Oltre il carcere: percorsi e storie di nuova cittadinanza di Giacomo Galeazzi interris.it, 3 ottobre 2023 Sos carcere: emergenza sovraffollamento. Cresce il numero dei detenuti nei già sovraffollati penitenziari italiani. E non si ferma l’ondata dei suicidi dietro le sbarre. Al 31 agosto le persone ristrette nei 189 istituti di pena erano 58.428. Quasi mille in più del mese precedente. Cioè 7 mila oltre la capienza regolamentare. Si attende l’approvazione da parte del governo dell’annunciato pacchetto carceri. Con l’aumento delle telefonate ai familiari e nuove norme a tutela del personale. Intanto, per esempio, al carcere Vocabolo Sabbione di Terni sono stati cinque i decessi-suicidi dall’inizio dell’anno e diverse le risse. Alla condizione dietro le sbarre è stato dedicato in provincia di Salerno il progetto “Gocce Di Innocenza”. Al Sele D’oro percorsi per andare oltre il carcere con l’associazione Crisi Come Opportunità. A Oliveto Citra si è svolto un doppio appuntamento con Lucariello, Raiz e Ciccio Merolla. Prima il dibattito nell’auditorium e poi il concerto in piazza Europa. Il panel è stato il risultato di un intento comune del Premio Sele d’Oro Mezzogiorno (giunto quest’anno alla 39° edizione) e Luca Caiazzo, in arte Lucariello. Rapper da anni impegnato come formatore nelle carceri minorili. Carcere fuori - L’intento è stato quello di aprire un dibattito in particolare sui temi legati alla detenzione minorile. Una questione negli ultimi tempi all’attenzione del grande pubblico. Grazie alla fiction Rai “Mare fuori” e per causa dei recenti fatti di cronaca. Attraversando l’esperienza virtuosa del progetto nazionale “Presidio Culturale Permanente negli Istituti Penali per Minorenni”, curato dall’Associazione CCO-Crisi come opportunità. Il progetto nasce all’interno dell’IPM di Airola, in provincia di Benevento, nel 2013. Negli anni ha coinvolto artisti di calibro internazionale. In particolare Ciccio Merolla e Raiz hanno saputo mettere a servizio la loro professionalità per raccontare e far emergere la voce di chi non ha voce. Un “Mare fuori” quotidiano, reale. Fatto di laboratori settimanali e costanti, di relazioni di fiducia, di professionisti e formazione. “Un dialogo costante con la società civile, artisti e istituzioni penali - spiegano i promotori dell’iniziativa-. Il ruolo della direzione degli IPM e del Tribunale per i minorenni è risultato fondamentale. Al meeting nel comune campano è intervenuta Margherita Di Giglio, magistrato di sorveglianza presso il Tribunale per i minorenni di Napoli. Oltreché Marianna Adanti. Direttrice dell’Istituto penale per minorenni di Airola e della Casa di reclusione di Sant’Angelo dei Lombardi. Esplorazione quotidiana - Durante la rassegna è stato esplorato il viaggio (vissuto) di artisti e istituzioni che quotidianamente lavorano con ragazzi problematici. Giovani spesso minorenni e con storie difficili. Attraverso la cultura, la musica, il teatro, le parole e le immagini. Un ponte tra realtà e fiction. Ma soprattutto una finestra aperta sul ruolo della cultura nel recupero e prevenzione della devianza. “Ricordo la prima volta che con CCO sono entrato nel carcere minorile di Airola. Ho sempre pensato che fosse per me un’occasione e non un mero atto caritatevole - racconta Luca Caiazzo -. Lavorare con questi ragazzi, ascoltarli, vivere con loro le fragilità e le emozioni più profonde. Tutto questo mi ha ispirato e insegnato tanto. Sia a livello artistico che umano. Sono orgoglioso che questo importante riconoscimento arrivi proprio a quelle istituzioni del Mezzogiorno che hanno saputo mettere al centro la persona. Permettendo alla cultura di dare voce a realtà troppo spesso dimenticate”. Opportunità oltre il carcere - Il sindaco di Oliveto Citra, Mino Pignata spiega la decisione di aprire i dibattiti del Premio Sele d’Oro al tema della detenzione minorile. E soprattutto ai percorsi che “aiutano questi ragazzi ad andare oltre il carcere. In senso tanto letterale quanto metaforico”. Ciò è apparsa subito, “grazie all’amicizia con Luca Caiazzo” un’opportunità da cogliere. Prosegue Pignata: “Il Premio Sele d’Oro da quasi quarant’anni riflette e si interroga su una pluralità di temi. Argomenti che riguardano la politica, l’economia, il sociale, la cultura nel senso più ampio. Ma troppo spesso, sbagliando, l’approfondimento di questi temi dimentica il carcere e il mondo che ruota intorno a esso”. La fiction “Mare Fuori” ruota intorno alle storie di una serie di ragazzi finiti in un carcere minorile. Dalle cui sbarre vedono quel mare ormai lontano per tutti loro. I protagonisti principali sono Filippo, Carmine, Edoardo e Ciro. Filippo è un ragazzo milanese di buona famiglia che ha ucciso accidentalmente il suo migliore amico durante una notte brava. Carmine è di Secondigliano. E vive con il peso di essere destinato a una vita criminale. Da cui vorrebbe allontanarsi per condurre un’esistenza normale come parrucchiere. Edoardo è già un piccolo boss in attesa del suo primo figlio. Infine, Ciro sogna di diventare il padrone di Napoli. Consapevolezza e azione - Attraverso chi quella realtà, a vario titolo e con ruoli diversi, la vive, è stato aperto un dibattito. Con l’obiettivo di rendere ciascuno più consapevole e, dunque, più attivo e utile. Perché “le riflessioni devono sfociare nell’azione. Altrimenti rischiano di rimanere fini a se stesse”, precisa il sindaco. Sempre nell’ambito del progetto “Gocce di innocenza”, si è svolto il concerto di Lucariello, Ciccio Merolla. E Raiz, già voce degli Almamegretta, protagonista della fiction Rai Mare Fuori. A condurre è stata la giornalista Rossella Pisaturo. Nel corso del concerto c’è stata la “digital performance” dei fumettisti Pino Cuozzo e Fabiana Fiengo. La giustizia dei sovranisti di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 3 ottobre 2023 “Scontro politica-giustizia” è la notizia meno notizia dell’ultimo trentennio. Persino restringendo l’orizzonte all’anno di vita del governo Meloni, le tensioni tra il potere esecutivo e quello giudiziario non sono certo una novità. E va detto che quando le opinioni tra le due parti divergono - dalle intercettazioni alla separazione delle carriere, dalla prescrizione al Csm - non necessariamente i torti sono sempre e solo dalla stessa parte. Diverso e assai più grave è il caso che si è aperto ieri con l’affondo della presidente del Consiglio contro la giudice di Catania e la sua libera decisione sui migranti. Diverso, ma neppure questo del tutto inedito. C’è infatti un precedente con protagonista Nordio. Il ministro della giustizia, in difficoltà allora per l’evasione di un cittadino russo così come Meloni è oggi in difficoltà per gli sbarchi che aveva promesso di bloccare, se la prese anche lui con un’ordinanza giudiziaria, in quel caso firmata da un collegio di giudici. Inviò gli ispettori a Milano, volendosi sostituire ai normali rimedi giudiziari. Passati cinque mesi e più, quell’ispezione non ha prodotto nulla e si avvia verso l’archiviazione. Allora come oggi, la magistratura e l’opposizione, ma anche ogni altro osservatore non completamente a digiuno dei fondamentali della democrazia, fanno notare al governo che in regime di separazione dei poteri non è il governo che contesta gli atti giudiziari e mette all’indice chi li firma. Contro una sentenza o un’ordinanza non condivisa, o non gradita, si presenta appello in tribunale più che su Facebook. Ma questo Giorgia Meloni lo sa benissimo. Ragione per cui il suo attacco di ieri mattina è più grave e pericoloso. La giudice Apostolico nel far decadere il trattenimento dei migranti disposto dal Questore, non ha fatto altro che applicare un consolidato orientamento giurisprudenziale. Orientamento non della corte di Catania, ma della Cassazione e della Corte Costituzionale che risiede in un principio fondamentale: le leggi ordinarie non possono andare in contrasto con la Costituzione e le norme europee. Non è lesa maestà ai sovranisti o esterofilia, come ci raccontano gli attuali governanti, ma la conseguenza dell’essere il nostro paese inserito in una comunità di stati di diritto. Almeno per il momento. L’attacco infatti è indirizzato a Catania ma mira assai più in alto, mira all’Europa. È una direttiva europea (la stessa alla quale si è falsamente richiamato Piantedosi) a stabilire che chi chiede asilo può essere trattenuto solo in casi eccezionali e ben motivati, e non in maniera automatica. La giudice Apostolico non si è “scagliata contro i provvedimenti di un governo democraticamente eletto”, ammesso che si elegga un governo, come scrive la presidente del Consiglio. Ma ha applicato le leggi, che per fortuna non sono solo quelle che il governo italiano decreta forsennatamente ogni settimana. Ce ne sono di più importanti e sovraordinate. Certo, non sarebbe così se fosse passata la riforma costituzionale che ha proposto proprio Meloni nella scorsa legislatura, quando all’articolo 11 che inserisce l’Italia nelle organizzazioni internazionali voleva aggiungere un comma in cui stabiliva che trattati e direttive dell’Unione si applicano qui da noi solo se compatibili con “il principio di sovranità”. Il sovranismo come alternativa alla civiltà giuridica europea è allora la chiave per interpretare gli ultimi, scomposti attacchi della destra alla magistratura. È vero che Meloni è cresciuta alla scuola di Berlusconi, ma questa lezione l’ha imparata da Orban e Morawiecki più che dal Cavaliere. Non è il solito scontro tra politica e giustizia. Il dilemma tra approccio securitario e garantismo di Marcello Sorgi La Stampa, 3 ottobre 2023 Al di là di un ulteriore giornata di inseguimenti tra Meloni e Salvini sul filo della propaganda e delle accuse alla magistrata siciliana che ha rimesso in discussione le norme dell’ultimo decreto anti-immigrazione clandestina, il governo - lo ha annunciato il ministro dell’Interno Piantedosi - proporrà appello