’appartenenza del giudice ad una corrente associativa di sinistra che dimostrerebbe la parzialità di chi ne fa parte e spiegherebbe certe decisioni, politicamente orientate: la dr.ssa Apostolico, infatti, non sembra iscritta ad alcuna corrente e non è comunque conosciuta come “militante”. Pazienza! Ma allora bisogna pensare ad altro. A cosa? Intanto al suo coniuge che è “classificato” come un estremista politico per la sua qualità di esponente di un partito. Ma non si comprende se - conseguentemente - la giudice avrebbe dovuto astenersi dallo sposarlo (il che, assicuro, non è previsto dalle regole disciplinari neppure per i potenziali coniugi di destra) o cambiare mestiere. Battute a parte, a rafforzare l’accusa di mancanza di terzietà, specialmente nel settore della giustizia che riguarda la immigrazione, arriva però un’altra accusa, supportata da un filmato circolante sul web: la dr.ssa Apostolico, il 25 agosto del 2018, aveva partecipato ad una manifestazione nel porto di Catania a sostegno della richiesta di far sbarcare i migranti dalla nave Diciotti della Guardia Costiera italiana, cosa resa impossibile dal blocco disposto dal Ministro Salvini (a suo dire per scelta condivisa del Governo). Salvini, per questo fu sottoposto a procedimento penale con l’accusa di sequestro aggravato di 177 migranti tenuti a bordo della nave approdata a Catania dal 20 agosto fino alla tarda serata del 25 agosto, momento in cui venne finalmente autorizzato lo sbarco. In data 20 marzo 2019 il Senato negò a maggioranza assoluta dei suoi componenti, l’autorizzazione a procedere in giudizio nei confronti del Ministro. richiesta dal Tribunale dei ministri di Catania. Cosa avvenne nel corso di quella manifestazione cui partecipò il giudice? Intanto, va subito detto che non era certo stata organizzata da gruppi eversivi o estremisti, ma da molte associazioni note per il loro impegno a favore dei diritti fondamentali delle persone. Dal filmato diffuso, però, emerge che ad un certo punto alcuni manifestanti iniziarono imprevedibilmente ad inveire con atteggiamenti minacciosi ed insulti nei confronti delle forze dell’ordine, ma si vede pure che la dr.ssa Apostolico, unitamente ad altre persone che mantennero atteggiamento serio e corretto, senza dire una parola, si interpose tra quei manifestanti e la polizia, arrivando a fungere da utile sbarramento. Bisogna porsi a questo punto alcune domande. La prima: è vietato disciplinarmente per i magistrati partecipare a manifestazioni di quel tipo, regolarmente autorizzate? Assolutamente no, a meno che non le si voglia sfruttare per conseguire vantaggi personali. La seconda: ma è opportuno, pur in assenza di divieti, che il magistrato partecipi a manifestazioni pubbliche e “scenda in piazza”? La risposta può variare a seconda del tipo di manifestazione e dei comportamenti dei magistrati. E’ non solo permesso, ma ad avviso di chi scrive anche doveroso, impegnarsi pubblicamente in difesa dei diritti fondamentali delle persone, specie di chi fugge dalla propria patria solo per una speranza di vita dignitosa. Ed ogni impegno civile è comunque possibile, purché caratterizzato da sobrietà e serietà, come lo è stato il comportamento del giudice catanese in occasione della manifestazione. A maggior ragione l’impegno è possibile se - come in questo caso - collegato ai temi propri della Giustizia, un “bene comune” che può affermarsi solo con l’impegno quotidiano di una collettività sensibile, qualunque sia il lavoro ed il sistema di vita di quanti la compongono. Di qui lo schierarsi di tanti magistrati negli ultimi decenni a tutela dei diritti fondamentali delle persone ed a difesa dei principi costituzionali su cui si regge ogni democrazia. Rammento gli incontri in scuole, università, quartieri cittadini, fabbriche per discutere di legalità e diffondere la conoscenza della perversa ideologia terroristica e della necessità di contrastare la logica mafiosa e la corruzione. Ed ancora le manifestazioni contro le leggi-vergogna, quelle contro i plurimi referendum abrogativi di pezzi importanti della Costituzione, una Carta che sventolammo nel 2005 nei palazzi di giustizia in occasione della inaugurazione dell’anno giudiziario, come bisognerebbe continuare a fare, specie nell’epoca che stiamo vivendo, in cui si vuole la magistratura ordine servente. Tornando al giudice di Catania, altra affermazione offensiva circolante è quella secondo cui, avendo partecipato a quella manifestazione, avrebbe dovuto astenersi dal valutare il caso dei tre tunisini di cui ha ordinato il rilascio. Facile rispondere: quell’evento risale ad oltre cinque anni fa ed allora la dr.ssa Apostolico non si occupava affatto di immigrazione. Dunque, non vi era allora ragione di astenersi dal parteciparvi, né oggi ve n’è alcuna per cui non dovrebbe far parte della sezione del Tribunale competente su istanze e status degli immigrati. Affermare che la sua decisione è frutto di pregiudizio politico è un insulto inaccettabile, pur se sono certo che non ha intaccato la serenità di quel giudice. Vale certamente per lei quanto inciso su una lapide in marmo, a Napoli, in una piazzetta tagliata, manco a farlo apposta, da via dei Tribunali: “Excellentium virorum est improborum negligere contumeliam a quibus etiam laudari turpe” (È degli uomini migliori - ma, aggiunge chi scrive, anche delle “donne migliori” - non curarsi degli insulti degli improbi, giacché persino essere lodati da costoro è motivo di vergogna). E su un’altra lapide vicina si legge: “Audendo agendo Respublica crescit non iis consiliis quae timidi cauta appellant” (La cosa pubblica cresce con coraggio e con l’azione, non con le decisioni che i pavidi chiamano caute). Molto altro si potrebbe dire sull’impegno civile dei magistrati ai quali non si può imporre o chiedere di parlare e scrivere solo con sentenze ed atti giudiziari, anche perché c’è qualcuno che per questo li vorrebbe sottoposti ad azioni disciplinari. Il modello di magistrato che auspico per il futuro è proprio quello caratterizzato da un impegno civile che sia perfettamente compatibile con la professione: ancora - per questo - ringrazio la dr.ssa Apostolico. Quel vecchio vizio dei magistrati di agire da soggetto politico di Gianpaolo Catanzariti* Il Dubbio, 6 ottobre 2023 Passano i governi, cambiano i ministri, mutano le maggioranze, ma la polemica incandescente tra politica e magistratura, specie se associata e magari con lo sguardo rivolto a sinistra, quella non cambia mai. Si pensava che il tramonto politico, prima, di Berlusconi e quello esistenziale, dopo, potesse sopire le turbolenze e le polemiche tra i poteri. E invece… e invece. Siamo alle solite. Stavolta la miccia l’ha innescata un giudice del tribunale civile di Catania che ha deciso di non convalidare il provvedimento di trattenimento emesso nei confronti di alcuni immigrati tunisini, provocando una reazione a catena in diversi ambiti. Dal presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, che, con opportunistica superficialità, aveva liquidato la interessantissima lettera di Marina Berlusconi sull’ennesima inchiesta giudiziaria mossa, post mortem, nei confronti del Cavaliere, sino ai giornali ritenuti vicini al centro- destra che hanno scovato posizioni “politiche” assunte in passato dal magistrato catanese contro la politica anti- migranti dell’ex ministro Matteo Salvini. Quindi l’iniziativa (solita) di apertura, al Csm, di una pratica a tutela del giudice Apostolico (chissà perché lo strumento della tutela viene sempre utilizzato dal Csm quando le critiche provengono dalla politica o dalla avvocatura e mai - e ribadisco, mai - quando l’indipendenza e l’autonomia del giudice viene pubblicamente, in tv o sui giornali, calpestata da quei magistrati, meglio se pubblici ministeri in lotta, alla continua ribalta mediatica). Intendiamoci, una polemica stucchevole da entrambe le parti e che rappresenta, però, come scarso sia il senso di responsabilità delle funzioni assunte. Ad ogni livello. Del tutto carente in seno a questa maggioranza politica che alimenta nel nome delle c. d. emergenze - vere o presunte che siano, poco importa - ogni rigurgito di pancia. Sia esso il carcere, la delinquenza minorile o la esplosiva situazione dei migranti, si immagina sempre di affrontarle con grida e schiamazzi. Ma altrettanto carente appare in seno alle rappresentanze istituzionali della magistratura, intente a osservare con insistenza il proprio ombelico. Nessun dubbio sulla legittimità della decisione adottata dal giudice di Catania sulla mancata convalida. Ci mancherebbe! Certo, alla luce di determinate posizioni politiche assunte pubblicamente nei confronti della politica anti- migranti dell’allora ministro Salvini, nessuno può pretendere, men che meno il giudice Apostolico, che la sua decisione non si esponga e non la esponga alle altrettanto legittime critiche “politiche”. Magari non della presidente del Consiglio, ma delle forze politiche che sostengono l’attuale maggioranza, sì. Piaccia o no, la, seppur sottile, ma vitale per