Ciani (Pd): “Governo sordo, sulla corrispondenza telefonica dei detenuti non fa nulla” adnkronos.it, 4 ottobre 2023 “Dopo 5 mesi il governo è venuto in aula alla Camera per rispondere ad una interrogazione riferita alle norme sulla corrispondenza telefonica dei detenuti. Speravamo che il tempo preso fosse servito per realizzare una circolare che mettesse a regime ordinario quello che ha ben funzionato durante l’emergenza Covid: l’ampliamento delle telefonate e le video chiamate alternative alle visite familiari. E invece nulla”. Lo dice il vice capogruppo Pd-Idp, segretario di Demos, Paolo Ciani che questa mattina ha illustrato alla Camera un’interpellanza sulle telefonate dal carcere. “Pur ammettendo la positività del provvedimento, il governo non lo mette nero su bianco, confermando la discrezionalità della scelta affidata ai direttori dei penitenziari. Discrezionalità che crea disparità e quindi ingiustizia. Dinanzi al grido del carcere (sovraffollamento, carenza di personale di polizia penitenziaria, strutture talvolta fatiscenti…), il governo rimane sordo”, prosegue Ciani. “Tutti sappiamo il valore di poter comunicare con la propria famiglia, anche per una stabilità psico-affettiva: non dimentichiamo mai che un detenuto non smette di essere persona e che la detenzione non deve essere punizione. Continueremo a vigilare sul carcere e a chiedere di realizzare norme semplici ma determinanti per la vita delle persone”, conclude Ciani. Ho spiegato in Senato perché Antigone è contraria al decreto Caivano: i motivi sono almeno tre di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 4 ottobre 2023 La scorsa settimana in qualità di coordinatrice di Antigone sono stata in audizione presso le Commissioni riunite Affari costituzionali e Giustizia del Senato, impegnato nella conversione in legge del cosiddetto decreto Caivano. Il decreto, accanto ad alcuni interventi infrastrutturali e di sostegno scolastico in aree meridionali, introduce e modifica norme penali che riguardano in particolare i minorenni. Il Capo II del decreto reca “disposizioni in materia di sicurezza e di prevenzione della criminalità minorile”, nonostante molti degli articoli che lo compongono influiscano pesantemente anche sugli adulti. Cerco di riassumere brevemente la nostra contrarietà al decreto, per come ho tentato di riportarla ai senatori presenti nella speranza che possano effettuare interventi correttivi in sede di conversione. Per argomenti più articolati abbiamo predisposto un documento che si può consultare sul sito di Antigone. Innanzitutto non è mai buona cosa legiferare penalmente all’indomani di un drammatico fatto di cronaca, che con tutta evidenza scuote le emozioni e annebbia la ragione. Il sistema penale deve avere una logica interna che disposizioni volte a inseguire questo o quell’evento minano inevitabilmente. Il decreto mostra fin dal nome di essere nato con tale disposizione. Una cosa dobbiamo dire subito: non esiste alcuna emergenza criminalità minorile. Se guardiamo infatti ai dati dell’ultimo decennio, scopriamo che essa non è affatto in crescita, ma è soggetta a oscillazioni che mantengono gli ultimi dati assolutamente nella media precedente. Tre ordini principali di ragioni ci oppongono alle norme governative. 1. Innanzitutto la considerazione che la giustizia penale minorile ha funzionato e continua a funzionare, senza bisogno di interventi correttivi che servono soltanto a mostrare la voce grossa in cerca di facili consensi. I ragazzi hanno bisogno di ricevere educazione, ascolto, dialogo, non di galera. L’intera Europa guarda al nostro sistema come a un esempio da seguire. Non è un caso che la direttiva europea del 2016 sui minori autori di reato sia stata fatta scrivere all’Italia e codifichi fondamentalmente il nostro modello. La giustizia penale minorile italiana, figlia di un profondo dibattito e di trasformazioni culturali che si sono avute a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso, mette al centro quel principio del superiore interesse del minore che le convenzioni internazionali ci impongono. L’adolescente è una personalità in evoluzione che non può essere inchiodata al momento della commissione del reato. Per questo il codice di procedura penale minorile - che dal 1988 a oggi ha dato ottima prova di sé - lascia al magistrato un’ampia gamma di possibilità alternative di gestione del ragazzo: la valutazione deve essere fatta caso per caso, secondo il percorso che più si addice al recupero sociale di quel giovane, e non può avere una mera valenza punitiva sempre uguale a se stessa. Si pensi che oggi, a fronte di oltre 14.000 ragazzi e ragazze in carico ai servizi della giustizia minorile, poco più di 400 si trovano in carcere, pari circa al 3%. Questo successo nel rendere il carcere una misura estrema non significa che il sistema sia lassista: significa piuttosto che è attento ai percorsi individuali e che utilizza quelli maggiormente fruttuosi. Vivere in comunità o seguire i programmi dei servizi sociali - lo studio, il volontariato, la formazione - non significa farla franca. Significa però seguire un percorso che spingerà il ragazzo ad affrancarsi dalla vita criminale con ben più frequenza di quanto non accada con il vivere chiuso in una cella. Alzare le possibilità di carcerazione, come fa il decreto Caivano con misure che incidono sulla custodia cautelare e sulle pene, non aiuta i minori e non aiuta la società che vuole combattere la criminalità giovanile. 2. Il secondo ordine di motivi della nostra contrarietà riguarda le norme amministrative. Si allargano le possibilità di disporre il cosiddetto Daspo urbano, ordine del questore di non frequentare alcune parti della città o di seguire alcune prescrizioni. E per la prima volta si estende ai minorenni la sua applicazione. Un ampliamento dell’amministrativizzazione del diritto penale, senza tuttavia le garanzie previste da quest’ultimo. Vi immaginate cosa potrà mai capire un ragazzino proveniente da contesti disagiati o ancor più da contesti di criminalità organizzata - i due grandi contenitori cui le norme si rivolgono - del divieto o dell’avviso del questore? Un atto burocratico, proveniente da una figura distante e del tutto priva di funzione educativa: che efficacia preventiva potrà mai avere? Per avere efficacia non basta la burocrazia: bisogna fare tanta fatica. Fatica educativa, fatica sociale. Servono risorse, bisogna stare sui territori, ascoltare, potenziare i servizi sociali, le agenzie educative, mettere in campo politiche di inclusione. 3. Il terzo di questo elenco non esaustivo di motivi di contrarietà riguarda le politiche sulle droghe. Il decreto va a inasprire le pene per i cosiddetti fatti di lieve entità legati agli stupefacenti. Fatti che possono riguardare il ragazzino - così come l’adulto, perché l’inasprimento vale per tutti - che fuma hashish e che si trova coinvolto in un episodio di piccola cessione anche occasionale. L’aumento di pena fa sì che si ricada adesso nell’arresto obbligatorio in caso di flagranza, che si ricada nella possibilità di custodia cautelare, che si escluda l’applicazione dell’affidamento in prova al servizio sociale. Mentre tutto il mondo sta comprendendo che le vecchie politiche sulle droghe sono fallimentari, che non riducono i problemi di tossicodipendenza ma si limitano a ingrassare le mafie, l’Italia aumenta la carica repressiva di una norma - l’art. 73 del Testo Unico sulle droghe - che è la protagonista assoluta del nostro sistema penale e senza la quale non esisterebbe sovraffollamento penitenziario. Una controtendenza della quale avremmo volentieri fatto a meno. *Coordinatrice dell’Associazione Antigone Tortura, il governo cambia il reato: “Tutelare gli agenti” di Valeria Pacelli e Giacomo Salvini Il Fatto Quotidiano, 4 ottobre 2023 Si va verso la modifica del 613 bis: nel prossimo pacchetto di riforme previsti “interventi sui crimini contro i pubblici ufficiali”. Intervenire sul reato di tortura, nei fatti alleggerendolo. Non abrogarlo come proposto in passato da Fratelli d’Italia, ma modificarlo. Il rischio? Renderlo più difficile da contestare in quei casi di forze di polizia denunciati - come a volte è capitato - per i soprusi subiti da alcuni detenuti in carcere, ma non solo. Non si fa di tutta l’erba un fascio, ma ci sono stati episodi in cui l’abuso di potere si è tradotto in botte, schiaffi, umiliazioni. E poi torture. Alcune qualificate fonti di governo la definiscono un’ulteriore “svolta securitaria” che sarà accompagnata da “interventi sui reati contro i pubblici ufficiali per mettere in sicurezza le forze dell’ordine”. Tra le altre cose, la maggioranza sta lavorando anche per inserire la modifica del reato di tortura nel pacchetto di riforme che dovrebbe arrivare tra novembre e dicembre. L’obiettivo è intervenire sull’articolo 613 bis del codice penale. Questo è stato introdotto in Italia nel 2017, con la legge 110. È una disciplina nata per recepire quanto previsto dall’articolo 1 della Convenzione Onu del 1984 in cui si indica con il termine di tortura qualunque atto “mediante il quale sono intenzionalmente inflitti a una persona dolore o sofferenze forti… al fine segnatamente di ottenere” una confessione o al fine di punire o intimorire. L’articolo 613 bis del codice penale italiano è però meno specifico: viene contestato a chiunque “con violenze o minacce gravi cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla custodia…” dello Stato. Pena prevista: da quattro a dieci anni e può essere inflitta “se il fatto è commesso mediante più condotte ovvero se comporta un trattamento inumano e degradante” della persona. Se il reato è commesso da un pubblico ufficiale, come possono essere ad esempio agenti di polizia penitenziaria, la pena è da 5 a 12 anni. Questo il quadro normativo. In passato è stato proprio Fratelli d’Italia a chiedere l’abrogazione dell’articolo 613 bis con una proposta di legge, prima firmataria Imma Vietri. Per i deputati del partito di Giorgia Meloni il rischio era che potevano “finire nelle maglie del reato comportamenti chiaramente estranei al suo ambito d’applicazione classico, tra cui un rigoroso uso della forza da parte della polizia durante un arresto o in operazioni di ordine pubblico particolarmente delicate o la collocazione di un detenuto in una cella sovraffollata”. “Ad esempio - spiegavano - gli appartenenti alla polizia penitenziaria rischierebbero denunce per tale reato a causa delle condizioni di invivibilità delle carceri”. La proposta di legge di FdI - già allora contestata - arrivava a marzo 2023 in un momento peraltro in cui venivano sospesi dal servizio 23 agenti della polizia penitenziaria di Biella, accusati di tortura verso tre detenuti. Casi simili si sono verificati (secondo le accuse dei pm) anche nel carcere di Torino come in quello di San Gimignano (Siena). La vecchia idea di FdI però non è stata del tutto abbandonata. Perché se pure non si parli più di abrogare il reato di tortura, ora si ragiona su come modificarlo. In vista del prossimo pacchetto di riforme, che arriverà in autunno, si starebbero limando gli ultimi aspetti, consapevoli di dover trovare una soluzione che non incontri ostilità nella maggioranza, come Forza Italia che già in passato si era detta contraria. “Il reato di tortura non si tocca”, aveva detto a luglio il senatore azzurro Pierantonio Zanettin. Era stato poi lo stesso ministro della Giustizia Carlo Nordio, a marzo scorso, ad assicurare: “Il governo Meloni non ha alcuna intenzione di abrogare il reato di tortura”. In aula il Guardasigilli aveva poi spiegato che una delle criticità del reato, così come scritto, riguardava la mancanza del dolo specifico, invece previsto dalla Convenzione di New York: “Il dolo specifico è quando una condotta viene tenuta al fine di ottenere un risultato ulteriore, in questo caso la confessione. Il nostro legislatore, invece, optando per una figura criminosa contrassegnata dal dolo generico, quindi senza l’intenzione ulteriore di ottenere un determinato risultato, ha eliminato il tratto distintivo della tortura rispetto agli altri maltrattamenti, rendendo concreto il rischio (…) di vedere applicata la disposizione nei casi di sofferenze provocate durante operazioni di ordine pubblico e polizia”. Su come verrà modificato il 613 bis, nessuno in maggioranza oggi si spinge oltre, certi delle polemiche che ne deriverebbero. Il rischio è che le modifiche tecniche finiscano per svuotare il reato. Con la scusa della svolta “securitaria”. Carceri e Cpr, Anastasìa: “Regioni e Garanti interlocutori ineludibili” arantedetenutilazio.it, 4 ottobre 2023 Il Portavoce della Conferenza dei Garanti, Stefano Anastasìa, interviene alla Conferenza “Carcere: il ruolo delle Regioni” organizzata a Torino dal Garante del Piemonte. “Questa Festa delle Regioni ribadisce e rinnova il valore delle autonomie territoriali nell’architettura istituzionale del nostro Paese. In materia penitenziaria, le Regioni e gli enti locali hanno responsabilità essenziali nel rispetto e nel perseguimento dei principi di umanità e rieducazione nell’esecuzione penale, dall’assistenza sanitaria alle politiche sociali, per la formazione e l’inserimento lavorativo”. Così il Portavoce della Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà, nonché Garante della Regione Lazio, Stefano Anastasìa, alla Conferenza “Carcere: il ruolo delle Regioni”, che si è svolta a Torino lunedì 2 ottobre. L’incontro è stato convocato dal Garante regionale dei detenuti del Piemonte, Bruno Mellano, in collaborazione con la Conferenza nazionale dei Garanti territoriali, in concomitanza con il “2° Festival delle Regioni” organizzato della Conferenza delle Regioni e delle Province autonome. “Alle Regioni e alle Province autonome - ha proseguito Anastasìa - chiediamo due cose: completare il quadro della istituzione e delle nomine dei Garanti delle persone private della libertà, assicurando le risorse e gli strumenti operativi per competenze e situazioni sempre più complesse, dal carcere ai Cpr, alle strutture sanitarie in cui si svolgano trattamenti involontari; utilizzare le conoscenze e l’esperienza dei Garanti nella interlocuzione con il Governo nelle materie di competenza”. “In questi giorni si discute di Cpr e trattenimento dei migranti: perché non chiedere ai garanti che già se ne occupano di cosa si tratta, se serve aprirne altri, quanti, dove e come? Il Governo deve affrontare il problema del sovraffollamento penitenziario, lo può fare incentivando le alternative per i reati minori o, come ha detto il Ministro, riadattando caserme dismesse. Nell’uno come nell’altro caso le Regioni dovrebbero essere interlocutrici ineludibili: per la predisposizione di politiche e servizi abitativi, di formazione e avviamento al lavoro o per la garanzia dei servizi sanitari nei nuovi istituti. Il Governo ne ha parlato con le Regioni? - si domanda Anastasìa - No? Che aspetta?”