contro la sentenza che ha rimesso in libertà gli immigrati che secondo le nuove norme avrebbero dovuto essere trattenuti nel Centro di trattenimento di Pozzallo. Una decisione che apre uno scontro tra poteri dello Stato. E segue una rincorsa tra premier e vicepremier, in cui il leader della Lega, ancora sotto processo a Palermo per reati connessi alle sue decisioni in materia di immigrazione quand’era al Viminale, è arrivato ad accusare i tribunali di essere “sedi della sinistra” e, tra le critiche di Anm e opposizioni, ha invocato un’accelerazione della riforma della giustizia, presentata in modo punitivo per la magistratura. C’è, a questo proposito, una contraddizione tra il dire e il fare del governo che dovrà essere sciolta. Perché un conto è l’approccio securitario dell’esecutivo, fin dall’esordio con il “decreto rave”, fatto di continua introduzione di nuovi reati nel catalogo già ricco del codice penale, e di promesse di pene sempre più severe, che alla prova dei fatti risultano però difficili da individuare e da provare, oltre che da punire. E un altro conto è l’impianto garantista della manovra, costruita non solo sulla distinzione delle carriere tra magistrati giudicanti e d’accusa, ma anche sulla limitazione di strumenti di indagine, come ad esempio le intercettazioni, da usare non a pioggia ma solo per determinate fattispecie. Le due tendenze appaiono opposte anche ai non esperti di cose giuridiche. E soprattutto la seconda è chiaramente in contrasto con la tradizione manettara della vecchia e nuova destra di Fratelli d’Italia e della Lega. Non è un caso che finora, a parte le sue frequenti presenze alla Camera per discutere, spiegare, approfondire le sue proposte, Nordio non sia riuscito a portare avanti i provvedimenti. Tal che sono in molti in Parlamento a chiedersi se in fatto di giustizia il governo ci fa o ci è, se insomma ne parla sapendo che di tanto in tanto deve farlo, ma consapevole che alla fine tutto o quasi tutto resterà sulla carta. Sorpresa al Quirinale: non si torni alla guerra tra politica e magistratura di Ugo Magri La Stampa, 3 ottobre 2023 Il capo dello Stato non si pronuncia, ma chi lo conosce non ha dubbi. Una premier che rampogna i giudici di Catania, che li addita alla pubblica gogna, che scaglia contro di loro l’accusa di favorire l’immigrazione clandestina per aver cancellato un provvedimento del questore, questa drammatizzazione violenta è l’esatto opposto di quanto il Quirinale poteva augurarsi nell’attuale momento, con tutti i guai che attraversa l’Italia. Ci mancava solo l’aggressione del governo alla magistratura, presidente del Consiglio in testa. Mattarella, come è noto, non vuole risse. Ritiene che uno spirito di leale collaborazione debba ispirare i rapporti tra poteri della Repubblica; ancora ieri mattina l’ha ribadito nel suo discorso fuori programma, senza testi scritti davanti, al Festival delle Regioni che s’è svolto a Torino. Il capo dello Stato - per dovere di cronaca - parlava di autonomie, non di magistratura, tantomeno di immigrazione; aveva in mente la complicata dialettica tra visioni centraliste e spinte federaliste, tra sovranità nazionale e dimensione europea con cui deve fare i conti la stessa maggioranza di centrodestra. Ma senza dubbio si sarebbe espresso allo stesso modo, avrebbe rivolto il medesimo appello all’unità della Repubblica se fosse intervenuto a un consesso di toghe o davanti al plenum del Csm, quando lo presiede. Serve rispetto reciproco, avrebbe detto Mattarella, le invasioni di campo non portano da nessuna parte. I magistrati dovrebbero limitarsi ad applicare le leggi, rifuggendo dalla giustizia “creativa”; a sua volta la politica farebbe bene a trattenere le pulsioni nei confronti delle sentenze, specie quando ancora pendono procedimenti di appello (come nel caso di Catania) che potrebbero correggere il primo verdetto del tribunale: non si contano più, ormai, le occasioni in cui il Garante della Costituzione ha ribadito questi ovvii principi su cui poggia la democrazia liberale, fondata sulla separazione dei ruoli, sui pesi e contrappesi anziché sulle campagne mediatiche fondate sull’ossessione di trovarsi a tutti i costi un nemico per giustificare le promesse impossibili. Rammentare i mille richiami presidenziali, dopo il post su Facebook di Giorgia Meloni, è tutto tranne che superfluo. Il Colle ha scelto un profilo basso, prudente, evitando di intervenire con moniti o bacchettate che avrebbero esasperato gli animi e aggiunto benzina sul fuoco, effetto opposto a quello desiderato. Mattarella non ha pronunciato ieri mattina una sola parola al riguardo. Ma chi frequenta i palazzi, e ne percepisce gli umori, ha pochi dubbi: randellare i giudici che si mettono di traverso è considerato, ai piani alti della Repubblica, un atteggiarsi fuori luogo, inopportuno, contrario all’Abc del galateo istituzionale; le polemiche contro singole sentenze suonano come minaccia all’equilibrio dei poteri; con le maniere forti si rischia di riportare indietro le lancette della storia facendo della giustizia, nuovamente, quel campo di battaglia che è stato per oltre un ventennio, lasciandoci in eredità cumuli di macerie. È questo che si desidera ottenere? Nessuno può escludere che Mattarella, al momento opportuno, faccia pesare il suo punto di vista, magari sotto forma di “moral suasion”, di esortazione a mantenere i nervi saldi nonostante le elezioni europee siano ormai alle porte (e, con la campagna elettorale, l’eterna tentazione di trascinare il Quirinale nella mischia). Da poco si sono spenti gli echi delle battaglie estive intorno alla Riforma Nordio, che cancella l’abuso d’ufficio, stringe le maglie delle intercettazioni, frena l’applicazione delle misure cautelari, vieta il ricorso in appello contro i proscioglimenti da certi reati: misure controverse a dir poco. Sul provvedimento erano emerse svariate criticità, con i magistrati in guerra e il ministro Guardasigilli nella bufera; il presidente della Repubblica aveva messo la firma in calce al ddl contando sul dibattito parlamentare e sulla disponibilità della premier che, dopo un colloquio a quattr’occhi, aveva promesso un supplemento di riflessione. Ogni qualvolta se ne presenta la necessità, Mattarella dà prova al Paese (e allo stesso governo) di remare dalla parte dell’Italia, giustizia compresa. Ma ogni pazienza ha un limite e non va superato. Il presidente dell’Anm Santalucia: “Sono attacchi ingiustificati, noi non vogliamo lo scontro” di Mario Di Vito Il Manifesto, 3 ottobre 2023 “Quando c’è un conflitto tra istituzioni, la magistratura è sempre la parte più debole, perché è facile additarla e dipingerla come lontana dalla volontà popolare”. “Scontro tra governo e magistratura? Tanto per cominciare uno scontro prevede che esistano due parti che vogliano farlo”. Il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia assiste all’ennesimo infiammarsi dei rapporti tra esecutivo e giurisdizione predicando calma, prudenza, tentando di abbassare i toni. L’esatto contrario di quello che stanno facendo governo e maggioranza. E così, dopo gli attacchi diretti alla giudice Iolanda Apostolico, subito l’Anm di Catania ha diramato una nota in sua difesa, definendola “persona perbene che ha lavorato nel rispetto delle leggi”. Dunque le accuse sono da respingere “con sdegno” perché “il rapporto tra potere esecutivo e giudiziario andrebbe improntato a ben altre modalità”. Santalucia, verrebbe da dire che siamo alle solite, ma in realtà questa volta è un po’ diversa dalle altre… Sì, ecco, questa volta l’attacco del governo mi sembra anche ingiustificato. Siamo in presenza di dichiarazioni che lasciano perplessi: un conto è la critica, perché ovviamente qualsiasi sentenza è criticabile e soprattutto impugnabile, e un conto sono questi toni. La giurisdizione non è una forza che si oppone al governo: questa è una falsa rappresentazione della realtà che non fa bene a nessuno. La decisione del tribunale di Catania però in effetti sembra andare contro il cosiddetto decreto Cutro... Quello che è stato deciso a Catania tiene conto di norme europee molto articolate e della Costituzione. Non c’è alcuna volontà di mettersi di traverso. Dire il contrario ovviamente nuoce alla serenità dei rapporti tra politica e magistratura. La giurisdizione non ha il compito di collaborare all’attuazione di un programma di governo, e per la democrazia è un bene che sia così. Ma non le sembra che comunque una guerra tra governo e magistratura sia ormai in corso? Rifiuto questa visione delle cose. Io non voglio pormi nemmeno per un attimo in una posizione di contrapposizione. Se qualcuno vuole farlo, io mi chiamo fuori. I magistrati non vogliono lo scontro, lo dico e lo ripeto, perché a pagarne le spese sarebbe soprattutto la società. Su Catania aggiungo che invito tutti a leggere per bene il provvedimento: il dl Cutro è molto recente e deve fare i conti con tante cose e questo non deve avvenire in un clima di guerra. Bisogna preservare la credibilità delle istituzioni. Sabato a Palermo c’era anche lei quando al congresso di Area è intervenuto Carlo Nordio. Cosa ne pensa del suo discorso? Il suo è stato un intervento che non aggiunge nulla a quello che già sapevamo. Con il ministro abbiamo un rapporto chiaro e franco: lui ha parlato soprattutto di separazione delle carriere, noi siamo contrari, lo abbiamo sempre detto e questo dibattito per ora sta andando avanti nel rispetto reciproco. Piuttosto a lui e al governo chiederei di ascoltarci quando diciamo che la giustizia non ha tanto bisogno di riforme, quanto di risorse per gestire e applicare al meglio quelle già fatte. Posso fare un esempio? Prego... Gli addetti all’ufficio del processo sono stati assunti con contratti a tempo determinato. Forse sarebbe il caso di stabilizzarli, anche perché svolgono un compito molto importante. Ecco, se con Nordio i rapporti sono chiari e franchi come