la democrazia, linea di separazione tra la funzione politica appartenente alle rappresentanze della società e la funzione giurisdizionale attribuita alla più privilegiata categoria di funzionari pubblici, quella dei magistrati, non può essere cancellata a seconda delle simpatie o antipatie verso le classi politiche del momento. Non a caso esiste un divieto di partecipazione, in capo ai magistrati, alla vita dei partiti, al punto che l’eventuale iscrizione ad essi li espone ai procedimenti disciplinari e alle relative sanzioni. Di recente (sent. 170/ 2018) la Corte costituzionale è intervenuta per salvare dalla denunziata illegittimità del Csm (non a caso) proprio la disposizione di legge che sanziona disciplinarmente l’attività politica dei magistrati. Secondo la Consulta, “in linea generale, i magistrati debbono godere degli stessi diritti di libertà garantiti ad ogni altro cittadino”, ma “le funzioni esercitate e la qualifica rivestita dai magistrati non sono indifferenti e prive di effetto” per l’ordinamento costituzionale tanto da aver stabilito dei limiti all’esercizio di quei diritti. Sia in ragione della particolare qualità e delicatezza delle funzioni giudiziarie, sia dei principi costituzionali di indipendenza e imparzialità (artt. 101, 104 e 108, Cost.) che le caratterizzano. Essi, appunto, vanno tutelati non solo con specifico riferimento all’esercizio delle funzioni giudiziarie, ma anche quali criteri ispiratori di regole deontologiche da osservarsi in ogni comportamento di rilievo pubblico, al fine di evitare che dell’indipendenza e imparzialità dei magistrati i cittadini possano fondatamente dubitare. “La Costituzione, in tal modo, mostra il proprio sfavore nei confronti di attività o comportamenti idonei a creare tra i magistrati e i soggetti politici legami di natura stabile, nonché manifesti all’opinione pubblica, con conseguente compromissione, oltre che dell’indipendenza e dell’imparzialità, anche della apparenza di queste ultime: sostanza e apparenza di principi posti alla base della fiducia di cui deve godere l’ordine giudiziario in una società democratica”. Il difficile equilibrio tra politica e magistratura appare ancora compromesso e non sembra assolutamente incanalato verso un binario più ragionevole e democraticamente accettabile, come segnala bene l’editoriale di Davide Varì a commento della mozione conclusiva del congresso di Area laddove si teorizza un “nuovo modello di magistrato”, per “uscire dalle aule dei tribunali e partecipare al dibattito pubblico” per “tenere accesa la luce quando il buio si farà più fitto”. Per carità, nulla di nuovo sotto il sole, per la società italiana. La storia della magistratura, quella associata, è piena di manifesti programmatici e politici dal sapore, senza dubbio, rivoluzionario anche rispetto al modello costituzionale del 1948. Nel nome della “giustizia virtuosa” e del protagonismo sociale e politico del magistrato teorizzato e praticato nei momenti critici del nostro passato, dalla contestazione giovanile all’autunno caldo, dal 1977 a tangentopoli, troppe volte abbiamo assistito a iniziative ardite, a processi, specie penali, diventati non più sedi naturali di accertamento dei reati, ma vere e proprie “arene”, strumenti di lotta politica e regolazione sociale. Con l’aggravante, dei nostri giorni, della paurosa latitanza della politica, non più in grado di esercitare il ruolo guida delle nostre comunità, come dimostra la presenza al congresso di Area della segretaria del Pd, Elly Schlein, e del capo dei 5S, Giuseppe Conte, probabilmente in sala per comprendere gli umori dei magistrati e orientare, così, le loro scelte politiche. *Avvocato La destra vuole la solita infame giustizia di classe di Massimo Fini Il Fatto Quotidiano, 6 ottobre 2023 La sentenza con cui il Tribunale di Catania, nella persona del giudice Iolanda Apostolico, non ha convalidato il trattenimento di tre migranti tunisini ha suscitato un putiferio. Contro la sentenza si sono scagliati i berluscones di tutte le risme e anche non strettamente berlusconiani, come la premier Giorgia Meloni, che dovrebbe conoscere i fondamentali della democrazia. Secondo la classica definizione di Montesquieu, in democrazia esistono tre poteri, distinti per funzioni e indipendenti l’uno dall’altro: il potere esecutivo che decide i provvedimenti concreti, il potere parlamentare che controlla politicamente le decisioni dell’esecutivo e il potere giudiziario che controlla che le leggi approvate dal Parlamento e pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale non contrastino, dal punto di vista della giurisdizione, queste stesse leggi votate dal Parlamento. Inoltre ha il compito di dare stabilità all’intero sistema, nel penale e nel civile, regolando i rapporti tra i cittadini, sancendo quali abbiano violato le leggi e quali no. In altri termini, se io ho violato norme del codice penale o di quello civile devo essere punito nel più breve tempo possibile. Se sono stato accusato ingiustamente devo essere assolto nel più breve tempo possibile. Purtroppo in Italia i tempi del processo hanno una durata da plantigradi. Ed è questo il vero, grande, problema della Giustizia italiana, non la “terzietà” dei giudici o la composizione del Csm. Sulla personalità della Apostolico i giornali berluscones, ma anche non berluscones, si sono accaniti andando a scovare sui social network le dichiarazioni della magistrata e le sue intuibili predilezioni ideologiche. E qui hanno ragione perché il magistrato, come la moglie di Cesare, non solo deve essere onesto ma deve anche apparire onesto. Purtroppo in quest’Italia, che è la madre del Diritto ma se lo è dimenticato, i magistrati non sono più quelli di un tempo che parlavano solo “per atti e documenti” e stavano molto attenti anche alle loro relazioni personali. Giustamente il Codice di Alfredo Rocco, che sarà stato pure fascista ma era un grande giurista, fa riferimento agli Uffici (la Procura della Repubblica di, il Tribunale di, eccetera) e non al singolo magistrato. Perché il magistrato può essere anche ineccepibile, ma avrà pur sempre una moglie, dei figli, degli amici e quindi è attaccabile: la funzione no. Ma la questione, da più di un quarto di secolo, è tutta un’altra. E parte da quando i magistrati milanesi di Mani Pulite, nel periodo 1992-’94, chiamarono la classe dirigente politica e imprenditoriale al rispetto di quelle leggi a cui tutti noi cittadini siamo obbligati (prima le inchieste più scottanti per i politici e i “colletti bianchi” finivano a Roma, detta anche “il porto delle nebbie” e nella nebbia sparivano). Dopo un primo periodo di euforia (editoriale di Paolo Mieli sul Corriere: “Dieci domande a Tonino”, come se avesse mangiato insieme con Di Pietro a Montenero di Bisaccia) nel giro di pochi anni i veri colpevoli divennero i magistrati e i ladri le vittime e spesso giudici dei loro giudici. Di Pietro, che era il più visibile perché aveva condotto gli interrogatori trasmessi anche dalla televisione in Un giorno in pretura, fu il più bersagliato. Subì sette processi da cui venne regolarmente assolto. In uno di questi processi, Silvio Berlusconi, il più mascalzone di tutti i mascalzoni, mandò anche due personaggi da lui e dai suoi avvicinati perché testimoniassero contro Di Pietro. I personaggi furono condannati, ma Berlusconi la fece franca. E le sue leggi ad personam divennero ad personas perché bisognava salvare anche gli altri “colletti bianchi”. È più di un quarto di secolo che c’è una lotta all’arma bianca della classe dirigente contro la Magistratura. Basterà ricordare, fra tutti gli esempi che si possono fare, che Berlusconi premier affermò in terra di Spagna che Mani Pulite era una “guerra civile”. Si è creato così nel tempo, come dimostrano anche gli ultimi provvedimenti del governo Meloni, un doppio diritto, uno per lorsignori e uno per il cittadino comune. Per sintetizzare e semplificare basta la dichiarazione di madama Santanchè che per i delitti da strada, quelli commessi in genere dai poveracci, vuole “galera subito e buttare via le chiavi”. La spiegazione che si dà a questo “doppio diritto” è che i delitti da strada creano allarme sociale. E certamente il borseggio di una vecchietta è cosa grave, ma una bancarotta fraudolenta mette sul lastrico cento o mille vecchiette che hanno affidato i loro soldi a quel covo di canaglie che sono spesso le banche. Insomma è la solita, sfacciata, infame, sporca giustizia di classe. L’appoggio della collettività a Mani Pulite fu sgretolato: Di Pietro fu infamato, Feltri comprato, Bossi innocuizzato sbandierandogli sul muso i reati di opinione che aveva commesso (“vilipendio alla bandiera”, ecc.), Gianfranco Funari che era stato protagonista di quella stagione irripetibile fu costretto alla ridotta di Odeon. Ma il mio slogan è e resta: “toglietemi tutto, tranne Di Pietro”, oh yeah! È morto Giulio Petrilli. Cari giudici, stavolta pentitevi voi di Frank Cimini L’Unità, 6 ottobre 2023 Arrestato nel 1980 con l’accusa di aver partecipato a Prima Linea, il pm Spataro