Carceri invivibili: nel 2023 già 54 suicidi, uno ogni 5 giorni La Sicilia, 31 ottobre 2023 L’allarme del Garante dei detenuti: il tasso dei suicidi in cella è 18 volte superiore a quello nella società esterna. “Aveva 28 anni, e sarebbe uscito tra sei mesi, il prossimo aprile, il giovane che si è suicidato ieri, 29 ottobre, nella Casa circondariale di Caltanissetta, dove era detenuto dal luglio del 2021, poco più di due anni fa. Con la sua morte salgono a 54 le persone detenute che si sono tolte la vita dall’inizio del 2023: una media di un suicidio quasi ogni cinque giorni, talvolta con successioni molto rapide, come è accaduto per gli ultimi due casi, avvenuti nell’arco di 24 ore”. Ad aggiornare la tragica contabilità è il Garante delle persone private della libertà. “È una linea di tendenza che soltanto un ottimismo ingenuo può far pensare abbia segnato, con quello di ieri, l’ultimo caso dell’anno. È una linea di tendenza che si è manifestata costante, nei numeri, negli ultimi cinque anni: a esclusione del 2022 con il picco tragico di 85 i dati dal 2018 indicano una costante di suicidi in carcere intorno ai 60. Una costante che, considerato il numero odierno, alla fine di ottobre, rischia pericolosamente di essere di nuovo superata”, avverte il Garante. Un conto a cui devono aggiungersi “i ‘morti per causa da accertare’, giacché spesso gli accertamenti riconoscono nel suicidio la causa della morte: sono 21 dall’inizio dell’anno”. Nel suo studio sui suicidi negli istituti penitenziari, pubblicato ad aprile di quest’anno, il Garante ha posto in evidenza che nello scorso anno, il tasso di suicidi in carcere è stato superiore di 18 volte a quello dei suicidi nella società esterna. Le risposte e la ricerca di soluzioni “non sono certamente semplici e investono l’intera collettività”. “Numerosi” i casi di suicidio che si verificano nelle prime settimane di detenzione e quelli che avvengono a poco tempo dall’uscita dal carcere, magari dopo una lunga detenzione: delle 54 persone che si sono tolte la vita in carcere quest’anno fino ad oggi, tre sarebbero uscite entro la fine dell’anno, cinque nel 2024, tre entro i primi mesi e due alla fine. “È assai difficile, per non dire improprio, connettere questi atti di disperazione alle condizioni della vita detentiva, soprattutto se sperimentate per molto tempo e se si è prossimi a lasciarle. Più serio è ricondurle a quella mancanza di prospettive e a quello stigma sociale che attende spesso chi esce dal carcere, di cui tutta la società esterna è responsabile. Per questo interrogano tutti noi”. L’andamento delle morti per suicidio in carcere registrato nel corso di quest’anno, per quanto di dimensioni minori rispetto a quello dell’anno passato, “non permette cadute di quella attenzione” a cui il Garante nazionale “richiama ogni soggetto responsabile della vita delle persone affidate alla custodia dello Stato”. Sos per la salute dei detenuti: cure sempre più difficili in carcere, mancano i medici di Nicoletta Cottone Il Sole 24 Ore, 31 ottobre 2023 La crisi della sanità pubblica colpisce i “ristretti”. Anelli (presidente dell’Ordine nazionale dei medici): il grido d’allarme non può restare inascoltato, disponibili a sollecitare un tavolo. Tra le possibili soluzioni consentire i tirocini alle giovani leve, permettere di lavorare in pensione e di collaborare a chi opera nelle strutture pubbliche. Anastasia (Garante detenuti Lazio): senza scorte saltano quasi la metà delle visite esterne. Sos per la salute dei detenuti. La redazione di “Non Tutti Sanno”, notiziario dei detenuti della Casa di reclusione di Rebibbia diretto dal giornalista Roberto Monteforte, ha scritto un appello per ricordare che negli istituti penitenziari i medici che curano i detenuti “sono pochi. Sempre meno. Capita che il medico di base o lo specialista che va in pensione non venga sostituito e che i bandi indetti dalle Asl vadano deserti, oppure che si debba aspettare molto tempo prima che arrivi la nuova nomina e questo significa ulteriori forti disagi per noi “ristretti” che già subiamo gli effetti nefasti del sovraffollamento”. Solo due medici, invece dei quattro di “base”, per esempio, alla Casa di reclusione di Rebibbia con 300 detenuti. Un appello per ricordare che sono cittadini che hanno sbagliato e che per questo stanno scontando la loro condanna in una casa di reclusione, “ma non per questo abbiamo perso il diritto alla salute e alla dignità di persona. Un diritto vero, non solo scritto sulla carta”. Un diritto costituzionale. “Senza di voi - si legge nell’appello - senza la vostra competenza, professionalità e generoso impegno nelle carceri, infatti, il nostro diritto costituzionale alla “cura” resta vuoto”. Chiedono ai medici di fare in modo che le giovani leve li affianchino on i tirocini, che sia consentito “al medico o specialista di prolungare la sua attività professionale nel carcere anche se in pensione e a chi opera nelle strutture pubbliche di poter dedicare del tempo ulteriore anche al servizio della popolazione reclusa”. Sono necessari “più ore e più specialisti per seguire chi ha patologie psichiatriche. Più risorse destinate alla sanità penitenziaria e alle attività di cura. Luoghi adeguati sul territorio per accogliere chi soffre di patologie psichiatriche o di dipendenza che non possono essere affrontate nei penitenziari”. Monteforte: la crisi della sanità pubblica colpisce i “ristretti” - Nell’appello hanno ricordato che “di carcere ci si ammala. Uno studio recente attesta che una percentuale compresa tra il 60 e l’80% della popolazione detenuta è affetta da almeno una patologia”. “In carcere ci si ammala tanto - spiega Roberto Monteforte, giornalista e coordinatore della Redazione di “Non tutti sanno”, nel carcere romano di Rebibbia - e curarsi è sempre più difficile, malgrado l’encomiabile impegno dei medici presenti nei penitenziari. Ma sono sempre meno. La crisi della sanità pubblica e la mancanza di risorse, infatti, colpiscono in modo diretto e pesante i livelli di assistenza sanitaria, le condizioni di vita e di lavoro dei medici, ma anche quelli della popolazione detenuta che già oggi sconta la carenza di assistenza sanitaria, la difficoltà a usufruire in tempi efficaci di esami clinici e prestazioni specialistiche”. Sempre meno medici prestano attività in carcere - L’effetto, sottolinea Monteforte, “è che per la popolazione reclusa il diritto alla salute e alla cura è messo in discussione. Lo sarà ancora di più se, come abbiamo constatato, risultano sempre meno i medici che decidono di prestare la loro attività nelle carceri. Da qui un appello ai rappresentanti istituzionali e sindacali dei medici nella speranza che possa raggiungere ogni professionista della sanità, ne interpelli la coscienza, ne stimoli l’impegno, sostenga le giuste aspettative economiche e di carriera di chi affronta il disagio di curare la popolazione “ristretta”. La sanità pubblica, infatti, rappresenta l’unico strumento di tutela della loro salute, del loro diritto alla cura, della loro dignità di cittadini e di persone, di futuro possibile. Vorremmo che non fosse dimenticato”. Dietro le sbarre serve più prevenzione - Dietro le sbarre, si legge nell’appello, “occorrerebbe allora una maggiore prevenzione laddove, purtroppo, le cure effettive arrivano - e non per responsabilità dei medici ma per come è organizzato il servizio sanitario nei luoghi di reclusione - quando il quadro clinico si aggrava o addirittura è ormai compromesso. Per poi non parlare delle due principali cause delle patologie nelle nostre carceri: la dipendenza dalle sostanze e il disagio psichico e psichiatrico che andrebbero curati fuori e non dietro le sbarre”. L’appello è stato inviato, fra gli altri, al presidente dell’Ordine nazionale dei medici Filippo Anelli, al presidente dell’Ordine dei medici del Lazio Antonio Magi, al presidente della Regione Lazio Francesco Rocca, ai direttori generali della Asl romane, ai vertici sindacali, ai rettori de La Sapienza e di Tor Vergata, della Cattolica “Agostino Gemelli”, ai ministri della Salute Orazio Schillaci e della Giustizia Carlo Nordio, al capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Giovanni Russo, alla direttrice della carcere di Rebibbia Maria Donata Iannantuono, al Garante nazionale dei detenuti, al Garante dei detenuti della regione Lazio Stefano Anastasia, alla Garante comunale dei detenuti di Roma Valentina Calderone. Anelli: (Fnomceo): l’appello non può restare inascoltato - Filippo Anelli, presidente della Federazione nazionale degli Ordini dei medici (Fnomceo), risponde a stretto giro all’appello: “Il grido di allarme sulla carenza di assistenza sanitaria in carcere dei detenuti di Rebibbia (ma che vale anche per gli altri istituti di