dice lei, noterà però che il resto del governo appare piuttosto ostile... Non creda che non l’abbia notato, ma devo necessariamente trascurare gli spunti di conflittualità. Leggo anche io certe dichiarazioni, ovvio, e credo che servano solo a creare una confusione di cui non abbiamo alcun bisogno. Abbiamo tanti problemi concreti e reali, dovremmo tutti concentrarci su questo. Quando c’è un conflitto tra istituzioni, la magistratura è sempre la parte più debole, perché è facile additarla e dipingerla come lontana dalla volontà popolare. Bisogna però stare attenti a fare discorsi del genere, perché c’è il rischio concreto di ferire le istituzioni nel loro complesso. Giudici italiani tra i più produttivi d’Europa, ma pesano le cause pendenti La Repubblica, 3 ottobre 2023 L’Italia è tra i paesi migliori per efficienza dei tribunali, superando Francia e Germania, grazie alla capacità di ridurre gli arretrati e risolvere più cause di quante ne vengono iscritte, con un Clearance rate (procedimenti definiti/procedimenti iscritti nell’anno) del 104% ogni 100 nuove cause per primo grado di giudizio e del 115% ogni 100 nuove cause per il secondo grado. Valori superiori al 100% indicano che i tribunali hanno risolto più casi di quanti ne siano stati iscritti, riducendo quindi i pendenti, e viceversa. Sono alcuni dei dati emersi dalla seconda edizione della ricerca “L’Italia e la sua reputazione: la giustizia civile cinque anni dopo”, realizzata da italiadecide in collaborazione con Intesa Sanpaolo, all’interno di un progetto pluriennale di studi sulla reputazione internazionale del nostro Paese in settori di particolare rilevanza per la competitività del Paese presentata oggi a Roma presso il Senato della Repubblica, alla presenza del Ministro della Giustizia Carlo Nordio. Nel confronto con gli altri sistemi europei la giustizia civile assume un particolare rilievo perché oggetto di un giudizio spesso negativo che scoraggia gli investimenti, da qui la ricerca condotta da un gruppo di ricercatori di italiadecide coordinati da Fortunato Picerno e Massimiliano Sartori che ha l’obiettivo di analizzare la situazione e proporre soluzioni concrete per migliorare l’efficienza organizzativa e gestionale dei tribunali. Prendendo a riferimento i dati della Commissione europea per l’efficienza della giustizia del Consiglio d’Europa (CEPEJ) e del Ministero della Giustizia riferiti al 2020, quindi condizionati dal periodo pandemico, sono state analizzate le performance del sistema di giustizia italiano nel confronto con quattro paesi di riferimento dell’Unione Europea (Francia, Germania, Polonia e Spagna). Dall’analisi emerge che il nostro Paese da anni continua a registrare miglioramenti in tutti gli indicatori di performance, anche se i livelli non sono ancora paragonabili a quelli di altri paesi europei. Tale capacità di risolvere più contenziosi è anche merito dei giudici italiani che con 169 definizioni annue per giudice risultano tra i più produttivi rispetto ai colleghi europei, secondi solo agli spagnoli, in un contesto con livelli di litigiosità attuali allineati alla media degli altri paesi, nonostante il sistema presenti un numero di avvocati significativamente superiore nel confronto europeo. Il nostro Paese risulta però ultimo per tempi di risoluzione delle cause con un Disposition time (durata dei procedimenti) di 674 e 1026 giorni, rispettivamente nel primo e secondo grado, dovuto all’enorme arretato cumulato fino al 2009. Infatti, nonostante una riduzione tra il 2012 e il 2020 di circa 1,5 milioni di pendenze, pari a quasi il 40% del totale, l’Italia è in Europa il primo paese per numero di cause pendenti. Un ulteriore elemento critico è rappresentato dall’alta variabilità nelle performance dei singoli tribunali. La ricerca mette in evidenza come non sia la localizzazione territoriale a determinare le differenze di efficienza, quanto piuttosto la disponibilità di risorse e i modelli organizzativi. In questo contesto, un risultato interessante deriva dal fatto che una parte considerevole del miglioramento complessivo, in termini di riduzione della durata media effettiva, deriva proprio da miglioramenti registrati nei Tribunali del Centro-Sud. Tra i segnali positivi che emergono dalla ricerca anche le nuove assunzioni, dopo un periodo di contrazione del personale amministrativo, che dal 2014 all’ultimo concorso nazionale recentemente concluso arrivano a oltre 13.900 nuove risorse, fondamentali per migliorare soprattutto il funzionamento dell’amministrazione giudiziaria. A questo si aggiunge l’impulso che può venire del PNRR, la cui strategia di intervento si articola in tre linee: investimenti in risorse umane finalizzati alla realizzazione di un piano straordinario di riduzione delle pendenze e dell’arretrato, politiche strutturali volte ad aumentare in maniera stabile la produttività degli Uffici giudiziari e interventi normativi finalizzati a razionalizzare e semplificare lo svolgimento del processo. Consulta, si cambia. Presto la nomina di tre nuovi giudici e del presidente di Giovanni Maria Jacobazzi Il Dubbio, 3 ottobre 2023 Sono pronti a lasciare l’incarico l’attuale presidente Silvana Sciarra e i due vice presidenti, Daria de Pretis e Niccolò Zanon. Nelle prossime settimane dovranno essere scelti tre nuovi giudici della Consulta, uno nominato da Parlamento, due dal presidente della Repubblica. Sono pronti a lasciare l’incarico l’attuale presidente Silvana Sciarra e i due vice presidenti, Daria de Pretis e Niccolò Zanon. I tre, professori di materie giuridiche, avendo giurato il 14 novembre 2014 si apprestano infatti a terminare il mandato che dura nove anni e non può essere rinnovato. I giudici della Consulta, come prevede la Costituzione, “sono scelti tra i magistrati, anche a riposo, delle giurisdizioni superiori ordinarie e amministrative, i professori ordinari di università in materie giuridiche e gli avvocati con più di venti anni di attività professionale forense. Nel momento in cui il soggetto diventa giudice della Corte deve interrompere l’eventuale attività di membro del Parlamento o di un Consiglio regionale, di avvocato e di ogni carica e ufficio stabiliti dalla legge”, prosegue la Costituzione. Per i giudici di nomina parlamentare, la loro elezione avviene in seduta comune e a scrutinio segreto. La maggioranza richiesta è dei due terzi dei componenti dell’assemblea. Per gli scrutini successivi al terzo è sufficiente invece la maggioranza dei tre quinti. La nomina dei tre nuovi giudici in tempi rapidi è di fondamentale importanza in quanto per poter funzionare la Consulta è necessario che ci sia la presenza di almeno undici giudici. Negli ultimi tempi la Consulta ha assunto un ruolo sempre più invasivo, non lesinando critiche al Parlamento. “Un giorno non lontano - ha recentemente ricordato la presidente Sciarra si dovrà fare un bilancio molto puntuale in merito a questa apertura di credito al Legislatore che, purtroppo, su temi molto sensibili e socialmente rilevanti, non ha portato sempre a risultati soddisfacenti e rapidi per i cittadini. Quello della leale collaborazione tra le Istituzioni - ha aggiunto - è un tema molto delicato che trova la sua ragion d’essere nella reciprocità e, appunto, nella lealtà tra i diversi soggetti istituzionali. Ritengo che la Corte, nel solco tracciato dallo spirito repubblicano di collaborazione con il legislatore, possa anche, in alcune circostanze peculiari, autolimitare il proprio potere e scegliere di concedere il tempo necessario al Parlamento per confezionare una nuova legge”. Una critica che non è stata apprezzata dalla maggioranza che sostiene la premier Giorgia Meloni e che ha ora la possibilità di “cambiare registro”, nominando una figura più in linea con l’attuale linea politica. Per i nomi è presto, ma certamente la scelta si orienterà, dopo anni, su una personalità con esperienze politiche e di ordinamento giudiziario e non solamente accademiche. Lo strappo della Consulta sul caso Regeni resterà davvero un’eccezione? di Giuseppe Belcastro* Il Dubbio, 3 ottobre 2023 La sentenza con cui la Consulta ha dato l’ok a giudicare gli 007 egiziani. La sorte di Giulio Regeni e la sofferenza innaturale a cui i suoi genitori sono costretti fanno sanguinare le coscienze. Nessuno strumento diplomatico è parso in grado di ottenere dallo Stato egiziano la cooperazione necessaria a far luce sull’omicidio, e anzi, proprio a causa di tale ostruzionismo, il processo domestico si è arrestato, devolvendo alla Consulta il dubbio che tale impossibilità di procedere oltre fosse legittima. Il 27 settembre, la Corte Costituzionale ha dichiarato che non lo è, statuendo che un processo per tortura può andare avanti anche se l’imputato non lo sa, quando la causa dell’ignoranza è la mancata cooperazione del suo Stato di appartenenza. Niente autorizza a stabilire un legame tra il fallimento delle diplomazie e l’intervento della Corte, ma tutto stimola a riflettere. In disparte il coefficiente di raffinatezza di un ordinamento, è certo è che il processo penale si svolge contro l’imputato. Egli subisce la vicenda processuale, entrando in un’aula con le spalle curve sotto il peso immane della richiesta d’esser privato della libertà e dell’onore, per sostenere la quale un pubblico funzionario, con una schiera di uomini al suo servizio, ha orchestrato un marchingegno segreto e intrusivo, chiamato investigazione, e dato fuoco alle polveri del processo, auspicando a gran voce la condanna. Non è un’anomalia né una prevaricazione insopportabile, essendo nell’ordine delle cose che la collettività, quando la sorveglianza sul rispetto delle regole sia risultata inefficace, batta vie per ripristinare l’ordine violato e che, dunque, al possibile autore di quella violazione qualcuno chieda conto. Ma la collettività opera in maniera opposta rispetto all’autore della violazione, garantendosi la legittimità attraverso