chiese per lui 11 anni di reclusione. Condannato a 8, dopo 6 anni l’assoluzione in appello poi confermata dalla Cassazione. Ma il ristoro per l’ingiusta detenzione gli fu rifiutato. Il motivo? A causare l’errore giudiziario erano state le sue “cattive frequentazioni”. Non ha mai smesso di lottare: per l’amnistia, contro il 41bis. Pochi giorni fa la morte per una embolia polmonare. È morto Giulio Petrilli, protagonista di una incredibile vicenda giudiziaria relativa alla storia degli anni 70 e del “terrorismo”, quindi non la sola, ma molto significativa. Arrestato nel 1980 con l’accusa di aver partecipato a Prima Linea, il pm Armando Spataro chiese per lui 11 anni di reclusione, fu condannato a 8 anni. In appello arrivò l’assoluzione poi confermata dalla Cassazione. Ma dentro questa vicenda resta “esemplare” la motivazione con cui i giudici rifiutarono il risarcimento per ingiusta detenzione. L’errore contenuto nella sentenza di primo grado era stato indotto dalle sue “pessime frequentazioni”. Furono parole pesantissime che portarono Petrilli a combattere fino al termine dei suoi giorni per un’amnistia e contro il 41bis, figlio del famigerato articolo 90 che lui aveva provato sulla sua pelle. Ma andiamo con ordine. Lasciamo la parola allo stesso Petrilli in uno scritto del primo dicembre del 2014. “Ho letto che il nuovo procuratore di Torino è l’ex pm di Milano Armando Spataro. Famoso magistrato di cui si parla sempre in positivo, ma nessuno sa che ha commesso anche gravi errori giudiziari. Lo dico avendolo vissuto sulla mia pelle. Spataro emise un mandato di cattura nei miei confronti il 23 dicembre 1980 dove mi accusò di partecipazione a banda armata con funzioni organizzative, Prima Linea - racconta Petrilli - In primo grado Spataro chiese 11 anni di carcere. La corte di assise mi condannò a 8 anni. Dopo 5 anni e 8 mesi la corte di Appello mi assolse e poi la Cassazione confermò”. Petrilli scontò ingiustamente sei anni di carcere. “E non mi hanno risarcito perché secondo i giudici preposti a stabilire se dovevo avere il risarcimento io avevo avuto cattive frequentazioni. I magistrati come Spataro che commettono errori clamorosi vengono promossi, le persone che subiscono gravi errori giudiziari manco vengono risarcite - conclude - È giustizia o sopraffazione? Avevo fatto anche a luglio richiesta al capo del governo chiedendo danni per dieci milioni di curo per sei anni di ingiusta detenzione. Chiedevo la responsabilità civile del magistrato, non ho avuto risposta”. “Giulio Petrilli ci ha lasciato prematuramente a causa di una embolia polmonare. Ricoverato d’urgenza non ce l’ha fatta - dice Paolo Persichetti - corpo possente da vero rugbista lo ricordiamo per la sua incredibile umanità per la generosità debordante. Nel 1984 era stato anche picchiato duramente dalla polizia penitenziaria dopo una fermata all’aria di protesta fatta con i suoi compagni per denunciare le condizioni di detenzione. Si è battuto fino all’ultimo contro il 41bis” La vicenda del mancato e negato risarcimento aveva acceso dentro di lui un fuoco inesauribile, ricorda ancora Persichetti secondo il quale soltanto un terzo delle richieste di ristoro per il carcere ingiusto vengono accolte. Infatti non basta la sentenza di assoluzione e non basta nemmeno che la giustizia abbia riconosciuto l’illegittimità della misura cautelare. Chi è stato in carcere ingiustamente deve dimostrare di non aver tenuto un comportamento tale da aver tratto in inganno i magistrati con atteggiamenti omissivi o perché non si è avvalso delle funzioni difensive che restano un diritto fondamentale dell’imputato anche sotto il profilo delle frequentazioni. In sostanza le sentenze di assoluzione valgono fino a un certo punto perché poi vengono sottoposte a un nuovo processo dove la personalità di chi è stato assolto viene giudicata a livello morale. Insomma una sorta di quarto grado di giudizio per resuscitare la colpa con tanti saluti all’assoluzione fino all’inversione dell’onore della prova. Chi viene assolto per reati avvenuti in posti dove c’è la criminalità organizzata diventa responsabile del fatto di frequentare contesti pieni di pregiudicati. Chi viene assolto da accuse di eversione, se ha frequentato luoghi di conflitto recepito come culture antagoniste e irregolari secondo la nonna politico morale dominante, viene ritenuto responsabile di una sorta di concorso ambientale. In questo modo si arriva alla teologia giudiziaria. È una giustizia che sta nell’alto dei cieli che processa dopo il processo penale la presunta doppiezza o ambiguità dell’imputato assolto. È il meccanismo che ha stritolato Giulio Petrilli in un’epoca in cui il populismo penale dilaga sempre di più e continua a colpire a ormai mezzo secolo di distanza da quel periodo degli anni 70 con il quale la politica, a cominciare dalla sinistra, rifiuta di fare i conti. L’espulsione come alternativa alla detenzione è nulla se non c’è il difensore di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 6 ottobre 2023 Nulla l’espulsione del cittadino extracomunitario, adottata in alternativa alla detenzione, dal magistrato di sorveglianza senza notificare il provvedimento al difensore. L’impossibilità di proporre opposizione da parte del legale di fiducia viola il diritto di difesa. La Corte di Cassazione, con la sentenza 40696, accoglie il ricorso di un cittadino marocchino contro il provvedimento che disponeva il suo rientro nella terra d’origine, adottato de plano. Una procedura consentita, ricorda la Suprema corte, dal Testo unico dell’immigrazione (Dlgs 286/1998) prima delle modifiche introdotte dal cosiddetto decreto “Svuota carceri” del 2014. Il Dlgs del 1998 non riconosceva, infatti, al difensore del detenuto la facoltà processuale di opporsi all’espulsione. E, di conseguenza, non contemplava neppure l’obbligo di comunicargli il provvedimento, come chiarito anche da una giurisprudenza consolidata. Dopo lo Svuota-carceri, invece sia il detenuto sia il suo legale sono stati inseriti nell’elenco dei soggetti legittimati, insieme al pubblico ministero, a fare opposizione. Un nuovo corso che comporta dunque la necessità da parte del magistrato di sorveglianza di notificare, attraverso la cancelleria il decreto con il quale ha disposto l’espulsione sia all’interessato sia al difensore di fiducia, in assenza del quale va nominato un difensore d’ufficio. Un passaggio saltato nel caso esaminato, in cui si era fatto ricorso al difensore d’ufficio, malgrado la precedente nomina di uno di fiducia, al quale era stato impedito di proporre dei motivi per perorare la causa del suo assistito ed evitare il rimpatrio in Marocco. Un vulnus determinante alle prerogative della difesa - nell’ambito di un procedimento a contraddittorio differito - e dunque al giusto processo, che porta la Corte di cassazione ad annullare senza rinvio il provvedimento impugnato. Sardegna. Carceri, la consigliera Cuccu: “Grave emergenza sanitaria, servono risposte” L’Unione Sarda, 6 ottobre 2023 “Strutture sovraffollate e fatiscenti, assenza di personale: occorre stanziare fondi per incentivare l’assunzione di medici e operatori socio-sanitari”. “Ho riscontrato, nel corso della mia esperienza da Consigliere Regionale, un’importante emergenza relativa al rapporto tra detenzione carceraria e diritti dei detenuti all’interno delle carceri della Sardegna”. Sono le parole di Carla Cuccu, consigliera regionale della Commissione Sanità. Che prosegue: “La sanità all’interno delle carceri sarde è trascurata e versa in una grave crisi. Totale assenza di personale nelle ore notturne, carenza di assistenza medica infermieristica e operatori socio sanitari (O.S.S.), insufficiente presenza degli specialisti di psichiatria. Molte strutture carcerarie sarde sono sovraffollate e in condizioni fatiscenti, con scarse condizioni igieniche che minano la dignità dei detenuti. Questi sono solo alcuni dei maggiori problemi riscontrati”. L’assenza di progetti di reinserimento nel mondo del lavoro e una rete di sostegno socio-assistenziale valida sono poi problemi che, secondo Cuccu, influiscono negativamente sulla vita presente e futura dei detenuti. “Ho sollevato il problema della mancanza di reparti detentivi ospedalieri operativi negli ospedali di Nuoro, Sassari e Cagliari, oltre alla presenza di una sola Sezione ad Assistenza Intensiva (S.A.I.) operativa a Cagliari. Quali sono le condizioni attuali del Reparto Detentivo Ospedaliero di Cagliari? In data 1 aprile 2020 avevo depositato l’interrogazione n. 377/A proprio interrogando il presidente della Regione Sardegna Solinas a riguardo, e purtroppo non è giunto alcun riscontro a tutt’oggi”. “È necessario - continua ancora Cuccu - stanziare immediatamente fondi per incentivare l’assunzione di medici e operatori socio-sanitari da inserire tempestivamente nelle carceri sarde, al fine di migliorare la situazione sanitaria all’interno delle strutture penitenziarie”. “Vorrei sapere - la conclusione - se il Governo Regionale è a conoscenza di tutte le criticità precedentemente