pena) non può restare inascoltato. Attiveremo le istituzioni per quanto possiamo fare noi. E siamo disponibili a sollecitare un tavolo, a trovare soluzioni e per tutto quello che può servire a migliorare il livello di assistenza nelle carceri”. Anastasia (Garante detenuti Lazio): senza scorte saltano quasi la metà delle visite esterne - “La scarsità di risorse finanziarie e di professionalità sanitarie - sottolinea il Garante dei detenuti del Lazio Stefano Anastasìa, dopo aver letto l’appello - sta facendo fuggire medici e infermieri dalle carceri, i posti in cui sono ricoverati gli ultimi degli ultimi con storie di salute spesso gravi, se non gravissime. É una situazione che denunciamo da tempo. Le Asl stanno facendo il possibile con le risorse a disposizione, ma senza disponibilità di personale, neanche a essere assunto, non si può andar lontano. Nella mia ultima relazione ho chiesto alla Regione Lazio di riconoscere lo status di sede disagiata alle carceri in modo da incentivare i sanitari a sceglierle come luoghi di servizio. D’altro canto il ministero della Giustizia deve garantire il servizio dei Nuclei di traduzione e piantonamento della polizia penitenziaria senza il quale la diagnostica e le visite esterne continueranno a saltare nella misura del 30-50%, con gravi danni per la salute dei detenuti e per l’efficienza delle strutture sanitarie che ne sono impegnate inutilmente”. Prescrizione, la Commissione Giustizia della Camera approva il testo di Francesco Grignetti La Stampa, 31 ottobre 2023 La Commissione Giustizia della Camera ha concluso l’esame degli emendamenti alla proposta di legge sulla prescrizione in seduta notturna. È passata anche la proposta di modifica messa a punto dalla maggioranza e presentata poi dai relatori Enrico Costa (Az) e Andrea Pellicini (FdI). Il primo emendamento che portava la firma dei tre capigruppo del centrodestra in Commissione, ma che non convinceva FI, è stato invece ritirato. Oggi si darà il mandato al relatore e il testo è atteso in Aula per il 6 novembre. In Commissione Giustizia, in pratica, è passato solo l’emendamento dei relatori che riscrive di fatto il testo che era stato presentato dal deputato di FI Pietro Pittalis. Mentre sono stati respinti tutti gli altri, tranne uno che è definito “di coordinamento”. La proposta di modifica che è stata approvata era il frutto del secondo e ultimo accordo raggiunto tra i responsabili Giustizia della maggioranza: il sottosegretario Andrea Delmastro (FdI), la presidente della Commissione Giustizia del Senato Giulia Bongiorno (Lega) e il viceministro Francesco Paolo Sisto (FI). L’aspetto principale della modifica che si vorrebbe introdurre nell’ordinamento, se il provvedimento diventerà legge, è la previsione di una sospensione della prescrizione per 24 mesi dopo la sentenza di condanna in primo grado e per 12 mesi dopo la conferma della condanna in Appello. Se la sentenza di impugnazione non interverrà nei tempi previsti, la prescrizione riprenderà il suo corso e si calcolerà anche il precedente periodo di sospensione. Anche in caso di successivo proscioglimento o di annullamento della condanna in Appello o in Cassazione, il periodo in cui il processo è stato sospeso si calcolerà ai fini della prescrizione. È, insomma, un ritorno sostanziale alla legge che venne approvata quando Andrea Orlando (Pd) era ministro della Giustizia. Un cambiamento radicale rispetto al testo Pittalis che riproponeva di fatto un ritorno alla legge ex-Cirielli che, approvata nel 2005, accelerò drasticamente i tempi della prescrizione. Nel 2017, Orlando provò ad allungare di nuovo i tempi prevedendo di fatto un bonus di 2 anni per il giudizio in Appello e di un anno per la Cassazione. Ma la norma non riuscì mai ad esplicare i suoi effetti perché nel 2019 il nuovo Guardasigilli, Alfonso Bonafede (M5S), fece un’altra riforma secondo la quale la prescrizione non si calcolava più dopo una sentenza di primo grado o un decreto di condanna. Nel 2021, la nuova ministra della Giustizia, Marta Cartabia, cambiò di nuovo le cose stabilendo che non ci fosse alcun limite di tempo in primo grado, ma il processo d’Appello non poteva durare più di 2 anni, mentre il tetto per il giudizio in Cassazione era di un anno. Per le controversie più complesse si può arrivare al massimo a 3 anni in Appello e a 18 mesi in Cassazione. Ma adesso cambia tutto di nuovo e si ritorna all’impostazione della riforma Orlando. Tra i dubbi che avanza l’opposizione c’è quello che la normativa Cartabia era stata concordata con la Commissione Ue ed è di fatto legata al Pn Un mese per fermare la gogna delle ordinanze pubblicabili di Errico Novi Il Dubbio, 31 ottobre 2023 Scade il 14 dicembre il potere del governo di emanare, come chiede il deputato di Azione Enrico Costa, un decreto legislativo per vietare che gli atti dei gip finiscano sui giornali. C’è un caso recente che merita di essere citato non foss’altro per il clamore e il rilievo dell’interessato: è l’assurda vicenda del vicegovernatore ligure Alessandro Piana, finito alla solita gogna, una ventina di giorni fa, per la presunta partecipazione a festini con coca e escort. Notizie, smentite dal numero due della giunta Toti, divenute pubbliche perché citate nell’ordinanza cautelare di un procedimento in cui lo stesso Piana neppure è indagato. È l’ultimo dei danni causati da un clamoroso vulnus dell’ordinamento, introdotto dalla riforma Orlando delle intercettazioni, che rende appunto pienamente pubblicabili le ordinanze dei gip. Di fatto è il cavallo di Troia della presunzione d’innocenza: in quegli atti giudiziari fatalmente confluisce tutta la massa di informazioni sulle quali pm e polizia giudiziaria sono tenuti a mantenere il segreto durante le indagini. Elementi che neppure il procuratore della Repubblica può divulgare alla stampa. Certo, l’articolo 4 del decreto legislativo, il 188 del 2021, con cui il governo Draghi e l’allora guardasigilli Marta Cartabia hanno introdotto le norme sulla presunzione d’innocenza impone allo steso gip di “limitare”, nei propri atti, i “riferimenti alla colpevolezza” dell’indagato “alle sole indicazioni necessarie a soddisfare i presupposti, i requisiti e le altre condizioni richieste per l’adozione del provvedimento”. Ma qui entriamo nel campo di un’inevitabile discrezionalità. E il caso ligure lo ha ampiamente dimostrato: per motivare l’adozione di un provvedimento, il giudice, su input del pm, può facilmente “esondare”. Citare fatti privati. C’è un’opportunità per superare questa contraddizione: avvalersi delle facoltà contenute nella legge delega con cui è stata recepita la direttiva Ue sulla presunzione d’innocenza, la 53 del 2021: oltre ad aver conferito al governo Draghi il potere di emanare il citato decreto 188, quella legge lascia all’Esecutivo anche la possibilità di approvare ulteriori decreti legislativi per migliore le norme a tutela degli indagati. Ma non è un mandato a tempo indeterminato: la delega scade il prossimo 14 dicembre. Al guardasigilli Carlo Nordio, lo ha ricordato il responsabile Giustizia di Azione Enrico Costa, in un’interrogazione presentata alla Camera lo scorso 13 settembre: “La legge sulla presunzione di innocenza impedisce al procuratore di parlare dell’indagine, salvo vi siano questioni di interesse pubblico”, aveva ricordato a Montecitorio l’esponente del partito di Calenda. “Ma cosa fanno il procuratore o il pm? Nella richiesta cautelare infilano tutto quello che vorrebbero ma non possono dire. Poi l’ordinanza viene emanata e pubblicata su tutti i giornali: quello che è uscito dalla porta rientra dalla finestra”, aveva aggiunto Costa nell’esporre a Nordio l’interrogazione rivoltagli con altri cinque deputati di Azione. “Lei, ministro, lo sa: non può esistere che la vera sentenza sia quella della comunicazione dell’inchiesta, mentre la sentenza vera arriva dopo dieci anni, quando una persona, anche se dichiarata innocente, ha una cicatrice che, ovviamente, non si rimargina”. Il guardasigilli non si era mostrato insensibile alla questione: nel rispondere in Aula, aveva assicurato che “la massima attenzione di questo governo e di questo ministero è rivolta al rispetto delle norme finora approvate e, soprattutto, alla possibilità di introdurre opportuni correttivi per superare le ambiguità che esistono ancora nella stessa normativa”. Ecco: ma è il caso di dire “ora o mai più”, considerato che la delega scadrà fra un mese e mezzo, praticamente un’inezia, in tempi di sessione di Bilancio. La norma che rende a tutt’oggi pubblicabili le ordinanze dei gip fu inserita nel decreto legislativo con cui Andrea Orlando diede attuazione alla propria riforma delle intercettazioni, il d.lgs. 216 del 29 dicembre 2017, all’articolo 9. Quella paradossale