Dl giustizia approvato in via definitiva: cambio di passo sulle intercettazioni di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 5 ottobre 2023 Via libera anche dal Senato alla conversione del decreto omnibus: norme in materia di processo penale e civile, misure di contrasto agli incendi boschivi, interventi per il recupero dalle tossicodipendenze, di salute e cultura, e anche relative al personale della magistratura e della pubblica amministrazione. Con 100 voti favorevoli, 71 contrari e un’astensione, il Senato (mercoledì 4 ottobre) ha rinnovato la fiducia al Governo approvando in via definitiva, nel testo licenziato dalla Camera, il ddl n. 897 di conversione in legge, con modificazioni, del Dl n. 105. Nel decreto sono contenute alcune norme in materia di processo penale e civile, a partire dalle intercettazioni, misure di contrasto agli incendi boschivi, interventi legislativi per il recupero dalle tossicodipendenze, di salute e cultura, e anche relative al personale della magistratura e della pubblica amministrazione. Il testo di 13 articoli, di fatto un ‘omnibus’, estende il ricorso alle intercettazioni per reati relativi, tra gli altri, al traffico illecito dei rifiuti. Ma nello stesso tempo vengono posti paletti all’uso delle cosiddette intercettazioni ‘a strascico’ e alle trascrizioni di dialoghi “irrilevanti” ai fini dell’indagine in corso. Vengono inoltre inasprite le pene previste per gli incendi boschivi e introdotte sanzioni penali a tutela dell’orso marsicano. Con il provvedimento si stabilisce anche che una quota dell’otto per mille dell’Irpef di diretta gestione statale venga utilizzata per finanziare il recupero delle tossicodipendenze e si disciplinano, in tema Covid, l’autosorveglianza e l’abolizione dell’isolamento. In particolare, in materia di intercettazioni, si prevede che le condizioni meno stringenti già previste per l’autorizzazione e la proroga delle intercettazioni stesse in tema di criminalità organizzata, si applichino anche ai delitti, consumati o tentati, di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti e di sequestro di persona a scopo di estorsione, o commessi con finalità di terrorismo o avvalendosi delle condizioni previste dall’articolo 416-bis c.p. o al fine di agevolare l’attività delle associazioni di tipo mafioso. Riguardo poi le intercettazioni mediante uso del captatore informatico, si modifica la disciplina del decreto autorizzativo, prevedendo che in esso debbano essere esposte con “autonoma valutazione” le specifiche ragioni che rendono necessaria “in concreto” tale modalità per lo svolgimento delle indagini. Viene poi limitata la trascrizione nel verbale “soltanto” al contenuto delle intercettazioni, rilevante per le indagini, anche a favore dell’indagato. Mentre il contenuto non rilevante ai fini delle indagini non può essere trascritto neppure sommariamente e nessuna menzione ne può essere riportata nei verbali e nelle annotazioni della polizia giudiziaria. Il PM dovrà vigilare sull’attività dell’ufficiale di polizia giudiziaria affinché nei verbali non vengano riportati fatti e circostanze afferenti alla vita privata degli interlocutori. Giro di vite anche in materia di utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni in un procedimento “diverso”. I risultati delle intercettazioni possono essere utilizzati soltanto se questi risultino indispensabili per l’accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza. In materia di processo civile, viene disposto che fino al 30 dicembre 2024, nei procedimenti davanti al tribunale per i minorenni aventi a oggetto la responsabilità genitoriale, il giudice abbia la facoltà di delegare taluni specifici adempimenti, tra cui l’audizione delle parti e l’ascolto del minore, a un giudice onorario. È altresì previsto che il giudice onorario cui sia stato delegato l’ascolto del minore o lo svolgimento di attività istruttoria compone il collegio chiamato a decidere sul procedimento o ad adottare provvedimenti temporanei. Il dl giustizia è legge: paletti sulle intercettazioni e inasprimenti delle pene di Thomas Usan La Stampa, 5 ottobre 2023 Il dl Giustizia è legge. L’Aula del Senato ha approvato con 100 sì, 71 no e un astenuto, la fiducia chiesta dal Governo sul testo già approvato dalla Camera. Il provvedimento riceve così il disco verde definitivo. Il testo di 13 articoli, di fatto un ‘decreto omnibus’, estende il ricorso alle intercettazioni per reati relativi, tra gli altri, al traffico illecito dei rifiuti. Ma nello stesso tempo vengono posti paletti all’uso delle cosiddette intercettazioni ‘a strascico’ e alle trascrizioni di dialoghi ‘irrilevanti’ ai fini dell’indagine in corso. Vengono inoltre inasprite le pene previste per gli incendi boschivi e introdotte sanzioni penali a tutela dell’orso marsicano. Con il provvedimento si stabilisce anche che una quota dell’otto per mille dell’Irpef di diretta gestione statale venga utilizzata per finanziare il recupero delle tossicodipendenze e si disciplinano, in tema Covid, l’autosorveglianza e l’abolizione dell’isolamento. Nasce l’archivio delle captazioni - Il dl prevede l’istituzione di un archivio centralizzato delle captazioni, ovvero delle “infrastrutture digitali interdistrettuali” dove verranno raccolti gli ascolti disposti dai pm. L’organizzazione e sorveglianza sull’attività di ascolto resterà nelle mani dei procuratori capo mentre il Ministero della giustizia assicura l’allestimento e la manutenzione delle infrastrutture, “con esclusione dell’accesso ai dati in chiaro”. Per realizzare l’archivio sono stati stanziati 43 milioni di euro per il 2023 e 50 milioni per il biennio 2024-2025. Cambiano le intercettazioni - L’utilizzo delle intercettazioni viene esteso alle indagini per reati, tentati o consumati, legati al traffico illecito di rifiuti aggravate dal metodo mafioso, ai sequestri di persona con finalità estorsive e al terrorismo. Limitate invece le intercettazioni ‘a strascico’ e le trascrizioni della polizia giudiziaria di dialoghi ‘irrilevanti’ ai fini dell’indagine in corso. Fine isolamento per i positivi al Covid - Con l’entrata in vigore del decreto cade l’obbligo di isolamento per i positivi e sarà possibile uscire di casa e andare al lavoro con la malattia in corso. Decade anche l’obbligo di mascherina al chiuso o in presenza di assembramenti. Niente più obbligo quotidiano per province autonome e Regioni di comunicare i dati sui contagi al ministero della salute e all’Iss. Otto per mille al recupero delle tossicodipendenze - Nel Dl giustizia è prevista anche l’8 per mille per il “recupero delle tossicodipendenze e delle altre dipendenze patologiche”. Dal prossimo anno si potrà indicare la voce specifica. Pene più alte per gli incendiari - Inasprite anche le pene: aumenta da quattro a sei anni di carcere la pena base minima per chi appicca fuochi in boschi o vivai forestali destinati al rimboschimento. Per i roghi dovuti a colpa e non a dolo, la pena minima sale da uno a due anni. Cresce di un terzo della pena e fino alla metà, quando il piromane ha agito per trarne profitto per sé o per altri, o con abuso dei poteri o con negligenza nell’esecuzione di incarichi. Processo minorile: serve un equilibrio che assicuri contrasto ma anche tutele di Giorgio Spangher Il Sole 24 Ore, 5 ottobre 2023 Occorre partire da premesse realistiche: la criminalità minorile non è più quella degli anni in cui si costruiva la riforma del 1988. L’emergere di nuovi fenomeni - dal piccolo spaccio al bullismo, alle attività delle baby gang - hanno messo a dura prova la tenuta dell’ordinamento minorile, che soffre anche per il mutamento del contesto sociale, familiare e di valori. Con il decreto legge n. 123 del 2023 (che sarà noto come decreto Caivano) il Consiglio dei ministri ha approvato un Dl recante “misure urgenti di contrasto al disagio giovanile, alla povertà educativa, alla criminalità minorile nonché per la sicurezza dei minori in ambito digitale”. Si tratta di un provvedimento estremamente articolato che, originato da fatti territorialmente circoscritti, si prefigge l’obiettivo di costituire un modello suscettibile di estensione in realtà criminali omogeneamente degradate. Invero, a fronte di contenuti repressivi, si affiancano e si affiancheranno azioni a più vasto raggio per venire incontro sia alle esigenze sicuritarie, sia alle necessità di recupero e di rieducazione di una criminalità minorile sempre più diffusa in certi spazi urbani, non solo quelli delle periferie. Il nocciolo duro dell’intervento d’urgenza è costituito dalle attività di prevenzione, attraverso gli strumenti - variamente articolati - dell’avviso orale, del Daspo urbano, dell’ammonimento, del foglio di via obbligatorio. Una particolare attenzione è dedicata ai condannati anche in via non definitiva per i quali è previsto il divieto di utilizzare piattaforme, servizi informatici e telematici nonché di possedere cellulari e altri dispositivi per le comunicazioni. Pur nella loro natura stigmatizzante e sanzionatoria, le misure di prevenzione tendono a costituire un richiamo al minore per evitare aggravamenti comportamentali, nella speranza che essi possano sortire effetti di monito e di possibile ravvedimento. Nel caso di comportamenti o atti suscettibili di essere valutati come ipotesi di reato di significativa gravità all’inasprimento delle pene consegue anche una forte accentuazione del ricorso agli arresti, ai fermi e alle misure cautelari (viene ripristinato il pericolo di fuga). Inevitabile si prospettava l’esigenza di un’attività collaterale di supporto alla “costruzione” della personalità del minore da effettuarsi da parte dei servizi minorili, come già previsto, e anche da parte della famiglia che si cerca di coinvolgere attraverso l’informazione dei comportamenti dei figli nel contesto delle attività connesse alla - infatti - riformulata responsabilità genitoriale, al posto della potestà genitoriale. Fondamentale si prospetta il ruolo della scuola che si cerca di rafforzare sotto il profilo delle attività e dell’offerta, ma anche attraverso il controllo (verificato e sanzionato) di chi ha l’onere di assicurare gli obblighi scolastici. Ai tradizionali strumenti premiali della tenuità del fatto e della messa alla prova, viene affiancato un’offerta di estinzione del processo da materializzarsi attraverso l’adesione del minore ad un programma rieducativo civico e sociale. Il decreto legge n. 123 del 2023 cerca di intercettare molte delle attività delinquenziali del minore, dal piccolo spaccio al bullismo (integrando quanto già previsto in tema di cyber-bullismo), alle attività delle baby gang. Al fine di prevenire i comportamenti pericolosi, comunque suscettibili di danneggiare il minore, viene introdotto il parental control sugli strumenti di comunicazione personale. Rimandando ai successivi commenti pubblicati in questa Rivista del Dl n. 123 del 2023 per l’analisi dettagliata delle misure messe in campo è possibile trarre qualche riflessione di sintesi e di sistema. Invero, il problema della criminalità minorile, pur evidente nelle sue dimensioni, è stato spesso - anche a fronte di episodi gravi - messo al margine della riflessione, pur non mancando interventi come in tema di revenge porn e come detto di cyber-bullismo. Era sempre presente l’idea che per la criminalità minorile fosse ancora adeguata la disciplina varata nel 1988 che tuttavia si riferiva a una criminalità minorile, che se non proprio occasionale, ancorché non escludendosi quella grave (anche i reati puniti con l’ergastolo per la messa alla prova) era tuttavia recuperabile e rieducabile. Per la particolare condizione del minore - ancorché cresciuta rispetto alle tradizionali soglie dell’imputabilità - a fronte della “spia” del reato, si riteneva sufficiente la messa in campo della rete costituita dalla famiglia, dai servizi e dagli strumenti rieducativi nonché adeguata una certa marginalità di quelli sanzionatori che rendeva problematica - stante le correnti di pensiero in materia - l’adozione di interventi dotati di maggiore connotazione punitiva e repressiva. Come spesso succede, quando pur avendo la “netta percezione del fenomeno” cioè di un fatto non isolato, non si interviene, sperando che la situazione