. “Al Governo e ai ministeri competenti - conclude Anastasìa - Giustizia e Interni su tutti, chiediamo tavoli di lavoro istituzionali per la definizione delle modalità operative dei poteri che le leggi nazionali già riconoscono ai garanti territoriali (accesso senza necessità di autorizzazione nelle carceri, nei Cpr e nelle camere di sicurezza delle forze di polizia, ricezione dei reclami di detenuti e trattenuti, facoltà di colloqui diretti con gli interessati) e l’estensione della facoltà di accesso in ogni altro ambiente destinato al trattenimento involontario di persone, come gli hotspot per migranti”. La Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà, con un ordine del giorno approvato dall’assemblea riunitasi a Roma venerdì scorso, ha espresso 20 osservazioni e richieste in materia di migranti e delle relative soluzioni adottate dal Governo. “Usare caserme dismesse per fare nuove carceri” di Michele Nucci La Nazione, 4 ottobre 2023 La proposta del ministro Nordio: “Strutture più umane”. “Abbiamo la possibilità di usufruire di beni demaniali come le caserme dismesse, che potrebbero essere riconvertite per detenuti di minore pericolosità sociale e che non hanno bisogno di interventi significativi o di concessioni particolari. Con ristrutturazioni di modeste entità finanziarie insomma, si potrebbero dunque utilizzare tali spazi che spesso sono molti ampi e grazie ai quali ci sarebbero opportunità concrete per la rieducazione del detenuto”. La proposta è del ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ieri a Perugia per una visita all’ex carcere del capoluogo destinato a trasformarsi in Cittadella Giudiziaria fra tre anni e per un convegno sulla riforma presentata dal ministro stesso. Nordio naturalmente non ha potuto evitare la questione del provvedimento del giudice di Catania che non convalidato il trattenimento di tre migranti. “Ho già letto quell’atto e credo che ci siano fondate ragioni per fare ricorso in Cassazione di concerto con il ministero degli Interni”. Il ministro ha anche affrontato la questione delle carceri, dal sovraffollamento ai problemi del personale che riguardano un po’ tutte le regioni italiane. Il problema della carenza di personale della polizia penitenziaria nelle carceri “è essenzialmente economico” e il governo spera “di modulare anche il Pnrr in favore di una maggiore flessibilità nell’uso delle risorse per la giustizia”, sia per quanto riguarda questo aspetto sia per l’edilizia” ha detto. “Soffriamo ogni giorno - ha aggiunto - perché ci rendiamo conto che ci sono lagnanze più che fondate. Ovviamente prima di tutto della polizia penitenziaria ma anche dei detenuti. Cerchiamo di fare la torta con le poche uova che abbiamo, coniugando un’edilizia che a costi contenuti possa ampliare gli spazi dove possano avere la possibilità di lavorare e fare sport. Un ottimo primo passo verso un più umano trattamento di chi sta in carcere. Ovviamente di chi è accusato di reati minori e non certo per chi è al 41 bis che - ha ribadito Nordio - non si tocca”. Infine il ministro ha definito il progetto della Cittadella Giudiziaria di Perugia “entusiasmante”. Progetto il cui cronoprogramma prevede che la Conferenza dei Servizi si riunirà a fine mese e ad aprile, se tutto filerà liscio, verrà bandita la gara di appalto per quasi 70 milioni. A fine 2026 è previsto il completamento del primo lotto dove andrà la Procura, poi un anno dopo (probabilmente anche più) saranno pronti gli altri uffici del Tribunale. Accesso alla giustizia riparativa possibile dalle indagini e fino alla fase esecutiva di Matteo Rizzi Italia Oggi, 4 ottobre 2023 L’accesso alla giustizia riparativa deve essere consentito in qualsiasi fase del processo, sin dalle indagini e fino alla fase esecutiva o anche in caso di proscioglimento, per qualsiasi tipo di reato. Anche a prescindere dall’individuazione concreta della vittima o anche in assenza di consenso della vittima. È quanto riporta il protocollo per l’attuazione degli istituti relativi alla giustizia riparativa a Milano, presentato ieri in conferenza stampa. La disciplina della giustizia riparativa, parte della Riforma Cartabia (articoli 42-60, 92 e 93 del decreto legislativo numero 150 del 2022), è entrata in vigore il 30 giugno 2023 e, al fine di instaurare buone prassi condivise, sono state delineate le modalità operative condivise tra tutti gli operatori istituzionali e professionali. Come viene delineato all’interno del documento presentato ieri, la giustizia riparativa può essere applicata astrattamente per qualunque tipologia di reato, purché lo svolgimento del programma di giustizia riparativa sia utile alla risoluzione delle questioni derivanti dal fatto per cui si procede (requisito positivo) in assenza di un pericolo concreto per gli interessati e in assenza di un pericolo concreto per l’accertamento dei fatti (requisiti negativi). Per l’applicazione dell’istituto non è invece richiesto alcun accertamento del fatto (neppure nei limiti dell’esclusione dell’articolo 129 del codice di procedura penale), né il riconoscimento della propria responsabilità. L’eventuale dissenso della persona offesa, al di fuori della mancanza dei requisiti positivi e negativi, non potrà essere ostativo all’invio del caso per la valutazione di programmi di giustizia riparativa senza la partecipazione della vittima diretta. La valutazione della sussistenza di un valido consenso (personale, libero, consapevole, informato) della persona indicata come autore dell’offesa e della vittima sarà in ogni caso riservata al mediatore (articolo 48). Le linee guida sono state elaborate con la collaborazione della Corte d’appello, del Tribunale di sorveglianza, del Tribunale ordinario, della Procura generale presso la Corte d’appello, della Procura della repubblica presso il Tribunale, dell’Ordine degli avvocati e della Camera penale, e sono state formulate anche grazie alla collaborazione del Centro per la giustizia riparativa del comune di Milano. Con i pm o contro i pm? Il dilemma di Meloni di Rocco Vazzana Il Dubbio, 4 ottobre 2023 Dopo il caso della magistrata catanese la premier apre un nuovo fronte contro le toghe, e poi minimizza. Ma intanto Salvini alza la posta. “Non c’è nessuno scontro con la magistratura, lo voglio ribadire anche questa volta”. A ventiquattro ore dall’attacco a Iolanda Apostolico - la giudice che venerdì scorso ha di fatto smantellato con una sentenza il decreto Cutro, non convalidando i provvedimenti di trattenimento emessi nei confronti di quattro cittadini tunisini - Giorgia Meloni torna sul “luogo del delitto” e prova a minimizzare l’entità dello scontro con un altro potere dello Stato. “Semplicemente la magistratura è libera di disapplicare una legge del governo e il governo è libero di dire che non è d’accordo”, taglia corto la presidente del Consiglio. Eppure, per quanto la premier tenti di riportare il conflitto all’interno di una dialettica routinaria, è evidente che qualcosa è cambiato, forse per sempre, nel rapporto tra la leader di Fd’I e le toghe. Le accuse di partigianeria sovversiva rivolte alla magistrata catanese (favorire “l’immigrazione illegale”) non possono finire sotto traccia. E non solo perché una parte dell’associazionismo togato non intende farle passare in cavalleria, ma soprattutto perché non è la prima volta che Meloni, cresciuta nel mito di Paolo Borsellino, decide di criticare aspramente - e dal pulpito della presidenza del Consiglio - le scelte di un magistrato. Era accaduto anche a luglio, quando non meglio precisate “fonti di Palazzo Chigi” si erano scagliate duramente contro la gip di Roma Emanuela Attura, “colpevole” di aver disposto l’imputazione coatta nei confronti del sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro, nell’inchiesta relativa al caso Cospito. “È lecito domandarsi se una fascia della magistratura abbia scelto di svolgere un ruolo attivo di opposizione. E abbia deciso così di inaugurare anzitempo la campagna elettorale per le elezioni europee”, era il testo anonimo fatto circolare in quei giorni dall’underdog nel frattempo salita sullo scranno più alto della politica italiana. Una sfida a viso (quasi) aperto alle toghe che avevano osato ledere la maestà di un esponente del governo nonché fidatissimo compagno di partito della premier. Una sfida alla quale una parte della magistratura organizzata aveva risposto col deposito di una pratica a tutela della collega “aggredita” - ancora pendente e non calendarizzata - al Comitato di presidenza del Csm. Era dovuto intervenire il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, a scongiurare un conflitto aperto tra poteri dello Stato, incontrando a sorpresa i vertici della Corte di Cassazione, la prima presidente Margherita Cassano e il procuratore generale Luigi Salvato. Il Quirinale, probabilmente, non poteva immaginare che quello scontro si sarebbe riproposto solo pochi mesi dopo. Né poteva sapere che qualcuno, all’interno della stessa maggioranza di governo, avrebbe utilizzato quella rissa per “minacciare” una riforma della giustizia. Come il vicepremier Matteo Salvini, che ha commentato così la sentenza di Catania: “Chi ha la coscienza pulita non si fa intimidire. Ed è con questo spirito che faremo la riforma della giustizia, con separazione delle carriere e responsabilità civile dei magistrati che sbagliano”. Ma un conto è proporre una riforma per sciogliere le contraddizioni del sistema giudiziario italiano e tutelare al meglio i diritti dei cittadini, un altro è sventolare come un manganello su un potere dello Stato lo spauracchio di una riorganizzazione punitiva. È un approccio che non può portare a nulla di buono - come dovrebbero aver insegnato vent’anni di berlusconismo - una prova muscolare che nulla ha a che fare con la politica, men che meno con una necessaria e ragionata riforma della giustizia. E chissà se la stessa Meloni aveva calcolato l’entità del polverone che avrebbe sollevato con le sue parole in libertà nei confronti di una sentenza prima di pronunciarle. Proprio lei, che fino a questo momento sembrava voler frenare le spinte riformatrici provenienti dai suoi ministri e alleati. Chissà se la premier, fino a ieri impegnata ad annacquare le idee radicali di Carlo Nordio, si è resa conto di aver acceso il fuoco accanto a una santabarbara pronta a esplodere nella sua maggioranza. Tra quanti, come i maggiorenti di Forza Italia, spingono da sempre per stravolgere il sistema giudiziario italiano, e quanti, soprattutto dalle parti della Lega, utilizzeranno questo tema come arma per mettere in difficoltà proprio la presidente del Consiglio davanti al suo elettorato di riferimento. Sarà l’ennesimo e complicatissimo rebus da risolvere per una leader già all’angolo su mille altri fronti - dai conti che non tornano agli scontri furibondi con la Germania - e in già piena campagna elettorale per le Europee. Prima o poi dovrà scegliere - alla larga da istinto e propaganda - chi vuole essere da grande. Anche in tema di giustizia. Meloni nega lo scontro con le toghe, ma attacca ancora la giudice di Catania di Ermes Antonucci Il Foglio, 4 ottobre 2023 “Non c’è nessuno scontro con la magistratura”, dice la premier Meloni a Torino. “Semplicemente - aggiunge - la magistratura è libera di disapplicare una legge del governo e il governo è libero di dire che non è d’accordo”. Fosse così “semplice” nessuno avrebbe niente da ridire, ma la vicenda degli attacchi rivolti alla giudice di Catania che ha respinto il trattenimento di tre migranti è decisamente più complessa. E a confermarlo è la stessa presidente del Consiglio subito dopo, ripetendo ciò che già abbiamo sottolineato essere una bufala: “A me la motivazione con la quale si rimette in libertà un immigrato irregolare, già destinatario di un provvedimento di espulsione, dicendo che le sue caratteristiche fisiche sarebbero quelle che i cercatori d’oro in Tunisia considerano buone per il loro interesse, mi pare francamente una motivazione molto particolare”. Come evidenziato ieri su queste pagine, l’affermazione sui “cercatori d’oro”, fatta dal richiedente asilo, non viene affatto ripresa dalla giudice nelle motivazioni della sua decisione. La strumentalizzazione da parte del governo del contenuto dei provvedimenti redatti dalla giudice Iolanda Apostolico, dunque, prosegue, trascinando con sé reazioni inevitabili da parte del mondo togato. Dopo l’intervento dell’Associazione nazionale magistrati (secondo cui le dichiarazioni di esponenti del governo e della maggioranza “esprimono una preoccupante visione delle prerogative di verifica di legalità esclusivamente attribuite alla magistratura e ne minano l’indipendenza e l’autonomia”), anche il Consiglio superiore della magistratura si appresta a prendere posizione, seppur spaccandosi al suo interno. Tredici consiglieri - quelli appartenenti ai gruppi di centrosinistra Area, Magistratura democratica e Unicost, più gli indipendenti Roberto Fontana e Andrea Mirenda - hanno depositato al Comitato di presidenza la richiesta di aprire una pratica a tutela della giudice Apostolico, uno strumento che non ha alcun fondamento nella Costituzione e che è stato ideato dal Csm negli anni Ottanta per replicare alle critiche rivolte da esponenti del mondo politico ai magistrati. Nel documento si parla di “dichiarazioni da parte di esponenti della maggioranza parlamentare e dell’esecutivo che, per modi e contenuti, si traducono in autentici attacchi all’autonomia della magistratura”, pongono in discussione “la funzione stessa della giurisdizione in uno stato di diritto” e, “realizzando una grave delegittimazione professionale del giudice estensore dell’ordinanza, espongono lo stesso a indebiti attacchi mediatici aventi a oggetto la sua sfera personale”. Alla richiesta di aprire una pratica a tutela della giudice non hanno aderito i consiglieri di Magistratura indipendente, che “hanno ritenuto di non intervenire per non alimentare ulteriormente la dannosa contrapposizione tra istituzioni democratiche in atto, fermo restando il doveroso rispetto delle decisioni giurisdizionali e l’auspicio che la legittima critica degli stessi abbia a oggetto il loro contenuto”. “La militanza politica non ci appartiene”, hanno aggiunto. Non è da escludere, però, che nelle prossime ore la mozione possa trovare anche il consenso dei togati moderati, mentre resta da vedere quale sarà la contromossa dei componenti laici eletti in quota centrodestra. A Palazzo dei Marescialli gira persino voce che questi ultimi sarebbero intenzionati a chiedere addirittura l’apertura di una pratica per incompatibilità ambientale a carico della giudice Apostolico, per i post pubblicati negli anni scorsi su Facebook. Ciò che è certo è che i laici, soprattutto quelli eletti in quota Fratelli d’Italia e Lega, hanno reagito con non poca irritazione all’iniziativa dei consiglieri togati, in particolare per i risvolti che rischia di avere sul piano istituzionale. Un fastidio condiviso da Enrico Carbone, laico eletto in quota Italia viva, che al Foglio dichiara: “Fino a quando è l’Anm a intervenire in difesa di un magistrato non c’è niente di male. Vedo invece con preoccupazione una presa di posizione da parte del Csm su una vicenda che ormai ha assunto rilievo politico-istituzionale. Non ci lamentiamo se poi in molti tendono a sovrapporre l’Anm (e le sue correnti) al Csm”. “Nessun consigliere togato mi ha chiesto se aderire o meno all’apertura della pratica a tutela”, rivela poi Carbone. “I togati da sempre auspicano un rapporto più stretto coi laici, ma alla fine sono loro i primi ad agire come un mondo a parte”. Ieri è intervenuto di nuovo anche il vicepremier Matteo Salvini: “Apprezzo i giudici che parlano con le sentenze non politicizzate e non con le interviste su Repubblica”, ha detto il leader leghista, rilanciando pure la proposta di una riforma della responsabilità civile dei magistrati. Materia che non rientra in alcun modo nella vicenda della giudice di Catania. A proposito di strumentalizzazioni. Giudice pro-migranti, il Csm diviso: “MI” dice no allo scontro di Simona Musco Il Dubbio, 4 ottobre 2023 La corrente conservatrice dell’Anm non aderisce all’iniziativa dei colleghi solidali con Apostolico. Iolanda Apostolico spacca anche il Consiglio superiore della magistratura. Dopo gli attacchi lanciati dal governo alla giudice “colpevole” di non aver convalidato il trattenimento di tre migranti tunisini sulla base del decreto Cutro, i togati del Csm hanno chiesto al Comitato di presidenza di Palazzo dei Marescialli l’apertura di una pratica a tutela della collega. Tutti tranne quelli di Magistratura Indipendente, la corrente considerata più vicina al governo, data la massiccia presenza di suoi esponenti a via Arenula, decisi - questa la comunicazione ufficiale - a non fomentare lo scontro politico. La scelta, si legge in una nota, è determinata dalla volontà di “non alimentare ulteriormente la dannosa contrapposizione tra istituzioni democratiche in atto, fermo restando il doveroso rispetto delle decisioni giurisdizionali e l’auspicio che la legittima critica degli stessi abbia a oggetto il loro contenuto. La militanza politica non ci appartiene”. Un concetto poi meglio spiegato in una nota, a firma del segretario generale Angelo Piraino e del presidente Stefano Buccino, che fanno un passo in direzione della collega: le critiche, hanno evidenziato, devono riguardare il merito della decisione e non presunte idee della magistrata. “Non dimentichiamo - hanno aggiunto - che il magistrato deve sia essere che apparire indipendente dalla politica e siamo disponibili a interrogarci su come questo dovere debba essere declinato nell’era dei social network, ma ci opponiamo alla critica dei provvedimenti basata su slogan o sul processo alle intenzioni di chi li emette, perché crea una dannosa contrapposizione tra istituzioni democratiche, che rischia di lasciare i cittadini disorientati e di compromettere la loro fiducia nelle istituzioni”. E al Dubbio la consigliera del Csm Bernadette Nicotra spiega così la decisione di non firmare la richiesta di pratica a tutela: “Noi non facciamo politica al Consiglio”, ha chiarito. Di fronte all’obiezione che l’attacco riguarda un atto che rientra nelle competenze della giudice, dunque non politico, in merito al quale è stata accusata di mettere a rischio la sicurezza nazionale, Nicotra ha precisato che la decisione di MI “non ha nulla a che vedere con il doveroso