previsione fu introdotta per bilanciare la stretta che la riforma Orlando imponeva sugli “ascolti”. Ma le ordinanze dei gip sono provvedimenti impugnabili dalla difesa, oltre che dalla Procura, dunque assolutamente suscettibili di censure in ben due eventuali gradi successivi di giudizio. Mettere quegli atti a disposizione dei giornalisti significa consegnare un’arma formidabile nelle mani di chiunque voglia allestire la solita gogna. Ma c’è come detto quel termine ormai ravvicinatissimo, il 14 dicembre, per introdurre il correttivo sollecitato da Azione, il divieto di pubblicazione delle ordinanze cautelari. C’è, per giunta, anche l’impegno del governo a provvedere, assunto non solo in via generale con la risposta di Nordio all’interrogazione di Costa ma anche in termini formali, con l’accoglimento di un ordine del giorno presentato a inizio ottobre dallo stesso Costa e votato alla Camera anche dal centrodestra. Se si lascia passare l’opportunità lasciata aperta dalla legge del 2021, la modifica dovrà essere recuperata all’interno di un altro provvedimento, con tutte le incognite del caso. Perdere l’occasione sarebbe insensato. La Commissione Antimafia scorda i collaboratori di giustizia: svista o disegno politico? di Davide Mattiello* Il Fatto Quotidiano, 31 ottobre 2023 La Commissione parlamentare Antimafia guidata dalla On. Colosimo, nonostante(*), ha finalmente istituito i Comitati tematici nei quali si articolerà il lavoro ordinario della Commissione stessa. Sono soltanto cinque e nessuno riguarda, come già ho segnalato, il lavoro sulla strage di Via D’Amelio che resta materia della plenaria della Commissione (meno male!). Ha attirato la mia attenzione in particolare il quinto Comitato intitolato: Vittime di mafia e Testimoni di Giustizia. Intanto perché sono molto curioso di capire come verranno declinati questi due oggetti: cosa si vorrà intenderà, per esempio, con “vittime di mafia”? Certo le vittime di racket e di usura mafiosa, certo i famigliari delle persone assassinate, ma saranno considerate tra le vittime di mafia anche gli sfruttati dal caporalato? O le donne ed i minori costretti in famiglie mafiose? O più generalmente i minori privati di libertà ed opportunità perché inseriti in contesti sociali oppressi dalla cappa mafiosa? Lo vedremo. Ma il dato più inquietante è la scomparsa del riferimento ai collaboratori di giustizia, sia da questo Comitato, che di solito se ne occupa in parallelo ai Testimoni, sia da altri Comitati. Come mai? Nel contrasto alle mafie i collaboratori di giustizia hanno una importanza ineludibile. Chi sono i collaboratori di giustizia? Sono mafiosi patentati che ad un certo punto o per convenienza o per coscienza (o per un mix delle due) decidono di collaborare con la giustizia auto accusandosi dei delitti commessi ed accusando i propri sodali, permettendo così di conoscere fatti diversamente segreti, relativi ad armi, latitanti, traffici, omicidi in preparazione e relazioni esterne. L’importanza dei collaboratori è documentata anche dalla più recente operazione contro le mafie “consorziate” a Milano, operazione che sta facendo molto discutere per la discrepanza di valutazione emersa tra Distrettuale anti mafia e Giudice per le indagini preliminari che ha disposto le prime misure cautelari, ebbene proprio dall’Ordinanza di custodia cautelare emerge una storia emblematica di un ‘ndranghetista, capo società, che decide di collaborare con la giustizia, convinto da suo figlio, anche lui mafioso ed anche lui arrestato. Cito: “Poi nel Duemila ci hanno arrestato di nuovo e ci hanno portato ad Asti e lui da lì ha cominciato a scrivermi delle lettere. E niente, io da lì ho deciso. Perché non potevo tenere mio figlio all’interno del carcere, ma non volevo soltanto tirarlo fuori dal carcere, volevo proprio tirarlo fuori da questa vita assurda… Ecco ricevere queste lettere da mio figlio, mi ha scosso la coscienza e ho deciso di collaborare. Perché è giusto che lui si faccia una vita sua e che non sia io a decidere per lui”. Dell’importanza dei collaboratori si convinse proprio il pool di Palermo, coordinato prima da Chinnici, poi da Caponnetto e composto, tra gli altri, da Falcone e Borsellino, che si trovò a gestire il “proto-collaboratore” Buscetta. Quei magistrati furono tanto consapevoli della necessità di costruire un sistema legale (!) di negoziazione tra Stato e mafie che Falcone, arrivato al Ministero, ispirò le prime norme di Legge per formalizzarlo in maniera equilibrata ed efficace. Ed infatti da allora questo strumento, unitamente all’autorevolezza dei magistrati e degli investigatori deputati a farlo funzionare ha prodotto risultati clamorosi, molti dei quali ascrivibili proprio al lavoro della Procura di Palermo del dopo stragi. La Procura che mise alla porta Giammanco e fu guidata da Caselli, quella per intenderci che oggi rischia di finire sul banco degli imputati nella Commissione Colosimo, come se fosse stata parte del problema e non della soluzione, ottenendo oltre seicento condanne all’ergastolo e confische per oltre diecimila miliardi di lire. Risultati ottenuti anche per il combinato tra norme sui collaboratori e credibilità dei magistrati. Quella della “collaborazione” è una materia sicuramente complessa che negli anni è stata anche segnata da contraddizioni, abusi, strumentalizzazioni. Una materia che fatalmente è collegata a quella delle carceri, della gestione del 41 bis e che rimanda al funzionamento del Servizio Centrale di protezione, della Commissione Centrale incardinata presso il Viminale e presieduta dal leghista Molteni. Una materia evidentemente esiziale che va presidiata, insomma. Ed invece è sparita dai radar della Commissione, perché? Lo spieghi la presidente, che fa continua professione di stima nei confronti di Paolo Borsellino: dovrebbe avere ben chiaro allora quanta importanza riconoscesse proprio Borsellino al rapporto con i collaboratori, tanto che l’ultimo scontro con Giammanco lo ebbe su Mutolo. Spieghi dunque la presidente questo buco o dovremo prendere atto che anche la stima deferente per Borsellino è da intendersi nel quadro di una più ampia compatibilità, “salvo intese” diciamo. (*d’ora innanzi quando mi capiterà di fare riferimento alla presidente Colosimo metterò sempre un “nonostante”, per evocare le dure ed insuperate critiche dei famigliari delle vittime delle stragi verso una presidente a braccetto con quell’assassino ed ex terrorista) *Attivista antimafia ed ex deputato del Partito Democratico La Consulta: “Le attenuanti vanno valutate caso per caso” di Valentina Stella Il Dubbio, 31 ottobre 2023 I giudici risolvono la “falla” del Codice Rosso dopo la questione sollevata nel caso di Alex Pompa, che ha ucciso il padre dopo anni di violenze e vessazioni a danno della madre. Sentenza molto importante, in chiave garantista, quella depositata ieri dalla Corte costituzionale (n. 197, redattore Francesco Viganò) per cui anche nei processi per omicidio commesso nei confronti di una persona familiare o convivente il giudice deve avere la possibilità di valutare caso per caso se diminuire la pena in presenza della circostanza attenuante della provocazione e delle attenuanti generiche. La Corte, riunendo tre casi in cui era stata sollevata la medesima questione di costituzionalità, ha dichiarato incostituzionale l’ultimo comma dell’art. 577 cp, introdotto dalla legge n. 69 del 2019 (cosiddetto “codice rosso”). La norma vietava eccezionalmente al giudice di dichiarare prevalenti le due attenuanti rispetto all’aggravante dei rapporti familiari tra autore e vittima dell’omicidio. Tra i tre casi presi in esame, c’è quello di Alex Pompa che il 30 aprile 2020 a Collegno (Torino), uccise, a soli 18 anni, con 34 coltellate, il padre nel corso dell’ennesima lite di quest’ultimo con la madre. Assolto in primo grado, la Corte di appello invece non ritenne che l’imputato avesse agito in legittima difesa, ma gli riconobbe varie attenuanti, tra cui la provocazione e le attenuanti generiche, rimettendo il caso alla Consulta. Quest’ultima, come si legge in una nota, ha ritenuto, in particolare, che il divieto posto dalla norma censurata determini una violazione dei principi di parità di trattamento di fronte alla legge, di proporzionalità e individualizzazione della pena sanciti dagli articoli 3 e 27 della Costituzione. “La norma impone infatti al giudice di applicare la stessa pena (l’ergastolo o, in alternativa, la reclusione non inferiore a ventun anni) sia ai più efferati casi di femminicidio, sia a casi come quelli oggetto dei procedimenti principali, caratterizzati da significativi elementi che diminuiscono la colpevolezza degli imputati, e nei quali una pena così severa risulterebbe manifestamente sproporzionata”. Come leggiamo