si superi anche per la difficoltà di vincere le opposte opinioni la realtà non manca (attraverso la reiterazione dei segnali) di presentare “il conto”. Allora, stante il consenso anche per la necessità di intercettare l’emotività, si interviene a volte in modo radicale. È fenomeno che si ripete: si pensi all’esplodere del terrorismo, della criminalità organizzata, della criminalità economica. Gli effetti si ripercuotono devastanti sul sistema della giustizia penale. Invero, era già stato segnalato che la riforma minorile del 1988, coeva a quella del processo penale, non era adeguata ad affrontare il tema della grave criminalità minorile e dei minori radicali (se non irrecuperabili o irriducibili), certo contrassegnati da un forte approccio e radicamento nei fenomeni delinquenziali di cui la previsione che impone in presenza di comportamenti che compromettono la sicurezza o turbano l’ordine degli istituti e con violenza o minaccia impediscono le attività degli altri detenuti ovvero determinano uno stato di soggezione negli altri detenuti impone il trasferimento dopo gli anni 18 e 21 per scontare il residuo pena negli istituti per gli adulti è la dimostrazione palmare. Naturalmente, l’intervento con strumenti preventivi e sanzionatori nei confronti della “nuova” criminalità minorile, ancorché integrati da molteplici attività collaterali di supporto (scuola, famiglia, servizi sociali, qualità della vita nelle aree urbane degradate), non potrà determinare significativi effetti, rispetto a fenomeni gravi di criminalità, se non saranno affrontati anche quelli dei collegamenti con il mondo della criminalità organizzata, cercando di interrompere le contiguità che spesso da eccezionali rischiano di stabilizzarsi e di rafforzarsi. Nordio: “Finiti gli ‘anni di piombo’ dello scontro toghe-politica” di Valentina Stella Il Dubbio, 5 ottobre 2023 Il guardasigilli si schiera con la premier dopo gli attacchi alla giudice Apostolico. Ma sottolinea: “La magistratura è e rimane autonoma”. Magi e Della Vedova (+Europa): “Visibilmente in imbarazzo”. “Questo ministro è perfettamente allineato, perfettamente in sintonia, con la presidente del Consiglio, che esprime l’indirizzo politico del Governo. Sono in linea con quello che ha detto Meloni”. Così il Guardasigilli Carlo Nordio alla Camera rispondendo ad una interrogazione sulle polemiche relative alla decisione del giudice di Catania Iolanda Apostolico di non convalidare il trattenimento di tre migranti nel Centro di Pozzallo, presentata dai deputati di +Europa, Riccardo Magi e Benedetto della Vedova. I due parlamentari hanno sottolineato come “il ministro dell’interno, Matteo Piantedosi, non convinto della fondatezza della decisione del giudice di Catania, ha annunciato l’intenzione di impugnarla, secondo la corretta prassi dello Stato di diritto; invece la presidente del Consiglio dei ministri Giorgia Meloni, attraverso un post su Facebook, ha sostenuto che la decisione del giudice di Catania sia un attacco “contro i provvedimenti di un Governo democraticamente eletto”, lasciando esplicitamente intendere, a giudizio degli interroganti, che le decisioni dei giudici debbano uniformarsi ai provvedimenti dell’Esecutivo, anche in presenza di evidenti indizi di illegittimità rispetto alla normativa nazionale ed europea; per le stesse ragioni il vice presidente del Consiglio dei ministri, Matteo Salvini, in un tweet a commento della decisione del tribunale di Catania, ha auspicato una “profonda riforma della giustizia”“. Quindi i due deputati hanno chiesto a Nordio se ritenesse “che quelli espressi dalla presidente del Consiglio dei ministri e dal vice presidente del Consiglio dei ministri - inversione della gerarchia delle fonti del diritto tra normative nazionali ed europee e subordinazione della magistratura all’Esecutivo - siano i principi politici ispiratori della riforma della giustizia del Governo o, al contrario, se convenga che sia opportuno, a tutela della reputazione del nostro Paese, ribadire con chiarezza il principio fondamentale dell’indipendenza della magistratura per non ritornare negli anni di duro scontro tra potere politico e magistratura”. Nella sua risposta il responsabile di Via Arenula inizialmente ha tentato di rassicurare: “Nessuno vuole ripetere quegli anni quasi di piombo di conflitto tra magistratura e politica. Non mi pare sia in atto uno scontro istituzionale o che le espressioni della presidente del Consiglio lo abbiano come oggetto. La magistratura costituisce un ordine autonomo da ogni altro potere. Nessuno vuole mettere in discussione il patrimonio della sua indipendenza”. Poi si è soffermato sull’aspetto tecnico: “Per quanto concerne il provvedimento assunto dal giudice di Catania non possiamo entrare nel merito della questione, ma è una situazione molto più complessa di quanto possa essere riassunto nell’ordinaria polemica politica che spesso ha dei connotati abbastanza effervescenti. Anche la stessa magistratura ha usato nei confronti di Governo e Parlamento delle espressioni che non erano propriamente pacifiste o ireniste. Si tratta di un approfondimento tecnico la cui soluzione devolveremo alla Cassazione”. Se è vero che “la disapplicazione dell’atto amministrativo da parte del giudice risiede addirittura in una norma del 1865”, “però è anche vero - ha detto Nordio - che nella parte motiva del provvedimento, vi è tutta una serie di distonie di ordine tecnico che noi stiamo già valutando insieme al ministero degli Interni, con cui di concerto proporremo ricorso per Cassazione. È quindi un problema squisitamente tecnico che non mette minimamente in discussione l’autonomia e l’indipendenza della magistratura. Il resto fa parte di quelle modalità per così dire di dialettica politica”. Completamente insoddisfatti della risposta Magi e della Vedova che hanno così replicato: “Il ministro Nordio, visibilmente imbarazzato per la questione che gli abbiamo posto e per i termini in cui l’abbiamo posta e forse anche per la vicinanza del vicepresidente Salvini che gli era seduto a fianco, non ha affatto risposto alla nostra domanda e anzi si è platealmente contraddetto. Si è detto allineato perfettamente con Meloni e al contempo ha ribadito la difesa dell’indipendenza della magistratura, ma Meloni e Salvini hanno definito le decisioni del tribunale di Catania un attacco a un esecutivo democraticamente eletto, come se un giudice dovesse necessariamente conformarsi ai provvedimenti del governo anche quando, come in questo caso, sono platealmente in contrasto con il diritto europeo”. La questione è stata commentata anche a Skytg24 dalla presidente della Corte di Cassazione Margherita Cassano: “Uno Stato di diritto, per poter operare, ha bisogno che ciascuno dei suoi organi eserciti le sue funzioni con indipendenza, imparzialità e nel rispetto delle proprie attribuzioni. Rispetto le critiche che possono essere rivolte all’azione della magistratura, ma ritengo anche che la magistratura debba essere autonoma e libera nella sua attività interpretativa che, se affetta da errori, può essere oggetto di ricorso e impugnazione. Il nostro Stato ha bisogno di armonia e collaborazione tra le diverse istituzioni, non di scontri”. Spataro: “Guerra toghe-politica? Di certo non l’hanno dichiarata i magistrati” di Simona Musco Il Dubbio, 5 ottobre 2023 L’ex procuratore di Torino: “Condivido in toto i provvedimenti del giudice di Catania. La materia è molto complessa, ma la lettura dei decreti di non convalida dimostra chiaramente come essi siano giuridicamente e logicamente corretti”. “Sembrano essere tornati i tempi di Berlusconi e forse finiremo pure per rimpiangerlo”. A parlare è Armando Spataro, ex procuratore di Torino, che sulla decisione della giudice di Catania di disapplicare il decreto Cutro è netto: “Giuridicamente ineccepibile”. Dottore, come valuta i provvedimenti di Catania? Li condivido in toto. La materia è molto complessa, ma la lettura dei decreti di non convalida dimostra chiaramente come essi siano giuridicamente e logicamente corretti. Si pongono in evidenza la mancanza di motivazioni dei provvedimenti (non essendo state esaminate, per esempio, le esigenze di protezione manifestate dall’interessato) e il mancato rispetto di alcuni principi affermati nella normativa dell’Unione e nelle sentenze delle Corti europee. Risultano poi effettuate con ritardo, pare per errore, le procedure amministrative di identificazione e di ricezione delle domande di asilo. Il giudice ha pure sottolineato l’incompatibilità giuridica della garanzia finanziaria di 5mila euro prevista dal decreto ministeriale rispetto agli articoli 8 e 9 della Direttiva europea n. 2013/ 33. Pur non conoscendo la dottoressa Apostolico, le ho inviato per posta elettronica apprezzamenti per la sua capacità giuridica e per come aveva saputo rappresentare dignità ed onore della magistratura. Ho sentito il bisogno di scriverle. Come commenta gli attacchi della maggioranza e di Meloni in particolare alla giudice? Evito, per qualificarli, gli aggettivi che mi verrebbero naturali. Le decisioni dei magistrati, come le leggi, possono essere criticate. E i provvedimenti giudiziari possono essere impugnati fino al grado superiore previsto. Ma qui siamo in presenza di altro: le parole della premier Meloni (rimasta “basita”), del senatore Gasparri, del ministro Salvini, del vicesegretario leghista Crippa e di altri ancora rimandano ad una concezione della magistratura come “ordine” sottoposto agli altri due poteri, una corporazione che, con atteggiamenti che sono stati definiti eversivi, non vuole rispettare la volontà politica di chi, legittimato dal voto, governa il Paese, così ribaltando la democrazia. Sembra di essere tornati ai tempi delle affermazioni di Berlusconi, che forse finiremo anche con il rimpiangere. La verità è che tale concezione dei rapporti tra poteri dello Stato rievoca inevitabilmente, forse senza che i sostenitori se ne rendano conto, quella fascista. Fu lo stesso Mussolini, nel corso della inaugurazione dell’anno giudiziario 1940, ad affermarlo dinanzi a 250 alti magistrati: “Nella mia concezione - egli disse - non esiste una divisione di poteri nell’ambito dello Stato… il potere è unitario”. Un modello questo che, come è facile immaginare, piacerebbe ancora oggi a buona parte della nostra classe politica, ma che la Costituzione ha respinto, scegliendo invece quello di una magistratura indipendente e separata dagli altri poteri: i giudici sono soggetti soltanto alla legge e dunque devono essere indifferenti a logiche e programmi di governo. E possono anche ricorrere alla Consulta in caso di ritenuta incostituzionalità di una norma. La normativa italiana rischia di essere dichiarata incostituzionale? Lo è già stata in varie occasioni ed in molte altre è intervenuta la Corte di Cassazione a precisare la corretta interpretazione della legge. Pur se la situazione sin qui descritta merita risposte omogenee e corrette da parte di ogni settore sociale del Paese, è al ceto dei giuristi che compete realizzare una virtuosa sinergia tecnica e morale, idonea a svelare le verità storico- giuridiche dei fatti e dei principi in discussione, così determinando una efficace “contronarrazione”. Occorrono risposte unitarie ed un impegno per una interpretazione della normativa in tema di immigrazione conforme ai principi costituzionali. Quali sono gli effetti di questa normativa sui diritti umani? Definirli “disastrosi” è restrittivo. Il tema dell’immigrazione e della connessa normativa richiede - forse più di altri - particolare attenzione nel valutare la necessità di un corretto equilibrio tra esigenze di sicurezza sociale e rispetto dei diritti, vista anche la rilevanza mondiale dei fenomeni migratori che spesso determinano un diffuso odio razziale ed una strumentalizzazione per ragioni di mera ricerca di consenso politico. La difesa dei diritti fondamentali deve costituire ragione di impegno anche per chi esercita funzioni politiche: basterebbe mandare a memoria una storica affermazione del compianto Stefano Rodotà che invitava tutti a considerare che la solidarietà non è un sentimento, ma un diritto. Ed anche un dovere, aggiunge chi scrive. Si può fare perennemente ricorso a norme emergenziali per gestire