evidenziate, dato che non sono poche e persistono da molto tempo. Il mio obiettivo è quello di migliorare le condizioni di vita dei detenuti e degli operatori del settore penitenziario in Sardegna. Il loro ruolo è fondamentale. Un paese moderno deve pensare al reinserimento nella società dei detenuti, alla loro formazione per il mondo del lavoro, e soprattutto alla loro salute, e deve tutelare tutti gli operatori che operano in questo settore”. Santa Maria Capua Vetere. Processo per le torture in carcere: “Scongiurare rischio prescrizione” casertanews.it, 6 ottobre 2023 Il Garante Ciambriello: “Necessario risalire a tutte le responsabilità”. Scongiurare il rischio prescrizione per il processo sulle torture ai danni di detenuti avvenute nel carcere di Santa Maria Capua Vetere il 6 aprile del 2020. È l’appello che arriva dal Garante campano delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale Samuele Ciambriello, il primo a denunciare le violenze ed i pestaggi, già sentito come testimone durante il processo in corso. “Ritengo assolutamente necessario, per una società civile, che si risalga presto e bene a tutte le responsabilità. Voglio dire che occorre scongiurare il rischio che le responsabilità restino coperte dalla prescrizione della gran parte dei reati commessi. Ma lo dico anche nell’interesse di quel personale del carcere che, con sacrificio anche, hanno fatto e fanno il loro lavoro nel rispetto delle regole e delle persone detenute. Sotto quest’ultimo aspetto ho già avuto modo di apprezzare il Presidente della Corte d’Assise di S. Maria C.V., dott. Roberto Donatiello che, sicuramente di concreto col Presidente del Tribunale, dott.ssa Gabriella Casella, hanno imposto ben due udienze settimanali per dare celerità al processo”. Ciambriello ha aggiunto: “Apprendo con soddisfazione dall’avvocato Francesco Giuseppe Piccirillo che mi difende come parte civile contro tutti i responsabili, che il presidente della Corte ha stabilito, per il futuro, che non sarà dedicata più di una udienza per ogni testimone. Il che significa che nella stessa giornata le parti devono concludere sia l’esame che il contro esame. È un atto di ‘accelerazione’ del processo, che deve valere anche restituire quella dignità istituzionale al carcere di S. Maria C.V. che questi fatti hanno messo in discussione”. “Emergono dettagli sempre più raccapriccianti nel processo che si sta celebrando dinanzi alla Corte di Assise per le violenze avvenute, come riferisce uno degli ultimi testimoni ascoltati e che ha raccontato i momenti del pestaggio: “Sono un figlio di un carabiniere, lasciatemi stare, non ho fatto niente. Ma l’agente che mi picchiava diceva che non gli importava niente a chi era figlio”. L’altro teste, Ianniello, ripeteva come un mantra: “Mi hanno massacrato”. In altri termini, i fatti si confermano gravissimi per essere riferiti a ‘rappresentanti delle istituzioni’, quali gli agenti di polizia penitenziaria”. La prossima udienza è in programma il 16 ottobre. Monza. Carcere allo scoperto con orto e falegnameria: “Una seconda occasione per i detenuti” di Dario Crippa Il Giorno, 6 ottobre 2023 L’intervista a Cosima Buccoliero, nuova direttrice della casa circondariale: “Un’occupazione fa bene a tutti, parlerò con Afol e Provincia per portare i lavori all’esterno”. Una nuova possibilità. Ci sono persone che non hanno una famiglia, che non hanno un punto di riferimento, che se avessero avuto un’altra possibilità forse non sarebbero in carcere. Ne è convinta Cosima Buccoliero, 55 anni, salentina di origine, che dallo scorso maggio ha lasciato il carcere di Torino per venire a dirigere la casa circondariale di via Sanquirico a Monza. Lo ha chiesto lei. E il suo curriculum è tutto tranne che una banale elenco di titoli. Già direttrice anche al penitenziario di Opera, Ambrogino d’Oro, giurista, e ha fatto dell’umanizzazione della pena il suo stile di vita. Ferma e determinata, è stata fra le altre cose una delle protagoniste della rivoluzione del carcere di Bollate, il penitenziario modello che ha fatto scuola, dove ai detenuti viene offerta un’altra chance. Ha diretto e continua a dirigere il carcere minorile Beccaria di Milano. Sa cosa significhi guardare in faccia un detenuto e considerarlo prima di tutto una persona. Senza nascondere i problemi di un sistema che, spesso, fa acqua da tutte le parti. Sovraffollamento: com’è la situazione a Monza? “Ci sono attualmente 690 detenuti, la scorsa estate abbiamo raggiunto anche punte di 720 nonostante la capienza sia di 408 posti. In pratica, ci sono 300 persone in più del dovuto”. Importerà il sistema Bollate? “Non è possibile replicarlo in toto, a Monza la situazione è completamente diversa. A livello di spazi e come detenuti. A Bollate ci sono detenuti stanziali, qui ci sono detenuti che hanno pene meno lunghe, e molti che hanno avuto una revoca delle pene alternative. E non possono quindi più beneficiarn”“. Però... “L’esperienza a Bollate mi ha insegnato che le cose si possono fare. Bisogna investire sul trattamento dei detenuti, l’umanizzazione della pena rende, il lavoro dimostra che in determinanti contesti porta vantaggi per tutti”. Cosa si può fare a Monza? “C’è un territorio fertile in Brianza. I detenuti devono avere opportunità: ci sono un orto, una serra, un laboratorio di falegnameria… L’ideale sarebbe sviluppare queste possibilità aprendosi al territorio. Quando si coltiva un orto, ad esempio, bisogna trovare un modo per utilizzare i prodotti che si sono fatti crescere: l’autoconsumo non basta, bisogna poter vendere all’esterno i prodotti. Alcuni detenuti si sono appena autotassati per acquistare le sementi, l’ideale sarebbe diventare autosufficienti e stare sul mercato. Abbiamo appena fatto delle fioriere per il Comune di Villasanta. Servirebbe una vetrina con i prodotti del carcere, come a Milano o a Torino. E un imprenditore ci ha appena offerto una commessa importante: vorrebbe che aprissimo un laboratorio di assemblaggio per fare spazzolini da denti. Discuterò di idee come questa con la Provincia e con Afol (Agenzia per la Formazione, l’Orientamento e il Lavoro). Quando ho chiesto di venire a Monza sapevo che c’era un humus fertile”. Ci sono anche problemi. Lo scorso anno ci sono stati parecchi guai con i detenuti psichiatrici, rivolte e aggressioni... “Monza è sede di “Articolazione per la tutela della salute mentale dei detenuti” e quindi ci vengono mandati parecchi detenuti con problemi psichiatrici. Abbiamo 4 sezioni”. Quanti sono? “Quelli certificati 200. Non è semplice gestirli”. E ci sono i tossicodipendenti... “Sono 350, avrebbero bisogno di una comunità, ma trovarle è difficile: nessuno vuole un detenuto fra i propri pazienti. Ci arrangiamo con il nostro SerD (Servizio per le Dipendenze) interno”. Quante persone? “Sette o otto fra medici, assistenti sociali, psicologi, volontari”. Troppo poco. E gli stranieri? “Sono il 50 per cento della popolazione carceraria, i nuovi arrivi rispettano queste proporzioni”. Difficoltà? “Da un anno e mezzo circa il problema sta diventando la lingua. Parecchi di questi detenuti arrivano in Italia di passaggio, diretti ad altri Paesi d’Europa. Non parlano la nostra lingua e non sono interessati a farlo. Vorrebbero solo proseguire nel loro viaggio. E i mediatori culturali mancano: i bandi che sono stati fatti per trovarli continuano ad andare deserti: è un lavoro che non vuole fare nessuno, per il livello della retribuzione e la tipologia di contatto. Non poter comunicare è diventato un problema”. Cagliari. Carcere Uta, capienza al 105%. Allarme per detenuti tossicodipendenti e malati psichici L’Unione Sarda, 6 ottobre 2023 La fotografia dei penitenziari sardi dell’associazione Sdr: “I ristretti superano i posti e lo scarso personale riduce la possibilità di attuare progetti riabilitativi”. Il numero di detenuti del carcere di Cagliari-Uta ha ormai abbondantemente superato la capienza massima ed è ormai “pieno” al 105%. Non solo: molte delle persone ristrette hanno problemi di tossicodipendenza o di disturbi psichici, ma la carenza di personale, anche specializzato, rende difficile se non impossibile terapie, assistenza e riabilitazione. Inoltre, la situazione non va meglio negli altri istituti carcerari dell’Isola. La denuncia arriva dall’associazione Socialismo Diritti. “È in costante aumento - si legge in una nota a firma di Maria Grazia Caligaris, che prende in considerazione gli ultimi dati del Ministero della Giustizia - il numero dei detenuti nella Casa Circondariale “Ettore Scalas” di Cagliari-Uta. Ogni mese infatti si registra nell’Istituto una crescita delle persone private della libertà oltre il limite regolamentare. Un segnale preoccupante a cui non corrisponde un adeguamento del personale amministrativo, di quello della Polizia penitenziaria e degli educatori. Senza contare che il Direttore riveste un doppio incarico essendo reggente a Sassari-Bancali e non c’è un vice direttore”. “Dietro le sbarre della principale struttura detentiva dell’isola - sottolinea Caligaris - sono presenti 589 