in sentenza, “ogni omicidio lede in maniera definitiva una vita umana. E poiché ciascuna persona ha pari dignità rispetto a tutte le altre, ogni omicidio parrebbe avere identico disvalore. Eppure, da sempre il diritto penale distingue - nell’ambito degli omicidi punibili - tra fatti più e meno gravi. Già dal punto di vista oggettivo, alcune condotte omicide sono specialmente gravi: chi uccide la propria vittima dopo averle inflitto sofferenze prolungate, ad esempio, aggiunge ulteriore dolore al male di per sé insito nell’atto omicida. Ma è quando la condotta omicida venga riguardata dal lato dell’autore anziché da quello della vittima, che diviene agevole comprendere perché la gravità della condotta omicida sia suscettibile di significative graduazioni”. Nei tre casi esaminati si tratta di una situazione maturata “in contesti di prolungata e intensa sofferenza, causata da una lunga serie di soprusi e maltrattamenti posti in essere - colpevolmente o no - dalle stesse vittime”. Alex, in particolare, viveva con il padre, la madre e il fratello. Il padre teneva da anni un comportamento persecutorio e intimidatorio nei confronti dei familiari, e in particolare della moglie, il che aveva indotto i due ragazzi ad assumere il ruolo di custodi della madre. L’imputato e suo fratello, infatti, si erano fatti carico della protezione della donna, cercando di non lasciarla mai sola e di difenderla dalle più gravi aggressioni del marito. Così commenta al Dubbio il legale del ragazzo, Claudio Strata: “Tiriamo un sospiro di sollievo perché noi ovviamente abbiamo sempre creduto nella fondatezza della questione che abbiamo subito sollevata. D’accordo con noi anche molti esponenti dell’avvocatura e giuristi. Non abbiamo dunque sbagliato nel dubitare della norma che legava le mani ai giudici che devono essere liberi di decidere caso per caso e dosare la pena in base alle singole circostanze”. Ora la Corte di Assise di Appello di Torino dovrà fissare l’udienza e quindi, avendo già preannunciato la volontà di riconoscere le attenuanti prevalenti sulle aggravanti del rapporto di parentela, dovrà solo leggere il dispositivo condannando comunque il ragazzo ma alla pena più bassa - sei anni due mesi e venti giorni, di cui un anno e mezzo già scontato ai domiciliari - rispetto a quella che era in astratto ipotizzabile. Anche il pubblico ministero si era detto favorevole a sollevare il dubbio. Comunque aveva chiesto 14 anni, la pena minima possibile per un omicidio volontario, considerata altresì la semi infermità mentale del ragazzo accertata da una perizia psichiatrica. Strata comunque annuncia il ricorso in Cassazione per tentare di tornare all’assoluzione di primo grado. “Non desistiamo, siamo ancora più motivati”. Omicidi in famiglia: incostituzionale il divieto di valutare le attenuanti di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 31 ottobre 2023 La Corte costituzionale, sentenza n. 197 di oggi, ha dichiarato incostituzionale l’ultimo comma dell’art. 577 del codice penale, introdotto dal “Codice rosso” perché approda a esiti contraddittori. Anche nei processi per omicidio commesso nei confronti di una persona familiare o convivente il giudice deve avere la possibilità di valutare caso per caso se diminuire la pena in presenza della circostanza attenuante della provocazione e delle attenuanti generiche. Lo ha stabilito la Corte costituzionale con la sentenza n. 197, depositata oggi (redattore Francesco Viganò), con la quale è stato dichiarato incostituzionale l’ultimo comma dell’articolo 577 del codice penale, introdotto dalla legge n. 69 del 2019 (cosiddetto “codice rosso”). La norma vietava eccezionalmente al giudice di dichiarare prevalenti le due attenuanti rispetto all’aggravante dei rapporti familiari tra autore e vittima dell’omicidio. La questione era stata sollevata da due ordinanze della Corte d’assise d’appello di Torino e da un’ordinanza della Corte d’assise di Cagliari. La Corte d’assise d’appello di Torino sta procedendo nei confronti di un giovane, diciottenne al momento del fatto, accusato di avere ucciso il padre in occasione di un ennesimo episodio aggressivo nei confronti propri, della madre e del fratello. La Corte torinese non ritiene - a differenza di quanto stabilito dai giudici in primo grado - che l’imputato abbia agito in legittima difesa, ma gli riconosce varie attenuanti, tra cui la provocazione e le attenuanti generiche. In un diverso procedimento, la stessa Corte d’assise d’appello deve giudicare della responsabilità penale di una donna che aveva ucciso il marito, autore di reiterati comportamenti violenti e prevaricatori nei confronti propri e del figlio. Anche in questo caso, la Corte esclude la legittima difesa, ma ritiene che all’imputata debbano essere riconosciute, tra l’altro, la provocazione e le attenuanti generiche. La corte cagliaritana, infine, sta procedendo nei confronti di un uomo, sessantasettenne al momento del fatto, accusato di avere ucciso la moglie sessantenne, in un momento di esasperazione provocato dai continui comportamenti aggressivi della vittima, alcolista e affetta da patologie psichiatriche. La Corte costituzionale ha ritenuto, in particolare, che il divieto posto dalla norma censurata determini una violazione dei principi di parità di trattamento di fronte alla legge, di proporzionalità e individualizzazione della pena sanciti dagli articoli 3 e 27 della Costituzione. La norma impone infatti al giudice di applicare la stessa pena (l’ergastolo o, in alternativa, la reclusione non inferiore a ventun anni) sia ai più efferati casi di femminicidio, sia a casi come quelli oggetto dei procedimenti principali, caratterizzati da significativi elementi che diminuiscono la colpevolezza degli imputati, e nei quali una pena così severa risulterebbe manifestamente sproporzionata. La decisione odierna, ha sottolineato la Corte, non contraddice in alcun modo la legittima, ed anzi apprezzabile, finalità del “codice rosso” di intervenire con misure incisive, di natura preventiva e repressiva, contro il drammatico fenomeno della violenza e degli abusi commessi nell’ambito delle relazioni familiari e affettive. Tuttavia, la Corte ha evidenziato che l’assolutezza del divieto posto dal legislatore può comportare nei singoli casi risultati contraddittori rispetto a questo scopo, finendo per determinare l’applicazione di pene manifestamente eccessive in “situazioni in cui è il soggetto che ha subito per anni comportamenti aggressivi a compiere l’atto omicida, per effetto di una improvvisa perdita di autocontrollo causata dalla serie innumerevole di prevaricazioni cui era stato sottoposto”. In conseguenza di questa decisione, le corti d’assise avranno nuovamente la possibilità di valutare caso per caso se debba essere inflitta la pena dell’ergastolo, prevista in via generale per gli omicidi commessi nei confronti di un familiare o di un convivente, ovvero debba essere applicata una pena più mite, adeguata alla concreta gravità della condotta dell’imputato e al grado della sua colpevolezza. Milano. Detenuto muore improvvisamente a 21 anni: la famiglia chiede verità di Ilaria Quattrone fanpage.it, 31 ottobre 2023 Un ragazzo di 21 anni è morto poco dopo essere stato trasferito nel carcere di Opera (Milano) per scontare una vecchia pena per il furto di uno smart-phone. I genitori vogliono sapere cos’è successo al figlio. Lo scorso 26 ottobre i genitori di Oumar Dia, nato e cresciuto a Bergamo nel 2002, hanno scoperto che loro figlio era deceduto all’ospedale di Rozzano, nell’hinterland di Milano, dove era stato trasferito da pochi giorni dopo un periodo di detenzione che - come apprende Fanpage.it - ha trascorso nel carcere di Opera, in provincia di Milano. L’arresto di Oumar Dia - Oumar Dia, 21 anni, è stato arrestato lo scorso 7 giugno mentre rientrava a casa dal lavoro, perché due anni e mezzo prima, quando aveva poco più di 19 anni, si era reso responsabile del furto di uno smart-phone. Quando è arrivata la sentenza di condanna a quattro anni di reclusione, benché nel frattempo non risultassero ulteriori reati commessi, è stato rinchiuso nel carcere di Bergamo. Circa due settimane fa Oumar Dia è stato trasferito presso il carcere di Opera, ma la famiglia - secondo quanto racconta l’organizzazione no-profit “No justice no peace” - sarebbe stata informata del trasferimento soltanto dopo alcuni giorni. Cosa sia successo in quel lasso di tempo, al momento, non è dato saperlo. Né è conosciuto il motivo del trasferimento nell’istituto penitenziario milanese. La morte da detenuto - Sta di fatto che il 26 ottobre la famiglia Dia è stata informata dell’inaspettato decesso di Oumar. Il ragazzo, infatti, è stato trasferito all’ospedale di Rozzano: anche in questo caso non è chiaro il motivo del ricovero. Sulla base di quanto raccontato dall’associazione no profit No Justice No Peace Italy, l’istituto penitenziario avrebbe detto alla madre che “è impazzito, era malato ed è morto improvvisamente”. A insospettire i genitori del giovane bergamasco è che “la settimana in cui Oumar è venuto a mancare è la stessa in cui sarebbe stato rimandato a casa e messo ai domiciliari”. Per questo la famiglia chiede “cos’è successo ad Oumar durante il trasferimento?”