il fenomeno immigrazione? Gli ordinamenti democratici, anche in situazioni difficili, non possono neppure occasionalmente tradire i principi su cui si fondano. La sicurezza è riconosciuta come un diritto collettivo, ma non vince sugli altri diritti fondamentali dei cittadini. Altrimenti sarebbe una “sicurezza immorale”, come la definì Massimo Giannini. Bisogna respingere propagande e comportamenti diretti a insinuare la fasulla convinzione che l’assenza dei diritti, quello al lavoro in primo luogo, e la mancanza di garanzie, quella alla citata sicurezza in particolare, siano determinate dalla presenza nel nostro territorio di uomini e donne provenienti da altri Paesi. Questo è purtroppo il populismo dilagante che riflette lo spirito del tempo. Merita particolare attenzione, inoltre, la tendenza alla criminalizzazione delle Ong che, quando operano senza ostacoli e limitazioni, salvano vite umane in numero elevatissimo. C’è chi le ha definite “taxi del mare” e chi “pull factor”: insulti che vanno respinti anche perché frutto di ignoranza di chi confonde diritto al soccorso in mare e politiche migratorie e di chi non conosce gli obblighi di salvataggio e le norme del codice penale italiano. Le Ong vanno semplicemente ringraziate e trovo assurda la polemica con la Germania che aiuta economicamente le navi battenti bandiera tedesca. Il che non ha nulla a che fare con il dovere di perseguire e punire duramente scafisti e trafficanti di esseri umani. Quali sono stati, negli anni, i risultati ottenuti da questo tipo di norme? Qualcuna è mai risultata efficace? La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e la nostra Costituzione sono state negli ultimi 15 anni messe a dura prova da una serie di interventi normativi in nome della “sicurezza”, brand pubblicitario e vero ‘pull factor’. Tralasciando il Testo unico sull’immigrazione del ‘ 98, sono stati varati due “pacchetti sicurezza” in epoca berlusconiana, poi c’è stato il decreto Minniti nel 2017, l’unico - a mio avviso - che, pur con qualche aspetto criticabile, ha consentito l’accelerazione dei procedimenti in materia di protezione internazionale ed altro ancora. Poi abbiamo avuto il primo decreto sicurezza salviniano nel 2018, il decreto sicurezza- bis del 2019 ed il Decreto sicurezza- ter del 2020. Da ultimo sono stati approvati il “Decreto anti- soccorso in mare” (come lo definisco) del gennaio 2023, poi il Decreto post- Cutro del marzo 2023, ed infine l’ultimo decreto ministeriale del settembre ed un decreto legge di inizio ottobre non ancora pubblicato. Basta questa incredibile sequenza di provvedimenti per rispondere: quali risultati? Pochi o nessuno. Ed aggiungo: è l’Europa e sono le politiche di accoglienza, redistribuzione ed integrazione il principale obiettivo su cui si dovrebbe invece puntare. La lista dei Paesi sicuri è stilata dalla politica, ma ha valore secondario rispetto alle norme. Non si rischia di modificarla a piacimento sulla base di accordi politici che sacrificano i diritti sull’altare della convenienza? È un rischio esistente e grave. Non si tratta però, a mio avviso, di una competenza che vieta la considerazione da parte dell’Autorità giudiziaria di altre notizie e dati di fatto, come quelli forniti, ad esempio, da istituzioni sovranazionali come le Nazioni Unite. Anche la politica non vince su tutto. Questo ci ha permesso di scoprire che non erano affatto porti sicuri quelli di Stati costieri africani, pur beneficiati di ingenti aiuti economici finiti chissà dove. Come giudica gli attacchi legati al post contro Salvini e pro- ong della giudice? Al netto della libertà di pensiero, non è comunque opportuno che un magistrato appaia, oltre che esserlo, imparziale? Il diritto di critica e l’impegno civile spettano anche ai magistrati in servizio che, certo, devono muoversi con attenzione ed equilibrio. Se ciò non avviene già esistono previsioni di responsabilità disciplinari, ma affermare che il magistrato attento ai diritti fondamentali sia poi portato a violare la legge è offensivo. Non ho mai creduto alla esistenza di una guerra in atto tra magistratura e politica e spero ingenuamente che la dialettica sia sempre contenuta in limiti accettabili. Ma se guerra c’è, è dichiarata da una parte sola. E quella non è la magistratura. Alfredo Cospito e il diritto a osservare di Luigi Manconi La Repubblica, 5 ottobre 2023 Perché ricordare la vicenda delle 29 fotografie di famiglia dell’anarchico detenuto a Sassari. Nel saggio di Susan Sontag “Sulla fotografia”, pubblicato da Einaudi (prima edizione 1978), l’autrice, riprendendo il mito platonico della caverna, scrive che “l’insaziabilità dell’occhio fotografico modifica le condizioni di prigionia in quella grotta che è il nostro mondo; insegnandoci un nuovo codice visivo, le fotografie alterano e ampliano le nostre nozioni di ciò che val la pena guardare e di ciò che abbiamo il diritto di osservare; la conseguenza più grandiosa della fotografia è che ci dà la sensazione di poter avere in testa il mondo intero”. La fotografia come ampliamento di ciò che abbiamo “il diritto di osservare” acquisisce, evidentemente, un significato ulteriore quando la prigionia, con le sbarre alle finestre e i suoi orizzonti limitati, diventa reale. Chiunque abbia avuto esperienza diretta o indiretta del carcere sa quale sia l’importanza delle fotografie per chi è detenuto. Per tutte queste ragioni, mi pare utile evidenziare e non dimenticare la recente vicenda che ha riguardato 29 fotografie, di proprietà di Alfredo Cospito, detenuto tutt’oggi nel carcere di Bancali a Sassari. Prima del suo trasferimento nel carcere di Opera, avvenuto nel gennaio del 2023, a Cospito era stata vietata la possibilità di tenere una foto dei genitori defunti, poiché - dicevano dall’Istituto sardo - era prima necessario avere conferma della loro identità da parte del Comune di riferimento. Una volta trasferito a Milano, le foto non sembrano più costituire pericolo tant’è che - come ricorda il legale di Cospito Flavio Rossi Albertini - esse presentavano tutte il visto di censura della casa di reclusione di Opera. Nel giugno scorso Cospito però torna nel carcere di Bancali e con lui torna anche il divieto di avere con sé quelle 29 fotografie, tutte raffiguranti momenti domestici, feste e occasioni di famiglia. La corte d’Assise di Torino avvalla quanto disposto dalla direzione e conferma il divieto. A quel punto, interviene un reclamo da parte della difesa in cui si legge che “la motivazione contenuta nel provvedimento di trattenimento temporaneo è destituita di ogni fondamento, perché i soggetti riprodotti nelle immagini sono persone già censite dall’istituto ovvero immortalano fratelli di Cospito già regolarmente autorizzati ad effettuare i colloqui visivi mensili con il congiunto”. Non convinto da tali argomentazioni, il 14 settembre il pm del Tribunale di Torino, Paolo Scafi, chiede di rigettare il reclamo affermando categoricamente che le fotografie possono contenere “messaggi criptici”. Il 16 settembre scorso, infine, la decisione del Tribunale di Torino che accoglie il reclamo della difesa, affermando che “la consegna delle foto non pregiudica nulla. Si tratta di foto risalenti a decenni fa come si apprezza dall’abbigliamento delle persone in contesti domestici e familiari. Non appaiono celare messaggi critici e non mettono a repentaglio l’impostazione del regime penitenziario del 41bis”. Per ora, quindi, l’epopea delle foto dei familiari di Cospito si è conclusa: il recluso potrà accedere a quei ricordi, esercitando il suo supremo “diritto ad osservare”. E c’è di che riflettere sul senso della pena. Detenuto ammesso al permesso di necessità solo in presenza di eventi familiari estremamente gravi di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 5 ottobre 2023 Il permesso risponde a finalità di umanizzazione della pena e non rappresenta un istituto trattamentale. “Il permesso di necessità (ex articolo 30 dell’ordinamento penitenziario) è un beneficio di eccezionale applicazione rispondente a finalità di umanizzazione della pena e non un istituto trattamentale; pertanto può essere concesso esclusivamente al verificarsi di eventi di particolare gravità nella sfera personale e familiare del detenuto, ma non anche in finzione di attenuare l’isolamento del medesimo attraverso il mantenimento delle relazioni familiari e sociali”. Questo il principio di diritto enunciato dalla Cassazione con la sentenza n. 40301/23. La vicenda - Venendo al caso concreto il Tribunale di sorveglianza ha respinto l’istanza di permesso ex articolo 30 ordin. pen. presentata dal reo per visitare i minori al di fuori dell’ambiente del carcere. Il condannato, si legge nella decisione, ha presentato diverse volte l’istanza di concessione del permesso speciale al fine di incontrare il figlio minore che presentava disturbi psichici. In due precedenti occasioni i permessi, dopo l’iniziale rigetto del tribunale di sorveglianza, sono stati concessi e in uno è stato negato, come per l’appunto in questa occasione. Il Tribunale di sorveglianza - A tale proposito il Tribunale (con motivazione pienamente accolta dalla Cassazione) ha evidenziato come “la fruizione del beneficio non possa diventare abituale e/o ciclica e che piuttosto appare procedere a una normalizzazione della situazione, facendo comprendere anche ai minori il valore della responsabilità e della funzione risocializzante delle strutture carcerarie”. Contro la decisione del Tribunale di sorveglianza il reo ha presentato ricorso e nell’unico motivo ha dedotto la violazione e il vizio di motivazione in relazione all’articolo 30 ord. pen. con riferimento al rigetto del reclamo avverso il provvedimento con quale il magistrato di sorveglianza ha negato di concedere al condannato un permesso per fare visita ai figli minori. Le conclusioni della Suprema Corte - La Cassazione - in linea con tribunale di sorveglianza - ha puntualizzato che il presupposto per la concessione del permesso di cui all’articolo 30 ord. pen. è costituito dall’esistenza di situazioni di natura eccezionale quali l’imminente pericolo di vita di un familiare o di convivente o il verificarsi di un evento familiare di particolare gravità. Nel caso di specie il giudice di sorveglianza, che pure ha in una prima occasione riconosciuto la necessità, allora eccezionale, di concedere al condannato un permesso al fine di dare sostegno affettivo e psicologico ai figli minori si è conformato al dettato normativo e alla giurisprudenza di legittimità evitando così che un permesso eccezionale potesse diventare la normalità. Io, Ciro Meravigliao, detenuto che sogna di aiutare la nipotina a fare i compiti Il Dubbio, 5 ottobre 2023 Mi chiamo Ciro e dei miei sessant’anni ho poco da salvare. Nel posto dove vivo da quattro anni c’è gente che va e gente che viene. Con i nuovi arrivati costruisco un fragile castello di amicizia, che crollerà quando andranno via. Ci ricorderemo per qualche tempo, poi i nostri cuori precari continueranno a battere ognuno per conto proprio, come se non ci fossimo mai conosciuti. E pensare che trascorriamo diverse ore insieme, quelle che ogni giorno ci vengono concesse al di fuori delle nostre celle, nel cortile o nella saletta. Un paio, quattro o anche cinque, in base all’umore. Ché a volte non hai tutta questa gran voglia di parlare, di ascoltare sempre le stesse parole. Già, le parole. Alla fine le dimentichi: a forza di discutere continuamente di processi e di procedure, i vocaboli della quotidianità familiare diventano un’immagine sfocata, che si fa fatica a recuperare dal pozzo scuro dell’anima. Per i miei compagni sono Ciro Meravigliao. Una vita fa, con il pallone me la cavavo bene. Anche oggi, nel giorno in cui ci portano nel campo di gioco, faccio la differenza. In quelle due ore, con la testa voliamo altrove: corriamo come ragazzini spensierati, sbattiamo le nostre ali ferite come farfalle gaie nello spazio libero. Poi, è andata male: cioè, non lo so se è andata male o se sono stato io a farla andare male. Fatto sta che, da questi posti, entro ed esco da quando avevo quindici anni. A Napoli diciamo “magnate o’ limone” ed io ne ho mangiati tanti nella mia vita. Ormai non mi fanno più effetto. Quel sapore aspro è parte di