rispetto che si deve sempre alle prerogative della giurisdizione, ma attiene esclusivamente alla convinzione che lo scontro politico non deve interferire con l’attività di un organo di rilievo costituzionale e di alta amministrazione. Occorre distinguere sempre tra attività associativa e attività istituzionale - ha concluso - e noi al Consiglio siamo istituzionali e non subiamo condizionamenti”. Nella richiesta, sottoscritta dai due indipendenti e dai membri di Area, Md e Unicost, i togati evidenziano che il provvedimento emesso da Apostolico è oggetto “di dichiarazioni da parte di esponenti della maggioranza parlamentare e dell’Esecutivo che, per modi e contenuti, si traducono in autentici attacchi all’autonomia della magistratura”. A prescindere da ogni valutazione nel merito della decisione presa dalla giudice di Catania, “l’accusa ai magistrati, con riferimento al contenuto di un provvedimento giurisdizionale, di essere “nemici della sicurezza della Nazione (..) un ostacolo alla difesa dell’ordine pubblico (e di) scagliarsi contro i provvedimenti di un Governo democraticamente eletto” pone in discussione la funzione stessa della giurisdizione in uno Stato di diritto”, hanno evidenziato 13 consiglieri togati su 20. “Nel contempo queste dichiarazioni, realizzando una grave delegittimazione professionale del giudice estensore dell’ordinanza, espongono lo stesso a indebiti attacchi mediatici aventi a oggetto la sua sfera personale. Per queste ragioni i sottoscritti consiglieri chiedono, con la massima urgenza, l’apertura di una pratica a tutela”. La palla, ora, passa al Comitato di presidenza, che dovrà inoltrare la richiesta alla Prima Commissione, che può decidere di procedere all’istruttoria o proporre l’archiviazione. Ma intanto la posizione di MI, considerata troppo morbida nei confronti del governo, fa infuriare le toghe progressiste in consiglio. “Chiedere la tutela di un magistrato accusato di porsi contro la sicurezza nazionale in ragione di un suo provvedimento giurisdizionale non mi pare fare politica”, spiega un consigliere. Secondo cui MI “perdonerebbe” gli attacchi ai “singoli magistrati”, portati avanti “con affermazioni così pesanti anche per la carica rivestita dall’autore delle dichiarazioni”. Una scelta che renderebbe probabile posizioni simili anche in futuro. Insomma, un attacco alla giurisdizione, secondo la quasi totalità delle toghe a Palazzo dei Marescialli. Che aspetta con ansia le mosse del Comitato di presidenza per valutare in concreto la politicizzazione del Csm. Il Csm diviso su Meloni. La guerra alle toghe spaventa la maggioranza di Giulia Merlo Il Domani, 4 ottobre 2023 I moderati di Magistratura indipendente non firmano la pratica a tutela: “Non facciamo politica”. I timori interni al centrodestra sui rischi di una faida con la magistratura. Lancia il sasso e poi nasconde la mano, Giorgia Meloni. Dopo il duro attacco alla magistratura via Facebook e le repliche dell’Anm, a chi oggi le ha chiesto conto delle ragioni ha ha detto che “non c’è nessuno scontro. La magistratura è libera di disapplicare una legge del governo, e il governo è libero di dire che non è d’accordo”. Eppure, le sue parole hanno rappresentato un cambio di paradigma per la premier, che nei mesi scorsi aveva evitato scontri troppo diretti con i magistrati e aveva frenato anche il ministro Carlo Nordio. Ora, invece, il tabù è caduto. E le toghe hanno interpretato come una evidente invasione di campo nella loro autonomia le parole di Meloni contro la magistrata di Catania, che non ha convalidato il trattenimento di un migrante. Tanto che, dopo l’Anm, si sono mossi anche i consiglieri togati del Csm, l’organo costituzionale posto a garanzia della giurisdizione. Con una spaccatura interna, però, che si è consumata nella serata di lunedì e non si è poi ricucita. L’iniziativa scelta dai consiglieri è stata quella di chiedere all’ufficio di presidenza del Consiglio di aprire una pratica a tutela della giudice ma l’atto, pur dopo un lungo lavoro di limatura per tentare di renderlo condivisibile a tutti, è stato firmato solo dai 13 i togati di Area, Magistratura democratica, Unicost e i due indipendenti. I sette di Magistratura indipendente, la corrente conservatrice, hanno invece deciso di non sottoscriverla. Il testo, dopo molte revisioni, è netto: i togati ricordano che Meloni li ha definiti “nemici della sicurezza della Nazione, un ostacolo alla difesa dell’ordine pubblico” e responsabili “di scagliarsi contro i provvedimenti di un governo democraticamente eletto”. Dichiarazioni che “in modi e contenuti, si traducono in autentici attacchi all’autonomia della magistratura” e mettono “in discussione la funzione stessa della giurisdizione in uno Stato di diritto”. É questo, prima ancora che il passaggio in difesa della collega vittima di “grave delegittimazione professionale” e di “indebiti attacchi mediatici”, il punto più duro della nota. La spaccatura - Proprio questo, dopo lunga riflessione, avrebbe portato Mi a sfilarsi pur dopo un attacco così deciso da parte dell’esecutivo. Una dinamica non nuova che già si è registrata in questi mesi, secondo alcuni togati, secondo cui Mi, infatti, avrebbe trovato sponda in consiglio con i laici di centrodestra (7 su 10) e sottoscrivere la richiesta avrebbe rischiato di provocare una rottura. “Non credo che mancasse la condivisione sulle ragioni dell’iniziativa, ma ha prevalso una valutazione di strategia interna”, è l’analisi di una fonte togata. Un altro firmatario ha confermato il convincimento: “Hanno avuto un lungo travaglio interno, li ha condizionati il rapporto con i laici di centrodestra”. La strategia, però, viene definita “pericolosa” in un momento in cui la magistratura dovrebbe apparire unita contro gli attacchi all’autonomia della magistratura. Infatti, in molte giunte locali dell’Anm si è registrata l’adesione anche di Mi alle ragioni di difesa della collega e di tutela dell’autonomia delle toghe. Mi ha spiegato le sue ragioni, le stesse già ripetute in altre occasioni di scontro tra politica e toghe: non ha voluto “alimentare ulteriormente la dannosa contrapposizione tra istituzioni democratiche in atto, fermo restando il doveroso rispetto delle decisioni giurisdizionali e l’auspicio che la legittima critica degli stessi abbia a oggetto il loro contenuto. La militanza politica non ci appartiene”, si legge in una nota dei togati di Mi. Eppure, la stessa corrente non ha voluto isolarsi del tutto e ha diramato un secondo comunicato a firma dei vertici. “Dispiacere” per le “accese critiche da parte di esponenti politici nei confronti di un provvedimento giurisdizionale diffusamente motivato”. Ma, sottolineano in una velata critica alla collega di Catania (che nel 2018 ha condiviso link politici su Facebook), “il magistrato deve sia essere che apparire indipendente dalla politica e siamo disponibili a interrogarci su come questo dovere debba essere declinato nell’era dei social network”. La maggioranza - Al netto della spaccatura in seno al Csm, tuttavia, la magistratura ribolle. Il profluvio di attacchi dei giorni scorsi da parte degli esponenti politici della maggioranza hanno rotto un equilibrio che già era precario. Questa è stata la proverbiale goccia che ha fatto traboccare il vaso dopo il caso Cospito, l’invasione di campo di Nordio dopo l’indagine sul sottosegretario Andrea Delmastro e lo scontro sul caso della fuga dai domiciliari del russo Artem Uss, con le note anonime del ministero e di palazzo Chigi e gli ispettori negli uffici milanesi. La scelta di aprire il fronte contro la magistratura, però, spaventa e non è stato condiviso da molti esponenti moderati del governo. O meglio, viene considerata un rischio che si sarebbe tranquillamente potuto evitare e soprattutto il sintomo del nervosismo della premier, come filtra dall’ufficio di un ministro. “E se tutto questo si riverberasse sulle inchieste aperte, come quella di Santanché?”, è la domanda che circola tra chi ricorda il clima negli anni dei governi Berlusconi. Anche perché, viene fatto notare, il presidente del Csm è il capo dello Stato e Sergio Mattarella non prende alla leggera sgrammaticature istituzionali e scontri tra poteri. Soprattutto in una fase così delicata per il governo. A tentare di spegnere il focolaio è intervenuto il viceministro alla Giustizia, l’azzurro Francesco Paolo Sisto, che a Telenorba ha definito un nuovo scontro magistratura-politica “gravissimo e sbagliato” e invitato a “non ripetere l’errore delle guerre di religione” ma “se c’è un provvedimento che non va bene, lo si impugni”. Un invito alla prudenza, in attesa di come si muoverà Nordio: se manderà gli ispettori a Catania come già fatto a Milano e come risponderà all’interrogazione della Lega. “Mi aspetto che il ministro segua la premier”, ha commentato il deputato di Azione Enrico Costa, perché “Meloni è intervenuta in modo sgrammaticato ma sapendo ciò che faceva. Quando è in difficoltà ha bisogno di trovare un nemico”. Se così è ora dovrà cavalcare la tigre, col rischio di finire sbranata. Chi sfida le toghe tradisce la Carta di Donatella Stasio La Stampa, 4 ottobre 2023 Definire i magistrati “scafisti in toga” è un modo inaccettabile di alzare la tensione nel Paese. Per lo Stato di diritto la separazione dei poteri e l’indipendenza sono principi cardine. Ruth Bader Ginsburg, per ventisette anni icona liberal della Corte suprema americana, fino alla sua scomparsa, il 18 settembre 2020, la metteva così: “È facile difendere i diritti umani quando non sono minacciati. È come andare in barca in un giorno come questo, stare fuori al sole e poi correre sotto coperta appena viene la pioggia. Ma i diritti umani vanno protetti sempre, soprattutto quando sono minacciati, e anche se in gioco c’è la sicurezza nazionale”. Era il 2008 quando Ginsburg mi affidava le sue riflessioni sul bilanciamento tra i diritti di libertà e la sicurezza collettiva. Impossibile, oggi, non ripensare a quelle parole, di fronte all’aria che tira sui diritti fondamentali, non solo dei migranti. Aria di tempesta. La politica securitaria della destra di governo minaccia di farli affondare in nome della sicurezza nazionale e scomunica chi, “per mestiere”, ha invece il dovere di “garantirne” la tutela, di impedirne la strage, tanto più quando la minaccia arriva da leggi borderline rispetto ai principi dello stato di diritto, patrimonio della civiltà giuridica europea o, peggio, da un clima di tensione. La premier Giorgia Meloni non si è limitata - come sostiene il giorno dopo - a criticare la giudice di Catania per non aver convalidato il trattenimento dei quattro migranti tunisini sulla base del decreto Cutro, ma l’ha attaccata frontalmente. Così facendo ha perso un’occasione d’oro per dimostrare che la sua destra di governo vuole stare nel perimetro delle democrazie costituzionali e non in quello delle autocrazie, come Polonia e Ungheria, che hanno eroso piano piano le regole dello stato di diritto, mettendo sotto attacco l’indipendenza di giudici e Corti, e la loro funzione contromaggioritaria. È questo che dobbiamo aspettarci anche in Italia? I fatti raccontano di un grave deragliamento delle dinamiche istituzionali dai binari della democrazia costituzionale. E sbaglia chi - anche tra gli opinionisti - obietta che “la destra fa la destra” e che i giudici dovrebbero adottare una sorta di self restraint di fronte alle leggi della maggioranza. Chi - come purtroppo è già avvenuto nel ventennio berlusconiano - si limita a parlare di diritti fondamentali quando fuori c’è il sole ma corre sotto coperta quando quei diritti sono minacciati, finisce per confondere l’opinione pubblica e per far regredire la democrazia. La storia ci ricorda che, proprio a partire dal ventennio berlusconiano, l’assenza di parole chiare ha determinato il progressivo e dilagante analfabetismo costituzionale che oggi consente di sovvertire le regole del gioco nella generale indifferenza, quasi si trattasse di peccati veniali. In uno stato di diritto, la separazione dei poteri, l’autonomia e l’indipendenza dei giudici, sono principi cardine, così come quello secondo cui la giurisdizione dev’essere esercitata in funzione di “garanzia” dei diritti fondamentali delle persone (e colpisce che l’anima centrista del governo, che si autoproclama garantista, non difenda questo aspetto anche quando riguarda i diritti dei migranti). I giudici, quindi, non sono mai “bocca della legge” ma “interpreti” della legge da applicare, e non si può certo accusarli di “creatività” se si fanno carico di interpretare la legge in modo “costituzionalmente orientato” (senza bisogno, ogni volta, di ricorrere alla Consulta) o di disapplicarla se risulta in contrasto con talune regole sovranazionali di rango costituzionale, come la normativa europea. È lo stato di diritto, bellezza! È comprensibile che non faccia piacere alle maggioranze politiche di turno, ma è una funzione di controllo vitale per le democrazie costituzionali, che non può essere rappresentata come “scontro” politico. Ciò non significa che le decisioni dei giudici non siano criticabili. I giudici, autonomi e indipendenti, hanno il dovere di rendere conto ai cittadini del ragionamento alla base delle loro pronunce e i cittadini possono criticarle, ma senza delegittimazioni. Non solo. Le sentenze possono essere impugnate e quindi anche modificate senza che ciò implichi la “responsabilità” del giudice (salvo nei casi di colpa grave, di dolo, di interpretazioni abnormi). Tutto questo appartiene alla fisiologia, alla normale dialettica istituzionale, eppure viene deformato dalla narrazione faziosa delle destre. Che arrivano a definire i giudici “scafisti in toga”, “un pezzo d’Italia che fa tutto il possibile per favorire l’immigrazione illegale” e che “si scaglia contro i provvedimenti di un governo democraticamente eletto”. Parole gravissime, che alzano la tensione nel paese e anche per questo sono inaccettabili, soprattutto se provengono da chi ricopre incarichi istituzionali. Ma non basta. Nella migliore tradizione delle destre (e ancora una volta la memoria torna al ventennio berlusconiano), ecco che il giudice “non allineato” al governo viene messo alla gogna, spiato, delegittimato. Il bersaglio preferito - neanche a dirlo - sono le “toghe rosse”, cioè tutte quelle che non appartengono alle correnti di centrodestra, come Unicost e Magistratura indipendente, alla quale aderiva, tra gli altri, Alfredo Mantovano, parlamentare di Alleanza nazionale dal 1996 al 2012, poi tornato in magistratura come giudice di Cassazione fino a ottobre 2022, quando è stato nominato da Meloni sottosegretario alla presidenza del Consiglio. Ebbene, è buffo ma delle toghe come Mantovano non si dice mai che sono “politicizzate”. Chi, come me, conosce Mantovano da decenni non dubita che, nonostante un’identità politica così marcata, abbia saputo esercitare la giurisdizione con terzietà. Ma altrettanto deve dirsi, fino a prova contraria (che non è certo quella strumentale delle destre), anche dei magistrati aderenti alle correnti progressiste, che storicamente si riconoscono nella Costituzione. Ma forse è proprio questo il punto: la destra non si riconosce nella Costituzione, nei suoi valori, nella sua cultura. Perciò continua a stressare le leggi, attaccando poi chi inevitabilmente le fermerà, ovvero quegli organi di garanzia che esistono proprio per controllare il potere delle maggioranze politiche e tutelare i diritti fondamentali: Presidenza della Repubblica, giudici, Corte costituzionale, ciascuno nei limiti delle proprie competenze. Lo schema è sempre lo stesso: di fronte al cartellino giallo degli organi di garanzia, si grida al golpe rosso, una sorta di nuovo “maccartismo”. “Durante gli anni del maccartismo, gli anni della grande paura rossa, tanta gente è stata accusata ingiustamente” ricordava Ginsburg in quella giornata di sole, aggiungendo che l’America si è accorta “troppo tardi” di essere andata oltre e augurandosi che il suo paese non ripetesse gli errori del passato sul rispetto dei diritti fondamentali. Purtroppo, oggi la Corte suprema americana parla soprattutto con la voce dell’ex presidente Donald Trump che nel frattempo ne ha conquistato la maggioranza (i giudici sono nominati a vita dai presidenti di turno), e con quella voce sono stati cancellati il diritto all’aborto a livello federale e le quote in favore delle minoranze etniche svantaggiate nell’ammissione alle università. Ma l’America è solo uno dei tanti casi, nel mondo, in cui “governi democraticamente eletti” - come li chiama Meloni - hanno smantellato diritti fondamentali, non direttamente ma attraverso la “normalizzazione” delle Corti e dei