. E, giustamente, vogliono la verità. Caltanissetta. Suicidio in carcere, disposta l’autopsia sul corpo di Damiano di Vincenzo Falci Giornale di Sicilia, 31 ottobre 2023 La procura apre un fascicolo sulla morte in cella di un detenuto. Il ventottenne Damiano Cosimo Lombardo che ha chiuso il suo conto con la vita a pochi mesi dalla fine della condanna per tentato omicidio che stava scontando. Per un accoltellamento la notte dell’11 dicembre del 2016. Nessun nome, in questo momento, è stato iscritto nel dossier che il sostituto procuratore Simona Russo ha istruito. E per mettere nero su bianco è stato disposto l’esame autoptico sulla salma del ragazzo. Tra una settimana esatta il pm conferirà l’incarico al medico legale. Intanto i familiari del ragazzo deceduto al “Malaspina”, il padre, Massimiliano Salvatore Lombardo, la madre, Concetta Panebianco, il fratello, Rosario Mattia, le sorelle Noemi Luca e Giada Giorgia Pia e la campagna Stefy Noel Pagliaro (assistiti dall’avvocato Davide Schillaci) si sono riservati sulla presentazione di una denuncia per verificare eventuali responsabilità. Non velatamente hanno messo in discussione la mancata presa in carico da parte del servizio psichiatrico, perché in precedenza vi sarebbero stati diversi segnali allarmanti in tal senso da parte del ragazzo. Fino a quando domenica si è consumato l’irreparabile. Il caso, in sostanza, secondo il legale delle parti offese, durante il periodo detentivo non sarebbe stato adeguatamente attenzionato. E il dolore della madre, assai composto, racchiude l’enorme tragedia per la perdita del suo ragazzo. “Soffriva di sbalzi d’umore, abbiamo chiesto più volte aiuto, che potesse andare ai domiciliari o in una comunità che potesse assisterlo, ma la nostra voce è rimasta sempre inascoltata? mio figlio era disperato”. Non c’è rabbia né nelle sue parole, né nei toni”. Non chiedevo di portarlo a casa, ma di curarlo, ma dicevano che era idoneo a restare in carcere? idoneo, però gli davano medicine?”, parole, le sue, da cui traspare un dolore sordo, ma con un contegno che ispira ammirazione. “Già tre volte aveva tentato, era finito in ospedale, poi in isolamento, ma non hanno mai voluto affidare a cure adeguate”, ha ricordato con profonda amarezza. E poi il grande, enorme, rammarico. “Il 17 novembre, finalmente, era stata fissata l’udienza perché avevamo chiesto che fosse trasferito in una comunità di recupero, perché potesse essere seguito da uno psicologo? ma non ce l’ha più fatta, non ha più retto? non ci siamo arrivati”, non si dà pace, con compita sofferenza, mamma Concetta. Caltanissetta. La madre di Damiano: “Avevamo già chiesto cure per mio figlio, nessuno ci ha ascoltati” di Vincenzo Falci castelloincantato.it, 31 ottobre 2023 Disposta l’autopsia sul corpo del ragazzo che, in carcere, ha deciso di chiudere il suo conto con la vita. È stata la stessa procura ad aprire un fascicolo seppur contro ignoti. E tra le pieghe della nuova inchiesta ha pure disposto l’effettuazione dell’esame autoptico sul corpo del ventottenne Damiano Cosimo Lombardo. Lui che l’estremo gesto lo ha compito mentre al carcere Malaspina di Caltanissetta stava scontando una condanna per tentato omicidio. Imputazione legata a una lite, finita con un accoltellamento, la notte tra il 10 e l’11 dicembre di sette anni fa. Ma ormai era a pochi mesi dalla fine della pena. E non è tutto. Sì, perché tra poco più di un paio di settimane era fissata l’udienza per un suo eventuale affidamento a una comunità di recupero. “Più volte abbiamo chiesto aiuto per mio figlio, ma non ci hanno mai ascoltati. dicevano che idoneo a rimanere in carcere”, è lo sfogo, assai composto della madre del ragazzo. Il sostituto procuratore Simona Russo ha disposto l’autopsia sul corpo del giovane. Tra una settimana conferirà l’incarico. E i familiari - assistiti dall’avvocato Davide Schillaci - potranno nominare loro consulenti di parte. Gli stessi familiari, nei prossimi giorni, potrebbero anche presentare denuncia o querela perché, a denti non troppo stretti, hanno spiegato che in passato v’erano stati segnali preoccupanti da parte del ragazzo che già altre due volte aveva tentato di chiudere il suo conto con la vita. Torino. Perse 30 chili e morì in carcere ucciso da un batterio: la colpa non è di nessuno di Elisa Sola La Repubblica, 31 ottobre 2023 Il gip approva la richiesta del pm e archivia il caso. In carcere al Lorusso-Cutugno scese da 80 a 50 chili nel giro di sei mesi. Agenti e medici non intervennero, lui fu ucciso da un batterio. Non ci sono colpevoli per la morte di Antonio Raddi, stroncato a 28 anni da un’infezione dopo avere perso 30 chili in sei mesi nel carcere di Torino. Nessuno andrà a processo. E forse nessuno, a questo punto, saprà mai cosa gli è accaduto dietro le sbarre di un luogo inaccessibile. O i nomi di chi avrebbe potuto salvarlo e ha fatto finta di non vedere. Il gip di Torino, accogliendo la richiesta del procuratore aggiunto Vincenzo Pacileo, ha archiviato l’indagine. Raddi è morto il 30 dicembre 2019. Pesava 50 chili, rispetto agli 80 di quando era entrato alle Vallette, a giugno. Doveva scontare pochi mesi per piccoli reati legati alla tossicodipendenza. Il 4 dicembre la Garante dei detenuti, vedendolo in sedia a rotelle, nell’ennesima segnalazione inviata ai vertici del carcere scriveva: “Implora di intervenire. Ha le stesse sembianze di Stefano Cucchi”. Gli indagati - per omicidio colposo - erano quattro medici della sanità penitenziaria del Lorusso e Cutugno. “Pur riconoscendo che la struttura sanitaria aveva gravemente sottovalutato la situazione - spiegano i legali della famiglia - e che lo stato di malnutrizione fu una delle cause dell’infezione che condusse Antonio alla morte, il giudice ha archiviato ritenendo che una supposta scarsa collaborazione dello stesso Antonio sarebbe stata determinante”. Il riferimento alla “non collaborazione” è il rifiuto di Raddi di farsi ricoverare al repartino delle Molinette il 10 dicembre 2019. “Antonio aveva paura di quel posto”, raccontava chi lo ha conosciuto. Nella stessa data i vertici del carcere scrivevano: “Il soggetto è ampiamente monitorato”. Tre giorni dopo Raddi collassa. “Vomita sangue e non si muove”, l’allarme del compagno di cella. Quando il giovane il 13 dicembre arriva all’ospedale Maria Vittoria, non c’è più nulla da fare. Entra in coma. E muore 17 giorni dopo. Il suo corpo è troppo fragile per reagire a un batterio comune, la Klebsiella pneumoniae. Eppure, alle Vallette, nessuno credeva che Antonio stesse male. Il 20 novembre un medico del carcere rispondeva all’ennesima lettera della garante dei detenuti: “La perdita di peso è una modalità strumentale per ottenere benefici secondari”. L’inchiesta della procura è durata quattro anni. Per due volte il pm ha chiesto l’archiviazione. La famiglia si è sempre opposta, con gli avvocati Gianluca Vitale e Federico Milano. Nell’ultima consulenza tecnica ordinata dalla procura i medici legali scrivono: “Risulta il difetto di approfondite verifiche che, in corso del dimagrimento del detenuto, dovevano essere attuate quanto meno da settembre-ottobre del 2019. Se messe in atto, avrebbero potuto arginare lo stato di malnutrizione”. Dunque, già quattro mesi prima della morte la situazione era grave. Ma il gip ha ritenuto fondamentale il fatto che Raddi, tre giorni prima dell’ultimo accesso in ospedale, avesse rifiutato il ricovero. Se fosse rimasto in ospedale, forse i medici avrebbero potuto capire che aveva un’infezione e salvarlo, è il ragionamento del pm avallato dal giudice. Ma è tardi per continuare a chiedersi se o perché. Il caso è chiuso. Per sempre. Roma. “In carcere pochi medici e stremati. Qui come un Pronto soccorso preso d’assalto” di Carlo Picozza La Repubblica, 31 ottobre 2023 L’appello dei detenuti di Rebibbia:”Siamo cittadini che hanno sbagliato e scontiamo la condanna in carcere, ma non per questo abbiamo perso il diritto alla salute e quello alla dignità. La nostra vita è nelle vostre mani”. Arriva dal penitenziario di Rebibbia un Sos per la salute dei detenuti, messa a rischio dalla carenza dei medici in campo: solo due dei quattro previsti. Diritti che sembrano in parte negati. “Dimezzati e stremati, i medici non ce la fanno a reggere l’onda d’urto di una