me, smorfia nascosta di una vita consumata, come gli occhi chiari o i capelli che mi ostino a tenere lunghi, nonostante siano diventati grigi e radi. Ho talmente tante cose da fare, che a volte il tempo non mi basta, anche se non rinuncio mai alla partita di Burraco e alla soap opera “Un posto al sole”. Sono infatti un lavorante, una figura che non ha il prestigio degli addetti alla cucina o dello spesino, ma che vale più del barbiere e del bibliotecario ed è pur sempre una spanna sopra il resto della massa indistinta. Lavo per terra, nella sezione e negli uffici; carico la lavatrice; faccio il “postino” da una cella all’altra quando ci si divide il cibo o il giornale. Insomma, mi sposto per la sezione con una certa libertà e resto fuori dalla mia cella più degli altri. Tutti mi vogliono bene e mi porgono un caffè o qualcosa da mangiare. Quando mi è possibile, ricambio con i guanti monouso che qua non si possono acquistare, anche se devo stare attento. Se vengo beccato da qualche guardia, mi tocca un rapporto disciplinare, quindici giorni di isolamento e la perdita del lavoro. Perché per loro è normale che si debba utilizzare la candeggina e lavare il cesso a mani nude. Per me, non lo è. Come tante altre cose, che accadono e sulle quali ho smesso di farmi domande dopo il consiglio di un anziano, decenni fa: “Non chiederti dov’è la logica, perché qua dentro niente ha una logica”. Se ce l’ha, è sadica come le parole riportate sul quadrante dell’unico modello di orologio che ci è consentito tenere, dopo averlo acquistato dalla lista della spesa: “Libero” e “Tutto passa”. Da pochi giorni ho come dirimpettaio di cella un ingegnere che si è subito dimostrato molto gentile. Gli ho chiesto se era disposto a darmi ripetizioni di matematica e ha accettato ben volentieri. Quando mia figlia frequentava la scuola elementare, spesso mi chiedeva di aiutarla a fare i compiti, ma io non ne ero capace perché non sapevo fare nemmeno una “O” con il bicchiere. Ora ho una nipotina che, quando finirò di scontare la pena, andrà a scuola: ecco, non vorrei ritrovarmi nella stessa situazione e credo che l’ingegnere potrà darmi una grossa mano. Imparo le tabelline e il giorno dopo le dimentico, ma lui ha molta pazienza. Ricominciamo daccapo e già riesco a svolgere benino qualche operazione, espressioni semplici. Lui stesso mi ha detto che c’è un suo amico bravo a scrivere e ne ho approfittato per prendere pure lezioni di grammatica, sintassi e ortografia. Vorrei essere in grado di mandare a mia moglie una lettera appena appena corretta, ma non so se mai ce la farò. Ho capito quando la “e” va accentata, quando mettere l’acca e quando no, però con il dettato ancora non ci siamo. I miei due professori stanno sempre insieme, nel cortile e nella saletta, dove per mezz’ora a testa si dedicano a me. Chi arriva per primo attende l’altro, come vecchi compagni di liceo naufragati e aggrappati allo stesso legno. Chissà se resteranno qua per tutto il tempo che mi sarà necessario. Biella. Tragedia nel carcere, detenuto si suicida con i lacci delle scarpe ansa.it, 5 ottobre 2023 Nel carcere di Biella, un giovane tunisino di 31 anni, trasferito a Biella per motivi di sicurezza dalla casa circondariale di Alessandria, si è tolto la vita impiccandosi con le stringhe dei lacci delle scarpe. Questo drammatico incidente segue una serie di segnalazioni preoccupanti legate al comportamento del giovane durante la sua detenzione ad Alessandria. In quel contesto, aveva manifestato il suo disagio salendo sul tetto della casa circondariale, esprimendo chiaramente la sua frustrazione: “Sono stanco di cambiare carcere”. Il Garante dei detenuti, Bruno Mellano, ha inviato due lettere formali alle autorità competenti. La prima è stata indirizzata al Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria, mentre la seconda è stata destinata al presidio sanitario di Biella. Nelle lettere, Mellano ha cercato di capire quale presa in carico fosse stata effettuata nei confronti del detenuto e ha chiesto alle due autorità di confrontarsi e collaborare per prevenire futuri incidenti simili. Questa tragica storia evidenzia la necessità di una maggiore comunicazione tra le varie istituzioni coinvolte nella gestione delle carceri e sottolinea la criticità del sistema penitenziario piemontese. Nel corso dell’anno, sono stati segnalati cinque suicidi nelle carceri della regione, di cui tre donne a Torino, un uomo a Torino e uno a Biella. Questi numeri allarmanti sono in linea con gli anni precedenti e dimostrano l’urgenza di istituire un presidio psicologico all’interno delle carceri. Questo è uno dei temi centrali che è stato discusso in una recente conferenza a Torino, a cui hanno partecipato tutti i Garanti Regionali. L’obiettivo è quello di migliorare le condizioni dei detenuti, garantendo loro un adeguato supporto psicologico per affrontare le difficoltà legate alla detenzione e prevenire situazioni tragiche come quella avvenuta a Biella. Torino. Perse 30 chili e morì in carcere a 28 anni, per la procura non c’è nessun reato di Elisa Sola La Repubblica, 5 ottobre 2023 Antonio Raddi ha perso la vita al Lorusso-Cutugno di Torino. Nonostante il gip abbia rimandato gli atti alla procura una prima volta, l’accusa vuole chiudere senza processo. La consulenza medico legale: “Era gravemente malnutrito, nessuno ha controllato”. “Risulta il difetto di approfondite verifiche che, in corso del dimagrimento del detenuto, dovevano essere attuate quanto meno dal mese di settembre - ottobre del 2019. Se messe in atto, avrebbero potuto arginare lo stato di malnutrizione”. Dopo quasi quattro anni dalla morte di Antonio Raddi, stroncato a 28 anni da un’infezione dopo avere perso 30 chili in sei mesi nel carcere di Torino, una consulenza tecnica medico legale fa emergere un punto nodale. Una questione sollevata fin dall’inizio dai genitori e dalla sorella del giovane, che era entrato alle Vallette a giugno per scontare pochi mesi, per piccoli reati legati alla sua tossicodipendenza. Ed è morto il 31 dicembre. Quando pesava 50 chili, rispetto agli 80 iniziali. Il 4 dicembre la garante dei detenuti, vedendolo sulla sedia a rotelle, nell’ennesima segnalazione inviata ai vertici del carcere scriveva: “Implora di intervenire. Ha le stesse sembianze di Stefano Cucchi”. La consulenza è la seconda fatta eseguire dalla procura di Torino, dopo che per la seconda volta il gip, in seguito alla richiesta di archiviazione, ha ordinato ai pm di continuare le indagini. Eppure, anche questa volta, la procura, dopo avere letto le conclusioni dell’analisi dei medici legali, ha chiesto l’archiviazione. Una richiesta riguardo alla quale la famiglia Raddi si è opposta, assistita dagli avvocati Gianluca Vitale e Federico Milano. E di cui oggi, davanti al gip Luca Del Colle, pm e legali discuteranno. La procura non ha mai smesso di indagare sul caso. La seconda consulenza medico legale evidenzia come già quattro mesi prima della morte di Antonio Raddi la situazione del giovane fosse grave e mette nero su bianco che l’infezione che colpì il 28enne determinò un esito tragico perché il corpo del ragazzo era già fortemente debilitato. Ma precisa anche che Raddi, tre giorni prima del suo ultimo accesso in ospedale, aveva rifiutato di essere ricoverato. Se fosse rimasto in ospedale, forse i medici avrebbero potuto capire che aveva un’infezione e salvarlo. Da qui, la richiesta di archiviare. È il 10 dicembre. Il 28enne non vuole essere trasferito nel repartino delle Molinette. Nella stessa data i vertici del carcere rassicurano: “Il soggetto è ampiamente monitorato”. Tornato in carcere, tre giorni dopo Raddi collassa. “Vomita sangue e non si muove”, l’allarme del compagno di cella. Gli avvocati Vitale e Milano nell’opposizione all’archiviazione rimarcano il fatto che anche se Raddi rifiuta il ricovero il 10 dicembre, la sua situazione sarebbe stata ormai irrimediabilmente compromessa. Quando Raddi, il 13 dicembre arriva all’ospedale Maria Vittoria, non c’è più nulla da fare. Entra in coma. E muore il 31 dicembre. Muore perché il suo corpo è troppo fragile per reagire a un batterio comune, la Klebsiella pneumoniae. Eppure, alle Vallette, nessuno credeva che Antonio stesse male. Il 20 novembre, il medico del carcere rispondeva all’ennesima lettera della garante dei detenuti: “La perdita di peso è una modalità strumentale per ottenere benefici secondari”. Milano. Giustizia riparativa, un protocollo per poterla rendere operativa di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 5 ottobre 2023 È stato presentato martedì scorso a Milano il protocollo per l’attuazione degli istituti, introdotti dalla Riforma Cartabia, relativi alla giustizia riparativa. All’iniziativa hanno partecipato i suoi autori: i vertici degli uffici giudiziari milanesi (Giuseppe Ondei, presidente della Corte d’appello, Francesca Nanni, procuratrice generale, Fabio Roia, presidente facente funzioni del tribunale, Giovanna Di Rosa, presidente del tribunale di sorveglianza) e i rappresentanti della locale avvocatura (Nino La Lumia, presidente dell’Ordine degli avvocati, Valentina Alberta, presidente della Camera penale, Enrico Giarda, coordinatore della Commissione giustizia penale del Coa). La giustizia riparativa è in vigore dallo scorso 30 giugno ed il protocollo lombardo è di fatto uno dei primi in Italia. L’obiettivo dell’istituto voluto dalla ex ministra della Giustizia del governo Draghi è essenzialmente il raggiungimento di un accordo finalizzato alla riparazione dell’offesa e che sia idoneo a rappresentare l’avvenuto riconoscimento reciproco fra vittima e reo, con la conseguente ricostruzione della relazione fra di loro. L’esito riparativo potrà essere sia simbolico (come ad esempio delle scuse formali) o materiale (come ad esempio un risarcimento del danno). Il programma “riparativo” è curato dal Centro per la giustizia riparativa e la mediazione penale istituito presso i comuni. Alla giustizia riparativa è possibile accedere per tutte le fattispecie di reato, a prescindere dalla gravità, in ogni stato e grado del procedimento penale. In particolare, il giudice - d’ufficio, su richiesta dell’imputato o della vittima - potrà disporre, sentite le parti e i difensori, l’invio dell’imputato e della vittima presso il Centro di riferimento, al fine avviare questo programma riparativo. Ciò sarà però possibile qualora il giudice ritenga che il suo svolgimento possa essere utile alla risoluzione delle questioni derivanti dal reato per cui si procede e non comporti invece un pericolo concreto per gli interessati e per l’accertamento dei fatti. Una volta terminato il programma, il giudice acquisirà la relazione trasmessa dal mediatore, contenente la descrizione delle attività svolte nonché l’esito riparativo. Tutte queste procedure sono state, dunque, codificate nel protocollo milanese, prevedendo uno schema operativo su più fasi: da quella di cognizione, che prevede la piena accessibilità e informazione, con la creazione anche di una modulistica ad hoc, a quella relativa all’attività di sorveglianza del programma. “Le riforme dalla penna del legislatore si devono trasferire sul foglio della realtà”, ha commentato La Lumia. “Questo è possibile - ha aggiunto - se l’intero sistema giustizia è capace, pur nelle differenti prospettive, di creare un terreno comune in cui agire. Questo l’obiettivo del protocollo, ma in generale è questo lo spirito che anima la sinergia tra avvocatura e magistratura all’interno della giurisdizione”. Da parte di tutti i soggetti interessati è stato segnalato il carattere estremamente innovativo del nuovo istituto che permetterà così di realizzare pienamente il dettato costituzionale della funzione rieducativa della pena. Il gruppo di lavoro continuerà il suo lavoro attraverso incontri semestrali che avranno l’obiettivo di valutare il percorso svolto e individuarne i passi evolutivi, anche al fine di integrare e correggere il lavoro svolto. Un ruolo centrale lo avranno i mediatori, dalla cui impegno dipenderà inevitabilmente la riuscita o meno del programma riparativo. Trento. Ci sono 120 detenuti oltre il limite: in aumento disagio psichico e autolesionismo di Giuseppe Fin Il Dolomiti, 5 ottobre 2023 Troppi detenuti a fronte di una