giudici, non più indipendenti ma pronti ad assecondare i provvedimenti della maggioranza politica. In questo contesto di “regressioni democratiche”, non si può restare indifferenti alle reazioni scomposte del governo Meloni contro la giudice di Catania e, prima, contro i giudici che hanno ordinato l’imputazione coatta del sottosegretario Andrea Delmastro e concesso i domiciliari al russo Artem Uss. E si coglie meglio anche la vera ragione della cosiddetta riforma della giustizia, con la separazione delle carriere in primo piano, immediatamente brandita dalla maggioranza - senza alcun pudore - in chiave punitiva e di ritorsione. “La politica non invada la giurisdizione. Ma Meloni lo fa per spostare l’attenzione” di Giulia Merlo Il Domani, 4 ottobre 2023 Il deputato di Azione Enrico Costa, normalmente molto critico nei confronti della magistratura, nel caso degli attacchi di Meloni alla giudice di Catania dice: “Come i magistrati non devono influenzare l’attività del legislatore, così la politica non deve invadere la loro sfera”. Politicamente, però, “questa è la strategia della premier, quando è in difficoltà ha bisogno di trovare un nemico”. Onorevole Costa, quello della premier Giorgia Meloni è stato un attacco indebito o parole legittime nei confronti dei magistrati e della sentenza di Catania sui migranti? Io penso che la questione avrebbe dovuto essere affrontata solo attraverso il ricorso contro il provvedimento. Così come ho condiviso la posizione del ministro della Giustizia, Carlo Nordio, quando ha detto che i magistrati non devono influenzare attività del legislatore, lo stesso deve valere per la politica, che non deve ingerirsi nella fase giurisdizionale. I magistrati sono tenuti a dare suggerimenti tecnici ma possono non schierarsi in corso di approvazione di una legge in modo così contundente come hanno fatto su abuso d’ufficio e improcedibilità. Allo stesso modo, la politica non può pensare che l’attività del giudice sia buona quando afferma principi che condivide e sbagliata negli altri casi. Invece così è successo... La realtà è che abbiamo magistrati che attaccano le norme in approvazione e politici che attaccano sentenze non definitive. C’è poi il problema della neutralità del giudice, che apre un’altra serie di questioni. Ovvero? I giudici devono essere imparziali e anche apparirlo. Se un magistrato usa i social per attaccare un politico, questo provoca la conseguenza inevitabile che anche la sentenza più giusta presti il fianco a polemiche. I togati di Area, Unicost, Md e indipendenti hanno presentato richiesta di una pratica a tutela, dopo l’aggressione di Meloni. Condivide l’iniziativa? Non sono mai stato tenero coi magistrati e penso che le pratiche a tutela siano scarsamente incisive ma, in questo caso, condivido il fatto che un meccanismo di tutela dovesse essere usato. Anche se lo scontro non viene solo da un fronte: nel fine settimana al congresso della corrente progressista di Area ho sentito dire che la maggioranza di governo non tutela la libera dell’individuo. Dico sinceramente che, se io facessi parte di questa maggioranza e domani mi trovassi ad essere giudicato da un magistrato di Area, sarei preoccupato. Adesso cosa succederà? L’uscita di meloni è stata sgrammaticata, ma mi aspetto che ora Nordio la segua su questa linea. Abbiamo già assistito in molte circostanze che il guardasigilli sul piano teorico dica cose condivisibili ma, alla prova sul campo, non consegua. Meloni voleva davvero riaprire uno scontro con le toghe? Meloni è tutto tranne che una sprovveduta e sono convinto che le sue parole siano state pronunciate in modo scientifico, come anche quelle di Salvini. In questo modo ribaltano il piano: il governo è in difficoltà sul tema dell’immigrazione e, dopo non aver lesinato critiche ai governi precedenti, si trova nella loro stessa situazione se non peggio. Per questo Meloni ha voluto trovare un nemico, per spostare i riflettori. Ora la linea sarà che l’ondata di sbarchi è colpa dei magistrati. Funzionerà? Ho l’impressione che, almeno per ora, ci sia una classe elettorale che si beve tutto ciò che la leader dice. Sul lungo periodo, però, non credo basterà puntare tutto sulla comunicazione, marginalizzando i pochi ministri - che pure ci sono, come Giancarlo Giorgetti o Guido Crosetto - che provano ad affrontare le questioni in modo puntuale. “Con la nuova prescrizione torna la giustizia, altro che impunità” di Valentina Stella Il Dubbio, 4 ottobre 2023 Il deputato Pietro Pittalis ha scritto il testo base sull’estinzione dei reati: “Ad ammazzare i giudizi penali è l’improcedibilità, che la nostra riforma cancella”. Circola già una certa preoccupazione, nella magistratura e tra le opposizioni (con echi su alcuni giornali), per il testo base approvato in commissione Giustizia alla Camera in materia di prescrizione, che riprende la proposta dell’azzurro Pietro Pittalis. Come ci spiega lo stesso deputato di FI (e vicepresidente della commissione), “il testo è ancora migliorabile”, ma il punto centrale è il ritorno alla prescrizione sostanziale “in modo da garantire che le lungaggini del sistema giustizia non si scarichino sugli imputati”. Ma vediamo cosa prevede la proposta, da tutti vista come un mero ritorno alla ex Cirielli. Il meccanismo, fa notare Pittalis, “è molto semplice: la prescrizione comincia a decorrere dalla presunta commissione del fatto. Essa sarà parametrata alla pena prevista per quella specifica fattispecie di reato. Non sarà comunque inferiore ai quattro anni per le contravvenzioni e a sei anni per i delitti; in nessun caso l’interruzione della prescrizione può comportare l’aumento di più di un quarto del tempo necessario a prescrivere”. Secondo il parlamentare di Forza Italia, certo, “la legge ex Cirielli del 2005 ha funzionato e posto un limite al fine processo mai”. D’altra parte, fonti parlamentari hanno già prospettato che, con il lavoro emendativo, si andrà verso una riforma non riducibile né a un ripristino della legge Orlando né alla ex Cirielli. La questione su cui in questi giorni dovranno discutere le forze di maggioranza - insieme ad Azione e Italia Viva, che hanno appoggiato il testo base - è quella di un’eventuale sospensione della prescrizione per alcuni casi particolari. In pratica il tema vero ora sarà decidere se andare verso una riformulazione snella dell’istituto o apportare dei correttivi. Una cosa è certa: non potrà coesistere il doppio binario della prescrizione sostanziale e della improcedibilità. E per il vicepresidente della commissione Giustizia, “questa è anche una risposta a chi critica questa riforma: l’improcedibilità è stata un escamotage sia politico che tecnico per rispondere alle esigenze del Pnrr e tentare di abbattere il carico penale. Come abbiamo sentito in alcune audizioni, per effetto di questa misura si sta effettivamente verificando un abbattimento senza precedenti dei processi”. Come sappiamo, con la riforma Cartabia i processi “decadono” se durano più di due anni in appello e uno in Cassazione, fatte alcune eccezioni. “Il problema agitato dalle opposizioni e da alcuni organi di stampa ha davvero del paradossale”, dice Pittalis: si ritiene appunto che con questa riforma molti processi vadano al macero, cosa che piuttosto sta accadendo in virtù dell’improcedibilità. Il riferimento è anche a un articolo apparso nei giorni scorsi sul Fatto Quotidiano dal titolo “Le vittime di Viareggio e del Morandi contro il ritorno alle ex Cirielli”, in cui si scrive che i familiari delle persone morte nelle due tragedie, come in quella del Mottarone, temono si tratti di uno strumento normativo concepito per garantire l’impunità. Pittalis osserva: “Non può essere un singolo processo a dettare la regola generale, il funzionamento della giustizia non può essere caratterizzato, messi da parte i reati di particolare gravità sociale come quelli di mafia o terrorismo, dall’eccezione”. Secondo il deputato di FI occorre riportare al centro “l’efficienza del processo e le regole del giusto processo, scongiurando la condizione di imputato a vita, come ripetono spesso le Camere penali. Certo, le vittime hanno giustamente diritto a costituirsi parte civile e a veder punito il responsabile. Tuttavia il protagonista del processo resta l’imputato”, ricorda il parlamentare e avvocato, “e non possiamo scaricare su di lui l’inefficienza della macchina giudiziaria. La pretesa punitiva dello Stato non può essere eterna”, anche perché, come emerso da un Rapporto dell’Eurispes, elaborato in collaborazione con l’Ucpi, “le ragioni della lentezza dei processi sono strutturali, sia fisiologiche che patologiche, e nulla c’entrano con l’attività della difesa”. C’è da dire però che da parte delle opposizioni e anche della magistratura la critica che arriva a queste riforme è quella secondo cui l’attuale governo sarebbe intenzionato ad ammorbidire la lotta alla corruzione e salvare i colletti bianchi: “Niente di tutto questo”, replica Pittalis, “secondo me, invece, qualcuno dovrebbe chiedersi perché nascono certe inchieste inizialmente roboanti e poi al contrario si concludano con le assoluzioni, e la vita degli imputati comunque rovinata: non ha torto chi dice che già il processo è una pena”. Ad agosto Nordio prefigurò l’ipotesi di far decorrere l’orologio della prescrizione dal momento in cui il reato viene scoperto, e non, come avviene sempre, da quando sarebbe stato commesso. L’idea fece infuriare proprio Forza Italia: “Non ho sentito dichiarazioni ufficiali del ministro in questo senso, neanche nelle sue linee programmatiche”, osserva Pittalis. “Anzi, gli ho sentito dire che non è possibile affidare al sistema giudiziario le chiavi della libertà delle persone. Quello che mi preme dire - conclude il parlamentare di FI - è che mi dispiace che l’opposizione ancora una volta strumentalizzi questa ipotesi di riforma, che non vuole assolutamente rinunciare all’accertamento della verità”. “Ridurre l’arretrato civile del 90%? Una chimera”, Nordio ripensa l’intesa con l’Ue di Valentina Stella Il Dubbio, 4 ottobre 2023 Secondo le stime di via Arenula, anticipate dal Dubbio nelle scorse settimane, da qui al 2026 sarebbe possibile “tagliare” quell’arretrato solo del 32%. “Era stato definito un accordo per la riduzione del 90% dell’arretrato civile in due o tre anni. Un’impresa impossibile: o bisogna rassegnarsi a sforare questa soglia, oppure va rivisto, come stiamo provando a fare, l’accordo con l’Europa, in modo da ridurre questa percentuale irrealistica”. Lo ha detto il ministro della Giustizia Carlo Nordio intervenendo due sere fa al Senato alla presentazione della ricerca “L’Italia e la sua reputazione: la giustizia civile cinque anni dopo”, realizzata da Italiadecide in collaborazione con Intesa Sanpaolo. Nordio ne ha parlato anche sabato scorso al congresso di “AreaDg”: “Questa è una cosa che noi stiamo affrontando con grande preoccupazione ma anche con grande determinazione, per certi aspetti anche con la fantasia”. Il ministro per gli Affari europei Raffaele Fitto, a fine luglio, aveva annunciato di voler proporre a Bruxelles, nell’ambito della revisione del Pnrr, anche un più ragionevole target sull’arretrato delle cause civili in primo grado. Secondo le stime di via Arenula, anticipate dal Dubbio nelle scorse settimane, da qui al 2026 sarebbe possibile “tagliare” quell’arretrato solo del 32%, anziché del 90. Il restyling si tradurrebbe, come si legge nella relazione di Fitto, “in una riformulazione che potrebbe prevedere, alternativamente, una mera rideterminazione quantitativa, oppure target differenziati che tengano conto delle differenze tra Uffici giudiziari”. Ieri Fitto, al termine di un incontro con gli eurodeputati italiani, ha dichiarato che “il lavoro con la Commissione Ue procede positivamente: nelle prossime giornate sarà erogata la terza rata, abbiamo ottenuto l’approvazione delle modifiche della quarta, siamo in fase di verifica dei risultati raggiunti per puntare a ottenere anche queste risorse entro l’anno, e poi abbiamo due tavoli di confronto: uno sulla riprogrammazione del piano e l’altro sul raggiungimento degli “obiettivi 5” entro il 31 dicembre”. Ma riguardo alla giustizia, fonti di via Arenula spiegano che il ministero è ancora in fase valutativa, e che la questione non si risolve “one shot”. Bisognerà guardare agli obiettivi intermedi e a quelli finali. In ogni caso, a breve saranno pubblicati i dati relativi ai primi sei mesi del 2023 per comprendere qual è effettivamente la situazione alla luce dell’entrata in vigore delle riforme e dell’apporto fornito dagli addetti all’Ufficio per il Processo. Trento. La relazione della Garante: “Più detenuti psichiatrici, soffre ancora l’organico” Corriere del Trentino, 4 ottobre 2023 Sono 362 i detenuti nella casa circondariale di Spini di Gardolo, al 27 settembre 2023. A fronte di scarsità di organico, sia della polizia penitenziaria sia degli educatori, solo due, a fronte di detenuti affetti da patologie: 87 quelli che hanno avuto bisogno di assistenza psichiatrica nel 2022 e 72, di cui 15 donne, quelli affetti da disturbi vari. Nessun suicidio ma in aumento l’autolesionismo con 57 casi e 4 tentati suicidi. In aumento anche le donne: verrà inaugurata una seconda sezione femminile a secondo piano da volontà della direzione. Sono alcuni dei dati forniti dalla garante provinciale dei diritti dei detenuti, Antonia Menghini, alla presentazione dell’attività annuale a Palazzo Trentini. “A fronte di una prima, significativa flessione, allineata al dato nazionale, con la prima ondata di Covid, si è assistito a un trend ondivago per il 2021 e a una costante crescita per il 2022 e per il 2023”, ha precisato Menghini parlando dei detenuti a Spini. Nel 2022, sono diminuiti gli stranieri, anche se, rispetto alla situazione italiana, il carcere di Trento “continua ad avere una presenza massiccia di persone straniere”. Dei detenuti, il 10% (36) sono donne, mentre il 90% (309) sono uomini. Per quanto riguarda il lavoro, nel 2022 i detenuti con un impiego erano l’89%: si contavano 238 uomini e 33 donne alle dipendenze del Dap al 31 dicembre 2022, mentre 18 e 20 detenuti erano occupati rispettivamente nelle cooperative Venature e Chindet. Sul fronte scolastico, nel 2022 hanno frequentato i corsi di scuola media 146 persone (14 detenute, 62 detenuti protetti e 70 detenuti comuni), mentre 5 hanno cominciato a frequentare corsi dell’Università in carcere. Pavia. “Carcere con grandi potenzialità per il reinserimento dei reclusi” di Maria Fiore La Provincia Pavese, 4 ottobre 2023 Andrea Ostellari, sottosegretario alla Giustizia, in visita a Torre del Gallo: “Qui il miglior reparto medico. I suicidi? La struttura sta cambiando”. “Questo è un carcere con grandi potenzialità, che può essere un luogo di reinserimento sociale. Negli ultimi mesi c’è stato un cambio di passo. Da un punto di vista sanitario, ad esempio, ho visto qui a Torre del Gallo il migliore reparto tra tutte le carceri visitate finora”. Investimenti strutturali, nuove assunzioni di personale, formazione e la­ voro per i detenuti: ne ha parlato, ieri mattina, il sottosegretario di Stato alla Giustizia con delega al trattamento dei detenuti, il senatore leghista Andrea Ostellari, in visita al carcere di Pavia. Ostellari, accompagnato dal vice presidente del senato Gianmarco Centinaio e dall’assessora regionale Elena Lucchini, ha incontrato prima il presidente del tribunale, Guglielmo Leo, e poi si è recato a Torre del Gallo, dove ha avuto modo di incontrare la direttrice Stefania Mussio, e infine in prefettura, dal prefetto Francesca De Carlini, dove era presente anche il provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria della Lombardia, Maria Milano Franco d’Aragona. “Negli ultimi mesi si è avuta una nuova prospettiva: la possibilità di investire programmando interventi sul piano strutturale - ha spiegato Ostellari. Sui detenuti c’è ancora da fare ma tanto si è sta già facendo. La formazione e il lavoro per i detenuti sono gli unici strumenti in grado di abbattere la recidiva e concedere una seconda possibilità a chi ha sbagliato. Questo carcere ha tutte le carte in regola per diventare un luogo di reinserimento sociale”. Torre del Gallo un anno fa è stato anche il carcere dove si è registrato un triste primato: sei suicidi tra le sbarre. “Anche su questo fronte però ho visto un cambio di passo rispetto al recente passato di questo istituto - è la risposta di Ostellari. C’è un direttore che si sta dando da fare e una squadra a disposizione anche per la fase trattamentale, che non è solo lavoro ma anche scuola e teatro”. Infine sul personale: “Nel corso di un anno è previsto un aumento di organico