domanda di assistenza e cure nelle carceri sempre più sovraffollate”, spiega Roberto Monteforte, coordinatore esterno di Non tutti sanno, il notiziario dei detenuti di Rebibbia, che ha promosso e inviato l’appello a una quarantina di soggetti istituzionali, dalla Regione alle Asl, ai sindacati dei medici di base. “Conosciamo le difficoltà del Servizio sanitario nazionale e di quello regionale per la scarsità di risorse e mezzi, ma in carcere non c’è alternativa alla sanità pubblica: senza questa, il nostro diritto costituzionale alle cure è di fatto disatteso”. Tant’è, il posto lasciato vuoto dal medico di base o dallo specialista che va in pensione, resta vuoto: “I bandi indetti dalle Asl vanno deserti e si aspettano anche anni prima dei rimpiazzi, con rischi e disagi per noi reclusi che già subiamo gli effetti nefasti del sovraffollamento”. E per gli stessi medici, a volte, “il carcere è più impegnativo di un Pronto soccorso preso d’assalto”. “Senza incentivi, dalle indennità alle possibilità di carriera - argomentano i detenuti attraverso Non tutti sanno - chi può scappa da qui anche se noi abbiamo bisogno di personale sanitario preparato e solidale”. L’appello si chiude con una proposta: “Si consenta al medico che va in pensione di continuare a prestare la sua attività nelle carceri e a loro siano affiancati giovani tirocinanti: sarebbe un’esperienza esaltante, un’occasione per scoprire l’umanità dolente e solidale che sta dietro le sbarre: non ci abbandonate”. Ascoli. Il giudice di sorveglianza: “Ci sono troppe diseguaglianze. Diritto alla salute dei detenuti” di Peppe Ercoli Il Resto del Carlino, 31 ottobre 2023 Raffaele Agostini: “La disparità di trattamento a seconda del carcere in cui si trovano è evidente. Suicidi in amento: crescita delle persone in cella con patologie psichiatriche”. “C’è disparità di trattamento tra detenuti a seconda del carcere in cui si trovano. Questa differenza si acuisce se pensiamo al diritto alla salute”. Parole del magistrato di sorveglianza delle Marche Raffaele Agostini che recentemente ha partecipato ad Ascoli ad un incontro sul tema delle carceri e di come vivono i detenuti al loro interno. In Italia ci sono 58 uffici di sorveglianza, di cui due nelle Marche (Macerata e Ancona), e 29 tribunali con competenza distrettuale. Il magistrato di sorveglianza si occupa di condannati definitivi, concede o revoca loro misure alternative eo altri benefici ed inoltre è garante della legalità della vita detentiva e dei diritti dei detenuti. Giudice Agostini quali criticità emergono nelle carceri marchigiane? “La disparità di trattamento tra detenuti a seconda del carcere in cui si trovano di cui accennavo è evidente. Questa differenza si acuisce se pensiamo al diritto alla salute. Basti dire che a seguito del passaggio della sanità penitenziaria dal Ministero al Sistema sanitario e tenuto conto della regionalizzazione delle Ast, vi è molta disomogeneità, con violazione dei principi di eguaglianza, solidarietà e dignità, in quanto in alcune regioni sono assicurate determinate prestazioni sanitarie e in altre no. Succede però, ad esempio, che se negli istituti di pena di Viterbo e de L’ Aquila ad un detenuto viene somministrato gratis l’omeoprazolo a causa di una patologia all’apparato gastrointestinale, è possibile che quel detenuto, se trasferito a Sassari, si veda negare lo stesso farmaco dall’ Ast della Sardegna”. Altri esempi pratici? “Si pensi alle forniture di protesi, di occhiali da vista, di dentiere e al fatto che in carcere ci sono anche soggetti ciechi, mutilati, in carrozzina che di questi presidi medici hanno assolutamente bisogno. Sono tanti gli esempi di detenuti che invocano il riconoscimento a diritti basilari quali la salubrità degli ambienti, l’accesso allo studio, il poter professare la fede religiosa, la garanzia alla libertà e alla segretezza della corrispondenza, alla tutela dei rapporti affettivi e familiari, alla dignità personale, al lavoro e altro”. Le disposizioni normative vigenti concernenti il diritto alla salute dei detenuti consentono l’uscita anticipata dal carcere per ragioni di salute, provvisoriamente o definitivamente... “Le cronache degli ultimi anni riferiscono dei casi di Riina e Provenzano, a proposito del diritto ad una morte dignitosa, e Cospito a proposito dello sciopero della fame e della sete e del divieto dei trattamenti sanitari obbligatori, fino a quando il soggetto è capace di autodeterminarsi. Abbiamo norme che regolano visite o ricoveri in luoghi esterni di cura, il rinvio obbligatorio o facoltativo dell’esecuzione, la detenzione domiciliare. Ricordo però che in Italia è vero che c’è il diritto alla salute anche per chi sconta una pena in regime di detenzione ed è riconosciuto dalla Costituzione, ma va anche detto che, sovente, questo diritto viene utilizzato strumentalmente, a fini di ottenimento della libertà”. Il numero dei suicidi in carcere è in aumento... “Un fenomeno dovuto probabilmente alla crescita del numero di detenuti con patologie psichiatriche, visto che la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari non è stata compensate dall’apertura di un numero adeguato di Rems, che sono infatti poche, posti disponibili limitati e lunghe liste di attese. È importante bilanciare le patologie sanitarie con la pericolosità sociale e con le esigenze di sicurezza della collettività”. Brescia. Oltre Canton Mombello, verso un tavolo di lavoro per il nuovo carcere elivebrescia.tv, 31 ottobre 2023 Che sia la volta buona? Le premesse ci sono tutte, a partire dalle parole pesanti del presidente della Corte d’appello di Brescia Claudio Castelli che questa mattina ha convocato al PalaGiustizia la politica, le istituzioni e tutte le parti in causa per provare ad avviare in modo decisivo la svolta del superamento di Canton Mombello. Il circondariale cittadino è da anni al collasso. Il sovraffollamento è endemico e la struttura supera abbondantemente il secolo di vita. A più riprese assurge alla ribalta delle cronache per i fatti di cronaca che avvengono all’interno (soprattutto aggressioni e risse) e subito dopo ci si interroga su da farsi, salvo poi dimenticarsene. Anche questa mattina è stata unanime la volontà di andare oltre il Nerio Fischione, di chiuderlo definitivamente. Tramontato il primo progetto di ampliamento del carcere di Verziano che prevedeva l’infausta eliminazione del centro sportivo oggi presente, bisogna partire con un nuovo tavolo di lavoro per raggiungere quanto prima una soluzione. “Speriamo di non perdere tempo, oggi abbiamo riscontrato una buona disponibilità da parte di tutti - ha detto Castelli - A questo punto speriamo che le buone intenzioni manifestate dalla politica e le esigenze rappresentate con grande efficacia dal dipartimento di amministrazione penitenziaria e dalla direzione possano trovare uno sbocco”. Castelli sottolinea come sia un problema che riguarda anche i magistrati, perché “siamo noi - dice - che condanniamo la gente, che mettiamo in galera la gente e a questo punto dobbiamo avere la garanzia che le persone vadano in un luogo dove c’è la possibilità di rieducazione, di recupero. Dove la pena viene scontata per quello che deve essere: afflittiva, ma né degradante, né inumana”. Sul tema dei fondi per costruire il nuovo carcere di Brescia, il presidente della Procura generale Guido Risoli ha lanciato una mezza provocazione: “Si potrebbe pensare di indirizzare verso questo carcere i denari che vengono confiscati alla criminalità in modo definitivo a Brescia - spiega - Il sistema giudiziario bresciano potrebbe così contribuire dal punto di vista delle risorse”. Il primo passo sarà quindi quello di attivare quanto prima un tavolo di lavoro che coinvolga attivamente tutte le realtà coinvolte, con un apporto fattivo anche della Direzione carceraria e del Tribunale di sorveglianza. Fondamentale sarà poi il lavoro concreto della politica, oggi presente in tutte le sue sfumature, per portare quelle che sono le istanze di un intero territorio là dove si decide. Milano. 