carenza di personale diventata ormai drammatica. Ma non solo, al carcere di Spini di Gardolo ci sono carenze in tutti i comparti da quello sanitario a quello degli educatori. Preoccupa anche la mancanza degli agenti di polizia penitenziaria che sono meno di 170 invece di essere 227. I dati sono stati inseriti nell’ultima relazione della garante dei detenuti Antonia Menghini. In carcere a Trento la situazione rischia di diventare davvero insostenibile. Il sovraffollamento che si sta registrando proprio in queste settimane con ben 362 detenuti a fronte dei 240 stabili nel 2002 con l’accordo tra Provincia e ministero, è preoccupante se si considera che è addirittura superiore al dato che si aveva nel dicembre del 2018 quando i detenuti erano circa 290 è scoppiò una violenta rivolta all’interno alla struttura e alcune celle vennero danneggiate dalle fiamme. Ma non è l’unico grave problema interno alla struttura di Spini di Gardolo e a farlo capire è stata la garante dei detenuti, Antonia Menghini, nella sua relazione annuale dove si fa luce su diverse criticità che rischiano a mandare a gambe all’aria la principale funzione di un istituto penitenziario che è quella della rieducazione dei detenuti. Questo lo si può fare se ci sono educatori e personale professionale capace di seguire i detenuti. Ma a Trento, tutto questo, manca. All’interno del carcere di Trento sono 144 i detenuti italiani e 201 quelli stranieri presenti (dato al 31 dicembre 2022). Il 2022 si è concluso senza suicidi. Peraltro si sono registrati 75 atti di autolesionismo, dato che rimane elevato rispetto al valore medio del periodo 2015-2021 pari a 41. Per quanto riguarda il 2023, invece, fino a settembre si registrano 57 atti di autolesionismo e 4 tentativi di suicidio. Un aumento di detenuti e di situazioni difficili che viene denunciato da ormai diversi anni senza che però la situazione arrivi ad un vero cambiamento. L’affollamento che si è registrano in alcune sezioni del carcere ha portato, fra l’altro, ad essere accolti per la prima volta nel 2023 due reclami (ex art. 35 ter o.p.) per il pregiudizio sofferto connesso all’insufficienza di spazio disponibile in una cella. Lo spazio minimo vitale di 3 metri quadri non è stato assicurato. “Sono diverse le criticità che erano già state chiarite negli anni scorsi e che risultano persistenti. A fronte di un aumento del numero dei detenuti, infatti, abbiamo un continuo ammanco per gli organici di tutti i comparti del penitenziario” spiega la professoressa Antonia Menghini, garante dei detenuti, sottolineando come fra le criticità vi sia anche quella che riguarda l’importante area educativa. “Di recente è stata rideterminata la pianta organica dell’istituto e sulla base delle presenze sarebbero necessari 8 educatori - spiega - ma ne permangono da novembre dello scorso anno solo due”. Il ruolo degli educatori è di primaria importanza all’interno di un carcere. La loro funzione è quella di accompagnare, attraverso numerosi colloqui, il detenuto in un percorso di rieducazione. “A Trento è stata registrata l’assenza dei colloqui anche per i nuovi giunti - spiega sempre la garante - e cioè di tutte quelle persone che entrano per la prima volta in carcere che magari hanno bisogno di un sostegno. Ma si registrano anche ritardi nella predisposizione delle cosiddette ‘sintesi’ che sono quei documenti dove viene descritto il detenuto e la sua personalità e che vanno a confluire in quel fascicolo consultato poi per la valutazione nella concessione dei benefici”. A preoccupare è anche l’area sanitaria. Il disagio psichico in carcere è in aumento. Lo confermano i dati e non stiamo parlando di poche unità. A dicembre 2021 si contavano a fronte di 300 detenuti circa 30 persone affette da grave patologia psichiatrica primaria, a dicembre 2022 45 sui 248 detenuti presenti. Ad oggi, l’ultimo dato fornito è quello di 75 persone affette da cosiddetta diagnosi maggiore a fronte di 362 presenze. Da precisare è però che, con il cambio del medico psichiatra, è variato anche il metodo di computo, che prevede che ora, a differenza degli anni precedenti, si contino anche i gravi casi di disturbo della personalità. Un dramma che avevamo già denunciato negli scorsi mesi. Il carcere per le persone con problemi psichiatrici autori di reati non è il luogo adatto per scontare la pena. Le risposte alternative che lo Stato attraverso il Sistema Sanitario Nazionale, ha cercato di offrire sono state insufficienti. Le cosiddette Rems (residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza) ad oggi restano gravemente deficitarie. Anche in Trentino l’unica Rems presente ha troppi pochi posti. “La struttura di Pergine - viene spiegato nella relazione della garante dei detenuti - ha evidenziato nell’ultimo periodo importanti difficoltà legate alla formazione di una lista d’attesa della durata di più mesi e un’incidenza statistica del tutto predominante delle misure di sicurezza provvisorie”. La professoressa Antonia Menghini anche in quest’ultima relazione, come già fatto in precedenza, ha sottolineato come non si sia ancora arrivati alla realizzazione di un adeguato centro diurno, immaginato come un luogo in cui le persone affette da disagio psichico potrebbero essere seguite durante la giornata. Sempre sul versante sanitario, nel 2022 e nel 2023, alcuni detenuti hanno segnalato lunghe attese nelle visite mediche specialistiche. All’attesa per il “fisiologico” inserimento in lista per la visita specialistica, si assomma infatti in molti casi, qualora queste implichino il trasferimento in ospedale, anche l’impossibilità o il ritardo proprio nel trasferimento, con evidente necessità di riprogrammazione della visita, per la carenza di organico della Polizia penitenziaria. Una carenza, quest’ultima non di poco conto e che sta andando avanti da tempo nonostante le richieste delle organizzazioni sindacali e nonostante il governatore Fugatti abbia cercato di alzare la voce negli scorsi anni. Nell’ottobre dello scorso anno, dopo l’ennesima aggressione a danno del personale di Polizia penitenziaria in servizio alla casa circondariale di Trento, Fugatti aveva deciso di sollecitare nuovamente il ministero. Nella missiva al Guardasigilli il governatore aveva chiesto un tempestivo adeguamento della dotazione di organico della struttura. Questo non è avvenuto. “A fronte di 227 unità di polizia penitenziaria che dovrebbero essere previste - ha spiegato la garante - ne sono presenti meno di 170. Si segnala, inoltre, anche la mancanza di ispettori: su 27 ne sono presenti meno di 10”. Nuoro. Pochi agenti e problemi strutturali: il carcere di Badu e Carros è un caso L’Unione Sarda, 5 ottobre 2023 Il Comitato per la sicurezza convocato dal prefetto Dionisi. Sul tavolo anche le difficili condizioni di lavoro dei poliziotti penitenziari. Pochi agenti e problemi strutturali: così il carcere di Nuoro diventa un caso. Ieri mattina il Comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica è stato convocato dal prefetto Giancarlo Dionisi all’interno di Badu e Carros per discutere delle problematiche denunciate dai sindacati degli agenti penitenziari nelle scorse settimane. E i dossier sull’emergenza ora avranno una corsia preferenziale per arrivare sul tavolo del ministero della Giustizia. Presente alla riunione anche la direttrice del carcere, Patrizia Incollu. Tra i temi all’ordine del giorno la carenza del personale penitenziario (attualmente sono solo 60 gli agenti in servizio) e le lacune strutturali dell’edificio che necessita di una ristrutturazione. Criticità che, nel febbraio scorso, hanno portato all’evasione del boss della mafia garganica Marco Raduano, tuttora latitante. Nel corso dell’incontro si è anche parlato della massiccia presenza di detenuti della criminalità organizzata e mafiosa e della possibilità di richiedere dei trasferimenti. “Nei prossimi giorni mi farò portavoce di queste istanze con il ministero della Giustizia - ha spiegato il prefetto - Ma, d’accordo con le forze dell’ordine e con la procura, rafforzeremo l’attività informativa e investigativa con la costituzione di una task force coordinata dal Questore di Nuoro, dai colleghi dell’Arma e della Polizia Penitenziaria e il coordinamento dalla procura di Nuoro e dalla Direzione distrettuale antimafia di Cagliari”. Durante l’incontro sono state approfondite le questioni legate al numero (esiguo) di agenti penitenziari e anche i problemi strutturali dell’edificio, che necessita di una seria ristrutturazione. “Nel carcere è necessario anche un avvicendamento di detenuti della criminalità organizzata e mafiosa”, spiega il prefetto, sottolineando il pericolo di infiltrazioni mafiose in Barbagia “legate alla presenza dei parenti che diventano stanziali sul territorio fino ad alimentare possibili saldature col crimine sardo”. Firenze. Anagrafe detenuti: accordo tra Comune, Sollicciano-Gozzini e Ipm 055firenze.it, 5 ottobre 2023 Per trovare soluzioni operative per il rilascio dei documenti e l’iscrizione anagrafica delle persone detenute. Un accordo tra Comune di Firenze, Casa circondariale Sollicciano - Gozzini e Istituto penale per i minorenni di Firenze per trovare soluzioni operative per il rilascio dei documenti e l’iscrizione anagrafica delle persone detenute. È quello siglato oggi in Palazzo Vecchio alla presenza dell’assessore all’Anagrafe Titta Meucci, del garante dei detenuti Eros Cruccolini, della direttrice del carcere di Sollicciano Antonella Tuoni, del direttore della Casa circondariale Gozzini Vincenzo Tedeschi e della direttrice dell’Istituto Penale per i Minorenni Antonia Bianco. L’accordo, fa sapere Palazzo Vecchio, arriva a seguito del lavoro svolto dal tavolo con il Garante dei diritti dei detenuti e i direttori degli istituti penitenziari. “Con questo accordo - ha spiegato l’assessore Meucci - vengono formalizzate e riorganizzate le procedure per l’iscrizione anagrafica dei detenuti, nel rispetto della normativa sull’ordinamento penitenziario. Viene inoltre disciplinato l’accesso dei dipendenti dell’anagrafe nei tre istituti, che avverrà con cadenza mensile per far fronte ai relativi adempimenti, come da esigenze manifestate dai direttori. Il protocollo arriva a seguito del lavoro svolto dal tavolo tecnico, che ha affrontato in particolare il tema dei documenti di identità per i detenuti, sia italiani che stranieri, che non ne sono in possesso”. “Come Garante dei diritti delle persone private della Libertà personale - ha detto Eros Cruccolini - rappresento la voce delle persone ristrette che ringraziano per questo protocollo che diminuisce le nostre ansie e ci dà più sicurezze per il futuro”. “L’accordo siglato in data odierna - ha detto la direttrice Antonella Tuoni - costituisce un importante risultato di cooperazione e condivisione fra Amministrazione comunale fiorentina e Amministrazione penitenziaria in una materia particolarmente delicata quale quella anagrafica in ambito penitenziario ed in particolare nel carcere di Sollicciano, considerata, tra l’altro, l’alta percentuale di stranieri ristretti; auspico che il modello fiorentino possa essere rapidamente esportato in altre realtà territoriali nel pieno rispetto della Carta costituzionale e dell’Ordinamento penitenziario come novellato nel 2018”. “Il raccordo tra l’Anagrafe e gli istituti penitenziari - ha detto il direttore Tedeschi - si configura come un importante punto di partenza per fornire ai detenuti sprovvisti di residenza o documento un supporto finalizzato alla regolarizzazione delle loro posizioni, trattandosi della condizione necessaria per il reinserimento sul territorio. Tale nuova prassi potrà rivelarsi di ausilio anche ai numerosi stranieri che, stante la vigente normativa, risultano particolarmente penalizzati. Riconoscendo al Comune di Firenze il valore di questo innovativo e coraggioso progetto, si auspica che analoghe iniziative possano essere esportate anche in altre realtà territoriali”. “L’accordo sottoscritto oggi - ha detto la direttrice Antonia Bianco - segna un importante passo in tema di riconoscimento dei diritti e, nello specifico dei minorenni, del diritto alla registrazione e all’identità sanciti dalla Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza. Un accordo che