un apparato di regole che la tengono al di qua della barricata, senza promiscuità con il delitto, le sue modalità operative, le sue ragioni. Queste regole, in fondo, sono il cardine del processo, per certi aspetti sono il processo. Violarle vuol dire tradire la funzione dello strumento, saltando la barricata, e tramutare una macchina arcigna, ma giusta - o, almeno, sopportabile - in una clava brandita senza controlli. Si dirà che non tutte le regole del processo hanno pari rango, rinvenendosene alcune di minor cabotaggio perché deputate a presidiare diritti minori. È un’obiezione zoppa, perché violare una delle regole, addirittura sovvertendone il rapporto con l’eccezione, implica sempre rimettere in discussione l’idea stessa del processo come regola, mandando concettualmente in crisi l’intero apparato. Ma anche a dare per buona l’idea che vi siano regole e regole - e anzi proprio da qui muovendo - non è difficile individuare quale tra queste sia la matrice originaria che dà accesso ad ogni altra e senza la quale il rito non si compie, anzi non incomincia nemmeno: è la conoscenza del processo da parte di chi lo subirà. Senza conoscenza non c’è difesa e senza difesa non c’è processo. È come se un gruppo di estranei, in luoghi ignoti decidesse le nostre sorti senza che noi si possa intervenire in ragione della invincibile costrizione dell’ignorare che ciò stia accadendo. Comprimere il diritto alla conoscenza o peggio annichilirlo equivale a compiere la massima delle violazioni, propria dei regimi autoritari, nei quali il processo, piuttosto che anelare all’accertamento umano (e perciò limitato) della responsabilità, insegue la verità, con l’idea di poterla davvero raggiungere. Idea che rende essa stessa superflua la mediazione delle regole che non servono più e anzi diventano intralcio. Le nostre norme, invece, impongono che si faccia ogni tentativo per informare l’imputato di quanto va accadendo in suo danno e che quando non ci si riesce ci si fermi, si attenda. Nel nostro sistema liberale, insomma, non è consentito che un individuo venga processato senza saperlo. Ma io ho sbagliato il tempo del verbo. Non ERA consentito. Fino al 27 settembre, appunto, quando la Consulta ha adottato la sua decisione. Decisione enorme per l’idea che la sostiene e gli effetti che può implicare (al difensore dell’assente, per dirne una, la Cartabia impedisce pure l’appello, rendendo le condanne di primo grado tendenzialmente definitive). Altre sono le penne e le competenze necessarie a commentarla tecnicamente; mi limito allora a una domanda: nel paese del doppio binario espansivo, quanto tempo occorrerà prima che un’eccezione, che travolge la stessa essenza della regola, attecchisca altrove, divorando questo nucleo essenziale di garanzia in altri casi reputati sufficientemente analoghi? Quando si elide una garanzia, del resto, lo si fa per tutti. Anche per quegli inconsapevoli menestrelli - a volte dotati di simpatia così travolgente da rasentare la comicità - che hanno incominciato da subito a gioire in rima per la decisione e la giustizia che va avanti, senza percepire la vertigine che essa rischia di produrre e continuando a domandarsi per chi suona la campana, mentre tagliano ridendo il ramo su cui sono seduti. *Vicepresidente Camera Penale di Roma Gioventù criminale. Torino, Milano e Genova le città più calde per la presenza di baby gang di Grazia Longo La Stampa, 3 ottobre 2023 Risse e violenza in crescita tra i ragazzi. Il rapporto del ministero dell’Interno: “Fenomeni sempre più preoccupanti e i social amplificano le efferatezze”. Gioventù rissosa. È in costante aumento il numero di giovanissimi che si organizzano in baby gang per promuovere incontri a suon di botte. L’allarme arriva dalla Direzione di analisi criminale interforze del ministero dell’Interno. Il dirigente superiore della polizia di Stato che la guida, Stefano Delfini, osserva: “La crescita delle risse tra i minorenni è un fenomeno sempre più preoccupante da non sottovalutare. Tra le cause che hanno determinato l’intensificarsi di questi episodi c’è anche il Covid, che ha impedito la partecipazione dei ragazzi alle attività sportive e ha accentuato il bisogno di “sfogarsi” in vere e proprie lotte tra bande organizzate”. L’attività delle baby gang, che comprende anche altri reati, dai furti al bullismo all’estorsione, è stata monitorata da un team di esperti di polizia, carabinieri, guardia di finanza e polizia penitenziaria della Direzione analisi criminale interforze e dall’Università Cattolica di Milano in collaborazione con il ministero dell’Interno e il dipartimento di giustizia minorile del ministero della Giustizia. Emerge così che tra i minori in osservazione da parte degli Ussm (Uffici di servizio sociale per minorenni) il 94 % è colpevole di risse, il 77% di furti e rapine, il 64% di bullismo, il 45 % di disturbo alla quiete pubblica. Non solo, il 67% dei ragazzi compie atti vandalici, il 62% spaccia sostanze stupefacenti e il 46% è dedito alle estorsioni. In alcune città d’Italia, inoltre, proliferano baby gang multietniche. Soprattutto a Milano, Torino e Genova, centri accomunati dalla presenza di minori stranieri di seconda generazione che, come sottolinea Delfini, “rifiutano lo spirito di sacrificio e abnegazione nel lavoro dei propri genitori e considerano modelli di vita lussuosa come risultati da raggiungere con immediatezza a discapito del rispetto della legge”. Ad accentuare e amplificare i reati dei giovanissimi sono i social media perché “sulla rete le azioni commesse, a partire dalle risse, corrono più veloci e contribuiscono alla crescita di una maggiore efferatezza dei singoli eventi. Online vengono pubblicate aggressioni scaturite spesso da atteggiamenti innocui come uno sguardo di troppo o una sigaretta negata. Per non parlare poi dell’incremento di bullismo e “revenge porn” (forme di vendetta online a sfondo sessuale, ndr)”. Anche il capitolo della violenza sessuale ha le sue spine: il report segnala che un terzo delle vittime sono minorenni e il 67% dei violentatori ha un’età compresa tra i 14 e i 17 anni. E il direttore analisi criminale interforze precisa che “tra gli elementi più preoccupanti c’è l’indifferenza dei minori nei confronti della violenza sessuale commessa. Basti pensare al recente caso di Palermo in cui uno dei colpevoli ha dichiarato “Mi sono rovinato la vita”, senza esprimere alcun pentimento verso la vittima”. La stessa spregiudicatezza viene riservata anche alle risse che avvengono il più delle volte “con una violenza feroce, gratuita, senza senso. Quello che conta è imporsi sulla baby gang rivale per imporsi sul controllo del territorio ed emulare modelli sbagliati. La vana gloria della vittoria nelle risse viene poi accentuata dalla sua divulgazione sui social media”. Un’altra caratteristica evidenziata dallo studio riguarda le quattro diverse tipologie di gang giovanili con tratti differenti e una diversa distribuzione sul territorio nazionale. “Ci sono gruppi privi di una struttura definita - conferma Delfini - prevalentemente dediti ad attività violente presenti in tutte le macroaree del Paese, altri che si ispirano o hanno legami con organizzazioni criminali e che agiscono prevalentemente al Sud. A queste si aggiungono le bande multietniche del Nord ed altre che hanno una struttura definita ma non hanno riferimenti ad altre organizzazioni”. Spesso il comune denominatore è determinato da fattori come i rapporti problematici con le famiglie, con i coetanei e il sistema scolastico, difficoltà relazionali o di inclusione nel tessuto sociale e un contesto di disagio sociale ed economico. “Fondamentale è quindi la prevenzione - conclude Delfini - perché ovviamente l’attività di repressione, soprattutto quando si tratta come in questo caso di minori, non è sufficiente. Occorre la promozione di iniziative didattiche, sociali, culturali, sportive e religiose, oltre a un’eccezione alla legalità, rivolte ai minorenni in un’ottica di indirizzo verso forme di impegno che esercitino una forza attrattiva, disinnescando contestualmente l’avvio di percorsi criminogeni”. Verona. Detenuti non seguiti nella somministrazione di farmaci, Tosi interroga Nordio veronasera.it, 3 ottobre 2023 Il deputato veronese raccoglie la segnalazione arrivata dal carcere di Montorio e chiede al ministro della giustizia quanti e quali farmaci sono forniti nelle carceri. “È un problema di sicurezza”. Il problema era già stato accennato dal deputato veronese di Forza Italia Flavio Tosi durante la presentazione di una mozione della consigliera comunale Patrizia Bisinella. Ora, però, Tosi vuole andare fino in fondo ed ha presentato un’interrogazione al ministro della giustizia Carlo Nordio e al suo vice Francesco Paolo Sisto. La criticità, riferita da chi vive il carcere ogni giorno, è che alcuni detenuti con problemi psichiatrici, durante la somministrazione di dosi di metadone o antidepressivi, non sarebbero seguiti dal personale medico preposto, ricevendo la dose direttamente in mano. Può capitare, dunque, che alcuni detenuti non assumano la dose e la rivendano ad altri detenuti. Questi casi sono avvenuti anche nel carcere di Montorio, una struttura che avrebbe bisogno di un maggiore sostegno da parte del Comune di Verona, secondo la consigliera di Fare! Bisinella. Ma queste eventualità possono accadere anche nelle altre case circondariali e per questo Tosi ha chiesto al ministro competente informazioni sul numero e la tipologia di farmaci forniti ai detenuti nelle carceri italiane, con particolare riferimento alle strutture di Brescia e Verona. “È evidente quanto sia fondamentale andare in fondo alla vicenda senza reticenze o polemiche, poiché si tratta della sicurezza quotidiana dei detenuti e dei lavoratori all’interno delle strutture carcerarie”, ha commentato Tosi. “La legge italiana parla di rieducazione e reinserimento - ha aggiunto Bisinella - ottenere questi obiettivi senza intervenire su quanto avviene ogni giorno nella vita di chi è recluso dietro alle sbarre di una cella è impossibile. È quindi dovere di tutti noi farci partecipi di questo problema e intervenire in modo costruttivo”. Caserta. Detenuti al lavoro in piazze e giardini: “È il riscatto sociale” di Daniela Volpecina Il Mattino, 3 ottobre 2023 La caserma Sacchi è la sede del progetto, i reclusi presto in servizio al Belvedere. C’è chi ha imparato a tinteggiare una parete, chi a impastare la calce, qualcuno ha rispolverato gli arnesi dell’officina e qualcun altro ha scoperto di cavarsela più che bene in cucina. Tutti sono impegnati in lavori di pubblica utilità. Dalla pulizia di piazze, strade e parchi pubblici alla manutenzione del verde. Sono i detenuti in esecuzione penale esterna che, attraverso il progetto “Porte aperte alla città”, stanno svolgendo attività formative e lavorative finalizzate al reinserimento sociale. Il progetto, promosso dal Comune di Caserta, dall’associazione “Noi voci di donne” e dal Dipartimento di giustizia minorile di comunità, è giunto quest’anno alla quinta edizione e consente - a coloro ai quali è stato concesso di scontare gli ultimi mesi di pena fuori dal carcere - di seguire un percorso riabilitativo. Una scommessa che ha il sapore della sfida. In gioco c’è il riscatto della propria dignità e una piena integrazione, al riparo dai pregiudizi e dall’emarginazione che spesso attanaglia l’esistenza di chi, dopo aver scontato la pena, torna in libertà. È il caso di Enzo, 39 anni, un passato da spacciatore e cinque anni dietro le sbarre. Una esperienza che lo ha segnato nel profondo e che “oggi dice non rifarei”. Scuole, in classe senza l’agibilità e lavori “congelati” - Sposato e padre di un bimbo di appena due mesi, ha deciso di chiudere definitivamente con ciò che è stato: “So di aver sbagliato e sto pagando per gli errori commessi - racconta - ma spero mi venga concessa una seconda possibilità. Da quando sono qui ho riscoperto le mie capacità manuali, una volta ero un fabbro, mi piace creare con il ferro e realizzare opere artigianali. Molti di questi oggetti verranno persino messi in mostra”. Patrizio ha 45 anni, diciotto dei quali trascorsi dietro le sbarre per associazione a delinquere. “Il carcere ti annienta confessa solo chi ci è passato può capire. Ai giovani inseriti in contesti criminali vorrei dire di non bruciare la propria vita. Non è mai troppo tardi per pentirsi e cambiare strada. Il mio rimpianto più grande è quello di non aver visto i miei figli crescere, ora la speranza è quella di godermi i miei nipoti”. Giuseppe è un ex carabiniere, è stato espulso dall’Arma per falso ideologico, non si dà pace per l’accaduto: “Ho peccato di superficialità, fidandomi di chi non avrei dovuto spiega ma sto pagando per questo errore che ha cambiato tutta la mia vita. Quando questo progetto sarà finito, vorrei aprire una mia attività, magari un bar”. Video - Ernesto invece è un meccanico, originario di Roma, l’amore lo ha portato in provincia di Caserta ma la relazione si è conclusa bruscamente con l’accusa di maltrattamenti e la condanna ai servizi sociali. Per lui un percorso di nove mesi “durante i quali racconta ho imparato a fare l’imbianchino”. Molto più complesso il caso di Alessandro, che dal ‘93 è stato più volte in carcere per furto, rapina, porto abusivo di armi. Poi è subentrata la tossicodipendenza che lo ha portato in una comunità di recupero per due anni, infine questo progetto in corso alla Sacchi. “A 51 anni ho capito cosa conta veramente nella vita riflette ho riscoperto i valori che avevo perso e sto cercando di recuperare il rapporto con la mia famiglia. Non vedo l’ora di ricominciare a lavorare. Prima di finire in carcere facevo l’operaio, asfaltavo le strade, non sapevo fare altro. Qui ho imparato tanti altri mestieri e sono pronto a ripartire”. “Gestiamo in media 120 casi all’anno tra affidamenti e messi alla prova - dichiara Pina Farina, presidente di “Noi voci di donne” che lavora a stretto contatto con la direttrice dell’Uepe di Caserta, Maria Laura Forte dietro ogni fascicolo c’è una storia, spesse volte drammatica. Ci troviamo di fronte a vite sospese, esistenze segnate che non chiedono altro che riscatto. Il primo passo è quello di fornire loro formazione e competenze, che potranno spendere nel mercato del lavoro, attraverso corsi e laboratori. In primis, quello per la lavorazione del ferro e del legno, poi quelli di primo soccorso, ma anche i corsi di cucina e quello per pizzaioli. Lo step successivo coinvolge invece l’aspetto sociale, quello di rendersi utili alla collettività attraverso interventi di rigenerazione urbana. Prossimamente saranno impegnati in piazza Carlo di Borbone, in piazza Vanvitelli e anche al Belvedere di San Leucio. Nel frattempo, stanno già svolgendo lavori di manutenzione alla caserma Sacchi e hanno terminato un intervento negli uffici dell’Uepe in via Tanucci”. Santa Maria Capua Vetere. Detenuti produrranno cravatte Marinella per la polizia penitenziaria askanews.it, 3 ottobre 2023 Un protocollo per dar vita a un laboratorio di produzione di cravatte dedicato al personale di Polizia penitenziaria. È il contenuto dell’intesa sottoscritta a Napoli tra Donatella Rotundo, direttore della Casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere, in provincia di Caserta, e Maurizio Marinella, amministratore unico dell’azienda sartoriale partenopea. L’evento ‘Un nuovo inizio: sartoria interna nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, una storia di speranza e trasformazione’ dà il via alla collaborazione tra le istituzioni e Marinella, realtà simbolo del Made in Italy nel settore della moda e dell’artigianalità. “Il progetto - ha spiegato Alessandro Marinella, general manager E. Marinella - punta a dare una seconda opportunità in un Paese che non dà seconde opportunità. Tutte le persone che finiscono in carcere quando escono, purtroppo, non riescono a reintegrarsi nella società. Il nostro progetto punta a dare dei know-how che garantiscano loro la possibilità poi di essere assunti nelle aziende soprattutto in un settore, quello dell’artigianato, che è carente di manodopera”. “Questa è la nostra seconda esperienza perché, già qualche anno fa, abbiamo cercato di coinvolgere delle donne che stavano in carcere per trasferire loro un lavoro. Noi siamo sempre attenti, come azienda, all’artigianato - ha aggiunto Maurizio Marinella, amministratore unico E. Marinella - Ed ecco che ci è venuta questa idea di poter collaborare con il carcere di Santa Maria Capua Vetere. Abbiamo delle signore maestre che possono insegnare questo antico mestiere e, quindi, ci è sembrata una cosa bella, una cosa di grande emozione il coinvolgimento di Marinella che è sempre attento al sociale”. Soddisfatta anche Donatella Rotundo, direttore Casa circondariale Santa Maria Capua Vetere: “Abbiamo due obiettivi: quello di dare la possibilità ai detenuti di avere una formazione e una professionalità spendibile nel momento in cui si troveranno nuovamente ad affrontare il mondo del lavoro soprattutto con l’obiettivo di abbattere la recidiva e di dare sicurezza sociale. La realtà che noi creeremo in carcere prevede la formazione di una vera e propria azienda in cui l’eccellenza, in questo caso tessile, daranno gratuitamente il loro know-how che trasferiremo ai detenuti”. Per le cravatte confezionate in carcere e utilizzate dagli agenti non verranno fatte gare d’appalto aiutando non solo le casse statali, ma migliorando anche la qualità e la resistenza del prodotto. Torino. Ieri il convegno “Carceri, il ruolo delle Regioni” iltorinese.it, 3 ottobre 2023 Richiamare l’attenzione dei rappresentanti delle istituzioni sui compiti loro affidati in materia di gestione dell’esecuzione penale. È questo l’obiettivo dell’incontro Carcere: il ruolo delle Regioni, che si è svolto nel pomeriggio al Circolo dei lettori di Torino, promosso dal Garante regionale delle persone detenute Bruno Mellano in collaborazione con la Conferenza nazionale dei Garanti territoriali in concomitanza con il Festival delle Regioni. “Come garanti delle persone detenute che hanno l’obiettivo di migliorare le condizioni di vita, di lavoro e di dignità delle comunità penitenziarie - ha sottolineato Mellano - sentiamo la necessità di richiamare l’attenzione dei rappresentanti istituzionali e dell’opinione pubblica ai compiti che il quadro normativo vigente, fin dal 1975 e spesso in modo esclusivo, mette in capo alle Regioni nella gestione del carcere contemporaneo”. “Le Regioni hanno un ruolo imprescindibile nell’esecuzione penale - ha spiegato - e i detenuti hanno diritto soggettivo ad essere trattati dignitosamente, curati e istruiti”. Il portavoce della Conferenza nazionale Stefano Anastasia ha denunciato che la situazione carceraria è difficile a causa del sovraffollamento e che nel 2022, con 85 suicidi, si è toccato il record degli ultimi vent’anni. “Per promuovere occasioni di rieducazione - ha aggiunto - occorre sviluppare politiche territoriali capaci di dar vita a percorsi nei quali le Regioni devono farsi parte attiva. Da esse, infatti, dipendono per esempio l’assistenza sanitaria e le politiche sociali e del lavoro. Fondamentale, inoltre, è la capacità della società civile di accogliere e di aiutare i detenuti a reinserirsi”. Emilia Rossi del Collegio dei Garante nazionale ha evidenziato “la presenza di gravi carenze, soprattutto in ambito sanitario, dove le Regioni, concordando linee comuni in Conferenza delle Regioni, potrebbero essere decisive. Regioni, enti territoriali e società civile possono inoltre offrire un importante contributo in tema di opportunità di vita, di reinserimento lavorativo, di istruzione e formazione a chi esce dal carcere”. “Va infine preso atto - ha concluso Rossi - che il rischio suicidario aumenta nel momento del rientro in società, una