5 minuti in cella per capire la vita infernale di un detenuto di Alessandro Dell’Orto Libero, 31 ottobre 2023 La porta si chiude alle spalle sbattendo e tutto si ferma per un istante - respiro pensiero emozioni - come sospeso nel tempo per poi ripartire all’impazzata e quei 300 secondi - tic tac tic tac - che passerai con due sconosciute in pochi metri quadrati diventano un’eternità mentre il battito del cuore accelerato rompe un silenzio surreale e ti guardi attorno misurando la stanza che è grande quattro passi per due e pensi a come cazzo fanno in sei a viverci e conviverci qua dentro con una sola turca a fianco del lavabo che fa da cucina là nell’angolo e l’ansia sale - tic tac tic tac - e provi a distenderti sul duro materasso blu e quando ti alzi sbatti la testa sul letto a castello sopra dite perché non c’è lo spazio nemmeno per stare seduti e intanto le mura sembrano restringersi e cerchi un appiglio perché tutto è come se girasse - tic tac tic tac - e ogni dettaglio diventa un pensiero triste e rabbioso e quando sta per mancarti il fiato finalmente là fuori senti dei passi che scandiscono gli ultimi secondi, è finita. E la porta si riapre, torni libero. Benvenuti, anzi malvenuti, a “Extrema Ratio”, installazione itinerante di Caritas Ambrosiana esposta in Bim - dove Bicocca incontra Milano, area nel cuore di Bicocca, che propone l’esperienza in una finta cella di carcere fedelmente riprodotta: fine pena dopo 5 minuti, ma il tempo non passa mai. Quando sei dentro c’è spazio soltanto per le emozioni, quando esci e ti confronti con i compagni di “gabbia” (in questo caso le studentesse Federica e Sara) vieni travolto dalle riflessioni e dal ricordo dei particolari. Perché è tutto come nella realtà - la stanza è stata realizzata nella falegnameria del carcere di Bollate, gli oggetti sono esattamente come quelli in prigione e perfino le scritte sui muri e i disegni appesi sono riproduzioni precise - e prima di entrare ti fanno separare da orologi, cellulari e oggetti personali per entrare subito nel mood. Adesso, fuori dalla cella e a freddo, vivi di immagini forti, rivedi la porta che si chiude e capisci che tu almeno hai avuto la fortuna di non sentire la chiave che gira togliendoli la libertà, e che all’interno vedevi una maniglia, cosa che in carcere ovviamente non c’è. E poi ripensi all’unica finestra sopra il letto che porta un solo filo di luce che deve bastare per tutti, così come la televisione, che è uno scatolotto con i tasti (altro che telecomando) ricoperto di adesivi e chissà quanti anni avrà. Lo spazio per gli oggetti personali è ridicolo, in una specie di armadietto alto poco più di un metro (con sopra un ventilatore, privilegio per pochi) ci stanno forse un paio di borse e le uniche mensole sono quelle ricavate dall’ingegno dei detenuti: file di pacchetti (vuoti) di sigarette appiccicati insieme e attaccate al muro. Poi il bagno, una turca con una bottiglia di plastica infilata al contrario per evitare i cattivi odori e la risalita di scarafaggi e topi, e al suo fianco un lavabo che funge da cucina, con un fornellino da campeggio per improvvisare un pasto e un sacchetto di aglio appeso a un chiodo per insaporire gli aromi. Qui, in celle come questa, si racchiude tutta la vita di sei persone quasi sempre di età, religione, ceto sociali differenti - e lo capisci dalle scritte sui muri. A destra, nel cesso-cucina, c’è la sagoma disegnata quasi a grandezza naturale di una donna nuda, sulle pareti vicine ai letti frasi ironiche (“mamma perdonami... paga l’avvocato!”; “-Gesù, +maria”), esistenziali (“Chi galera non prova, la libertà non apprezza”) e politiche (“W il duce”), oltre, ovviamente, a molti riferimenti religiosi come una foto di Gesù, due rosari, un foglio con le “Massime di San Giovanni Calabria”. “Ho cercato di portare una cella fuori dal carcere per far capire a tutti in quali condizioni di sovraffollamento sono costretti a vivere i detenuti. Un modo per far riflettere”, spiega Maria Elena Magrin, professoressa di Psicologia Giuridica dell’università Bicocca che ha ideato e curato l’iniziativa in occasione del decennale del polo penitenziario dell’ateneo, di cui è coordinatrice. “Le reazioni a questa esperienza immersiva sono forti e di ogni tipo: la maggior parte delle persone però si interroga sul perché abbandonare carcerati - spesso giovanissimi alla noia in pochi metri quadrati privandoli così di un presente, che potrebbe invece impegnarli in qualche attività, e un futuro. Il tutto in nome del popolo italiano, quindi noi. Già, perché il carcere ha una fine pena per quasi tutti, quindi a un certo punto si esce e si apre il tema della re-inclusione, di quello che succede dopo”. La visita della finta cella, inizialmente pensata per gli studenti, ora è invece è aperta a tutti e l’installazione “Extrema Ratio” resterà operativa in Bim - dove Bicocca incontra Milano fino al prossimo 15 novembre (ingresso gratuito da lunedì a venerdì dalle 9 alle 18 e sabato e domenica dalle 10 alle 17. Entrata libera da Viale dell’Innovazione 3). Sono cinque minuti della vostra vita che val la pena di investire per capire la (non) vita della maggior parte dei detenuti delle sovraffollate carceri italiane. Tic tac tic tac, in 300 secondi uscirete cambiati. Milano. “Atacama”, e i detenuti diventano videoproduttori di Laura Aldorisio Corriere della Sera, 31 ottobre 2023 Startup creata nella struttura milanese di Bollate da due ex carcerati. Ora è un network di qualità che dà lavoro in istituti di tutta Italia “I nostri clienti sono le aziende, il genere più richiesto è il docufilm. “Atacama è il luogo più inospitale della terra, ma è anche il luogo al mondo dove si vedono meglio le stelle”. Questa è la frase d’apertura, il biglietto da visita del sito di Atacama, la startup che realizza video corporate, e non solo, nata all’interno del carcere di Bollate. Un’avventura imprenditoriale che ha saputo ampliare l’orizzonte di molti detenuti. “Per noi che viviamo in una condizione di semilibertà poter dare forma a un’idea è come vedere crescere un fiore ad Atacama, il deserto che si estende dal Perù al Cile”, racconta uno dei due fondatori, Matteo Gorelli. “Ha una particolarità: lì nascono persino alcuni fiori, ma muoiono in fretta. Ecco, questo è il nostro rischio, tentare di fare qualcosa di buono che poi subito marcisce; l’unica possibilità è vedere crescere una novità già in carcere”. Proprio tra i detenuti di Bollate, Gorelli incontra Fernando Gomes Da Silva e per esperienze precedenti, ma anche per un presentito talento, immaginano di poter produrre video di alta qualità per le aziende. Entrano in contatto con Andrea Rangone, fondatore e presidente di Digita136o, e accade l’imprevisto che cambia il corso delle storie personali: Rangone sceglie di sostenere il progetto, partendo dal presupposto che il lavoro è lo strumento più potente contro la recidiva. Chi non lavora nel 70% dei casi commette nuovamente un reato, mentre solo il 2% tra chi ha avuto un’occupazione durante la pena ricade nell’illegalità. Atacama oggi è una cooperativa sociale, supportata da Sesta Opera San Fedele, associazione di volontariato penitenziario, e punta a costituire un team di professionisti composto da detenuti ed ex detenuti, formato con le competenze richieste dal mercato per produzioni video. Ora Matteo e Fernando sono in regime di semilibertà, tornano ogni sera in carcere, ma hanno creato un tale network che se si presenta un cliente dalla Sicilia, alcuni detenuti siciliani con competenze adeguate possono dare loro un supporto, coordinati da remoto da Matteo, Fernando e Jessa, che si è aggiunto al primo duo. “Lavorare ti cambia la vita perché inizi a determinare te stesso, mentre prima era il carcere che ti determinava. Oggi fare impresa significa essere liberi, il nostro immaginario è libero ed è un paradigma nuovo”. Ma oltre che una nuova strada per sé, Matteo racconta che molti ragazzi detenuti si rivolgono a loro chiedendo di lavorare assieme o di aprire loro nuovi scorci: “Siamo riusciti a inserire indirettamente molte persone grazie a dei network”. I ragazzi possono anche contare sul mentoring “fondamentale come credibilità e come ordine perché il confronto con persone di grande esperienza ci aiuta a incentivare la nostra”. E così i clienti, anche di grandissima statura, aumentano. “Ci chiedono podcast, post produzione, videocorporate, ma soprattutto docufilm. Io ho scoperto lo stabilirsi di un talento e frequentare i propri talenti fa stare bene tutti”. Ascoli Piceno. “Oltre le parole”: progetto per migliorare il carcere di Cristiano Pietropaolo youtvrs.it, 31 ottobre 2023 “Oltre le parole” è il nome di un’iniziativa dell’Ambito Territoriale Sociale XXII (Comuni di Ascoli Piceno, Acquasanta, Arquata, Folignano, Maltignano, Montegallo, Palmiano, Venarotta e Roccafluvione) da realizzare all’interno della Casa Circondariale di Ascoli Piceno. Il progetto è il prodotto di un gruppo di lavoro coordinato dal Coordinatore dell’Ambito Domenico Fanesi, e sviluppato dall’Associazione di promozione sociale La Casa di Asterione esperta e molto attiva nelle attività di mediazione artistica e teatro sociale. Il tutto si svolge grazie alla collaborazione diretta del Direttore della Casa Circondariale di Ascoli Daniela Valentini e della responsabile dell’Area Educativa Cristina Sabatini. Obiettivo principale del progetto “Oltre le parole” è quello di migliorare la qualità dell’esperienza carceraria dei detenuti