ristretti (tra cui 111 stranieri e 24 donne) per 561 posti regolamentari (quasi il 105%). Erano 536 il 31 gennaio scorso. Si tratta di una popolazione privata della libertà di difficile gestione per la consistente presenza di tossicodipendenti e persone con disturbi psichici. Spesso le celle vengono distrutte da atti inconsulti e continuano a stare in isolamento persone che sono incompatibili con la detenzione. Lo scarso personale inoltre riduce la possibilità di attuare progetti riabilitativi anche a chi potrebbe farli con il costante esito di ridurre la permanenza in carcere a una pena fine a se stessa”. Sassari - Come detto, però, l’allarme non riguarda solo Cagliari. “La situazione è al limite anche a Sassari-Bancali dove - osserva l’esponente di SDR - ci sono 456 detenuti rispetto a 454 posti letto (tra cui 116 stranieri e 17 donne. Sono invece 90 i ristretti in regime di massima sicurezza (41bis)”. Gli altri - Ancora: “Resta difficile la situazione al Paolo Pittalis di Tempio-Nuchis con 178 reclusi, tutti in alta sicurezza (per 170 posti). Al contrario, è migliorata numericamente la situazione a Oristano-Massama 242 (per 266) e a Lanusei dove 28 detenuti convivono in 33 posti”. Per quanto riguarda gli altri penitenziari, prosegue SDR, “regolamentare risulta la presenza di cittadini privati della libertà nella Casa di reclusione di Alghero che ha 110 ristretti per 156 posti (25 stranieri) e Badu ‘e Carros con 192 reclusi per 378 posti (anche se ci sono due sezioni chiuse). Resta paradossale la situazione nelle Colonie all’aperto di Is Arenas (79 presenze per 176), Isili (81 per 130) e Mamone (162 su 292 - in realtà è chiuso un padiglione di altri 100 posti) dove appare ancora molto difficile colmare qualche vuoto”. “Serve una svolta” - “Nonostante l’annuncio di iniziative di valorizzazione - conclude Caligaris - lasciano ancora a desiderare il lavoro costante dei detenuti e le produzioni agricole. Come sanno i responsabili del Dap e del Ministero, in Sardegna è necessaria una svolta. Nei prossimi giorni dovrebbero essere rese note gli esiti le assegnazioni degli incarichi ai nuovi direttori in modo da superare le difficoltà di sopperire in tre alla gestione di 10 Istituti. Il dubbio però resta anche perché la Sardegna non ha neppure un Provveditore regionale assegnato in modo esclusivo”. Napoli. “Firma falsa per rinunciare alla Tac”, detenuto scopre tumore con un anno di ritardo di Dario Sautto Il Mattino, 6 ottobre 2023 Un 46enne di Castellammare ha denunciato l’episodio: malato, da agosto attende il ricovero. Per oltre un anno ha atteso invano di poter essere sottoposto ad una pet-tac, poi scopre che qualcuno ha falsificato la sua firma per rinunciare all’esame diagnostico e, solo ad agosto, gli riscontrano una formazione tumorale che si è già estesa a due organi. Oggi è ancora detenuto nel carcere di Poggioreale il 46enne M.F., pregiudicato di Castellammare di Stabia, nonostante necessiti “di un ricovero urgente” come scritto dai sanitari della casa circordariale napoletana lo scorso 11 agosto. Dopo cinquanta giorni, affidandosi all’avvocato Francesco Romano, il 46enne ha presentato un esposto alla Procura di Napoli per denunciare un “gravissimo falso in atto pubblico” che sta compromettendo “lo stato di salute del detenuto”, le cui condizioni - secondo una perizia medica di parte - sono “molto delicate”. Un calvario iniziato poco dopo il suo ultimo arresto per spaccio di droga, avvenuto ad aprile 2022 a Castellammare di Stabia, reato per il quale è stato condannato in primo grado a otto anni di reclusione. Nel frattempo, già nel 2021 M.F. aveva già scoperto di avere un piccolo problema al surrene destro. Una piccola formazione di circa 10 millimetri, un incidentaloma, che il 46enne doveva costantemente monitorare per capire se fosse benigna o maligna. A maggio dello scorso anno, il detenuto ha cominciato ad accusare problemi di salute collegati ed ha fatto richiesta di ulteriori esami. Gli stessi sanitari del carcere di Poggioreale - come si legge nella cartella clinica - a luglio (quindi due mesi dopo la prima visita) gli avevano prescritto l’esame diagnostico specifico, da effettuare in una struttura sanitaria esterna alla casa circondariale. Da quel momento in poi, la pet-tac prescritta non è stata effettuata, per una serie incredibile di vicissitudini, tutte descritte nella denuncia trasmessa dal detenuto alla Procura di Napoli. Una volta per mancanza dell’autorizzazione del giudice che non avrebbe valutato in tempo utile l’istanza. In un’altra occasione, con i macchinari già pronti, è stata riscontrata addirittura l’assenza della scorta che lo avrebbe dovuto accompagnare dal carcere all’Ospedale del Mare. In altre due occasioni, tra uno sciopero della fame e l’altro, il detenuto è stato accompagnato nella struttura ospedaliera, dove i medici hanno scoperto che “il personale sanitario del carcere non aveva predisposto le necessarie e prescritte attività preparatorie” all’esame diagnostico. Infine, con l’ultima istanza presentata a marzo, a maggio “qualcuno ha falsificato la mia firma sul documento con il quale rinunciavo alla pet-tac” denuncia il 46enne. Circostanza che è stata scoperta quasi “per caso” il 5 agosto di quest’anno, dopo un accesso agli atti e una richiesta di copie avanzata dall’avvocato Romano, che si era visto rigettare un’istanza di sostituzione della misura per motivi di salute “perché il detenuto sta bene, tant’è che rinuncia agli esami diagnostici” come scritto dal giudice. Pochi giorni dopo, e arriviamo all’11 agosto, M.F. è stato finalmente sottoposto alla pet-tac, che ha rivelato una diagnosi preoccupante: quell’incidentaloma di 10 millimetri ora è una formazione tumorale molto più ampia, che riguarda non solo il surrene destro, ma anche lo stomaco. “L’esito della pet-tac - è la triste considerazione inserita nella denuncia - fotografa impietosamente l’inaccettabile, drammatica, indecorosa condizione dei detenuti in Italia”. Analizzati i risultati, i medici del carcere di Poggioreale hanno consigliato immediatamente un ricovero urgente del detenuto stabiese che, ad oggi, non è ancora stato effettuato. Nel frattempo, le sue condizioni sono ulteriormente peggiorate e quel problema di salute gli sta causando una serie di disturbi seri. “Da mesi ci sono tracce di sangue nelle feci” come sottolineato anche dal dottor Arturo Fomez, consulente di parte, un sintomo che non lascia presagire nulla di rassicurante. Ieri, intanto, sono state depositate prima la denuncia e poi l’ennesima istanza per permettere al detenuto di potersi curare in maniera adeguata. Bologna. Il progetto di Acli e del carcere della Dozza. Un corso da centralinista per otto detenuti Il Resto del Carlino, 6 ottobre 2023 Un progetto per formare otto detenuti del carcere di Bologna come centralinisti: è l’iniziativa “Call Center Caf Acli-Dozza”, presentata oggi a Bologna in occasione del trentesimo anniversario del Caf Acli. Premi per i dipendenti più anziani e aperitivo offerto dagli studenti di Oficina. Un progetto per formare otto detenuti del carcere di Bologna che seguiranno un corso di 250 ore per ottenere la qualifica di centralinista. Si tratta del progetto Call Center Caf Acli-Dozza, finanziato da ‘Insiemexillavoro’ e organizzato da Oficina, che sarà illustrato nell’incontro ‘Nessuno resti escluso’, che si terrà oggi alle 16 presso Oficina Bologna, in via Scipione dal Ferro 4. A confrontarsi ci sarà innanzitutto Chiara Pazzaglia, presidente Acli Provinciali di Bologna, che commenterà tra l’altro anche i dati della Campagna Fiscale dei Caf Acli, sottolineando come cambiano nel tempo i redditi dei bolognesi. Con lei, ci saranno Rosa Alba Casella, Direttrice Casa Circondariale della Dozza, Simone Zucca, Direttore Caf Acli, Armando Celico, direttore di Oficina I.S Srl e Giovanni Cherubini, referente dell’Arcidiocesi di Bologna. L’incontro è aperto a tutti, con inviti “prioritari” a dipendenti dei Caf Acli di Bologna e delle maestranze sistema Acli. In occasione del trentesimo Compleanno del Caf Acli, verranno consegnati premi ai dipendenti con maggior anzianità di servizio. Successivamente verrà offerto un aperitivo grazie alla collaborazione con studenti di Oficina - Corso Operatore Turistico. Milano. Mostra con 35 ritratti dal penitenziario di Opera della fotografa Lazzati agensir.it, 6 ottobre 2023 “Ritratti in carcere”: è il titolo della mostra delle fotografie realizzate da Margherita Lazzati, che viene proposta dal 7 ottobre all’Abbazia Mirasole di Opera (Milano). L’esposizione rimarrà visitabile fino al prossimo 7 gennaio (martedì-domenica, ore 10.20). Si tratta di fotografie scattate nel carcere di massima sicurezza di Milano-Opera: un totale di 35 ritratti, 31 di persone recluse e 4 di volontari, tutti eseguiti tra l’estate 2016 e l’estate 2023. “Margherita Lazzati, con l’autorizzazione del ministero della Giustizia (e grazie al già direttore del carcere, Giacinto Siciliano e all’attuale direttore, Silvio Di Gregorio), ha frequentato tutti i sabati per più di dodici