nelle carceri italiane di circa 3.500-4.000 persone, distribuite su tutto il territorio nazionale. Una crescita che seguirà quella importante di 1.800 unità, già effettuata nello scorso mese di settembre. Una novità significativa rispetto al passato”. Siena. Una testimonianza della vita nelle carceri: “La mancanza di libertà è opprimente” di Vincenzo Battaglia gazzettadisiena.it, 4 ottobre 2023 Giulia Simi e Claudia Cardone sono entrare a Ranza e a Santo Spirito per raccontare le condizioni di vita dei detenuti. Qual è la condizione di vita nelle carceri? È questa la domanda a cui ogni anno i Radicali cercano di rispondere attraverso delle visite negli istituti penitenziari. È un’idea lanciata da Marco Pannella fin dagli anni sessanta e raccolta, in provincia di Siena e non solo, da Giulia Simi, esponente del partito Radicale. Nel mese di agosto, insieme a Claudia Cardone di Italia Viva, Simi è entrata sia al Ranza di San Gimignano che al Santo Spirito di Siena: “È una vita che faccio questo giro delle carceri” - racconta Simi. Il Ranza nel 2018 è salito alla ribalta delle cronache nazionali per un caso di tortura (la sentenza di primo grado per i cinque agenti imputati è arrivata a inizio settembre). Di tempo ne è passato tanto da allora e adesso Simi e Cardone riportano dei miglioramenti, soprattutto con l’arrivo della nuova direttrice Maria Grazia Giampiccolo: “L’atmosfera dentro il carcere è cambiata - raccontano -. Ci sono tante attività, i detenuti dipingono murales, frequenteranno corsi di matematica, l’idea è quella di accrescere la collaborazione con l’Università di Siena. C’è anche il progetto di aprire un laboratorio di ceramica”. Nonostante il clima sia diverso rispetto al passato tante problematiche rimangono: “Il carcere è isolato - spiegano Simi e Cardone - è una vecchia tendenza quella di costruire le strutture penitenziarie in questo modo, che però non aiuta i detenuti. Non c’è l’acqua calda nelle celle, che sono tra l’altro molto piccole. Aumenta sempre di più la presenza di stranieri, ma non c’è un mediatore linguistico”. Se sul piano dei detenuti la situazione è più o meno gestibile (ce ne sono 318 per una capienza regolamentare di 243), la difficoltà più grande è legata al numero delle guardie carcerarie. “Gli effettivi sono 189 sua una pianta organica di 229 - spiegano ancora -. Gli agenti sono quindi molto sottodimensionati, oltre a essere pagati poco. Ma è un problema nazionale”. Al Santo Spirito al momento ci sono 77 detenuti, dei quali 50 definitivi (8 in regime di semi libertà) e 23 in attesa di giudizio (7 imputati, 10 appellanti, 6 ricorrenti) per una capienza regolamentare di 58. “Molti dei carcerati del Santo Spirito sono reclusi per reati di violenza familiare, sessuale e di genere - raccontano Simi e Cardone -. Il difetto di questa struttura è che è molto piccola. Nelle celle vivono anche quattro o cinque persone tutte insieme”. Anche in questo caso non manca il problema delle guardie carcerarie: “Gli effettivi sono 38, su una pianta organica di 50 - proseguono -. Inoltre, al momento, non c’è il magistrato di sorveglianza. Il problema più grosso è legato alla gestione delle emergenze per motivi di salute. Il medico c’è in orari diurni, ma la notte possono solo fare ricorso al pronto soccorso. L’aspetto positivo è che le attività non mancano”. Entrare dentro un carcere - L’ingresso in un carcere è un’esperienza non facile a livello emotivo, soprattutto per chi non ci è mai stato oppure entra da semplice visitatore: “È sempre un’emozione molto forte - racconta Giulia Simi -, ne ho visitati tantissimi, ma ogni carcere si impara sempre qualcosa di nuovo dal punto di vista umano. È un’occasione per vedere la vita da più punti di vista. La cosa fondamentale è la mancanza di libertà. La diamo sempre per scontata, ma non averla è una sofferenza grandissima”. Claudia Cardone invece ha fatto queste visite nelle strutture penitenziarie per la prima volta nella sua vita: “Ho avvertito subito il senso di angoscia e oppressione che ti crea la sensazione della mancanza di libertà - afferma. Noi siamo arrivate quasi sempre nel momento del pasto, quando le celle sono aperte. Ma si sentiva comunque sulla pelle la sensazione di costrizione. Entrare in carcere tocca la nostra coscienza perché entri in contatto con una realtà ricca di esperienze diverse e tutte molto coinvolgenti emotivamente”. Ferrara. La rinascita dei detenuti attraverso il volontariato ambientale cronacacomune.it, 4 ottobre 2023 Nella pausa pranzo di giovedì 28 settembre 2023, dopo un’attività intensa di manutenzione del verde pubblico, è stato festeggiato il primo anniversario di un’interessante esperienza: il volontariato ambientale vissuto da tre detenuti in regime di semi-libertà nel carcere di Ferrara. Questa iniziativa, resa possibile grazie a Progea, una delle associazioni firmatarie di una convenzione tra la direzione del Carcere e il Comune di Ferrara, ha dimostrato come il cambiamento e la redenzione siano possibili, anche dietro le sbarre. I tre detenuti, insieme a molti altri coinvolti nel progetto, hanno avuto l’opportunità di godersi un pranzo presso il rinomato ristorante “Al Volo,” come segno di riconoscimento per il loro impegno. Questa iniziativa si differenzia dal tradizionale pasto nella mensa di Viale K, come stabilito dalla convenzione originale. Il momento conviviale ha visto la partecipazione dei promotori di questo progetto, ovvero le associazioni ambientaliste che tre volte la settimana si dedicano alla manutenzione di alcune aree verdi, in stretta collaborazione con l’Ufficio verde di Ferrara. All’incontro hanno preso parte anche l’assessore comunale Andrea Maggi e la funzionaria Rita Berto, rappresentanti dell’Ufficio verde. L’idea di coinvolgere i detenuti è nata all’interno di un gruppo di volontari che si adopera con piantumazioni, pulizia e manutenzione di diverse aree verdi pubbliche, tra cui spiccano il bosco di via Marconi, il parchetto della Cappella Revedin, il parco Giordano Bruno vicino all’ex mutua e il giardino Ilaria Alpi. I gruppi di volontari, tra cui La Voce degli Alberi, Green Team, Fare Verde, Difesa Ambientale Estense, Plastic Free e Ferrara Progea, hanno unito le forze per sostenere questa iniziativa. Grazie al supporto di Rete Lilliput per l’acquisto delle tute da lavoro, Zerbini Garden per i guanti e gli attrezzi, Coop Il Germoglio per la messa a disposizione delle biciclette e Viale K per l’accoglienza in mensa, è stata siglata una convenzione di due anni che ha consentito ai detenuti di effettuare la loro prima uscita il 31 luglio 2022, inizialmente limitata a una sola giornata di intervento. Tuttavia, vista la positività dell’esperienza e la siccità dell’estate 2023, le uscite sono diventate tre alla settimana. Il pranzo offerto da una generosa socia di Progea è stato un gesto di gratitudine non solo verso le istituzioni che hanno reso possibile questa esperienza, ma soprattutto verso i detenuti che hanno dimostrato passione e competenza in ogni giornata di lavoro. Questo progetto ha contribuito a sfatare pregiudizi sulla condizione di detenuto, dimostrando che la redenzione è possibile per chiunque. L’esperienza di volontariato continua ogni martedì, giovedì e sabato. Roma. Un seminario sulla situazione carceraria e le prospettive di reinserimento per i detenuti inapp.gov.it, 4 ottobre 2023 Martedì 10 ottobre riprende dopo la pausa estiva il ciclo de “I Seminari Inapp”, il cui obiettivo è discutere gli sviluppi della ricerca scientifica nei campi di interesse per il nostro Istituto e condividere i risultati finali e intermedi delle ricerche in corso. Alle ore 11.00 si svolge, in modalità ibrida, il trentacinquesimo incontro. In questa occasione, dopo l’introduzione del Viceministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto, la ricercatrice Inapp Tiziana Di Iorio presenta il lavoro “Detenzione e diritti umani. Una disamina della situazione carceraria in Italia”. Al termine della presentazione è prevista la discussione di Alessio Scandurra, Coordinatore dell’Osservatorio di Antigone sulle condizioni di detenzione, di Domenico Schiattone, docente di Sociologia penitenziaria presso l’Università degli Studi Roma Tre e già Direttore dell’Ufficio del Garante nazionale dei Detenuti, e di Valentina Calderone (in attesa di conferma), Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Roma. Il seminario si svolge nella settimana in cui ricorre la Giornata mondiale dell’educazione in carcere (13 ottobre) e rappresenta l’occasione per discutere sulla situazione carceraria in Italia a partire dallo sviluppo della legislazione, con l’emanazione dell’Ordinamento penitenziario del 1975 e che è stata oggetto di maggiore attenzione da parte dei decisori politici solo nel 2013, dopo la condanna dell’Italia, da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Cedu), per la violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti umani. Attraverso l’analisi dei dati disponibili, la presentazione fornisce una panoramica delle condizioni di vita dei detenuti nelle carceri italiane e analizza l’importanza di investire maggiori energie per rispettare quei principi che sono alla base della nostra Costituzione e dell’ordinamento penitenziario. L’occasione di una riflessione sul tema della detenzione nasce dalla necessità di raggiungere gli obiettivi previsti dal PNRR, che vede il Ministero della Giustizia come titolare di interventi di riforma inclusa quella dell’Ordinamento penitenziario. Torino. Torna il “LiberAzioni Festival. Per un dialogo con il carcere” fctp.it, 4 ottobre 2023 La quarta edizione dal 9 al 15 ottobre. Al via il 9 ottobre la quarta edizione biennale di LiberAzioni - festival delle arti dentro e fuori, evento promosso dall’Amnc - Associazione Museo Nazionale del Cinema, che nel 2023 compie 70 anni, e che si occupa di approfondire la relazione tra carcere e società. Si tratta, infatti, del primo festival nazionale che si svolge dentro e fuori dal carcere, che coinvolge in sezioni di concorso parallele detenuti e liberi e che fa lavorare congiuntamente per le proprie giurie professionisti del settore cinematografico, artistico e letterario insieme ai detenuti della Casa Circondariale Lorusso e Cutugno. Il lavoro si svolge grazie alla condivisione delle azioni con l’Ufficio della Garante dei diritti delle persone private della libertà personale della Città di Torino, attraverso il più ampio percorso per un dialogo con il carcere che dà il sottotitolo al festival. Ospite d’eccezione del festival sarà l’attrice Kasia Smutniak, che quattordici anni fa ha girato “Tutta colpa di Giuda”, per la regia di Davide Ferrario. Per l’occasione il film verrà proiettato al Cinema Massimo (Via Verdi 18, Torino), in Sala 2, mercoledì 11 ottobre alle 20.45. Il film, prodotto dalle torinesi Rossofuoco e Fargo Film, è stato girato in Piemonte nel 2008 prevalentemente all’interno della Casa Circondariale Lorusso e Cutugno di Torino, coinvolgendo il personale e i detenuti di un’intera sezione dell’istituto, con il sostegno di Film Commission Torino Piemonte. “Tutta colpa di Giuda” è uscito nelle sale nel 2009, distribuito da Warner Bros Pictures Italia, e ha ottenuto 4 candidature ai Nastri d’Argento e 1 candidatura a David di Donatello. Oltre a Kasia Smutniak il cast comprende tra gli altri Fabio Troiano, Gianluca Gobbi, Cristiano Godano, Luciana Littizzetto, Linda Messerlinker, Ladis Zanini, Dante Cecchin,Riccardo Tesio e Luca Bergia. La colonna sonora del film è composta da brani e musiche edite e inedite, realizzate da artisti come Francesco de Luca, Alessandro Forti, Marlene Kuntz, Fabio Barovero dei Mau Mau e Kaas. Il tema principale del film è il brano “Canzone in prigione”, scritto ed interpretato dai Marlene Kuntz appositamente per il film. “Diario dentro: i pensieri dalla mia cella”, il concorso letterario per i detenuti La Repubblica, 4 ottobre 2023 Si è tenuto presso la Casa Circondariale Lorusso e Cutugno di Torino la XVI Edizione del Premio Carlo Castelli, il concorso letterario riservato ai detenuti delle carceri italiane, organizzato e promosso dalla Federazione Nazionale Italiana Società di San Vincenzo De Paoli ODV. Questa edizione assume un significato speciale, celebrando il 25º anniversario dalla scomparsa del volontario penitenziario Carlo Castelli, a cui il premio è dedicato. La cerimonia di premiazione si è svolta il 29 settembre scorso, presso la Casa Circondariale Lorusso e Cutugno di Torino. Primo Classificato. “Quelle mani sfiorite”, un monologo, una profonda riflessione dentro la propria cella, di notte. L’autrice ripercorre momenti tragici tramite la descrizione di: “quelle tue mani che un giorno si sono sporcate, non di lavoro, ma di vita”. Solo alla fine della narrazione si alza una speranza di libertà: “il mio pensiero non avrà mai una prigione”. Secondo Classificato. “Scene di una prigionia”, un racconto che descrive la vita carceraria con una dualità di visioni: il giorno, caratterizzato da rumori assordanti, e la notte, in cui il silenzio è spezzato solo da qualche detenuto in sofferenza. Il testo riflette sulla povertà spirituale precedente alla detenzione e pone una domanda inquietante: “Mi chiedo se, a lungo andare, questa ristrettezza di spirito si impossesserà anche di me…” Terzo Classificato. “I... SE...”, un racconto toccante che narra di un tragico evento all’interno del carcere di notte. Il racconto si concentra su Elena, che assiste a un suicidio nella sua cella. Il tema, purtroppo, è drammaticamente attuale, e il racconto porta il lettore a riflettere sui “se” che sembrano non avere fine. I riconoscimenti. I primi tre classificati riceveranno un doppio riconoscimento in denaro: una parte andrà all’autore del racconto e un’altra verrà destinata al finanziamento di progetti: il primo in un Istituto penitenziario per adulti, il secondo presso un Istituto per minori ed il terzo presso un Ufficio di esecuzione penale esterna. Il Premio Carlo Castelli. È un concorso letterario che coinvolge detenuti ospiti negli Istituti penitenziari di tutta Italia, offrendo loro l’opportunità di esprimersi attraverso la scrittura. Ogni anno viene scelta una struttura detentiva per adulti o minori per ospitare la cerimonia durante la quale vengono lette e premiate le opere scelte da un’apposita giuria. Il tema di quest’anno, “Diario dentro. Pensieri dalla mia cella”, riflette la realtà quotidiana dei detenuti, i cui giorni sono scanditi da una routine immutabile. La scrittura viene considerata un mezzo per esorcizzare il passato, elaborare il dolore e coltivare la speranza di un futuro diverso. I racconti dei detenuti permettono di avvicinarci ad una realtà spesso misconosciuta, trasmettendo un potente messaggio di responsabilità a chi è al di fuori delle mura carcerarie. Sono giunti 220 testi. Dai quali emergono storie di umanità diversa. Il Premio ha ottenuto il patrocinio del Ministero della Giustizia, della Camera dei Deputati, del Senato della Repubblica, del Dicastero Vaticano della Comunicazione, oltre a essere sostenuto da TV2000, Radio InBlu e UCSI (Unione Cattolica Stampa Italiana). Il concorso ha ricevuto, inoltre, la Medaglia della Presidenza della Repubblica. La nuova Giuria del Premio. È stata presieduta da Carla Chiappini, giornalista ed esperta in scrittura autobiografica e composta da figure esperte nell’ambito penitenziario come Luigi Pagano, già Direttore Carcere di San Vittore; Maria Agnese Moro, giornalista, figlia del grande statista; Maria Cristina Failla, magistrato; Wilma Greco, docente Casa Circondariale di Agrigento; Anna Maria Corradini, volontaria e presso Istituti penitenziari del Triveneto; Luigi Dall’Ara, volontario penitenziario della Società di San Vincenzo De Paoli. La Società di San Vincenzo De Paoli. È presente in 155 Paesi del mondo. In Italia si contano più di 11.500 tra soci e volontari suddivisi in 957 gruppi operativi sul territorio denominati Conferenze, raggruppati in 85 Consigli Centrali e 2 Opere Speciali. L’Associazione di laici cattolici opera generalmente nelle parrocchie. “Nessuna povertà è estranea alla San Vincenzo”, si legge nel regolamento internazionale. Sapessi come non è strano sentir recitare Shakespeare nel carcere di Castelvetrano di Giacomo Di Girolamo linkiesta.it, 4 ottobre 2023 Mentre i giornalisti erano alla ricerca del dettaglio curioso da catturare in città al momento del ritorno della salma di Matteo Messina Denaro, nella casa circondariale i detenuti sex offender hanno portato in scena le opere del poeta inglese. E sotto un cielo di filo spinato è andato in scena il miracolo del teatro. Peccato che se ne siano andati così presto, i giornalisti