disperazione comune a molti ex detenuti, legata al mancato inserimento nella vita reale”. Sono inoltre intervenute la vicerettrice dell’Università di Torino Laura Scomparin e il provveditore dell’Amministrazione penitenziaria del Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta Rita Monica Russo. Pavia. Reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti: incontro in Prefettura di Ilaria Dainesi informatorevigevanese.it, 3 ottobre 2023 Presenti il sottosegretario Andrea Ostellari, il vicepresidente del Senato Gian Marco Centinaio e il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria Maria Milano Franco d’Aragona Ilaria Dainesi. L’istituto del lavoro esterno dei detenuti e la formazione professionale all’interno del carcere rappresentano due strumenti fondamentali per porre le basi del futuro reinserimento lavorativo e in società al termine della pena. Sono queste le principali tematiche al centro dell’incontro che si è tenuto questa mattina (lunedì) a palazzo Malaspina, dove il prefetto di Pavia Francesca De Carlini si è confrontata con il senatore Andrea Ostellari, sottosegretario di Stato alla Giustizia, il vicepresidente del Senato Gian Marco Centinaio e il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria per la Lombardia Maria Milano Franco d’Aragona. Il Prefetto Francesca De Carlini “nel ringraziare il senatore Ostellari per l’attenzione che ha voluto riservare alla Prefettura con questa visita - fanno sapere da palazzo Malaspina - ha sottolineato l’importanza e la valenza quale preziosa occasione per sviluppare, nei rispettivi ambiti istituzionali, proficui spunti di lavoro per il territorio e nell’interesse del territorio”. Migranti. Perché la giudice di Catania non ha applicato il decreto del governo di Gianluca Mercuri Corriere della Sera, 3 ottobre 2023 I nodi giuridici e costituzionali dello scontro tra governo e magistratura sui migranti (e il suo significato politico). Dovremo abituarci, da qui alle elezioni europee del giugno 2024, a continui salti da una trincea polemica all’altra sulla questione migranti: questa settimana, esce la Germania ed entra la magistratura. Il dato costante: in prima linea c’è, personalmente, Giorgia Meloni. Da una parte, la presidente del Consiglio prepara un probabile faccia a faccia, tra tre giorni, con il cancelliere tedesco Olaf Scholz, con l’obiettivo di arginare gli effetti diplomatici dell’attacco lanciato dal governo italiano sui finanziamenti tedeschi alle Ong, le Organizzazioni non governative impegnate a salvare migranti nel Mediterraneo centrale. Dall’altra, Meloni ha spostato l’obiettivo sulla magistratura: in particolare, sulla giudice di Catania che nei giorni scorsi ha deciso il ritorno in libertà di quattro migranti trattenuti nel Cpr (Centro di permanenza per i rimpatri) di Pozzallo, in provincia di Ragusa. La premier si è detta “basita” per un provvedimento che, nel mettere in discussione il decreto Cutro sui migranti, rappresenta a suo avviso un atto ostile nei confronti di “un governo democraticamente eletto”, evocando così uno scontro che ricorda l’epoca dei governi Berlusconi. La risposta della giudice Apostolico ha replicato con una dichiarazione all’agenzia Ansa: “Non voglio entrare nella polemica, né nel merito della vicenda. Il mio provvedimento è impugnabile con ricorso per Cassazione, non devo stare a difenderlo. Non rientra nei miei compiti. E poi non si deve trasformare una questione giuridica in una vicenda personale”. Ma quali sono i nodi giuridici? A fare infuriare Meloni sono state le motivazioni con cui i 4 migranti liberati chiedono protezione. Uno, già espulso due anni fa, sarebbe tornato in Italia “perché perseguitato per caratteristiche fisiche che i cercatori d’oro del suo Paese, secondo credenze locali, ritengono favorevoli alle loro attività (particolari linee della mano)”. Un altro temeva la reazione dei debitori dopo aver chiesto soldi per curare il padre. Il terzo migrante temeva la v endetta della famiglia della sua ragazza, annegata dopo aver tentato di sbarcare in Italia con lui. Il quarto è sbarcato a Lampedusa il 19 settembre in cerca di soldi per far partorire in sicurezza la moglie, dopo tre neonati persi. E i nodi costituzionali? Il punto è che, al di là delle vicende individuali, per il Tribunale di Catania “le nuove norme sulla detenzione per i richiedenti asilo sono contrarie alle norme Ue e alla Costituzione italiana. Trattenere chi chiede protezione senza effettuare una valutazione su base individuale e chiedendo una garanzia economica come alternativa alla detenzione è illegittimo”. I giudici si rifanno all’articolo 10 della Costituzione: “Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge”. Ma l’aspetto davvero dirimente è che i giudici escludono “che la mera provenienza del richiedente asilo da Paese di origine sicuro possa automaticamente privare il suddetto richiedente del diritto a fare ingresso nel territorio italiano per richiedere protezione internazionale”. Per il costituzionalista Fulco Lanchester, intervistato da Virginia Piccolillo, il Tribunale di Catania ha solo “applicato le norme” perché i decreti del governo “non sono scritti bene” e violano non solo l’articolo 10 ma anche il 13, quello sulla libertà personale. Perché è importante? Perché la sentenza contesta il punto decisivo del nuovo Patto europeo per la migrazione e l’asilo, in discussione da mesi e in dirittura d’arrivo in questi giorni. Il governo Meloni lo ha accolto con favore, rinunciando a rivedere le regole di Dublino che accollano i migranti ai Paesi di primo approdo, e dunque a ricollocamenti obbligatori. Perché lo ha fatto? Perché in cambio ha ottenuto proprio la possibilità di allargare la lista dei Paesi considerati “sicuri”, in modo da potere respingere più facilmente le domande di protezione dei loro cittadini. Dunque, la sentenza di Catania attacca uno dei due pilastri della politica (anti) migratoria del governo Meloni, ovvero lo snellimento e la moltiplicazione delle espulsioni. L’altro è l’idea, costantemente ripetuta dalla premier, di “fermare le partenze” con accordi bilaterali, primo fra tutti quello con la Tunisia. Che finora ha funzionato al contrario (gli arrivi da quel Paese sono triplicati) ma che il governo conta di sbloccare se e quando arriveranno a Tunisi i fondi promessi dall’Ue. Migranti. “Contro la giudice di Catania una campagna d’odio. Così si mina lo Stato di diritto” di Simona Musco Il Dubbio, 3 ottobre 2023 Parla Silvia Albano, giudice presso il Tribunale civile di Roma: “I provvedimenti giudiziari sono sempre criticabili, ma è vergognoso appigliarsi ai presunti orientamenti politici”. “Non sono solo i magistrati di sinistra a difendere i diritti fondamentali. Fortunatamente è tutta la giurisdizione a farlo”. A dirlo è Silvia Albano, giudice presso il Tribunale civile di Roma nella sezione specializzata in diritti della persona e immigrazione, membro del comitato direttivo centrale dell’Anm e dell’esecutivo nazionale di Magistratura democratica, che risponde alle polemiche sulla decisione con la quale la giudice Iolanda Apostolico ha rigettato la richiesta di convalida del trattenimento di tre migranti tunisini deciso sulla base delle nuove norme sull’immigrazione. I provvedimenti di Catania sono giuridicamente fondati? I provvedimenti giudiziari sono sempre criticabili, il problema è in che modo li si critica. In questo caso non ho sentito critiche in merito alla loro adeguatezza giuridica, ma basate sui supposti orientamenti politici o culturali della giudice. Si è messa in atto una vera e propria campagna d’odio da parte di soggetti di grande rilievo istituzionale, si è parlato addirittura di attentato alla sicurezza del Paese. In questo modo si altera l’equilibrio tra i poteri voluto dai costituenti. La nostra costituzione prevede una magistratura indipendente e autonoma da ogni altro potere, per evitare che la giurisdizione sia sottoposta al volere della maggioranza di governo di turno, ma possa essere garante dei diritti fondamentali previsti dalla nostra costituzione. Si rischia di mettere in discussione proprio lo Stato di diritto. La collega ha fatto un’applicazione di un principio elementare che studiamo all’università: ci sono fonti sovraordinate cui la legge ordinaria non può derogare. La prima è la Costituzione, poi c’è la normativa sovranazionale che ha rango costituzionale in base agli articoli 10, 11 e 117 della Carta, tra cui la normativa Ue. Mi sarei aspettata delle obiezioni su questo punto, ma non ne ho viste. Si parla, invece, della sua appartenenza alla corrente di sinistra della magistratura. È così? Non mi risulta sia iscritta a Md né che abbia mai fatto alcuna attività associativa, ma non è possibile che per il solo fatto di far parte di un gruppo associativo si possa insinuare che si perda in imparzialità nello svolgimento del proprio lavoro. Per fortuna esiste la libertà di pensiero e ritengo sia vergognoso appigliarsi ai presunti orientamenti politici o di voto per screditare una giudice. Non sono solo i giudici con orientamenti culturali o di voto a sinistra ad applicare e a dover applicare le norme costituzionali e sovranazionali, dovrebbe essere il compito della giurisdizione. È chiaro che c’è uno spazio discrezionale interpretativo, ma il provvedimento, sul piano giuridico, mi sembra molto fondato. Cosa dice la normativa? La direttiva europea, che non a caso si chiama “direttiva accoglienza”, disciplina il trattenimento come ipotesi residuale quando non è possibile applicare misure alternative. La giudice ha semplicemente valutato, tra le altre cose, che nei casi specifici non era stato garantito un esame della situazione individuale, così come previsto dalla direttiva, e la normativa italiana non prevede ipotesi alternative reali al trattenimento, visto che l’unica è quella finanziaria, non a caso nemmeno concedibile da terzi. Anche la