denota attenzione e sensibilità non scontate nei confronti delle persone detenute da parte della giunta comunale. Esprimo quindi un sentito ringraziamento a tutti coloro che da anni hanno lavorato a questo importante accordo, a chi lo ha approvato e fortemente voluto e caldeggiato, in particolare l’assessore Elisabetta Meucci e il Garante comunale per le persone private della libertà Eros Cruccolini che, in dirittura d’arrivo, hanno ritenuto poterne estendere i benefici anche ai ragazzi dell’Istituto penale minorile di Firenze”. Ai dipendenti comunali che svolgono funzioni di ufficiali di anagrafe è assicurato l’accesso all’Istituto nel rispetto delle disposizioni dell’Ordinamento penitenziario. L’ufficio anagrafe del Comune di Firenze, in collaborazione con l’Istituto, assicurerà un giorno di presenza mensile per assicurare ai detenuti il rilascio di documenti o fornire informazioni di carattere anagrafico. Napoli. Terremoto, il caso del carcere femminile di Pozzuoli costruito sopra la caldera di Giuseppe Crimaldi Il Mattino, 5 ottobre 2023 La paura del terremoto all’interno delle mura di un carcere. Se il panico generato dalle scosse telluriche che si ripetono negli sciami sismici che interessano la caldera dei Campi Flegrei di questi giorni gettano nello sgomento i liberi, immaginate la condizione che vivono le recluse della struttura penitenziaria femminile di Pozzuoli. La loro condizione viene monitorata in queste ore dai vertici del carcere, dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, dalle istituzioni ma anche dal garante regionale per i detenuti. Ed è proprio da Samuele Ciambriello che parte un appello al governo, soprattutto in relazione al regime delle semi-libere alloggiate nell’edificio di via Pergolesi: “In questo momento serve un provvedimento per coloro che di giorno escono per andare a lavorare e rientrano per passare la notte. Serve un decreto che consenta loro di non rientrare in cella dopo il tramonto, esattamente come fu fatto durante la pandemia”. La tensione è palpabile all’interno della struttura penitenziaria femminile di Pozzuoli. Gli sciami sismici destano angosce e preoccupazioni tra chi vive dietro le sbarre. Comprensibile. Nelle ultime ore alcune detenute hanno scritto al garante: lettere accorate, appelli e sfoghi per chi è costretto a vivere, in regime detentivo, una condizione di doppia frustrazione. “Ci aiuti lei, che cosa dobbiamo fare? - scrivono le recluse - Viviamo uno stato di angoscia, che cresce ad ogni scossa, ad ogni allarme quando la terra trema. Che cosa faremmo in caso di un forte movimento tellurico? Non abbandonateci”. Parole subito raccolte da Ciambriello: “Queste donne stanno vivendo una condizione sicuramente particolare e difficile, vivono in depressione e solitudine con l’aggravante dei timori legati al terremoto”. Inutile dire che, sul piano dei controlli alle strutture dell’edificio, le verifiche all’interno delle mura carcerarie sono già state eseguite e non hanno evidenziato criticità. massima è l’attenzione della direzione e del Dipartimento al carcere femminile di Pozzuoli in questi che sono giorni sicuramente critici e particolari per tutta la popolazione residente sul territorio investito dagli sciami e dal fenomeno bradisistico. Attualmente nella struttura di via Pergolesi sono ospitate circa 150 recluse, e tra queste ve ne sono nove in regime di semi-libertà. La semi-libertà è una misura alternativa al carcere concessa, attraverso la quale una persona condannata può trascorrere parte della giornata fuori dalla prigione. Viene concessa solamente in alcuni casi e se l’interessato dimostra di essere pronto per il reinserimento in società. Di qui la proposta del garante Ciambriello: “Fermo restando che i controlli sulla staticità della struttura ci sono e sono rigorosi come accade per tutti gli edifici pubblici, c’è tuttavia una grossa componente psicologica che incide di fronte a chi vive in regime di detenzione quando si verificano eventi come quelli di questi giorni, a causa delle scosse sismiche. Auspico, come avvenne per il Covid, un decreto che esenti per alcuni mesi le detenute in semi-libertà di dover rientrare, di sera, nelle celle”. Torino. Premio Castelli 2023: in carcere vince la speranza di Roberta Barbi vaticannews.va, 5 ottobre 2023 Si è conclusa con la premiazione dei tre elaborati vincitori, nella Casa circondariale di Lorusso e Cotugno a Torino, la XVI edizione del Premio letterario dedicato agli scritti dei detenuti di tutta Italia promosso dalla Società San Vincenzo De Paoli. Oltre 220 gli elaborati arrivati alla giuria dagli istituti di pena di tutta Italia, segno che il Premio letterario Carlo Castelli, per i ristretti che hanno voglia di esprimersi attraverso la scrittura anche per far conoscere la propria realtà a chi è fuori, è ormai considerato un’istituzione, tanto da aver ricevuto il patrocinio del Dicastero Vaticano per la Comunicazione, della Camera, del Senato e del Ministero della Giustizia italiani. E la straordinarietà di un’edizione ricaduta proprio nel 25.mo anniversario dalla morte del volontario penitenziario da cui il concorso prende in prestito il nome, è sottolineata dalla presidente nazionale della Società San Vincenzo De Paoli, Paola Da Ros: “Quest’anno, per la prima volta in tanti anni, alla premiazione hanno potuto partecipare tutti e tre gli autori degli elaborati premiati, una ristretta ha dovuto attraversare quasi tutta l’Italia per venire a Torino - racconta a Vatican News - per questo è stata una forte emozione ascoltare i testi letti dalle loro voci, ringraziamo del fatto che questo sia stato possibile”. Al primo posto si è classificato il testo “Con le mani sfiorite” scritto da una detenuta che, pur ripercorrendo i fatti più dolorosi della propria vita senza edulcorarli, non si lascia vincere dalla disperazione, ma, anzi, permette alla speranza di entrare nella sua cella e di tornare a illuminarle la vita. “Questo racconto è stato premiato con il consenso unanime della giuria - testimonia la presidente - la speranza di cui si parla qui non è la speranza di riconquistare una libertà effettiva, ma la libertà interiore, assai più importante. Questa è un po’ la sintesi dello spirito vincenziano e poi, come dice Papa Francesco, le carceri dovrebbero sempre avere una finestra e un orizzonte da vedere anche quando la pena è perpetua, perché senza orizzonte nessuno può cambiare”. Secondo, invece, si è piazzato lo scritto “Scene di una prigionia” e terzo “I... se...”. Come sempre, la strada del Premio Castelli edizione 2023 è tutt’altro che terminata: per tutto l’anno, infatti, sono previste letture formative nei seminari e nelle scuole che porteranno i racconti fuori dalle mura carcerarie; punto di riferimento in questo senso sarà l’antologia che verrà data alle stampe e che conterrà oltre al racconto vincitore anche gli altri due testi premiati, che hanno al centro rispettivamente temi quali la povertà spirituale in carcere e il dramma dei suicidi, e i dieci che hanno ricevuto una menzione speciale. Quanto ai premi in denaro consegnati, in parte saranno devoluti a progetti riguardanti il mondo carcere e a tal proposito era presente alla premiazione anche un giovane ospite dell’ipm di Bari con un educatore di riferimento. “Credo che il nostro concorso abbia una grande valenza pedagogica - conclude Da Ros - ascoltare il racconto della vita che si fa in carcere, infatti, specie nelle scuole che sono il contesto principale in cui si forma la coscienza civile, aiuta ad allontanare i giovani dalla delinquenza”. A tal fine sono stati organizzati anche alcuni appuntamenti a latere della premiazione: l’incontro con le cooperative impegnate nel reinserimento dei detenuti, dal titolo “Carcere fuori. Realtà oltre le mura” e il corso di formazione per giornalisti “Il carcere visto da fuori” su come comunicare sulla stampa questa realtà, promosso dall’Ucsi, l’Unione stampa cattolica italiana. Pesaro. Convegno “Detenuti al lavoro: un antidoto contro la recidiva e una risorsa per le aziende” primocomunicazione.it, 5 ottobre 2023 “L’inserimento lavorativo come elemento fondamentale nel percorso educativo e rieducativo del detenuto”, questa la visione adottata dai promotori del convegno “Detenuti al lavoro: un antidoto contro la recidiva e una risorsa per le aziende” promosso dall’Ats1, cooperativa sociale T41B e Caritas Diocesana di Pesaro e in programma lunedì 9 ottobre, ore 17.30, a Palazzo Ciacchi, sede di Confindustria Pesaro e Urbino, in via Cattaneo 34. “L’Amministrazione comunale e l’Ats1 - sottolinea Luca Pandolfi, assessore alla Solidarietà e presidente del comitato dei sindaci dell’Ats1, insieme ad altri partner istituzionali, sono impegnati in prima linea in progetti con protagonisti i detenuti della casa circondariale di Villa Fastiggi, con l’obiettivo sancito dall’Art.27 della Costituzione di rieducazione ma anche di accompagnamento al rinserimento sociale del detenuto inteso come persona. Siamo impegnati nel costruire una connessione tra il dentro e il fuori l’istituto penitenziario, tra la comunità cittadina e la comunità penitenziaria; così come nel promuovere progetti socioculturali, di accompagnamento all’uscita dal periodo detentivo. In questo senso è fondamentale il reinserimento lavorativo: un percorso che può aver successo se accolto e condiviso con il territorio e la comunità produttiva. E che cercheremo di sostenere con l’appuntamento del 9 ottobre insieme ai più importanti protagonisti del territorio”. Finanziato dall’Ats1 e rivolto in particolare ai detenuti prossimi alla scarcerazione, è attivo nella casa circondariale di Villa Fastiggi, lo sportello ASIA (Ascolto - Sostegno - Integrazione - Accompagnamento) gestito prima dalla Caritas di Pesaro e, dal 2023 anche dalla cooperativa sociale T41B “che ha messo al centro della sua azione il tema del lavoro, cruciale per chi sta per uscire dal carcere” spiega Michele Gianni, presidente coop sociale T41B. È infatti statisticamente dimostrato che il rischio di recidiva viene drasticamente abbattuto se le persone detenute lavorano durante la detenzione. Non si tratta solo di un fattore economico: il lavoro è un tassello fondamentale del percorso educativo e rieducativo che si dovrebbe svolgere mentre si sconta una condanna, uno strumento potentissimo per riacquisire autostima, fiducia in se stessi, per rifarsi una nuova vita. La legge 193 del 2000, conosciuta come “Legge Smuraglia”, ha disciplinato il lavoro della persona detenuta, prevedendo per le imprese che assumono detenuti o che decentrano lavorazioni all’interno delle carceri una serie di agevolazioni (dagli sgravi contributivi a consistenti crediti d’imposta) che possono essere utilizzati anche per la formazione del personale in situazione di privazione delle libertà. Scopo del convegno del 9 ottobre è quindi quello di approfondire sia l’aspetto del lavoro come strumento del percorso di rieducazione del condannato, che sarà trattato da Fatima Farina dell’Università degli Studi di Urbino, sia le opportunità che la legge offre alle imprese che decidono di utilizzare manodopera detenuta, che saranno illustrate dalla direttrice del carcere di Pesaro, Palma Mercurio. Di grande rilevanza la presenza di Confindustria, che farà gli onori di casa con la presidente Alessandra Baronciani, per la divulgazione nelle aziende del territorio delle opportunità fornite dalla legge. A partecipare anche Luca Pandolfi, assessore alla Solidarietà e presidente del comitato dei sindaci dell’Ats1, Ugo Ciaschini, del’ufficio Servizio sociale minorenni di Ancona e il Prefetto Emanuela Saveria Greco, a ribadire l’importanza istituzionale di un incontro tra carcere e territorio pensato per porre le basi per un’interazione che faciliti l’integrazione di chi ha scontato una condanna e la coesione sociale dell’intera comunità locale. “L’anno scorso - spiega il presidente Gianni - abbiamo assunto 4 detenuti, quest’anno 3. Ma effettuando settimanalmente colloqui di lavoro con la popolazione carceraria è risultato chiaro che non poteva essere la sola cooperazione sociale a dare una risposta su questo terreno; è necessaria una sensibilizzazione delle aziende che spesso non conoscono le agevolazioni che la legge offre a chi