arrivati nei giorni scorsi a Castelvetrano, da tutto il mondo, per seguire l’arrivo, al cimitero cittadino, della salma del boss di Cosa nostra, Matteo Messina Denaro. Peccato che tra un’intervista al passante che fa le condoglianze, un servizio sullo “scandalo per la comunità che non si indigna”, le analisi sociologiche sulla Sicilia criminale, non abbiano trovato il tempo di farsi incuriosire da una locandina che era attaccata un po’ dappertutto: in tribunale, in commissariato, dai Carabinieri. Nella locandina c’era disegnato il volto di Shakespeare, e infatti era una locandina per uno spettacolo teatrale: “Tutto Shakespeare in novanta minuti”. Il classico spettacolo teatrale delle scuole, avrà pensato qualcuno. La recita di fine anno. Anziché farla a giugno cominciano ora. E invece no. È stato qualcosa di diverso, di unico. Un piccolo miracolo. Ed è accaduto a Castelvetrano. Ed è accaduto in carcere. Castelvetrano è infatti sede di una casa circondariale. Non ci mettono gli arrestati per mafia, sgombriamo già il campo dagli equivoci. Non si fa detenzione a chilometro zero. È un carcere, comunque, particolare, perché è destinato ai cosiddetti sex offender, cioè coloro che scontano pene per reati di violenza sessuale. Molestatori, stupratori, pedofili. Il campionario è vario. Gli ultimi ad arrivare sono stati i ragazzi coinvolti nel terribile episodio dello stupro di gruppo dello scorso luglio a Palermo. Ci sono poi condannati per pedofilia, gente che ha abusato dei figli, altri che hanno massacrato di botte la compagna, quelli che sui giornali etichettiamo sbrigativamente come “orchi”. Sono detenuti che vivono un doppio isolamento. Uno è quello del carcere, l’altro è lo stigma che li accompagna, e che li porta a non essere accettati dai detenuti comuni. Il detenuto sex offender vive infatti isolato e discriminato. Quando si parla di femminicidi, di reati a sfondo sessuale, si pensa sempre, giustamente, alle vittime. In pochi pensano a cosa fare di chi resta, degli orchi. Ci hanno pensato i volontari (volontari nel senso pieno della parola: zero contributi, zero rimborsi) del laboratorio teatrale: Katia Regina, educatrice professionale, Cinzia Bochicchio, actor coach, Federico Brugnone, regista. E ancora, Maria Pia Culicchia, musicoterapeuta, e l’Associazione culturale Skenè di Massimo Licari. Grazie alla loro ostinazione, dopo mesi e mesi di prove in saloni roventi, un nutrito gruppo di detenuti ha messo in scena “Tutto Shakespeare in novanta minuti”, una parodia delle più celebri opere del famoso drammaturgo. Lunedì 2 ottobre, la prima, per uno scelto pubblico di autorità. In tempi in cui c’è chi ha un attacco di panico quando si accorge di aver dimenticato il cellulare a casa, entrare in un carcere, dovendo lasciare tutto, a cominciare proprio dai telefonini, è un’esperienza ai limiti della realtà. Ma, d’altronde, le carceri sono fuori dalla realtà. Per l’occasione, il carcere di Castelvetrano è stato ripulito da cima a fondo, con tanto di tappeto color blu guardia penitenziaria per accogliere le autorità, i signori magistrati, il paio di giornalisti interessati, il vescovo. Un atto unico, nel senso del numero e della specialità. Nessuna ripresa, nessuna foto, nessun bis. Il palco è stato allestito nel cortile interno del carcere. In un angolo, un rinfresco - solo per gli ospiti, però - servito da altri detenuti. Tre colpi sordi, pam, pam, pam. E sotto un cielo di filo spinato, è andato in scena il miracolo del teatro. Che poi è il miracolo della vita. Qui, nell’inferno degli orchi. Abbiamo pianto, abbiamo riso. Abbiamo visto piangere e ridere. Abbiamo visto recitare. Abbiamo visto Otello, pure lui, e il suo abisso. Abbiamo pensato a quel senatore che, a proposito di reati sessuali, parla di “castrazione chimica”. Abbiamo pensato a quell’articolo della Costituzione, il 27: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Abbiamo visto ragazzi e adulti, italiani e stranieri, alti e bassi, tatuati o elegantissimi, in tuta o in canottiera, o con giacche troppo strette o troppo lunghe, a un certo punto interrompersi e cantare, a squarciagola, “Il mio canto libero” di Battisti, aggrappandosi, a un anelito di amore, di vero amore, che pure per loro, all’inferno, è concesso, per non morire ogni giorno. Li abbiamo visti andarsene, ordinati e felici, in fila quando tutto è finito, perché le mura del carcere si sono rinchiuse di nuovo su di loro. Non hanno potuto prendersi i complimenti, si sono risparmiati, però - fortuna loro - tutti gli interventi delle autorità, i discorsi che hanno illustrato l’attività “cadenzata”, le giustificazioni per gli assenti per “gli impegni sopraggiunti”, i “benefici rieducativi”, il parolaio della burocrazia, insomma, che nel carcere, come ogni detenuto impara presto, sa essere spietato. Prima di andare via, un paio di detenuti ha fatto un fuori programma. Uno ce lo ha urlato in faccia: a me sembrava tempo perso, invece ho scoperto parole, cose, è stato bellissimo. Un altro, infine: finalmente non mi sento più un giocattolo rotto. C’è anche il tempo per recitare una poesia, scritta in stampatello su un foglio di block notes. Si chiama Libertà. E a un certo punto recita: “Sfòrzati a pensare / che sarai un uomo migliore / che non ti farai più cogliere dall’errore. / Sulla tua schiena il peso dei tuoi sbagli / sulla tua fronte il sudore del tuo dolore”. Quanta vita, qui nell’inferno del carcere, tra gli orchi, qui, proprio qui a Castelvetrano. Peccato che i giornalisti erano tutti fuori dal carcere, a fare la scorta alle spoglie di Messina Denaro. I “bambini-soldato” nelle nostre città di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 4 ottobre 2023 “C’è un esercito invisibile di minori aggregati alla criminalità che crescono convinti che lo scopo della vita sia guadagnare a tutti i costi e che scappare dai percorsi normali di crescita acceleri il percorso verso l’età adulta”. “Se essere bambini-soldato significa appartenere ad un esercito del male come quello della criminalità organizzata questi bambini esistono anche nell’Italia meridionale”. Soprattutto nelle aree più degradate della grande periferia napoletana. Lo disse tempo fa don Tonino Palmese, il parroco di Portici legato a Libera e animatore con Don Maurizio Patriciello e don Luigi Merola dei movimenti anti-camorra partenopei. E non cambia idea: “C’è un esercito invisibile di minori aggregati alla criminalità che crescono convinti che lo scopo della vita sia guadagnare a tutti i costi e che scappare dai percorsi normali di crescita acceleri il percorso verso l’età adulta”. Sono pericolosi. Sempre ragazzini, però, restano. Come Abu Ubaidah, il “martire cucciolo di Allah” esaltato nel 2014 su Twitter perché morto bambino col mitra in mano in Siria o il figlio dell’arabo-australiano Khaled Sharrouf che pubblicò sui social la foto del figlioletto che reggeva la testa mozzata d’una vittima dell’Isis. O Evariste Ntegeyimana, il ruandese che a 15 anni raccontò nel libro Le ferite del silenzio di Yolande Mukagasana d’essere stato arruolato da uno squadrone Hutu per uccidere i Tutsi: “Quei bambini che hai ammazzato li conoscevi?” “Sì, erano dei vicini. Mangiavano spesso da noi e io da loro”. O i ragazzini di Medellin imbottiti di alcol e droga dai narcos che, scrisse Mario Vargas Llosa, prima di andare a “matare” qualcuno andavano a “prostrarsi ai piedi della Vergine di Sabaneta” e altri bambini spinti a uccidere in Afghanistan, Congo, Iraq, Mali, Birmania, Nigeria, Filippine, Somalia, Sudan, Siria, Yemen... Certo, la mamma di Giogiò Cutolo, il giovane musicista ucciso un mese fa a Napoli va compresa quando, divorata dal dolore, chiede anche a Mattarella la condanna all’ergastolo per il giovanissimo assassino di suo figlio. Come dice lo stesso don Tonino Palmese, “è una reazione di pancia perché lei dentro la pancia tenne quel bambino che ora le è stato portato via. Come non capire il suo strazio? Lei stessa patirà l’ergastolo: perdere un figlio così è davvero un ergastolo. Ma per quell’assassino adolescente la galera rappresenta il suo primo incontro con lo Stato. Va punito con severità. Perché deve capire lui e devono capire gli altri. Ma il carcere non può che essere l’inizio di un lungo percorso”. La povertà educativa e l’Italia che non decolla di Andrea Morniroli e Chiara Saraceno La Stampa, 4 ottobre 2023 Il tema della povertà educativa, per la quantità drammatica di ragazzi e ragazze che coinvolge e per i profondi divari di classe, di genere e territoriali che manifesta, è una questione che riguarda la possibilità stessa di uno sviluppo giusto del Paese. Non l’esito dello sviluppo ma il suo presupposto. Basta pensare che a 50 anni dalla Lettera a una professoressa di don Milani, il 90 per cento di quanti abbandonano precocemente la scuola, o non la terminano con le competenze necessarie, non faticano solo a trovare lavoro ma anche a esercitare i propri diritti di cittadinanza. Se non hanno alle spalle una famiglia attenta, capace di offrire loro modelli positivi di vita e relazione, sono anche esposti al rischio della devianza e della criminalità, come segnala lo studio del team di esperti di polizia, carabinieri, guardia di finanza e polizia penitenziaria della Direzione analisi criminale interforze e dall’Università Cattolica di Milano di cui ha riferito questo giornale pochi giorni fa. In tante periferie geografiche, economiche e sociali del Paese, costruire alleanze che sappiano unire tutti i soggetti pubblici e privati nell’obiettivo comune di rimettere la scuola, l’educazione, la formazione e le pari opportunità per tutte le bambine, bambini e adolescenti di sviluppare appieno le proprie capacità al centro della politica e delle politiche, è una strada indispensabile alla costruzione delle condizioni per superare disuguaglianze, povertà e rischio di esclusione sociale. È indispensabile anche per promuovere uno sviluppo equo e sostenibile dei luoghi dal punto di vista sociale e ambientale. Il prossimo 6 ottobre a Roma la rete di reti “educAzioni”, più di 400 realtà tra scuole, associazioni, cooperative, sindacati, associazioni di categoria ed esperti di settore, ha organizzato, all’interno dell’Istituto di istruzione superiore Leonardo Da Vinci di via Cavour 258, la presentazione pubblica di un vademecum per la costruzione dei patti educativi di comunità, nato dal confronto tra decine di esperienze in giro per l’Italia. Esperienze che in questi anni, anche attraversando il periodo duro della pandemia e della DAD, nel concreto, sui territori, con le scuole, i comuni, il civismo attivo hanno contrastato la povertà educativa, accompagnato migliaia di alunni e alunne fragili a non perdersi, a rafforzare i loro percorsi scolastici e a mantenere una relazione stabile tra loro, la scuola e le famiglie. Sono stati anche uno strumento per attivare e collegare quelle energie locali senza le quali la povertà economica, sociale e culturale dei contesti più difficili non può essere affrontata. Certo non con la sola repressione e con la militarizzazione dei luoghi, come è avvenuto con il decreto Caivano. Non basta neppure il, pur importante, aumento del numero di insegnanti e del tempo scuola, perché occorre (ri-)costruire pazientemente nei luoghi di vita dei ragazzi e delle ragazze legami sociali di collaborazione e fiducia e spazi insieme fisici e relazionali sicuri e ricchi di stimoli e opportunità. L’obiettivo dell’incontro, aperto a chi opera sia nella scuola sia nei servizi sociali e sanitari, nelle istituzioni culturali e nelle organizzazioni della società civile, è appunto quello di sollecitare la politica nazionale e locale ad assumere la costruzione di patti educativi di comunità come strumento di contrasto alla povertà educativa, di renderla politica pubblica ordinaria, non casuale o eccezionale e affidata esclusivamente alla buona volontà di insegnanti e direttori didattici generosi. Ciò richiede innanzitutto un impegno delle istituzioni pubbliche, a partire dal Ministero dell’Istruzione e del merito. In questa prospettiva non è un segnale incoraggiante che il Ministro non abbia ritenuto opportuno accogliere l’invito all’incontro, o almeno a delegare qualcuno in sua vece. La costruzione di patti educativi tuttavia richiede anche la disponibilità da parte della società civile organizzata ad uscire dal proprio particolare e a collaborare con altri entro un progetto comune. Investire nei patti educativi significa rimettere al centro dell’attenzione i diritti dei bambini e delle bambine, delle ragazze e dei ragazzi: dei tanto citati “giovani” che troppo spesso poi scompaiono dalle attenzioni dei governi e dalla priorità della politica. Un’assenza che fa pensare all’Italia non solo come uno dei paesi più vecchi al mondo, ma anche come uno tra i più egoisti, visto il debito e i rischi climatici e ambientali che noi adulti stiamo scaricando sulle spalle dei nostri figli e dei nostri nipoti, senza neppure preoccuparci del destino di emarginazione in cui troppi di loro sono avviati a causa di un inadeguato investimento nei processi e contesti educativi, scolastici e non. Psichiatria. Prosciolti e internati: una roulette russa di Pietro Pellegrini* Il Manifesto, 4 ottobre 2023 Il 9 gennaio 2023 a Pisa un giovane studente universitario, dopo essere stato accompagnato dal padre ad una visita psichiatrica in ambito privato dalla quale pare volesse fuggire, incontra e colpisce uno sconosciuto, un anziano medico che qualche giorno dopo muore per gli esiti dell’aggressione. Nei giorni scorsi, visto che la perizia ha stabilito la totale incapacità di intendere e volere, il giovane è stato assolto. Tuttavia il riconoscimento della pericolosità sociale ha portato all’applicazione della misura di sicurezza detentiva del “ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario” cioè in una REMS per 10 anni. Di fronte a reati commessi “sine causa” o per motivi banali ricercare la risposta nel disturbo mentale è rassicurante e al tempo stesso fuorviante. Rassicurante perché dà una spiegazione e delinea un percorso, per altro sulle stesse orme dell’OPG e non sulla base della cultura della legge 81/2014 per cui l’utilizzo delle REMS dovrebbe essere residuale, un’extrema ratio per assicurare le cure e far fronte ad una pericolosità sociale altrimenti non diversamente affrontabile. Quindi non un luogo dove portare a termine una misura di sicurezza detentiva per 10 o addirittura 30 anni. Pur tenendo conto delle periodiche revisioni della magistratura di sorveglianza vige la logica rigida dell’internamento che è di durata incerta e rischia di essere protratta “sine die”. L’aspetto fuorviante dell’assoluzione è di far venire meno il senso di responsabilità. Ciò non è utile alla persona con disturbi mentali e, sul piano sociale, rischia di alimentare da un lato lo stigma verso i malati ritenuti pericolosi e imprevedibili e dall’altro crea senso di impunità, di minimizzazione della consapevolezza della gravità e delle conseguenze dei propri agiti. Si tratta di riconoscere a tutte le persone il diritto ad essere degni della parola della legge intesa anche come pena, come condanna di una condotta antisociale, riprovevole. Una pena di durata definita, con la possibilità di cura nel luogo più adatto, anche alternativo al carcere è certamente una soluzione più chiara e preferibile. Invece l’attuale normativa si presta ad un uso opportunistico della infermità mentale, come una via per evitare i processi e le condanne utilizzando così del tutto impropriamente le REMS. Per non parlare della qualità delle perizie e delle differenze di decisione tra casi simili. Diversamente, ad avere ucciso non è la persona ma un “disturbo” forse non ben curato (?) sospetterà qualcuno, chiamando magari in causa lo psichiatra per l’anacronistica “posizione di garanzia”? La psichiatria viene delegata in toto e chiamata all’impossibile compito di curare e custodire insieme, di prevedere e prevenire. La cura della psicopatologia, può realizzarsi nella relazione attraverso il consenso (“nulla su di me senza di me”) come prevede la legge 180. La proposta di legge depositata alla Camera dei deputati (n. 1119/2023) da Riccardo Magi abolisce il doppio binario e può rifondare su basi nuove il “patto sociale”, la giustizia e la cura delle persone con disturbi mentali, con la possibilità di misure alternative alla detenzione. Per l’atto commesso tutte le persone devono avere il diritto al processo e, se colpevoli devono essere condannate a una pena ai sensi dell’art 27 della Costituzione. La persona con disturbi mentali ha bisogno di una legge che dialoga, giudica e stabilisce la durata e le modalità di esecuzione della pena ma lascia