anni il laboratorio di scrittura creativa nel carcere - spiega una nota - e, consenzienti le persone detenute, ha realizzato una vera e propria galleria di ritratti, settimana dopo settimana, mese dopo mese”. La mostra è realizzata con l’apporto di Galleria l’Affiche, Milano. Ravenna. “Domani faccio la brava”, mostra sulle carceri femminili alla Biblioteca Malatestiana ravennawebtv.it, 6 ottobre 2023 “Domani faccio la brava”, la mostra del fotoreporter Giampiero Corelli, dedicata alle donne nelle carceri italiane inaugura alla Biblioteca Malatestiana di Cesena. Dopo l’esposizione a Ravenna e in Regione Emilia-Romagna, un’altra tappa romagnola del percorso che apre uno squarcio sulla quotidianità del sistema carcerario, dal punto di vista femminile, dal punto di vista di donne che, in prigione, sono anche madri. Senza tralasciare le donne che negli istituti penitenziari lavorano. L’inaugurazione è stata preceduta da una tavola rotonda sul tema “Carcere, cultura e libertà”. L’esposizione sarà aperta fino al 5 novembre. L’evento è frutto della collaborazione tra Comune di Cesena, Biblioteca Malatestiana, Diocesi di Cesena- Sarsina, Corriere Cesenate, Il Risveglio, Il Piccolo, Urcofer, Ucsi Emilia-Romagna, Fisc Emilia-Romagna, Ordine degli Avvocati di Cesena-Forlì, Rotary Club di Cesena, Ipazia Libere Donne. Le nostre pericolose fragilità di Angelo Panebianco Corriere della Sera, 6 ottobre 2023 Il vero punto debole di questo governo, come di quasi tutti i governi che lo hanno preceduto, è l’assenza è di un accordo di fondo su quale debba essere la collocazione internazionale dell’Italia, il nostro rapporto con il resto del mondo. È un effetto dello stato di necessità, della consapevolezza generale che non ci siano altre soluzioni. Ma a consentirlo c’è anche un certo persistente provincialismo italiano, la sottovalutazione, da parte dei più, dell’importanza del problema. Il vero punto debole di questo governo, il suo tallone d’Achille, così come dei governi che lo hanno preceduto (ma con una sola eccezione di cui poi dirò) è l’assenza è di un accordo di fondo, fra le sue principali componenti, su quale debba essere la collocazione internazionale dell’Italia, il nostro rapporto con il resto del mondo. Un disaccordo che emerge con forza mentre si avvicinano le prossime scadenze elettorali e cresce, per conseguenza, la conflittualità all’interno della coalizione di governo. È la situazione esattamente contraria a quella dei tempi della Guerra fredda: allora nessuno poteva fare parte dell’esecutivo se non ne condivideva le fondamentali scelte di campo (atlantismo, europeismo). Adesso, invece, liberi tutti: atlantisti e filo-putiniani, convinti sostenitori del sostegno all’Ucraina e malpancisti, europeisti (sia pure critici) e antieuropeisti, il diavolo e l’acqua santa (a voi la scelta su chi sia il diavolo e chi l’acqua santa) condividono le responsabilità di governo. Si noti che se l’esecutivo fosse in mano all’attuale opposizione le cose sarebbero più o meno le stesse: anche in quel caso, il diavolo e l’acqua santa governerebbero insieme. C’è un solo esempio recente di governo con una posizione coerente, accettata da tutti i partner della coalizione, sulla collocazione internazionale dell’Italia: il Conte 1, l’alleanza fra 5 Stelle e Lega. Allora, e per tutto il tempo che quel governo durò, ci fu un’autentica “affinità elettiva” fra i componenti della coalizione. All’insegna dell’antioccidentalismo: l’Europa? Una disgrazia; la Nato? Un grave malanno da sopportare con rassegnazione; Russia e Cina? Nostri amici per la pelle. Come è stato da più parti osservato c’è qualcosa in un certo senso di definitivo (e, sicuramente, di chiarificatore) nel fatto che proprio mentre la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, si trovava a Lampedusa insieme alla presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, il vice-premier Matteo Salvini fosse impegnato a confermare la sua alleanza con l’anti-europeista e filo-putiniana Marine Le Pen. In altri tempi, una così plateale divaricazione fra le posizioni del premier e quelle del suo vice avrebbe provocato una crisi di governo. Ma quei tempi sono passati. Ora la convivenza fra gli opposti è cosa normale, accettata. Per via di quello stato di necessità di cui sopra. C’è certo, al momento, la determinazione di Giorgia Meloni nel difendere le ragioni dell’atlantismo e nel tenere la barra dritta sull’Ucraina. Così come sembra ferma, fin dall’insediamento del governo, la sua decisione (ovviamente dovuta all’accettazione del principio di realtà) di stare in Europa esattamente come ci stanno tutti gli altri governi europei: difendendo di volta in volta quello che, a ragione o a torto, ritiene essere l’interesse nazionale e cercando di strappare compromessi soddisfacenti (anche commettendo qualche passo falso: come l’inutile e controproducente polemica con il Commissario europeo Paolo Gentiloni). Però, per quanto grande possano essere l’energia e la determinazione del comandante, se i rematori cercano di dirottare la barca, la navigazione avverrà a zig zag e basta che cambi anche di poco la direzione del vento perché la barca si trovi fuori rotta. Quando esiste un disaccordo di fondo sulla collocazione internazionale del Paese, la combinazione fra crescita della competitività all’interno della coalizione e l’eventuale aumento dell’incertezza sulle future condizioni internazionali, può avere effetti micidiali sulla stabilità del governo. Persino laddove, poniamo, amici e nemici di Zelensky sono abituati a sedere allo stesso tavolo e a scherzare più o meno amabilmente fra loro. Dall’esito elettorale in Slovacchia alla forza di cui dispongono i trumpiani nel Congresso degli Stati Uniti e che si ripercuote sulla politica dell’Amministrazione Biden, la compattezza delle democrazie occidentali è a rischio (Maurizio Ferrera ha fatto bene il punto sull’argomento sul Corriere del 2 ottobre). Prima di tutto è a rischio il sostegno a Kiev. In queste condizioni, i nemici dell’intervento occidentale, diffusi in molti Paesi, e che in Italia sono assai forti e possono contare non solo su una parte dell’opposizione ma anche su molti amici nelle fila della maggioranza, potrebbero presto rialzare la testa. Destabilizzando governi. Da noi e non solo da noi. Con tutte le sue fragilità l’Italia, fra le democrazie occidentali, è particolarmente esposta ai rischi generati da una forte crescita delle turbolenze internazionali. I suoi storici malanni (debito pubblico, inefficienza amministrativa, debolezza della politica, insuperabili divisioni regionali eccetera), la rendono potenzialmente indifesa di fronte alle minacce che possono derivare da cambiamenti negli equilibri delle forze internazionali. È ormai quasi inutile ricordarlo (è solo acqua passata) ma un trentennio di sforzi (falliti) per dare alla democrazia italiana una maggiore solidità istituzionale, per darle istituzioni politiche forti in sostituzione dei partiti di un tempo, quelli che per decenni, dopo la fine della Guerra fredda, avevano tenuto in piedi la baracca, avevano l’obiettivo di attrezzarla per fronteggiare sfide e minacce. Le principali sfide e minacce, per qualunque democrazia, possono venire soprattutto dall’esterno, da cambiamenti sfavorevoli negli equilibri internazionali. Si pensava (una ingenuità? un’illusione?) che istituzioni forti avrebbero anche obbligato le varie componenti delle coalizioni di governo a convergere quanto meno sui “fondamentali” (collocazione internazionale in primis). Non è andata così. Negli anni Venti e Trenta dello scorso secolo, in un clima internazionale sfavorevole per la democrazia, tante democrazie europee crollarono come birilli (l’Italia fece da battistrada). Dato il clima politico vigente oggi nel Paese non sembra possibile ciò che invece sarebbe altamente auspicabile: che le varie teste pensanti della politica (presenti sia nella maggioranza che nell’opposizione) ma anche dell’economia e degli altri settori della classe dirigente, si siedano intorno a un tavolo. Non per confondere i ruoli. Ma allo scopo di capire come si fa a minimizzare i danni, a proteggere la nostra fragile democrazia. Migranti. Il Csm: “Più magistrati in alcuni tribunali per la protezione internazionale” Il Dubbio, 6 ottobre 2023 Il Plenum ha approvato l’interpello per le applicazioni extradistrettuali a Milano, Napoli, Catania, Trieste, Bologna, Torino, Brescia e Roma. Rafforzare gli organici dei tribunali che hanno avuto un incremento delle domande di protezione internazionale. È quanto ha deliberato il plenum del Consiglio superiore della magistratura che ha approvato all’unanimità un “interpello” per la destinazione, con la formula dell’applicazione extradistrettuale temporanea di magistrati nei i Tribunali di Milano, Napoli, Catania, Trieste, Bologna, Torino, Brescia e Roma. I magistrati in più saranno 10: due a Napoli e Catania, uno a Milano, Trieste, Bologna Torino, Brescia e Roma. “Le condizioni di sofferenza del settore della protezione internazionale, sotto molteplici