direttiva europea la prevede, ma insieme ad altre misure, per garantire a tutti la possibilità di usufruirne senza che ci siano discriminazioni. Chi arriva via mare con 5mila euro in tasca? E come fa un migrante, senza documento, ad andare a chiedere una fideiussione in banca? Tali norme di fatto consentirebbero di trattenere indiscriminatamente tutti i richiedenti asilo che fanno domanda in frontiera o nelle zone di transito, cosa vietata dalla direttiva. Le tre decisioni non fanno che rilevare queste violazioni. Ma è giusto continuare a regolare il fenomeno migratorio con la legislazione d’urgenza? È vero che ci sono stati sbarchi straordinari, ma è vero anche che non abbiamo, in proporzione, un numero di arrivi maggiore rispetto agli altri Paesi europei. Tutte le statistiche dicono che in relazione al numero di abitanti noi siamo tra i Paesi che accolgono meno in Europa. Non siamo in emergenza, il fenomeno è strutturale e va affrontato con interventi strutturali. Quali sono le conseguenze? Il trattenimento indiscriminato e il restringimento delle possibilità per i migranti di risiedere regolarmente sul territorio generano irregolarità, visto che, come dimostrano le statistiche, non si è in grado di rimpatriare il numero di persone che il governo dice di voler rimpatriare. Le nuove norme, inoltre, restringono le garanzie difensive, dal momento che la domanda d’asilo andrebbe valutata in sette giorni. Neanche il Questore ha la possibilità di adottare provvedimenti di trattenimento motivati sul singolo caso e vediamo sempre di più provvedimenti di trattenimento scritti sostanzialmente in serie, con una motivazione solo apparente. Non si può chiedere alla giurisdizione di abdicare al proprio ruolo. Ma c’è stata qualche legge efficace, in questi anni? Ci sono state leggi buone e leggi meno buone. Il punto è che restringendo gli spazi per essere regolari sul territorio si mandano queste persone a farsi sfruttare o in mano alla criminalità. È una politica criminogena, che crea insicurezza, violenza e devianza. La lista dei Paesi sicuri è attendibile? La normativa interna (art 2 bis d.lgs 25/2008), che ha recepito la direttiva procedure dell’Ue, stabilisce che un Paese può considerarsi sicuro se non sussistono atti di persecuzione, né tortura o trattamenti inumani e degradanti, o che è comunque offerta adeguata protezione contro le persecuzioni o i maltrattamenti. L’elenco è stato individuato con decreti ministeriali, che sono normativa secondaria e devono attenersi alla legge. In questo elenco, ad esempio, è stata inserita la Nigeria, per metà scossa da una guerra civile e dal terrorismo. Come si fa a considerarlo un luogo sicuro? In Tunisia c’è di fatto una dittatura e non c’è più un giudice indipendente, come si fa a dire che si è al sicuro dalle persecuzioni? È chiaro che il giudice quando esamina questo elenco non può non valutare se quello inserito sia effettivamente un Paese sicuro. Come giudica gli attacchi alla giudice? Ed è vero che voi di Md colonizzate il settore immigrazione nei Tribunali? Alla magistratura spetta tutelare i diritti, in particolare quelli fondamentali. Non usiamo due pesi e due misure e questo è il segno della nostra terzietà e imparzialità. Per quanto riguarda Md, sembra diventata il nemico numero uno. Ci danno un potere, una forza e soprattutto una quantità di sostenitori che non abbiamo. Siamo una minoranza all’interno della magistratura. Quello che forse bisognerebbe capire è che non sono solo i magistrati di Md a tutelare i diritti fondamentali delle persone, ce ne sono anche molti altri, per fortuna. Perché questo è il ruolo della giurisdizione. Ma soprattutto l’appartenenza a Md non comporta certo la perdita di imparzialità nell’esercizio della giurisdizione. Migranti. Tra sbarchi e separazioni il destino di Lampedusa di Antonio Mattone Il Mattino, 3 ottobre 2023 “Water, water!”, urla un gruppo di migranti accalcati sul molo Favarolo, agitando delle bottiglie di plastica sudicie e vuote. Sono in attesa di essere trasferiti nell’hotspot dell’isola ma, disidratati ed assetati, elemosinano qualche sorso d’acqua a chi passa in auto sulla strada che dalla spiaggia della Guitgia conduce al porto. Una scena che ha colpito un giovane lampedusano di 18 anni e lo ha indotto a buttare giù un toccante post. “Lascio questa isola dopo i fatti di ieri e oggi e, senza troppa retorica, mi sento in colpa, scrive Federico su Facebook. Avrei voluto fare qualcosa, trovare delle risposte, ma va oltre le mie capacità e le mie competenze”. Sta per diventare anche lui un migrante. Deve lasciare Lampedusa per continuare gli studi. Si trasferirà a Genova dove andrà alla facoltà di Scienze diplomatiche. Mi spiega che si sente in colpa perché va via proprio nel momento in cui l’isola sta vivendo il momento più difficile degli ultimi anni. Si stava dando da fare assieme ad altri amici per aiutare i “salvati”, coloro che hanno perso tutto, a cui sono rimasti solo i vestiti infradiciati dal mare e impregnati di nafta. Immagini che hanno coinvolto emotivamente tanti lampedusani e che hanno fatto scattare una grande gara di solidarietà. C’è chi porta un po’ di spesa, chi un paio di scarpe. Altri hanno messo su una raccolta di abiti usati, fino al pompiere che ha invitato a casa sua una famiglia di naufraghi e gli ha offerto un bel piatto di spaghetti. Tuttavia la morte di una bimba di 5 mesi lo ha profondamente turbato. “Non si può morire così piccoli, non si può annegare mentre si è tra le braccia di una madre! Siamo stati abbandonati dall’Italia e dall’Europa - mi dice con un senso di amarezza. Qui ci sono soltanto i lampedusani”. Sull’isola non manca solo l’università. Non c’è una Tac, né un reparto di ostetricia. Il benessere generato dal turismo e il lavoro che si concentra solo in alcuni mesi dell’anno, hanno invogliato a fare figli. Tuttavia, nonostante il grande tasso di natalità, sono pochi i bambini che nascono a Lampedusa. Le donne sono costrette a partorire a Palermo o ad Agrigento. La mancanza di servizi essenziali resta una grande ferita. Sono trascorsi 10 anni dal tragico naufragio del 3 ottobre 2013, dove al largo dell’isola morirono 368 migranti. Una tragedia inaccettabile da cui prese il via l’operazione Mare Nostrum. Cosa è cambiato da allora? Ben poco. L’hotspot di contrada Imbriacola è diventato un fortino inaccessibile e attorno ad esso è cresciuta la presenza di forze dell’ordine. Di solito i migranti non si vedono, sono come fantasmi chiusi all’interno della struttura di accoglienza. Solo la massiccia ondata di arrivi di questi giorni, dove la presenza di migranti ha superato la popolazione residente, li ha resi visibili, facendo tornare alla mente agli abitanti i periodi in cui bussavano liberamente alle porte delle case in cerca di cibo e aiuto. Ogni tanto qualche segno di un probabile naufragio, come i relitti di imbarcazioni arenate, si poteva scorgere lungo le coste dell’isola. Una volta il padre di Federico trovò i resti di un passaporto corroso dalla salsedine e mangiucchiato dai pesci. Si dice che alcuni pescatori abbiano trovato nelle reti resti umani, e li abbiano ributtati a mare per l’orrore. Se prima il silenzio alimentava qualche speranza, oggi no, sembra tutto chiaro. Il ragazzo è un fiume in piena. “Dicono che dò sempre colpa all’amministrazione, ma oggi vedendo il sindaco Filippo Mannino lì al molo Favaloro a cercare di intervenire in questa situazione emergenziale mi sono sentito rappresentato da una istituzione dopo tanto tempo, e ne sono grato”. Si perché in questi giorni a Lampedusa si è un po’ ricreato quel senso di umanità e di unità che fa rinascere la speranza. “Vorrei tornare dopo gli studi con l’auspicio di ritrovare una politica europea solidale”, mi dice Federico. E con il sogno di diventare un diplomatico, porta con sé il ricordo di quei volti scarniti che sul molo Favarolo imploravano qualche goccia d’acqua. “Sui migranti Italia ed Europa hanno tradito se stesse” di Giansandro Merli Il Manifesto, 3 ottobre 2023 Intervista a Don Mussie Zerai, il prete eritreo che aiuta chi fugge: “Non capisco come Paesi che si dicono civili, democratici, di antica tradizione umanistica e cristiana possano permettere che questa strage continui”. “Il numero di don Mussie Zerai è scritto sui muri delle prigioni libiche, nei capannoni dei trafficanti, sulle pareti dei camion che attraversano il deserto”, scriveva Alessandro Leogrande - giornalista e scrittore scomparso nel 2017 - in “La Frontiera”. Forse il libro più bello tra quelli nati dal dolore per i grandi naufragi del 2013: davanti le coste di Lampedusa il 3 ottobre, poco più lontano otto giorni dopo. Oltre 600 morti in una settimana. Mussie Zerai Yosief, prete cattolico dal 2010, era già allora un punto di riferimento per chi cercava riparo in Europa. In particolare per i suoi concittadini eritrei. Nel 2015 è stato candidato al Nobel per la pace. Due anni dopo indagato per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina dalla procura di Trapani, nell’ambito della maxi-inchiesta contro le Ong. Accuse poi archiviate. Da diversi mesi vive in Canada, dove si occupa solo di attività pastorale. Almeno per ora perché, dice, “neanche qui è tutto rose e fiori, anche se almeno esiste un sistema di accesso legale”. Don Mussie, cosa ricorda del momento in cui ha ricevuto la notizia? Mi si è gelato il sangue. Mi hanno detto: è successo un disastro, accendi la tv. Ricordo le immagini dei corpi che venivano recuperati. Agghiaccianti. E poi l’incontro con i sopravvissuti e i familiari, quelle 368 persone chiuse dentro le bare in fila. Una sofferenza immane. Raggiunse subito Lampedusa. Cosa la colpì? Lo strazio, le urla, il dolore dei parenti. Lo spaesamento e i pianti continui dei sopravvissuti. Poi la solidarietà dei lampedusani, che avevano accolto i migranti in casa. I residenti soffrivano insieme a chi era arrivato da lontano. Dieci anni