alla psichiatria le cura e la sede migliore ove effettuarla. Non giova un proscioglimento incomprensibile per un fatto che rimane molto presente nel mondo interno della persona che è sempre molto di più della sua malattia e del reato. La responsabilità è terapeutica e la cura richiede chiarezza, fiducia, speranza, possibilità di elaborazione e riparazione. *Direttore Dipartimento Salute Mentale Parma Migranti. A Lampedusa il dolore per le vite degli altri di Giansandro Merli Il Manifesto, 4 ottobre 2023 Nel ricordo del naufragio del 3 ottobre si stringono sopravvissuti, familiari e studenti. “Chiediamo di applicare a tutti i migranti la direttiva europea numero 55, come è stato fatto per i profughi ucraini”, dice Tareke Bhrane. Governo assente. A rappresentare le istituzioni nazionali solo la vicepresidente del Senato Castellone (5S), che cita l’articolo 10 della Costituzione. Si può provare dolore per delle persone mai viste, degli estranei, degli stranieri? A Lampedusa sembra di sì. Alle 3.15 in piazza Piave una piccola folla circonda il memoriale “Nuova speranza”, lo scheletro di una barca avvolto da una spirale. Ci sono incisi i nomi delle 368 vittime del naufragio del 3 ottobre, avvenuto esattamente dieci anni prima. Gli sguardi sono calamitati da quelle parole che stanno al posto di chi non ce l’ha fatta, di chi sarebbe potuto essere qui. Il silenzio è rotto dai rintocchi delle campane, il buio dalla luce arancione di piccole candele. I nomi diventano suoni sulle note di La Cura di Franco Battiato. Il pescatore Vito Fiorino, che per primo ha sentito le urla dei naufraghi e ne ha soccorsi 47, ricorda quei momenti terribili, parla del dolore di non essere riuscito a salvare tutti. “Siamo rimasti in mare per molto tempo, tanto tempo, troppo tempo”, cantano alcuni ragazzi mentre sullo sfondo suona una versione lenta di Nothing else matters, scritta dai Metallica. Poi torna il silenzio e nel silenzio si sente il rumore di chi tira con il naso, di chi se lo soffia. Le lacrime rigano i volti. Ognuno ha in mano un lumino da depositare ai piedi del monumento, per dargli luce. Su un lato, appoggiati al muro, ci sono i sopravvissuti alla strage e i familiari delle vittime. Eritrei, giovani. Guardano il vuoto con gli occhi gonfi. Singhiozzano. La folla si muove magneticamente verso di loro. Li circonda. Li abbraccia. Piange chi dieci anni fa lottava tra le onde intorno al peschereccio. Piange chi li ha sentiti chiedere aiuto. Piangono gli studenti arrivati da vari paesi europei che quel giorno vivevano come ogni giorno. Si versano lacrime da un lato e dall’altro delle telecamere. Gli stomaci si annodano. A turno si abbraccia chi ha sofferto il naufragio in prima persona. Ragazze e ragazzi stringono forte i sopravvissuti. Passano loro le mani dietro la nuca. Siedono vicini, stretti, per offrire o chiedere una spalla su cui disperarsi insieme. Non si erano mai visti prima. Qualche ora dopo il sole batte già forte sul lembo più meridionale d’Italia. La piccola piazza Castello è gremita. Tanti indossano le magliette del Comitato 3 ottobre: blu con la scritta dietro “10 anni di indifferenza”, tutto unito; nere con scritto davanti “Protect people not borders”. “Abbiamo fatto una cosa impossibile”, dice il presidente Tareke Brhane. In questi giorni non si è fermato un attimo. Presente a tutte le iniziative, sempre pronto a offrire una mano o rispondere a una domanda. “Chiediamo di dare un nome e un cognome a tutte le vittime. Chiediamo di applicare a tutti i migranti la direttiva Ue 55, come fatto per i profughi ucraini. Resteremo qui fino all’ultimo morto in mare”, continua. In prima fila le autorità. Tra gli altri: il sindaco di Lampedusa Filippo Mannino, l’arcivescovo di Agrigento monsignor Alessandro Damiano, il prefetto della città siciliana Filippo Romano. L’unica rappresentante nazionale delle istituzioni è Maria Domenica Castellone (5S), vicepresidente del Senato. Il governo non c’è e non stupisce. Da lontano la premier Giorgia Meloni dice che la lotta ai trafficanti è in nome dei morti in mare, il Pd risponde chiedendo una Mare Nostrum europea. “L’accoglienza di chi fugge dai conflitti o dalla fame non è solo un dovere etico, ma anche un obbligo giuridico”, afferma Castellone. Lo fa leggendo l’articolo 10 della Costituzione sul diritto di asilo. Sarebbe ordinaria amministrazione se proprio quel passaggio della Carta non fosse il vero obiettivo del fuoco di fila governativo partito dopo le sentenze della giudice Iolanda Apostolico che ha liberato tre richiedenti asilo trattenuti a Modica. Il corteo si muove verso la Porta d’Europa, il monumento a chi non è riuscito ad attraversare il mare. In aria sventolano i cartelli con date e morti di altri naufragi: 29-5-2016, 245 vittime; 23-08-2020, 20 vittime; 18-03-2021, 66 vittime; e via così. “Le testimonianze dei sopravvissuti ci hanno trasmesso un grande dolore. Tutti dovrebbero ascoltarli”, dice Francesco, 17 anni. È venuto sull’isola da La Spezia, insieme a dieci compagni dell’istituto superiore Capellini-Sauro. Gaia ha la stessa età e frequenta il liceo artistico Cardarelli nel capoluogo ligure: “La cosa che mi colpisce di più è l’indifferenza rimasta in questi dieci anni”. Sfilano anche alcuni abitanti di Lampedusa, ma non sono tantissimi. Due signore vestite di nero, con la borsa scura e gli occhiali da sole si tengono sotto braccio. Non hanno molta voglia di parlare. “Viviamo questo dolore in silenzio”, dicono. Ricordano tutto di quel giorno. Poi una aggiunge: “A me fa più male perché anche mio marito è naufragato. Lo hanno ritrovato morto il 26 agosto di tre anni fa”. Lei si chiama Maria Flavia Pane Bono. Sotto la Porta d’Europa parlano l’arcivescovo di Agrigento e l’imam di Catania. Il sindaco Mannino punta il dito contro il governo: “Mancano politiche migratorie serie, un cambio di passo. Così Lampedusa rimane qui a fare quello che può: salvare vite. Mentre la politica nazionale ci guarda e non fa niente”. Due sopravvissuti, diventati cittadini svedesi, ricordano: “Nessuno rischia la vita se non c’è un motivo forte a spingerlo”. Poi le persone si muovono verso il mare. Silenziosamente. Guardano al punto del naufragio. Lanciano in acqua dei fiori gialli. Il nodo allo stomaco ritorna. Sui volti scendono nuove lacrime. Si sente ancora singhiozzare. Sopravvissuti, familiari, attivisti, studenti si stringono a vicenda. Gli altri restano seduti sugli scogli, con lo sguardo e i pensieri persi nel vuoto. Poco più tardi l’ultimo momento: a bordo di motovedette della guardia costiera e di finanza, oltre ad alcune barchette private, si raggiunge il luogo esatto dove il barcone è affondato, per lanciare un’ultima corona di fiori. Sembra di poter toccare la costa allungando la mano. Si distinguono i colori delle case. Dopo un viaggio di migliaia di chilometri le vite di 368 persone si sono infrante a poche centinaia di metri da un porto sicuro. Intanto in direzione contraria arriva un’imbarcazione della guardia costiera: sul ponte ha una ventina di naufraghi. Altri quattro barchini giungono nel corso della giornata. In serata, mentre si attendono nuovi arrivi, all’interno dell’hotspot di Contrada Imbriacola ci sono circa 300 persone, una trentina i minori non accompagnati. Almeno a loro è andata bene. Migranti. “Nessuna espulsione verso la Tunisia”: anche il tribunale di Firenze boccia l’esecutivo di Giuseppe Salvaggiulo La Stampa, 4 ottobre 2023 Negato il rimpatrio di un migrante perché il suo Paese non è sicuro. La Tunisia non è un Paese sicuro: non rispetta democrazia, stato di diritto, separazione dei poteri, diritti umani. Dopo il tribunale di Catania, è quello di Firenze ad assestare un colpo ancor più duro a uno dei pilastri della politica sull’immigrazione del governo Meloni. Non solo, disapplicando il decreto emanato dopo la strage di Cutro, annulla l’espulsione di un migrante tunisino a cui il Viminale aveva negato lo status di rifugiato. Ma smonta in generale l’appeasement con l’autocrate Saied. La vicenda fiorentina nasce da un provvedimento della commissione prefettizia che aveva negato a un tunisino la protezione internazionale richiesta dopo l’approdo in Italia. Considerando la Tunisia un “Paese sicuro”, il Viminale può infatti rifiutare le domande di asilo senza una specifica motivazione ed espellere il migrante con “procedura accelerata”, senza attendere la pronuncia definitiva della Cassazione. La lista dei “Paesi sicuri” viene stilata e aggiornata periodicamente dal governo. La prima risale al 2019. Il governo Meloni l’ha aggiornata e ampliata a marzo, pochi giorni dopo la strage di Cutro. Tra i “Paesi sicuri” c’è la Tunisia. Il più strategico nell’emergenza immigrazione, sia per gli sbarchi che per i rimpatri. Tanto che la premier Giorgia Meloni ha sostenuto un Memorandum con finanziamenti per centinaia di milioni di euro. E pochi giorni fa il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha incontrato a Palermo il collega tunisino. Ma la Tunisia è ancora un Paese sicuro, come sostiene il governo? No, sostiene il tribunale di Firenze, accogliendo il ricorso del richiedente asilo contro il Viminale e sospendendone pertanto l’espulsione. Il migrante tunisino non si era dichiarato vittima di particolari persecuzioni, ma aveva posto una questione generale: “La grave crisi socioeconomica, sanitaria, idrica e alimentare, nonché l’involuzione autoritaria e la crisi politica in atto sono tali da rendere obsoleta la valutazione di sicurezza compiuta a marzo dal governo italiano”. Il tribunale di Firenze, da sempre tra i più avanzati in materia di immigrazione, si è posto innanzitutto una questione di competenza. Può un giudice sindacare la valutazione di sicurezza di un Paese fatta dal governo? Risposta: non solo può, “ma deve”. Perché è vero che l’Ue consente (non obbliga) di stilare liste di “Paesi sicuri” con regole semplificate e procedure accelerate, ma “il sacrificio dei diritti dei richiedenti asilo non esonera il giudice dal generale obbligo di verifica e motivazione in ordine ai profili di sicurezza del Paese, sia con riferimento al rischio determinato da ragioni peculiari del singolo richiedente, sia in ordine alla sussistenza si violenza indiscriminata prodotto da un conflitto armato interno o internazionale”. Dunque, la lista non può essere arbitraria o fondata su convenienze politiche, ma deve essere stilata “all’esito di una procedura amministrativa e fondata su informazioni raccolte da fonti qualificate (come Onu e Consiglio d’Europa), e costantemente aggiornate”. Ferma la “separazione dei poteri” e senza invadere la sfera politica, al giudice spetta “una garanzia di legalità supplementare” in ossequio a norme internazionali e costituzionali, che prevalgono sui decreti del governo. I giudici, quindi, vivisezionano gli atti del governo. “La Tunisia è investita da una grave crisi democratica, con una significativa concentrazione di tutti i poteri in capo al presidente Saied”, riconosce la Farnesina. Che però non la considera “sufficiente per escludere il Paese dalla lista di quelli sicuri”. Pur riconoscendo che “Saied ha adottato nei mesi scorsi un decreto con cui ha unilateralmente destituito 57 giudici”, non trae la conseguenza di “una limitazione dell’indipendenza dei magistrati”. Secondo il tribunale, che cita organismi e media internazionali (da Amnesty International al New York Times) la valutazione del governo è anacronistica, alla luce dei “recentissimi e gravi sviluppi”. I giudici cacciati da Saied non sono mai stati reintegrati. Due sono stati coinvolti “negli arresti di massa” di febbraio, dunque un mese prima del decreto del governo Meloni. E lo stesso Saied ha affermato - dichiarazione che alla luce delle recenti polemiche italiane suona sinistra - che “qualunque magistrato avesse osato esonerare dalle loro responsabilità gruppi criminali sarebbe stato considerato loro complice”. Quanto alle elezioni del 2022, valorizzate dal governo Meloni come democratiche anche se ha votato il 9% degli elettori, i giudici fiorentini ricordano che Saied “ha sostituito gli osservatori internazionali con persone di fiducia”. E poche settimane fa “la Tunisia ha vietato l’ingresso di una delegazione del Parlamento Europeo”. Infine, “ulteriore rilevantissimo profilo”, l’Onu ha denunciato “condizioni terribili” cui vengono costretti gli stranieri che chiedono asilo in Tunisia. Si tratta di uno dei motivi di “preoccupazione” che hanno indotto l’Ue a frenare il memorandum voluto dalla premier Meloni. Dunque il tribunale disapplica il decreto del governo, e riconosce al migrante “il diritto a permanere sul territorio nazionale”. Il decreto ha efficacia solo sul caso concreto, ma le argomentazioni sono generali e destinate a sollevare nuove polemiche. Il governo potrà fare ricorso. Migranti. “Le Ong devono agire secondo lo Stato di diritto” di Francesca Basso Corriere della Sera, 4 ottobre 2023 Il presidente del Consiglio europeo Charles Michel: “La migrazione sarà il tema più difficile a Granada”. “Lo Stato di diritto vale per tutti, anche per le Ong. Alcune fanno un ottimo lavoro, ad altre bisogna chiedere se agiscono in linea con lo Stato di diritto”. Il presidente del Consiglio europeo Charles Michel parla a un gruppo di media, tra cui il Corriere, a pochi giorni dal vertice informale che si terrà venerdì a Granada e che sarà preceduto dalla Comunità politica europea. Un summit che si preannuncia complicato. Cosa ci si deve aspettare sulla migrazione? “Sarà probabilmente la parte più difficile del summit, per alcune personalità politiche e gruppi politici è un dibattito ideologico, ma abbiamo gli strumenti per affrontare insieme questa sfida”. Ci saranno progressi sul Patto per la migrazione? “Ci sono due dimensioni. Quella interna, su cui è in corso il lavoro per arrivare a un accordo tra i Ventisette sul Patto per la migrazione e l’asilo. Aspettiamo di vedere quali decisioni prenderanno gli Stati. C’è poi la dimensione esterna, su cui si sta concentrando il Consiglio europeo”. Su cosa? “Vediamo alcuni elementi pragmatici convergenti. In un formato ridotto qualche giorno fa a Malta abbiamo avuto un’ottima discussione (la riunione con i 9 Paesi Ue che si affacciano sul Mediterraneo, ndr). In primo luogo, lottiamo contro i trafficanti e per questo abbiamo bisogno di una maggiore cooperazione a tutti i livelli Ue, tra i Paesi Ue e con i Paesi terzi. Serve un approccio olistico. In un anno abbiamo assistito a un enorme aumento dei migranti irregolari provenienti dall’Africa occidentale, Burkina Faso, Senegal, Costa d’Avorio, transitano talvolta attraverso la Nigeria, la Libia e la Tunisia prima di arrivare in Ue. Ma la Tunisia ha accordi per la liberalizzazione dei visti con questi Stati. Questa è una questione governativa che va affrontata in cooperazione con i Paesi terzi. C’è poi la questione delle Ong nel Mediterraneo: c’è un dibattito ideologico, facciamo in modo che diventi più pragmatico. Lo Stato di diritto vale per tutti, anche per le Ong. Alcune fanno un ottimo lavoro, ad altre bisogna chiedere se agiscono in linea con lo Stato di diritto. Non permettiamo ai trafficanti di decidere chi è autorizzato a venire nell’Ue. Solo le autorità hanno la legittimità democratica di decidere in linea con le convenzioni e il diritto internazionali. Infine dobbiamo cooperare con i Paesi terzi per aprire canali legali di ingresso”. La Tunisia ha rifiutato gli aiuti Ue. Il Memorandum è stato un’errore? “È troppo presto per giudicare. Abbiamo urgente bisogno di negoziare la migrazione con i Paesi terzi. Gli Stati membri hanno sostenuto l’accordo con la Tunisia in linea di principio. Ma volevano sapere cosa dovevano fare, cosa che capisco perfettamente. Il Consiglio dovrebbe essere coinvolto in modo che gli Stati membri possano garantire il giusto equilibrio tra i nostri valori e i nostri interessi. E ci sono domande non solo dai Paesi dell’Ue. Le Nazioni Unite hanno scritto due lettere alla Commissione europea e al Servizio europeo per l’azione esterna. Volker Türk, Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, critica il fatto che l’accordo non contenga praticamente alcuna disposizione per la protezione dei diritti dei migranti e dei rifugiati. Il presidente della Commissione dell’Unione africana ci ha anche detto molto chiaramente che non apprezzano il modo in cui lavoriamo con la Tunisia. Dobbiamo tenerne conto, anche se l’accordo con la Tunisia era certamente animato da buone intenzioni”. A Granada parlerete di allargamento. Crede ancora nella data del 2030? “Granada è un punto di partenza. C’è una maggiore comprensione della necessità di riformare l’Ue e accelerare gli sforzi per garantire che l’allargamento