profili, sono tali da poter stimare, nella misura del 37,98%, l’incremento delle risorse necessarie a far fronte alle sopravvenienze attese nel triennio 2021-2023; nella misura dell’88,24%, l’incremento delle risorse necessarie a definire l’arretrato; complessivamente, nella misura del 126,22% (37,98% + 88,24%), l’incremento per far fronte a sopravvenienze ed arretrato”, si legge nella delibera approvata. I magistrati interessati dovranno fare pervenire al Csm la comunicazione della propria disponibilità entro il 20 ottobre. Comincia dai migranti l’esperimento sui diritti di Alessandra Algostino Il Manifesto, 6 ottobre 2023 La resistenza di tutti è il primo passo per restare umani e per contrastare la costruzione di cittadelle autoritarie fondate sulle esclusioni. Prima il post di Giorgia Meloni, quindi l’attacco di Salvini alla giudice di Catania per la sua partecipazione ad una manifestazione per i diritti dei migranti: è una brutta pagina nelle tensioni tra politica e magistratura, che esprime, al pari dei provvedimenti censurati, come più volte è stato ricordato su questo giornale, noncuranza e disprezzo per i diritti, lo stato di diritto, la democrazia. Oltre la considerazione che l’imparzialità del giudice è nelle sentenze e non nella sua vita privata, le critiche mosse a Iolanda Apostolico sono sintomatiche del clima intollerante verso ogni forma di dissenso. Partiamo dai diritti. Il “decreto Cutro” (ora legge n. 50 del 2023) e il decreto ministeriale 14 settembre 2023 sulla garanzia finanziaria “alternativa al trattenimento”, intaccano diritti fondamentali: la libertà personale (articolo 13 della Costituzione) e il diritto di asilo (articolo 10, comma 3, della Costituzione). La prima è inviolabile, per chiunque, come ha ricordato la Corte costituzionale; presidiata da una riserva di legge, che non può che muoversi nel rispetto della Costituzione e del diritto sovraordinato alla legge (quali le norme comunitarie), e da una riserva di giurisdizione, che in primis assicura, nel caso concreto, la garanzia dei diritti. La libertà personale è inalienabile, non può essere oggetto di mercificazione. Iniziamo invece a chiederci se sia legittimo restringere la libertà personale, bene supremo sin dalla Magna Charta Libertatum del 1215, in ragione del controllo dell’immigrazione (come dispone la legge “Turco-Napolitano”, poi inasprita dalla “Bossi-Fini”). Non è tanto questione di proporzionalità e ragionevolezza perché la detenzione non produce gli effetti sperati (respingimenti di massa): non proporzionale e irragionevole è la privazione in sé della libertà personale di chi non rispetta le norme sull’ingresso nello Stato perché fugge da persecuzioni o perché le sue condizioni di vita non sono degne, superando l’ipocrita distinzione rifugiato politico-migrante economico, o perché esercita la libertà di circolazione. E, ancora, è uno scontro sicurezza versus diritti? Il migrante non è per definizione un problema di sicurezza ma una persona alla ricerca dei propri diritti. Infine, attenti cittadini “autoctoni”: i migranti sono campo di sperimentazione (ammesso che - e, sottolineo, non concesso - si voglia mandare al macero il riconoscimento dei diritti a ciascuna persona umana, la loro universalità). Il diritto speciale, il diritto penale del nemico, tendono a dilatarsi, assumendo i connotati di un diritto di classe e autoritario. Si aggiunge: l’utilizzo del migrante come nemico, come emergenza, distrae e canalizza disagio e paure a fronte di una legge di bilancio che, fedele ai diktat neoliberisti, non interverrà sulle diseguaglianze. Con, ancora una volta, la violazione della concretizzazione dei diritti sociali. Quanto al diritto di asilo, la norma costituzionale è chiara: è un diritto di ingresso nel territorio della Repubblica; per tacere del tragico abisso che separa il diritto ad avere “tutte le cure che si possono prodigare” del quale ragionavano i costituenti e le condizioni inumane degli hotspot. Ancora, il diritto di asilo è da riconoscersi su un piano di effettività, il che sfata qualsivoglia qualificazione come paese sicuro e accordi che solo retoricamente evocano i diritti umani, mentre, in omaggio a istanze securitarie, affidano la vita delle persone a regimi autoritari. Lo stato di diritto e i poteri. La separazione dei poteri è cardine di ogni costituzione, imprescindibile struttura della democrazia e del costituzionalismo nel limitare il potere e garantire i diritti. Abbiamo ancora bisogno di Montesquieu per ricordare che “se fosse unito con il potere esecutivo, il giudice potrebbe avere la forza di un oppressore” (e viceversa), mentre la sua indipendenza garantisce il rispetto dei diritti e dei limiti da parte di tutti? L’epoca del sovrano - capo o premier che sia - legibus solutus non è ora. Governo e Parlamento sono tenuti al rispetto della Costituzione, delle norme costituzionali e del diritto comunitario ed internazionale sovraordinato alle fonti primarie. Non è una questione “tecnica”: le forme sono barriere a tutela dei soggetti più deboli (Tocqueville). L’insofferenza per i limiti, per i diritti, è tipica del dominio, della violenza e della sopraffazione, che secoli di tradizione giuridica ascrivibile alla storia del costituzionalismo e, in senso ampio, alla storia dell’emancipazione e dell’eguaglianza, hanno cercato di scongiurare. Le migrazioni rappresentano una delle linee di faglia del futuro, se non la linea. La resistenza sul fronte dei diritti di tutti è il primo passo per restare umani e per contrastare la costruzione di cittadelle autoritarie fondate su esclusioni e confini, interni ed esterni, sociali e politici; alla “guerra ai migranti” occorre sostituire il conflitto sociale agito dal basso con i migranti. Cannabis light, primo stop al ministro Schillaci di Eleonora Martini Il Manifesto, 6 ottobre 2023 Il Tar del Lazio sospende il decreto. Accolto il ricorso delle imprese contro il divieto di vendere prodotti con Cbd a uso orale. Non ha alcuna base scientifica, la decisione presa autonomamente dal governo - in pieno ferragosto - di inserire la cosiddetta cannabis light nella tabella degli stupefacenti. Per questo, e “al fine di evitare danni gravi e irreparabili all’intero comparto”, il Tar del Lazio ieri ha sospeso fino al 24 ottobre, in attesa dell’udienza di merito, il decreto con cui il ministero della salute aveva vietato dal 20 settembre la vendita delle “composizioni per uso orale a base di cannabidiolo estratti dalla cannabis”, quelli per intenderci che contengono solo Cbd e non il principio attivo psicotropo Thc. I giudici amministrativi hanno accolto così il ricorso dell’Ici-Imprenditori canapa Italia presentato il 3 ottobre, dopo i primi sequestri di prodotti e le chiusure imposte ad alcuni degli oltre 1500 negozi italiani, un settore che fattura ogni anno più di 150 milioni di euro. Secondo il ministro Schillaci, olii, tisane e biscotti a base di Cbd - prodotti dall’effetto psicotropo al pari del tè - avrebbero dovuto essere acquistati solo in farmacia e con ricetta medica. Paradossalmente però le infiorescenze e il polline di marijuana non contenente tetraidrocannabinolo (prodotti da inalazione) potevano continuare ad essere venduti. L’Ici, assistita dallo studio legale Prestige Legal & Advisory, ha denunciato al Tar l’”illegittimità” del decreto ministeriale che ha inserito i composti ad uso orale a base di Cbd nella tabella dei medicinali “senza la previa adozione del parere del Consiglio Superiore di Sanità, richiesto dalla vigente normativa”. E “la decisione di ricondurre il cannabidiolo tra le sostanze stupefacenti o psicotrope”, atto “che si pone in contrasto con la giurisprudenza comunitaria, che ha escluso che il Cbd possa costituire uno stupefacente ai sensi del diritto europeo e con le posizioni assunte dall’Organizzazione Mondiale della Sanità”. È la seconda volta, quest’anno, che le associazioni di filiera della canapa vincono un ricorso davanti al Tar del Lazio contro leggi antiscientifiche, come il decreto del gennaio 2022 che limitava l’utilizzo della pianta a soli semi e fibre, “in contrasto con la normativa internazionale, comunitaria e nazionale di riferimento”. E anche questa volta, come spiega Marco Perduca dell’Associazione Coscioni, la decisione del Tar, “sperando che la sospensione venga confermata”, “ristabilisce il rispetto di posizioni consolidate negli ultimi 50 anni anche grazie a un’ampia letteratura scientifica”. Leonardo Fiorentini, di Forum Droghe, si augura che il governo Meloni “accolga ora le evidenze scientifiche e accetti il quadro giuridico europeo”. “Interrompendo - come sottolineato i Radicali italiani - una stupida guerra alla cannabis” e senza indugiare in ulteriori concessioni “alle corporazioni che tengono in pugno questo governo, siano esse i tassisti, i balneari o, come in questo caso, le aziende farmaceutiche e i tabaccai”. Da destra per ora nessun commento, se non il minimo sindacale di un Riccardo De Corato, membro meloniano della commissione Affari Costituzionali della Camera, che