dopo esiste una verità giudiziaria? C’è stato un processo all’uomo individuato come lo scafista e sono state identificate le due barche di pescatori che si erano avvicinate senza prestare soccorso né lanciare l’allarme. Ma resta ancora molto da scoprire. È impossibile che un’imbarcazione con 500 persone sia arrivata sotto costa senza che le autorità se ne accorgessero. C’è qualcosa che non è stato detto anche sui ritardi dei soccorsi. Sopravvissuti e familiari non sono contenti di come è stata gestita la cosa: vogliono piena luce e giustizia. Il governo non partecipa alle iniziative di ricordo del 3 ottobre. E non è la prima volta... Il parlamento italiano ha fatto bene a istituire la “Giornata della memoria e dell’accoglienza”, che speriamo diventi europea, ma le celebrazioni retoriche non servono a nulla. Ciò che causa davvero dolore è che ancora oggi si continui a morire. Né l’Italia né l’Ue hanno un dispositivo di ricerca e soccorso. Non capisco come paesi che si dicono civili, democratici, di antica tradizione umanistica e cristiana possano permetterlo. Familiari, sopravvissuti e coloro che in questi anni non hanno smesso di battersi non vogliono passerelle politiche, ma azioni concrete per proteggere la vita delle persone in fuga. Sono i paesi che hanno chiuso le porte a costringere i migranti ad affidarsi ai sensali di carne umana, ai trafficanti. Lei come è arrivato in Italia? Con un visto. Ho preso un aereo e sono atterrato a Roma. Nel 1992 si poteva fare. Mi considero un privilegiato perché per migliaia e migliaia di africani, anche miei connazionali, è impossibile. Manca la volontà politica di affrontare seriamente l’argomento. Si parla tanto di sicurezza, ma se vogliamo garantire sia quella di chi accoglie che quella di chi viene accolto occorre aprire dei canali legali. I discorsi sulla sicurezza non reggono finché non si fa qualcosa per ambedue le parti. Nel 2013 dopo i naufragi di Lampedusa fu varata Mare Nostrum. Nel 2023 dopo la strage di Cutro una stretta sull’immigrazione. L’unica missione navale europea in discussione servirebbe a respingere le persone, non a salvarle. Cosa è successo all’Italia e all’Europa? Hanno tradito i loro principi fondamentali. Le loro carte costituzionali garantiscono il diritto d’asilo. Solo pensare di respingere in mare le persone prima di analizzarne le richieste di protezione è una negazione dei principi su cui si fonda la democrazia. Comunque l’Italia respingeva già prima, tra il 2009 e il 2010 per esempio. Infatti è stata condannata dalla Corte Ue. Abbiamo visto cadaveri galleggiare e corpi sbattuti a riva oppure saputo di uomini e donne inghiottite dal mare senza alcun testimone. Eppure si continua a non intervenire. Cosa genera l’assuefazione? La disumanizzazione di queste persone. Chiamate clandestini, vacanzieri, finti profughi e quant’altro. Si è detto di tutto e si è cercato di negare le vere motivazioni per cui rischiano la vita. Sono demonizzate e criminalizzate ancor prima che tocchino terra, equiparate a criminali o eserciti invasori. L’emozione e l’empatia generate dai naufragi del 2013 sono finite nel nulla. Ha vinto la criminalizzazione dei profughi e di chi li aiuta. Lei è stato accusato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Cosa le contestavano? Ricevevo telefonate da persone disperate che si trovavano in mezzo al Mediterraneo. Loro chiedevano aiuto e io avvisavo le autorità competenti. Dal 2003 al 2014 la guardia costiera italiana, quella maltese, l’Unhcr. Poi anche le Ong, arrivate per colmare il vuoto lasciato dagli Stati. Se vedi qualcuno ferito per terra chiami l’ambulanza, è normale. Ciò che è assurdo è essere denunciati per questo. Poi le accuse sono state archiviate, ma il danno era fatto. Che partita si sta giocando il governo Meloni sull’immigrazione? Pensano che prendendosela con i più fragili, deboli e vulnerabili possano fermare i flussi. Ma se non curi le cause alla radice, cioè le ragioni che spingono le persone a rischiare la vita, non le fermerai con multe, ostacoli burocratici o violazioni dei loro diritti. Così aumenti solo le loro sofferenze. Democrazie mature dovrebbero difendere i più vulnerabili, non accanirsi contro di loro. Il presidente Saied rifiuta i soldi dell’Ue verso Tunisi: “Non accettiamo la carità” di Youssef Hassan Holgado Il Domani, 3 ottobre 2023 “La Tunisia, che accetta la cooperazione, non accetta né la carità né l’elemosina. Il nostro paese e la nostra gente non vogliono pietà ma esigono rispetto”, ha scritto in un comunicato Kais Saied. Il presidente della Repubblica tunisina, Kais Saied, alza la posta nei confronti di Bruxelles. “La Tunisia, che accetta la cooperazione, non accetta né la carità né l’elemosina. Il nostro paese e la nostra gente non vogliono pietà ma esigono rispetto”. Con un comunicato pubblicato dal palazzo Cartagine, il populista Saied annuncia il rifiuto dei primi 127 milioni stanziati dall’Unione europea in seguito al Memorandum of understanding firmato in estate dalla presidente della Commissione Ursula von der Leyen. “La Tunisia respinge quanto affermato nei giorni scorsi dall’Ue - continua il comunicato - non per l’importo in questione, perché tutta la ricchezza del mondo non vale un grammo della nostra sovranità, ma perché la proposta contraddice il Memorandum firmato a Tunisi nello spirito che ha prevalso alla conferenza di Roma lo scorso luglio”. La Tunisia, scrive il presidente Saied, “sta facendo tutto il possibile per smantellare le reti criminali che trattano esseri umani e organi umani”, anche se il “nostro paese non è mai stato la causa di questa miseria che vive la maggior parte degli africani”. Il Memorandum - Dalla sponda sud del Mediterraneo giudicano insufficienti i soldi stanziati. L’accordo prevedeva 255 milioni da consegnare in due tranche, più l’apertura a un prestito di 900 milioni di euro vincolato all’accesso tunisino ai finanziamenti del Fondo monetario internazionale di quasi due miliardi di euro. Secondo Saied, parte dei soldi destinati ieri dall’Ue (60 milioni su 127) facevano già parte di accordi pregressi con Bruxelles. Insomma, a il governo tunisino sta cercando di alzare la posta per ottenere un maggiore flusso di denaro per fermare le partenze. Un atteggiamento che imbarazza la Commissione. Nei giorni scorsi, da Bruxelles hanno precisato che nella prima tranche di 105 milioni di euro di aiuti previsti dal Memorandum, circa 42 milioni di euro saranno “rapidamente assegnati”. Altri 24,7 milioni di euro sono già stati stanziati per i programmi in corso. Intanto, continuano a sbarcare migranti a Lampedusa. Nel giorno dell’anniversario del naufragio di dieci anni fa nel quale morirono 368 migranti, sono arrivate nell’isola altre 40 persone. Perché gli armeni non fanno notizia di Lucetta Scaraffia La Stampa, 3 ottobre 2023 Siamo disponibili a difendere qualsiasi animale in via di estinzione, ma evidentemente non siamo disposti a fare niente per gli armeni del Nagorno Karabakh: chi ha scritto che più di 100.000 armeni in pochi giorni stanno abbandonando come profughi la loro terra sbaglia. Non hanno scelto di abbandonare una terra alla quale sono legati da secoli, non hanno scelto di abbandonare le loro antichissime chiese e i loro monasteri, che saranno distrutti con i bulldozer: sono stati costretti a farlo per salvarsi la vita. L’Unione europea non ha mosso un dito per protestare contro gli azeri, per fermare la cacciata di un popolo antico dalla terra che occupava da millenni. Anzi, insistono con il chiamare gli armeni del Nagorno Karabakh separatisti, sposando il punto di vista azero. Come può essere considerato separatista un popolo che vive in quel territorio, senza mai averlo lasciato, da 2500 anni? Il motivo di questo vergognoso silenzio sta nella necessità di comprare il gas dell’Azerbaigian, e nella dipendenza da Erdogan, che può liberare valanghe di immigrati verso i nostri confini. Ma forse sta anche in qualcosa di più profondo, cioè dalla difficoltà per noi europei secolarizzati di sentire quegli antichi cristiani, ancora appassionatamente legati alla loro tradizione religiosa, vicini a noi, simili a noi, quindi avamposto orientale di una cultura europea da difendere. Ci stiamo dimostrando indifferenti alla loro sorte, forse perché da lontano ci appare strano che siano così legati alle loro croci con i fiori, ai loro strani e antichissimi riti, e soprattutto che siano disposti a morire per non rinnegare la loro fede. Li vediamo come portatori di qualcosa di antico e lontano, che forse ci pare classificabile come folclore più che come una religione moderna e rispettabile. Il Papa stesso li ha sempre difesi debolmente. Del resto i ricchi regali con cui il governo azero si conquista le simpatie dei politici europei - condito da chili di fantastico caviale, Le monde parla di “diplomazia del caviale” - forse sono arrivati anche in Vaticano. O almeno sono stati ben visti i soldi per i restauri delle catacombe di Commodilla e di alcuni dei preziosi beni artistici conservati in San Pietro, tanto che la moglie del presidente azero Aliyev è stata insignita della più alta onorificenza vaticana riservata ai laici. Sì, sembra proprio che il dolore degli armeni infastidisca tutti, e tutti pensino che comunque non sono affari che ci riguardano come europei. Invece ci riguardano e ci riguarderanno: i turchi infatti non nascondono il progetto di passare alla conquista dell’intera Armenia, considerata una inutile enclave incuneata nel mondo islamico. Il progetto di genocidio che sembrava sventato dopo la prima guerra mondiale troverà così completa realizzazione, e proprio sotto i nostri occhi indifferenti. Per la seconda volta l’Europa volta la testa davanti a un crimine contro l’umanità, a un attentato alla sopravvivenza di un popolo intero. L’Occidente è pronto a rinnegare perfino le proprie origini pur di non pagare il prezzo che il coraggio comporta.