assume detenuti. Abbiamo proposto a Confindustria di aiutarci ad approfondire il tema e abbiamo trovato grande disponibilità e una collaborazione fattiva che ha portato all’iniziativa di lunedì prossimo. Un primo passo, speriamo, per un rapporto diverso tra carcere e tessuto economico locale”. Ingresso libero. Per informazioni: tel. 0721.270001; mail a info@t41b.it. Milano. Gli studenti a pranzo “Ingalera”, nel ristorante nato tra le mura del carcere di Bollate monzatoday.it, 5 ottobre 2023 Il progetto è finalizzato alla formazione critica degli studenti. Hanno pranzato con i detenuti ascoltando le loro storie di vita e disquisendo su temi come la responsabilità sociale e l’impegno, le identità e i diritti umani. Così gli studenti che frequentano gli ultimi due anni di scuola superiore all’International School of Monza, che nella giornata del 3 ottobre sono stati accolti insieme ai loro insegnanti dai detenuti che attualmente gestiscono il ristorante “Ingalera”, situato all’interno del carcere di Bollate. Un importante momento educativo nel quale gli studenti hanno appunto potuto approfondire temi come i diritti umani e la responsabilità sociale e conoscere il progetto di recupero e reinserimento dei detenuti. “Ingalera”, infatti, è il ristorante nato dentro le mura carcerarie di uno dei centri di detenzione più all’avanguardia d’Italia, dove da tempo i detenuti affrontano percorsi rieducativi attraverso numerose attività: dall’orto botanico alla biblioteca, dalla musica alla cura dei cavalli. In particolare, il progetto di ristorazione offre ai detenuti un vero e proprio curriculum lavorativo, solido e strutturato, con cui poter affrontare il successivo reinserimento sociale al termine della pena. Gli studenti dell’International School of Monza hanno dunque pranzato nel ristorante e conosciuto l’esperienza e le storie dei detenuti che, impegnati come cuochi e camerieri, oggi gestiscono con successo questo ristorante sociale divenuto modello di riferimento non solo in Italia, ma anche all’estero. “Abbiamo proposto con entusiasmo questa iniziativa a studenti e famiglie che l’hanno accolta con altrettanto entusiasmo in quanto rientra in quello che è il percorso formativo offerto dalla nostra scuola - ha spiegato Michela Giovannini, coordinatrice del Diploma programme all’International School of Monza - Questo ambizioso programma tocca temi trasversali come la responsabilità sociale e l’impegno, le identità, le storie di vita e i diritti umani. L’opportunità di conoscere una realtà come quella di Bollate e di interagire con alcuni dei detenuti che lavorano InGalera permetterà ai nostri studenti di crescere come cittadini attivi della comunità, tanto locale quanto globale”. Il cuore pulsante del Diploma programme proposta dall’istituto monzese è infatti formato da tre progetti formativi: Extended essay, ovvero un’esperienza di ricerca che si configura in una tesi impostata sul modello universitario, Theory of knowledge, un percorso di riflessione sulla capacità di imparare con approccio multidisciplinare e olistico per acquisire consapevolezza e migliorare il pensiero critico, e Creativity - activity - service, un programma personalizzato che vede ogni studente impegnato come cittadino attivo della comunità locale e globale. “Ed è in questo ambito che i ragazzi vengono coinvolti in progetti e attività che favoriscono lo sviluppo della creatività e delle capacità sportive e sociali, consentendo loro di interagire in contesti extra - scolastici” hanno chiarito ancora dall’istituto monzese. L’International School of Monza appartiene a Inspired Education Group, gruppo di scuole internazionali di alto livello presente in cinque continenti. Oggi il network Inspired comprende un totale di 111 scuole che offrono un percorso formativo articolato e completo a più di 80.000 studenti. Fondata da Nadim M Nsouli, Inspired Education Group rivolge uno sguardo innovativo e dinamico al ruolo svolto dall’educazione, promuovendo un approccio educativo influente e autorevole. Ogni singola scuola è progettata in modo da inserirsi nel proprio specifico contesto territoriale e da rispecchiare, nel contempo, una filosofia didattica e culturale condivisa, aperta a una prospettiva internazionale pensata per educare i ragazzi a essere cittadini del mondo. La nostra via maestra: libertà, democrazia, partecipazione di Walter Massa* Il Manifesto, 5 ottobre 2023 Libertà, democrazia e partecipazione sono state le parole importanti della giornata nazionale dell’Associazionismo italiano che si è svolta a Roma qualche giorno fa. Un momento, il primo, che si è reso necessario per un sentire comune, largamente diffuso, che vede quei capisaldi della nostra convivenza in serio pericolo. Non è una questione solo nazionale visto che da qualche anno assistiamo ad un sempre più marcato restringimento dello “spazio civico europeo”. Nell’ultimo discorso sullo stato dell’Unione prima delle elezioni europee, la Presidente della Commissione Ursula von der Leyen, come ricordato dal Forum Civico Europeo, di cui Arci è parte attiva, ha completamente escluso il termine “società civile”, menzionando di sfuggita la parola “democrazia” pur affrontando temi come clima, competitività, parità di genere, geopolitica, migrazioni e lavoro. Non è un caso ma una vera e propria svolta culturale e politica che si basa su due fattori principali che sostanziano le nostre preoccupazioni: le recenti affermazioni di gruppi politici di estrema destra, ora al governo di diversi paesi, e le continue minacce alle libertà in diversi Stati membri, sono lo sfondo macabro e perfetto di questa svolta. Ungheria, Italia, Svezia, Finlandia e Grecia sono lì a dimostrare la veridicità di queste nostre preoccupazioni e l’evidente tentativo di limitare la “libertà di associazione”, in barba alla nostra Costituzione e ai Trattati europei. E i modi trovati sono i più disparati. Sempre il Forum Civico Europeo ci ricorda che il Civicus Monitor (una piattaforma europea che traccia e valuta lo spazio civico) ha messo in evidenza le cinque principali restrizioni nell’UE per il 2022 - intimidazioni, molestie, detenzione di manifestanti, attacchi ai giornalisti e censura - con il diritto alla libertà di riunione pacifica ripetutamente preso di mira. Non solo, in Francia la legge sul separatismo impone a ogni associazione che richiede un finanziamento pubblico di firmare un “contratto di impegno ai principi repubblicani”, che non pare proprio un “contratto”. Risultato? L’associazione Femmes sans Frontières, che aiuta donne vittime di violenza domestica e migranti, è stata accusata di “non rispettare i valori repubblicani” in quanto la sua direttrice, Faïza Boudchar, indossa il velo. Ancora, nell’ultimo decennio il Regno Unito ha visto un declino delle libertà civiche. Il governo ha approvato una legge restrittiva sulle proteste dando alla polizia maggiori poteri per reprimerle. Anche in Spagna le restrizioni alle libertà civiche si sono intensificate. La legge bavaglio del 2015, nonostante i tentativi di riformarla, è stata utilizzata per colpire manifestanti, militanti, attivisti e giornalisti. In Austria e Finlandia la violenza della polizia durante le proteste ha colpito in particolare gli attivisti per il clima e le loro azioni e non mancano Governi europei, compreso il nostro, pronti a “inasprire le pene” e a seguire le loro orme. In Italia, oltre a tutto questo e ad un attacco generalizzato e mirato verso le ragazze e i ragazzi, è in atto da tempo un tentativo di colpire l’associazionismo democratico e civico che vive soprattutto di autofinanziamento e attraverso questo difende quel bene prezioso che è la libertà. Un tentativo perpetrato in modo subdolo, con l’intensificarsi della burocrazia e partendo dal presupposto malsano che le associazioni debbano dimostrare di non commettere reati e omissioni con uno Stato completamente incapace di controllare seriamente. Dagli anni 2000 il volontariato associativo, tanto osannato durante eventi tragici dalle istituzioni di ogni ordine, colore e grado, in realtà è sempre più vessato da scartoffie e fogli da compilare, trasformando quel prezioso tempo da dedicare ad altri o a se stessi dopo il lavoro, in tempo per calarsi nei panni di avvocati e commercialisti. Tempo in cui “avere paura dello Stato”, quello stesso Stato che però ti chiede di sostituirlo nelle politiche di welfare pubblico e di prossimità. Il risultato è che l’autonomia del sociale per cui ci siamo battuti negli anni 90 è fortemente a rischio come lo è nei fatti l’art. 18 della Costituzione sulla libertà di associazione. Restringere questo spazio di libertà, colpire il “potere” di emanciparsi, crescere e progredire collettivamente, un diritto primario che sta alla base di qualunque forma di auto-organizzazione e di presa di coscienza, è l’elemento più pericoloso di questa tragica stagione politica italiana. Per questo il 7 ottobre a Roma la nostra Via Maestra non può che ripartire dai tre capisaldi fondamentali della nostra Costituzione, libertà, democrazia e partecipazione. *Presidente nazionale Arci Migranti. L’Italia segna un punto. L’intesa Ue supera lo scoglio ong di Francesca Basso e Marco Galluzzo Corriere della Sera, 5 ottobre 2023 Berlino fa un passo indietro. Solidarietà obbligatoria per i Paesi membri in situazioni di crisi. Commissione irritata per le frasi di Michel sull’intesa europea con la Tunisia. Alla vigilia della riunione della Comunità politica europea e del Consiglio europeo informale di Granada, che avrà sul tavolo anche la migrazione, gli ambasciatori presso la Ue hanno dato semaforo verde al regolamento per la gestione delle crisi - uno dei tasselli fondamentali del Patto per la migrazione - che era in stallo e che fissa le regole nel caso in cui un Paese Ue si trovi sotto pressione per un aumento di sbarchi o arrivi superiore del normale o per situazioni prodotte dalla strumentalizzazione dei migranti da parte di Paesi terzi. Il regolamento consente alcune deroghe e contempla un meccanismo di solidarietà obbligatorio, che prevede anche i ricollocamenti dei migranti e un’equa ripartizione delle responsabilità tra i Paesi Ue. A luglio la Germania si era astenuta sul testo ritenendo che riducesse gli standard umanitari, consentendo così la formazione di una minoranza di blocco. Polonia e Ungheria hanno votato contro anche questa volta, Austria, Slovacchia e Repubblica Ceca si sono astenute. Il via libera è arrivato perché Italia e Germania hanno superato le tensioni che si erano create giovedì scorso quando Berlino al Consiglio Affari interni ha aperto al testo dopo che la presidenza spagnola aveva presentato degli emendamenti che recepivano le sue richieste e il ministro Piantedosi aveva lasciato la riunione. In particolare l’articolo 1 in cui si diceva che “le operazioni di aiuto umanitario, secondo gli standard europei, non dovrebbero essere considerate come strumentalizzazione dei migranti quando non vi è l’obiettivo di destabilizzare l’Unione o uno Stato membro”. Dopo un negoziato serrato è stata accolta la richiesta italiana di tornare al testo di luglio che non presentava la menzione delle Ong nell’articolato del regolamento ma solo nel preambolo. Germania e Italia hanno posizioni differenti sul ruolo delle ong, che per Roma sono un pull-factor e a luglio era stato raggiunto un delicato equilibrio che l’Italia aveva sostenuto. “L’emendamento della Germania rappresentava un passo indietro, è stato ritirato: è passata la posizione italiana”, hanno sottolineato fonti di Palazzo Chigi esprimendo “soddisfazione”. Fonti di governo sottolineano che negli ultimi giorni ci sono stati contatti diretti fra la cancelleria tedesca e Palazzo Chigi e ieri mattina una telefonata tra Meloni e Scholz ha sbloccato l’intesa. La premier Giorgia Meloni, in un’intervista a Sky Tg24 ha detto di non sentirsi isolata: “Mi sembra che sia molto più isolata una sinistra europea che continua a ritenere di poter affrontare questa materia in modo ideologico”. Per il ministro degli Esteri Antonio Tajani “l’accordo è un successo per l’Italia”. Per il cancelliere tedesco Olaf Scholz è “una svolta storica” e il regolamento “limiterà efficacemente la migrazione irregolare in Europa e alleggerirà durevolmente