parla di “sentenza inaccettabile” contro la santissima “lotta agli stupefacenti che minano la salute, soprattutto dei nostri giovani”. “Succede quando gli atti normativi sono frutto di furie ideologiche e non ponderati sulla base dei dati di realtà”, evidenzia Laura Zanella di Avs. Ma in fondo è solo un’altra prova che, come dice Riccardo Magi di + Europa, “erano pronti, sì, ma a confezionare figuracce”. La propaganda di destra avanza, la guerra continua di Francesco Strazzari Il Manifesto, 6 ottobre 2023 Ue e Usa al voto. Si è aperto un ciclo elettorale in cui la destra nazionalista e sovranista sente di avere forti chances solo se cavalca la frustrazione alimentata dagli effetti manifesti della guerra stessa. Lo scenario che Putin da tempo aspetta per rifiatare militarmente, mentre commentatori anonimi e troll cercano di catalizzare il sostegno dell’opinione pubblica di sinistra. Attrito, attrito e ancora attrito. Le forze di terra ucraine non avanzano. Quand’anche lo fanno come la scorsa settimana, aprendo una breccia sulle linee di difesa dell’invasore sufficiente a far transitare mezzi corazzati, non riescono a consolidare i fianchi, esposte come sono a un ampio ventaglio di armi dal cielo e dal mare, frenate dalla comparsa di nuovi campi minati. Per quanto sia esteso il fronte, l’abbondanza di droni da ricognizione e di dispositivi sempre più versatili rende estremamente difficile pensare a un effetto sorpresa. Nel frattempo si è aperto un ciclo elettorale in cui, a partire dal voto nei paesi dell’Europa orientale fino alla campagna elettorale americana, passando per le elezioni europee di primavera, la destra nazionalista e sovranista sente un po’ ovunque di avere forti chances solo se cavalca la frustrazione alimentata dagli effetti manifesti della guerra stessa, mostrandosi protettiva verso il proprio bacino elettorale e facendo leva sugli interessi consolidati. Su tutto valgano, a titolo di esempio, gli umori che aleggiano sulle elezioni polacche, pervase allo stesso tempo da un sentimento anti-russo, anti-ucraino e antieuropeo. Un’Europa dei sovranismi, sembra quasi pletorico ricordarlo, è un’Europa debolissima. Questo è lo scenario che Vladimir Putin da tempo aspetta per rifiatare militarmente, mentre - surfando gli algoritmi - imperversano un po’ ovunque commentatori anonimi e troll che, impugnando uno stile anticonformista e dichiarandosi “fuori dal coro del mainstream”, cercano di catalizzare il sostegno dell’opinione pubblica di sinistra, per le agende che la alt-right propugna ormai ovunque: operazioni già viste, spesso studiate a tavolino. Di nuovo c’è che alla fine sull’Ucraina è uscito del tutto allo scoperto Elon Musk, sulla piattaforma X (ex Twitter) di cui è proprietario. Non è una cosa di poco conto, dato l’impatto che può avere, tanto sul campo (la tecnologia satellitare Starlink impiegata dagli ucraini) quanto sull’opinione pubblica in diversi paesi. Difficilmente la guerra terminerà a breve. L’attrito del combattimento continuerà a logorare le parti, le innovazioni tattiche si susseguiranno, la logistica continuerà a essere presa di mira, l’innesto di nuove armi ed equipaggiamenti sposterà l’asse dello scontro, la politica internazionale continuerà a produrre novità e riconfigurazioni. Di certo c’è che il Cremlino, dopo le cataste di morti e crimini di guerra che continuano (da ultimo il bombardamento di un caffè, ieri, con decine di vittime), non ha spostato di un millimetro gli obiettivi dichiarati della propria “operazione speciale”. Non diversamente da quanto sta facendo Erdogan nel Kurdistan o nel Caucaso (tramite l’alleato azero, pronto a una nuova offensiva nel sud dell’Armenia), Putin non si fermerà se non verrà fermato. Qui c’è una sfida di tenuta per le democrazie rispetto alle proprie contraddizioni, quelle interne così come quelle che riguardano la conduzione della propria politica estera. Come già la guerra in Siria, che vive una nuova fase, la guerra in Ucraina si ricollega alle crescenti tensioni che si innervano lungo le tettoniche internazionali. La guerra non è vicina alla fine. Chi si prodiga per la pace dovrà continuare a difendere la distinzione, minacciata da continue campagne di propaganda, tra incalzare la logica della guerra e cedere alla ragione del più spietato. Iran. Armita come Mahsa, in coma per le botte della polizia morale di Farian Sabahi Il Manifesto, 6 ottobre 2023 Sedici anni, viaggiava in metro senza velo. A picchiarla un gruppo di agenti donne. Arrestata la madre, minacciati i compagni di scuola. Non saranno le minacce a impedire la diffusione delle notizie. Continuano a giungere grazie all’impegno della società civile e di organizzazioni non governative. A distanza di un anno dalla morte della ventiduenne iraniana di etnia curda Mahsa Amini, il copione si ripete: una giovane donna viene arrestata dalla polizia morale di Teheran e ricoverata per le percosse. La sua stanza d’ospedale è presidiata dalle forze dell’ordine. I familiari cercano invano di starle vicino, subiscono intimidazioni. A finire in questo girone dantesco è Armita Geravand: sedici anni, originaria di Kermanshah (nel nordovest, dove la maggior parte della popolazione è curda), residente nella capitale Teheran. La mattina del primo ottobre Armita stava andando a scuola senza il velo, obbligatorio nella Repubblica islamica. Nella stazione di Shohada, nel suo vagone sono salite le poliziotte in chador nero. Una di loro le ha gridato contro chiedendole perché non fosse velata. La ragazza le ha risposto: “Ti sto per caso chiedendo di toglierti il velo? Perché chiedi a me di portarlo?”. Aggredita, è ricoverata per trauma cranico all’ospedale Fajr ed è in coma da domenica. La giornalista Maryam Lofti ha scritto di lei sul quotidiano Shargh, è stata fermata e poi rilasciata. Ieri pomeriggio la madre Shahin Ahmadi è stata arrestata. Il direttore della sicurezza del ministero dell’istruzione si è recato nella scuola di Armita, diffidando insegnanti e allievi “dal diffondere qualsiasi notizia e foto della giovane sui social media”. Chi osa contravvenire rischia “pesanti multe e la fine immediata dei contratti”. Armita vuol dire virtuosa, pura, umile. È un nome avestico, la lingua del testo sacro dei fedeli di Zoroastro, il profeta che per primo portò il monoteismo sull’altopiano iranico. Dopo la rivoluzione del 1979, molte famiglie scelsero nomi preislamici per i figli per dissociarsi dall’integralismo di regime. L’Iran vanta uno dei tassi di istruzione più alti dell’Asia, le donne sono due terzi delle matricole universitarie e dei laureati. Ora, in questo Iran in cui sono le donne a vincere il Nobel per la Pace (Shirin Ebadi 2003) e la medaglia Fields per la matematica (Maryam Mirzakhani 2014), vi sono ancora donne che si arruolano nella polizia morale. Per molte sarà un modo per guadagnarsi da vivere. Per altre vi sarà una motivazione ideologica: contribuire a contrastare l’influenza di quell’Occidente che impone sanzioni, cerca di isolare l’Iran e minaccia di invaderlo come ha già fatto con l’Afghanistan nel 2001 e con l’Iraq nel 2003. Di fronte alle proteste innescate dalla morte di Mahsa Amini, le autorità iraniane hanno deciso di tenere la linea dura su tutti i fronti, in primis sull’obbligo del velo. Ad appoggiare questa scelta è la Cina che rifornisce gli apparati di sicurezza iraniani delle tecnologie necessaria al riconoscimento facciale e quindi alla repressione. Al tempo stesso, Pechino ha mediato il riavvicinamento dell’Iran con l’Arabia saudita, con cui i rapporti diplomatici si erano interrotti nel gennaio 2016. Inoltre, mentre l’Occidente continua a imporre sanzioni, altre potenze hanno accolto l’Iran nella Shanghai Cooperation Organization e hanno invitato la Repubblica islamica nei Brics. Non saranno le minacce a impedire la diffusione delle vicende della sedicenne Armita. Le proteste di questi ultimi dodici mesi dimostrano che le informazioni continuano a giungerci dall’Iran grazie all’impegno della società civile e di organizzazioni non governative. Il movimento “Donna vita libertà” non ha un leader, come d’altronde non lo hanno #metoo e #blacklivesmatter. Di conseguenza, non può essere decapitato come era successo con l’Onda verde del 2009, quando i leader Mir Hossein Mussavi, Zahra Rahnavard e Mehdi Karrubi erano fatti sparire dalla circolazione. Inoltre, il movimento “Donna vita libertà” ha varcato le frontiere dell’Iran. Bocca chiusa e testa bassa, ai campionati di calcio di Doha la nazionale iraniana ha fatto accendere i riflettori sulle violazioni dei diritti umani in Iran. “Non sarà ancora rivoluzione, come tanti l’hanno definito”, ma il cambiamento che ha prodotto quel movimento in parte già lo è, dice Luciana Borsatti, già corrispondente dell’Ansa a Teheran, nel volume Iran. Il tempo delle donne (Castelvecchi 2023). “Nonostante la repressione e una potenziale stanchezza fisiologica, il suo potenziale dirompente non sembra affatto essersi esaurito - dice - È solo questione di tempo perché altre scintille inneschino nuove fiamme”.