non solo assicuri un’Europa più grande, ma anche più forte, efficiente e influente. Ho posto tre domande: Cosa vogliamo fare insieme? Priorità e politiche. Come decidiamo insieme? E come finanziamo il processo? Le tre questioni sono collegate. Non bisogna avere troppa paura, perché la ricostruzione dell’Ucraina sarà sostenuta non solo dall’Ue ma anche da altri partner. L’ingresso è un processo basato sul merito. La data è un incoraggiamento ad accelerare gli sforzi”. Le dichiarazioni di Robert Fico sullo stop agli aiuti all’Ucraina vi preoccupano? “C’era lo stesso sospetto nei confronti dell’Italia prima delle elezioni, ma vediamo che c’è una dinamica di cooperazione nel Consiglio europeo effettiva e funzionante. Lavoreremo con il governo slovacco e terremo conto delle sue preoccupazioni e aspettative come facciamo con gli altri governi. Le decisioni prese in un anno e mezzo hanno mostrato l’unità europea”. Cosa si aspetta l’Ue da Erdogan? È stato invitato alla Comunità politica europea... “Vogliamo una relazione più stabile e prevedibile con la Turchia. Riconosciamo il ruolo che gioca nella regione, in Siria, Libia, nel Mar Nero. A luglio ha aiutato a sbloccare l’allargamento della Nato insieme ad altri. Dobbiamo concentrarci su poche priorità: la cooperazione economica, l’unione delle dogane. In parallelo dobbiamo rilanciare il processo per la riunificazione di Cipro”. Una giustizia penale guidata da un orizzonte di speranza L’Osservatore Romano 4 ottobre 2023 L’arcivescovo Caccia all’Onu: rispetto della dignità umana per i detenuti. La pena di morte è “inammissibile”, in quanto attacco all’inviolabilità e alla dignità della persona. Papa Francesco lo ha evidenziato più volte nei suoi interventi, l’arcivescovo Gabriele Caccia, osservatore permanente della Santa Sede presso l’Organizzazione delle Nazioni Unite, lo ha ribadito a New York nel corso della settantottesima sessione dell’Assemblea generale dell’Onu, in riferimento all’agenda dedicata alla prevenzione del crimine e alla giustizia penale. Ricordando come le autorità pubbliche abbiano “il diritto e il dovere” di infliggere pene in base alla gravità deí crimini, monsignor Caccia ha evidenziato come, nel farlo, debbano “limitarsi ad applicare solo quelle misure” che proteggano il bene comune e rispettino la dignità umana. In tale ottica, ha aggiunto, la Santa Sede accoglie “con favore” lo sviluppo di sistemi di detenzione che assicurino “la dovuta protezione dei cittadini”, ma che non privino “i colpevoli della possibilità di redenzione” e reinserimento sociale. Esprime al contempo preoccupazione per le condizioni subite dai detenuti all’interno di molti sistemi di giustizia penale, che riflettono la nostra realtà “di indifferenza” e costituiscono un “chiaro esempio di cultura dell’usa e getta”, in cui i detenuti vengono “scartati ed espulsi dalla società”. L’obiettivo rimane quello di offrire un “orizzonte di speranza” per tutti. In un’altra dichiarazione, in merito all’agenda dedicata al contrasto dell’uso a fini criminali delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, l’osservatore permanente ha reiterato in particolare la condanna “con la massima fermezza” della produzione, della distribuzione e dell’uso della pornografia infantile, aggravata - attraverso i software - da “immagini simulate di abusi sessuali su minori, che alimentano ulteriormente la domanda di tali materiali”. Media freedom act, per l’indipendenza dell’informazione di Massimiliano Smeriglio Il Manifesto 4 ottobre 2023 Unione europea. Il regolamento per gli Stati membri è stato approvato in Parlamento, ieri a Strasburgo, con 448 voti favorevoli e 102 contrari. Ieri a Strasburgo il Parlamento europeo con 448 voti favorevoli e 102 contrari (la destra di Ecr e Id, mentre i parlamentari di FdI e Lega si sono astenuti) ha approvato il Media freedom act, un regolamento fondamentale per garantire la libertà, l’indipendenza e il pluralismo dei media. Ora partirà il negoziato con la Commissione europea e gli Stati nazionali. L’atto per la libertà dei media è un’opportunità per migliorare il sistema dell’informazione europeo tutelando al massimo livello giornalisti e redazioni. La Commissione europea ha deciso di agire, il Parlamento ha risposto assumendo una posizione ambiziosa a tutela dell’indipendenza delle testate. In particolare il voto sulla protezione delle fonti giornalistiche è un atto di civiltà. In troppi Stati membri assistiamo a tentativi di silenziare il lavoro dei giornalisti, soprattutto del giornalismo di inchiesta. Non vi sono democrazie sane laddove i giornalisti non possono svolgere il loro lavoro come dovrebbero e sono vittime di forme di pressione e censura. Con le disposizioni votate abbiamo inserito salvaguardie importanti: colpiti tutti i tentativi e le tecnologie utilizzate per spiare redazioni e singoli; messi in discussione i motivi di sicurezza nazionale, spesso invocati strumentalmente per poter limitare la protezione dei giornalisti e delle loro fonti. Molte le garanzie a tutela dell’indipendenza dei media di servizio pubblico. Questi devono essere pienamente indipendenti e autonomi, in un sistema che garantisca piena protezione da influenze politiche e governative. Devono poter godere di una duplice indipendenza: istituzionale, che si traduce in piena trasparenza dei rispettivi board, e finanziaria, che si realizza imponendo agli Stati membri di assicurare un finanziamento adeguato. Evitando di trasformare la pubblicità di Stato in uno strumento formidabile di pressione e orientamento politico. Così come appare evidente che dobbiamo continuare a combattere le fake e la disinformazione sistemica interessata e le ingerenze straniere, ma senza intaccare la libertà degli operatori della stampa. L’articolo 11 della Carta dei diritti fondamentali dell’Ue riconosce a tutti il diritto di ricevere un’offerta pluralistica di informazioni. Il Parlamento chiede agli Stati membri di mettere finalmente in pratica questo diritto. Che significa, soprattutto, garantire che le grandi piattaforme non possano agire in maniera indiscriminata quando si apre un contenzioso con media affidabili e indipendenti. Il voto del Parlamento garantisce regole equilibrate per le piattaforme che in ogni caso non possono muoversi in maniera autonoma quando decidono di oscurare un sito, una redazione, un blog. Ora partirà un negoziato non facile con due grandi attori sullo sfondo pronti a delegittimare la posizione assunta dal Parlamento a grande maggioranza. Gli Stati nazionali, con Ungheria, Polonia e Francia che non vogliono rinunciare alle loro prerogative investigative, di intromissione e dunque di spionaggio quando emerge il tema della sicurezza nazionale. E le grandi piattaforme, con sede negli Usa e Cina, che fanno fatica a cedere sovranità decisionale in favore delle istituzioni comunitarie che, a loro volta, dovrebbero operare per garantire lo spazio di agibilità a redazioni locali e nazionali indipendenti. Sarà uno scontro duro. Intanto la presa di posizione del Parlamento è un passo in avanti importante. Un mandato negoziale ambizioso è un punto di partenza fondamentale. Compresi gli articoli dedicati alle nuove norme sulla concentrazione dei media e la creazione del nuovo Consiglio europeo per i servizi dei media, organismo autonomo e distinto dalla Commissione europea così da garantire la piena indipendenza politica della regolazione Ue. Questo voto non riguarda gli addetti ai lavori, ma la qualità sostanziale della nostra democrazia. Tunisia. Due opzioni: vivere tra gli abusi o imbarcarsi per l’Europa di Matteo Garavoglia Il Manifesto 4 ottobre 2023 Reportage dalla città tunisina di Sfax dove i migranti sopravvivono nel degrado e la povertà. E il presidente Saied rifiuta i soldi Ue per motivi di “sovranità”. Da qualche settimana in Tunisia sono due i discorsi che vanno per la maggiore. Uno si focalizza sull’interesse nazionale del paese, sulle sue esigenze e sulla necessità di mantenere un controllo stretto dell’immigrazione irregolare che ha spinto il piccolo Stato nordafricano a essere il punto principale delle partenze verso Lampedusa. È una logica che riguarda il palazzo di Cartagine e soprattutto il suo responsabile, il presidente della Repubblica Kais Saied, impegnato in questi giorni a rifiutare un sostanzioso aiuto economico - promesso nel settembre scorso direttamente dalla Commissione europea - in nome della “sovranità nazionale”. Il secondo discorso riguarda le comunità che più di tutte stanno subendo gli effetti di quel controllo, quella subsahariana e quella sudanese. È una retorica dura che va avanti da mesi, almeno dallo scorso febbraio quando Kais Saied le ha accusate di stare compiendo una sostituzione etnica nel paese, con risvolti molto pratici come aggressioni subite a livello quotidiano dalle forze di sicurezza, condizioni di vita estremamente precarie e deportazioni lungo i confini con Libia e Algeria. “Tre settimane fa la polizia mi ha arrestato per strada, hanno caricato 140 persone su un bus che aveva appena 60 posti e ci hanno lasciato lungo il confine con l’Algeria. Per tornare a Sfax ci ho messo due settimane, eravamo senza acque e cibo. Ho ancora le ferite ai piedi per quanto ho camminato. Non ho trovato nessuno che mi riportasse qui”, racconta Ibrahim, 26enne originario della Costa d’Avorio. Tebessa, città algerina al confine con la Tunisia, e Sfax distano più di 270 chilometri. Lungo la strada si incrociano montagne, il deserto e città come Kasserine e Sidi Bouzid, salite agli onori della cronaca nel 2011 per avere dato vita alla Rivoluzione della dignità e libertà. È tuttavia proprio a Sfax che si concentra tutto il dolore di questi mesi. Ibrahim racconta la sua storia da un piccolo appartamento di 50 metri quadrati. Qui, in un edificio fatiscente a qualche chilometro dal centro della città, centinaia di persone hanno trovato un rifugio temporaneo e un tetto pericolante sotto cui contare i giorni prima di provare a lasciare la Tunisia per sempre. Ibrahim “vive” insieme ad altre 60 persone in uno spazio ristrettissimo. C’è chi è impegnato a svuotare una doccia piena di acqua nera dopo che una tubatura si è rotta; chi si ritrova a condividere tre divani insieme ad altre 30 persone; chi, come una quindicina di ragazze insieme ai loro bambini di pochi mesi o anni, ad aspettare in una stanza separata dagli uomini che diventi buio per cercare di dormire qualche ora. “Molti sono arrivati qui dopo che a settembre hanno sgomberato la piazza in centro a Sfax. Tanti altri hanno vissuto le deportazioni di luglio nel deserto - racconta Jordan, arrivato in Tunisia da due anni dopo avere attraversato tutto il Nord Africa dalla Guinea - La situazione sta diventando ingestibile. Subiamo violenze quotidiane sia da parte dei tunisini che della polizia. Paghiamo 400 euro al mese per vivere schiacciati in mezzo alla sporcizia e da quando a Lampedusa sono arrivate 7mila persone non ci lasciano più partire. Prima le cose andavano meglio, riuscivamo anche a lavorare. Adesso l’Europa è diventata la nostra unica soluzione”. Mentre in Italia ritornano le istantanee del naufragio del 3 ottobre 2013 quando in mare persero la vita 368 persone, la vita a Sfax è arrivata a un punto di non ritorno. Oggi per chiunque sia originario dell’Africa subsahariana o del Sudan le soluzioni sono due. O cercare un riparo in abitazioni di fortuna e rinunciare a qualsiasi prospettiva. O camminare verso la campagna fuori dal centro abitato, aspettare qualche giorno all’aria aperta e partire verso l’Italia. “Nei prossimi giorni il meteo è buono. Ci proverò ancora ma non ho tanta fiducia”, conclude rassegnato Jordan. Nel frattempo il presidente della Repubblica Kais Saied, dopo aver assicurato una stretta alle partenze riprendendo anche le deportazioni di massa verso l’Algeria e la Libia cominciate nel luglio scorso, ha deciso di rinunciare al supporto economico di 127 milioni di euro proposto dalla Commissione europea in attesa della piena implementazione del Memorandum d’intesa firmato nel luglio scorso. “Il denaro del mondo intero non vale un solo briciolo della sovranità del nostro popolo. La Tunisia rifiuta quanto annunciato nei giorni scorsi dall’Unione europea, non per la sua esiguità, ma perché questa proposta contraddice l’accordo che abbiamo firmato”, ha affermato Saied, evidentemente contrariato dalle soluzioni proposte dalla sponda nord del Mediterraneo. Osservando da più vicino il contesto tunisino, si può intuire come i due discorsi presenti nel paese siano in realtà uno solo. Dipende solamente dalla prospettiva con cui lo si guarda. Turchia. Processo Gezi Park, il più politico della storia turca: severe le condanne di Ezio Menzione* Il Dubbio 4 ottobre 2023 Così la Corte di Cassazione turca ha chiuso il processo cosiddetto di Gezi Park che vedeva alla sbarra il noto imprenditore e filantropo Osman Kavala e altri sette personaggi dell’intellighentia liberal di Istanbul: ergastolo per Kavala per avere tentato di sovvertire il governo; 18 anni ad altri quattro coimputati, fra cui un avvocato recentemente eletto al Parlamento, ma che non è stato liberato per poter esercitare i suoi diritti di parlamentare, per avere aiutato Kavala nel suo tentativo eversivo; mentre altri tre coimputati sono stati scagionati dall’accusa di sovversione, derubricandola a quella di violazione delle leggi sulle adunate e gli assembramenti; due di questi tre ultimi sono stati posti in libertà, con restrizioni, in attesa di un nuovo processo. Mucella Yapici, architetta, già segretaria dell’Ordine degli Architetti e degli Ingegneri, nell’uscire dal carcere, ha commentato: “È stato un vero e proprio processo politico. Non capisco il senso della giustizia in Turchia né perché io sia stata rimessa in libertà e gli altri no”. È stato certamente il più politico dei mille processi politici che si sono celebrati in Turchia in questi anni. Non solo esso tendeva a riscrivere la storia: la sollevazione popolare e giovanile di Gezi Park, nel maggio 2013, iniziata a Istanbul ma in poche settimane estesa alle principali città del paese. La si è voluta leggere come un tentativo di golpe, laddove era semplicemente, ma significativamente una richiesta di diritti e una espressione di libertà. Processo politico anche riguardo al profilo degli imputati: abbiamo già detto dell’imprenditore Kavala e della nota architetta Yapici. Gli altri sei sono esponenti di primo piano del mondo della accademia universitaria, del cinema e della comunicazione e uno è un avvocato, legale dell’Ordine degli Architetti ma anche delle vittime dell’esplosione di Soma in cui perirono 400 minatori e di altri disastri, nonché difensore dei giornalisti della prestigiosa testata Cumurryet, all’epoca in prima fila nell’opposizione al governo di Erdogan. Tutti intellettuali impegnati e non allineati con il governo, cui Erdogan aveva promesso di farla pagare cara, così come a ogni oppositore targato sol per questo come nemico e come tale da abbattere. E la hanno pagata e stanno pagando effettivamente cara: alcuni di loro con quasi sei anni di custodia cautelare e per sei di loro si vede una pena lunghissima. Una custodia cautelare che era stata punteggiata da assoluzioni in processi paralleli e simili, addirittura basati sulle stesse “prove” di quello oggi concluso. Processi che avevano visto anche il cambio in itinere di tribunali considerati troppo deboli con gli imputati. Con la posizione di Kavala che era stata investita nel 2019 anche da una pronuncia della Corte EDU, secondo la quale egli doveva essere scarcerato per mancanza dei presupposti indiziari di colpevolezza. Pronuncia disattesa dalla giustizia turca, che ha la più grande percentuale di non ottemperanza alle decisioni europee, attraverso l’escamotage delle rinnovate imputazioni a catena, oppure semplicemente facendo finta di nulla. Cosa resta oggi a Kavala e agli altri suoi quattro coimputati condannati? La Corte Costituzionale e poi la Corte EDU, oppure direttamente la Corte EDU, sostenendo che già si può prevedere la pronuncia della Corte Costituzionale. Ed infatti, purtroppo, la decisione della Corte Costituzionale è fin troppo prevedibile: negli ultimi anni, con l’immissione di giudici nominati da Erdogan, non ha mai smontato nemmeno uno dei grandi processi politici: passarono i tempi in cui sia la Cassazione che la Corte Costituzionale cercavano di salvare qualcosa dello stato di diritto. Più speranza si può riporre nella Corte EDU, ma i tempi sono lunghi ed anche si giungesse ad un “annullamento” della decisione odierna, si sa che poi Erdogan e il suo governo non adempiranno al dettato europeo. *Osservatore Internazionale Ucpi