Stati come la Germania”. La ministra degli Esteri Annalena Baerbock ha sottolineato che la Germania “ha lottato duramente e con successo a Bruxelles per garantire che gli standard umanitari minimi non venissero indeboliti” e l’articolo che consentiva deroghe agli standard di accoglienza stralciato giovedì non sarebbe stato ripristinato. Per la presidente della Commissione von der Leyen l’accordo è “un vero punto di svolta che consente di portare avanti i negoziati con Parlamento e Consiglio”. Il summit affronterà la dimensione esterna della migrazione. In un’intervista al Corriere il presidente del Consiglio europeo Michel ha criticato il memorandum con la Tunisia nella sostanza e per il modo in cui è stato condotto. Una portavoce della Commissione ha replicato che le dichiarazioni “sono parzialmente imprecise e non rafforzano in alcun modo l’abilità dell’Ue di agire con efficacia”. Via libera al patto migrazioni. Ma la tregua tra Meloni e Scholz ha un prezzo di Francesca De Benedetti Il Domani, 5 ottobre 2023 I due leader arriveranno a Granada con il “fascicolo crisi” finalmente sbloccato. Loro salvano la faccia, ma l’Ue? Con questo dossier i diritti si restringono. E la concessione poco più che simbolica al governo Meloni finisce per avallare gli attacchi già intensi a società civile e ong. Olaf Scholz parla di “una svolta storica”, il governo Meloni di “un successo italiano”. I capi di stato e di governo sono convinti di arrivare oggi a Granada con la faccia salva, dopo che ieri è stato chiuso l’accordo su un dossier cruciale del patto europeo sulle migrazioni. Prima non si convinceva la Germania, poi era stata l’Italia a tenere in ostaggio tutti; ma è stato trovato il tanto atteso compromesso e ora la premier italiana ha il suo scalpo da esibire. È sempre il solito: le ong, capro espiatorio di destre di ogni sfumatura e paese, dai popolari europei a Meloni e Orbán, passando per Elon Musk. C’è un dettaglio non da poco, però: se si va oltre le apparenze, chi non salva la faccia è l’Unione europea, dopo questo via libera al fascicolo “crisi” e dopo che il Consiglio ha dato un assist alla criminalizzazione delle ong. A Bruxelles ormai governano i paradossi: il presidente del Consiglio europeo Charles Michel, pur di giocare di sponda coi governi, dichiara che “bisogna chiedere alle ong se agiscono in linea con lo stato di diritto”. E tutto questo mentre Ursula von der Leyen si prepara invece a scongelare i fondi all’Ungheria di Viktor Orbán, campione di violazioni dello stato di diritto. Mentre questi leader dell’Ue pensano a preservare il proprio futuro sulla scena politica - con von der Leyen che lavora al suo bis e che asseconda tanto Meloni che Orbán - intanto il dossier concordato questo mercoledì apre a svolte inquietanti; e il fragile ecosistema democratico dell’Unione europea subisce l’ennesimo colpo. I costi dell’accordo - Era un passaggio chiave, la sintesi sul fascicolo crisi: se non si fosse sbloccato questo dossier, sarebbe rimasto impantanato l’intero patto Ue su migrazioni e asilo. Il Parlamento europeo, pur di scuotere i governi in preda alle loro contraddizioni interne, aveva dato lo stop ai negoziati su altri due dossier (Eurodac e screening); questo mercoledì gli eurodeputati hanno potuto annunciare la ripresa dei lavori. Tuttavia la soluzione della diatriba tra Italia e Germania - che consentirà a Scholz e Meloni una stretta di mano a Granada - non è priva di costi politici. Il cancelliere sacrifica la difesa dei diritti: fino alla scorsa settimana, almeno i Verdi avevano frenato sul fascicolo crisi, perché introduce deroghe scivolose. Il dossier erge a sistema le svolte peggiori recenti, come quando la Polonia ha normalizzato i respingimenti illegali e Bruxelles ha avallato la cosa in nome delle interferenze bielorusse. La bozza parla di “strumentalizzazioni” e prevede deroghe come la possibilità di trattenere i migranti alcuni mesi in più nei centri di detenzione; l’argomento è che se la pressione è tanta serve più tempo per valutare le richieste di asilo. Scholz ha in mente l’estrema destra di Afd sempre più rampante, il discorso pubblico sempre più xenofobo; e alle elezioni locali di questo weekend è candidata pure la sua ministra degli Interni. Dunque la scorsa settimana il cancelliere aveva spinto un compromesso su guida della presidenza spagnola. Ma a quel punto era stato il governo Meloni a sceneggiare lo stop; erano i giorni degli attacchi a Germania e ong. I meloniani hanno tenuto tutti in ostaggio lamentando che gli aiuti umanitari fossero stati esclusi dalle “strumentalizzazioni”. Il finale è stato “spoilerato” dalla presidenza di turno spagnola la scorsa settimana: il ministro Fernando Grande-Marlaska ha ventilato un accordo tra rappresentanti dei governi (“Coreper”) prima di Granada. E infatti questo mercoledì, alla vigilia del summit, la sintesi è stata formalizzata: pare che il patto italo-tedesco consista nell’aver declassato il passaggio sulle ong nei preamboli invece che nell’articolato. La concessione poco più che simbolica al governo Meloni finisce però per avallare gli attacchi già intensi a società civile e ong; ci si era messo pure il Ppe, sfruttando in funzione anti ong le riforme etiche dopo lo scandalo Qatar. Ci si mette Meloni. E ora persino Michel. Tunisia. Le famiglie di detenuti politici in sit-in ad oltranza ansa.it, 5 ottobre 2023 Sostegno a sciopero fame incarcerati, domani giornata di protesta. Le famiglie dei detenuti politici in Tunisia hanno annunciato, in occasione di una conferenza stampa trasmessa sui social, che daranno inizio ad un sit-in ad oltranza presso la sede del partito Al Joumhouri e per domani una giornata di protesta alla quale seguirà uno sciopero della fame simbolico, “per le continue ingiustizie inflitte ai leader politici in quello che è noto come il caso del complotto contro la sicurezza dello Stato”. In questo contesto, il coordinamento delle famiglie dei detenuti ha assicurato di sostenere lo sciopero della fame iniziato dai detenuti politici, in particolare Jaouhar Ben Mbarek, Ridha Belhaj, Issam Chebbi, Abdelhamid Jlassi, Ghazi Chaouachi e Khayem Turki, “per il mantenimento delle accuse infondate nei loro confronti e la repressione degli oppositori”. Dal mese di febbraio scorso oltre una ventina di politici, sindacalisti, giornalisti e imprenditori sono in carcere preventivo nell’ambito del fascicolo noto in Tunisia come “complotto contro la sicurezza dello Stato”. Russia. Kara-Murza, parla la moglie del giornalista condannato a 25 anni di carcere di Anna Zafesova La Stampa, 5 ottobre 2023 “Rischia di morire in cella, il regime di Putin va fermato”. L’accusa è di “alto tradimento”. Evgenia: “I russi perseguitati per aver denunciato la guerra in Ucraina sono il volto dell’altra Russia”. Teoricamente, Evgenia Kara-Murza potrà riabbracciare suo marito Vladimir tra 25 anni, quando finirà di scontare la condanna per “alto tradimento” e “calunnia dell’esercito russo” inflittagli dal tribunale di Mosca. Il 42enne giornalista e oppositore è stato portato in un carcere rigido nel cuore della Siberia, dove è stato subito chiuso in una cella di punizione, una scatola di cemento gelida dove riceve una razione di cibo ridotta. “Ho paura per la sua vita”, dice Evgenia con la stessa voce ferma con la quale spiega ai politici di tutto il mondo - ieri ha avuto un incontro alla Camera dei deputati a Roma - che il regime di Vladimir Putin va fermato perché “altrimenti la Russia sarà sempre un pericolo, per se stesso e per gli altri”. Come sta suo marito? Dove si trova ora? “Dal 21 settembre si trova nella colonia correttiva IK-6 di Omsk, a 3 mila chilometri da Mosca. Durante tutto il trasferimento, durato 17 giorni, era sempre isolato, una cella separata nella carrozza detenuti, isolamento nelle carceri durante le soste, infine il SHIZO, la cella di punizione all’arrivo, per quasi tre settimane. Credo che dopo lo metteranno in cella solitaria, non vogliono che “corrompa” gli altri detenuti. L’ultima volta che aveva fatto soltanto pochi giorni di SHIZO, ne era uscito senza più sentire le gambe e un braccio. Soffre di polineuropatia, una conseguenza dei due avvelenamenti di cui è stato vittima. Per la legge russa, non può rimanere in carcere perché è una malattia che potrebbe portarlo alla paralisi”. Come potrebbe venire aiutato? A volte sembra quasi che il regime di Putin risponda agli appelli dell’opinione pubblica occidentale incrementando i tormenti dei dissidenti in carcere? “Se non parliamo dei prigionieri politici, gli faranno le stesse cose orribili che gli stanno facendo ora, ma non lo saprà nessuno. Faranno la fine di Anatoly Berezikov, l’attivista di Rostov-sul-Don torturato a morte in carcere per aver affisso volantini ucraini. Bisogna parlare di tutti, bisogna rendere pubblici i casi concreti. A volte, una pressione permanente permette di ottenere un piccolo miglioramento: assistenza medica, una visita dei familiari. Nel nostro caso, dopo più di un anno di pressioni Vlladimir è riuscito a ottenere di poter parlare al telefono con i nostri tre figli. Certo, sono telefonate di 15 minuti, cinque per ciascun bambino, che a volte venivano cancellate senza preavviso, ma era riuscito a parlarci. Ovviamente, ora che è in una prigione in Siberia, non ci saranno più telefonate”. Quali altri strumenti possono funzionare, oltre alle pressioni mediatiche? Le sanzioni? “Le sanzioni personali sono un ottimo strumento, che ovviamente va tarato e aggiustato essendo nuovo. C’è una strana giustizia poetica nel fatto che a giudicare Kara-Murza siano stati i giudici e i funzionari carcerari finiti sotto le sanzioni della “lista Magnitsky” proprio grazie al suo impegno”. La frase “La mia Russia oggi è chiusa in carcere” è diventata una sorta di slogan del dissenso. È un tentativo di giustificare quello che sembra il silenzio assordante della maggioranza? “I russi perseguitati per aver denunciato la guerra, sono il volto dell’altra Russia. Ma non è vero che sono pochi. Esistono anche i partigiani, che incendiano i commissariati militari o bloccano i treni carichi di armi. La nostra Free Russia Foundation lavora con la società civile, i gruppi di attivisti, persone che parlano con altre persone. Rischiano tantissimo e quindi spesso non possono rendere pubblica la loro attività. Considerando che rischiano condanne a 15 anni per un manifesto, di vedersi togliere i figli, di finire in una clinica psichiatrica, non so se sono pochi quelli che resistono. Nel 1968, dopo l’invasione di Praga, in piazza Rossa scesero soltanto otto persone, oggi parliamo di 20 mila arresti di chi protesta contro la guerra”. Perché l’opposizione russa non riesce a esprimere un fronte unito, un comitato di coordinamento, un governo in esilio? “Per un governo in esilio ci vorrebbero le elezioni, non possiamo autonominarci se vogliamo rimanere democratici. Abbiamo le nostre divergenze, non dobbiamo diventare un partito unico. Si tratta di agire insieme, per fermare la guerra e liberare la Russia dal regime di Putin. Se la Russia non diventerà democratica non avrà un futuro, su quello siamo tutti d’accordo”. Come ci si arriva? Con la vittoria militare dell’Ucraina, con la rivolta interna, con un golpe al Cremlino? “L’Ucraina deve vincere, deve ottenere la pace alle sue condizioni, non a quelle di Putin, su questo non si discute. Un Paese aggredito non può cedere territori all’aggressore per placarlo. Putin ha già dimostrato che non si ferma, a meno che non venga fermato. Non possiamo contare su una trasformazione del regime di Putin, non è trasformabile e quindi deve cadere”. Come? “La storia russa dimostra che le “piccole guerre vittoriose” volute da un regime di solito portano alla sua caduta. È successo all’inizio del ‘900, è successo dopo l’Afghanistan, succederà anche adesso. La comunità internazionale non può sperare di isolare la Russia in un recinto. Quindi, bisogna aiutare l’Ucraina a vincere e la società civile russa a resistere. L’unica cosa che noi russi non possiamo permetterci è di dire che tutto è finito, e andarcene. So come funziona la disperazione, ci sono giorni in cui mi sveglio e non riesco ad alzarmi, e mi devo prendere a calci. Ma se ci fermiamo, il regime ci calpesterà”.