riducendo il disagio sociale e individuale connesso con la difficoltà di comunicare, agevolando il recupero dei soggetti. Secondariamente, si vuole ottenere l’alleggerimento dell’attività di gestione dei detenuti da parte degli agenti penitenziari. “Il percorso di recupero - ha detto il sindaco, Marco Fioravanti - passa anche attraverso iniziative come questa, fondamentali per ridurre il disagio sociale e per dare la possibilità ai detenuti di esprimersi e comunicare. Fondamentale è l’attività di mediazione culturale, per una maggiore e più efficace integrazione dei detenuti immigrati”. L’assessore ai Servizi sociali, Massimiliano Brugni, ha spiegato che “Il nome del progetto è già di per sé molto significativo: vogliamo andare ‘Oltre le parole’ e dare un aiuto concreto a chi è sottoposto a provvedimenti dell’autorità giudiziaria, offrendo un’opportunità di sostegno e supporto che coinvolga anche le famiglie”. Nello specifico le azioni del progetto mirano a: potenziare l’offerta del trattamento rieducativo e riabilitativo delle persone sottoposte a provvedimenti dell’autorità giudiziaria, all’interno degli istituti penitenziari, in funzione anche della ri-attivazione di questi servizi in alcuni casi interrotti nell’emergenza Covid, stabilizzare il sistema integrato previsto dalla LR 28/2008, sviluppare l’integrazione territoriale di tutti i soggetti pubblici e privati portatori di interesse unitamente alla cosiddetta Comunità territoriale ma anche: creare uno spazio di sostegno; creare una rete di supporto e accompagnamento che coinvolga sia i detenuti che i loro familiari che si trovano all’esterno; creare un clima comunicativo più sereno e svolgere un’azione di mediazione e di coordinamento nei confronti delle associazioni di volontariato che prestano, o intendono prestare, le proprie attività all’interno del carcere. Le modalità operative del progetto consistono in una attività di mediazione culturale destinate ai detenuti immigrati presenti nell’Istituto penitenziario e alle loro famiglie che risiedono nel territorio. Ci sarà spazio per la mediazione linguistica e assistenza genitoriale ma anche spazio per le attività di natura più propriamente artistiche come i laboratori di Teatro Sociale, Musica, Cineforum e altre attività multidisciplinari d’arte come la pittura e la costruzione di oggetti scenografici. Il Team composto da La Casa di Asterione è composto da 10 professionisti (psicologi- mediatori linguistici - mediatori culturali ed operatori di teatro, musica e arte cinematografica) che hanno seguito le attività in questi mesi e lo faranno fino ai primi mesi dell’anno 2024. Come primo momento di restituzione delle attività svolte è previsto un appuntamento per domani alle ore 10 all’interno della Casa Circondariale del Marino ad Ascoli Piceno con il momento di Teatro Sociale diretto da Davide Calvaresi. Il Papa alle donne uscite dalla mafia: “Non siete sole, continuate a lottare” di Antonio Sanfrancesco Famiglia Cristiana, 31 ottobre 2023 Francesco ha ricevuto in udienza alcune signore accompagnate dal fondatore di “Libera” don Luigi Ciotti: “Benedico questa vostra scelta, e vi incoraggio ad andare avanti. Immagino che ci siano momenti di paura, di smarrimento, è normale. In questi momenti pensate al Signore Gesù che cammina al vostro fianco”. Sono donne che hanno deciso di cambiare vita e di uscire da quei “contesti inquinati dalla criminalità mafiosa” in cui sono nate e cresciute quelle che don Luigi Ciotti ha accompagnato lunedì mattina in udienza dal Papa. Nella Sala del Concistoro del Palazzo apostolico, Francesco le ha accolte esortandole a proseguire la strada del bene. “Benedico questa vostra scelta, e vi incoraggio ad andare avanti. Immagino che ci siano momenti di paura, di smarrimento, è normale. In questi momenti pensate al Signore Gesù che cammina al vostro fianco. Non siete sole. Continuate a lottare”. Poi ha aggiunto anche un consiglio, quello di tenere sempre con sé “un piccolo Vangelo”, di leggerne ogni giorno “un brano, con calma” e di immaginare di essere con Gesù, “in mezzo ai discepoli”: “E in realtà è proprio così: Lui cammina con noi ogni giorno nella strada della vita. La sua croce dà senso alle nostre croci e la sua risurrezione è fonte di speranza”. Francesco ha ricordato inoltre che “tra i discepoli di Gesù c’erano anche alcune donne non perfette, come del resto gli uomini, provate dalla vita o contagiate” dal male. Donne, spiega il Papa, che Cristo “ha accolto con compassione e con tenerezza e le ha guarite”, come la Maddalena, e che “con Lui hanno fatto il cammino della liberazione, proprio camminando con Lui e con gli altri discepoli. Si diventa liberi non per magia, ma camminando con il Signore - questo ci dà libertà -, condividendo i suoi passi, la sua strada, che passa necessariamente attraverso la croce e porta alla risurrezione”. Alle donne che con coraggio e determinazione hanno abbandonato la mentalità mafiosa, infine, Francesco assicura la sua vicinanza con la preghiera, anche per i cari e, in special modo, per i figli. Don Ciotti, attraverso la pagina web di Libera, la rete di associazioni, cooperative sociali, movimenti, gruppi, scuole, sindacati, diocesi e parrocchie, impegnati contro le mafie, la corruzione, i fenomeni di criminalità da lui fondata, ha raccontato l’incontro con il Papa “che ha voluto ricevere in Vaticano queste donne che chiedono una mano, chiedono di essere accompagnate per uscire dal contesto mafioso. Donne che, diventate madri, guardano i loro bambini, ragazzi e ragazze e non accettano l’idea che un giorno quelle vite saranno pedine di un gioco di potere, di violenze e di carcere”. Il sacerdote racconta che “le mafie hanno “confiscato” la vita di queste donne, che si ribellano alla legge del clan e cercano una strada per uscirne”, che dicono “basta a quell’assurdo rispetto sacrale del ruolo subordinato della donna. Una ribellione di cuori e di coscienze”, la definisce il sacerdote da anni impegnato nella lotta alla criminalità organizzata. “Oggi, grazie a queste donne, cresce un fermento sotterraneo si è messo in moto un meccanismo inarrestabile”, espressione del “bisogno di ritrovare ciò che le mafie hanno “rubato” a molte, ossia “la libertà, la vita, la dignità. È una rottura dal male” conclude don Ciotti, che è innanzitutto culturale e che indebolisce il potere mafioso dal di dentro. Migranti. Il governo tocca quota cinque decreti (per ora) di Daniela Preziosi Il Domani, 31 ottobre 2023 Alla camera nel testo sul Sud sono state votate altre norme sull’immigrazione, Meloni ne ha varato uno ogni due mesi. Le opposizioni: “Tentativi-spot, nessuna necessità né urgenza. Nonché in materia di immigrazione”. Oggi alla camera è stato votato l’ennesimo voto di fiducia, in questo caso al decreto 124 “recante disposizioni urgenti in materia di politiche di coesione, per il rilancio dell’economia nelle aree del Mezzogiorno, nonché in materia di immigrazione”. Nei quasi cinquanta decreti che il governo ha varato dalla nascita - in media uno ogni otto giorni - quel “nonché” agganciato in coda come un carro merci, segnala il nuovo provvedimento sul tema dei migranti. Una materia su cui il governo evidentemente non riesce a trovare una via, visto che continua a tornarci su. Ieri pomeriggio, dopo il voto, Pd e M5s hanno rovesciato in aula decine di ordini del giorno. Tutte carte “inutili”, secondo Walter Rizzetto (Fdi), rivelando come la maggioranza intende “il ruolo di rappresentanza dei parlamentari” (Federico Fornaro, Pd). Ma era già evidente dai troppi voti di fiducia. E dagli ordini di scuderia sulla prossima manovra: zero emendamenti. Cinque (e non è finita) - Torniamo ai decreti sull’immigrazione. Il primo è il dl Ong, l’1/2023, che ha imposto il divieto di salvataggi multipli in mare alle navi delle Ong, con nuove norme sul blocco amministrativo e sulla confisca delle navi. Il secondo è il cosiddetto decreto Cutro, il 20/2023, il ripristino dei decreti Salvini e la creazione della nuova fattispecie di reato di “scafismo universale” (la famosa perseguibilità “lungo tutto il globo terracqueo”) e il ridimensionamento della Protezione speciale. Il terzo è un decreto ministeriale del Viminale e chiede la fideiussione di circa 5mila euro come cauzione per evitare la detenzione amministrativa per i richiedenti asilo. Il quarto, quello approvato oggi, il dl 124/2023, in realtà è dedicato al Sud ma in due articoli finali stabilisce la costruzione di nuovi Centri di permanenza per il rimpatrio anche attraverso deroghe, e prolunga a 18 mesi la detenzione nei Cpr. Infine, ma solo per ora, c’è il quinto provvedimento, non ancora approvato, il 133/2023: chiede il raddoppio per legge della capienza dei centri di accoglienza esistenti, l’aumento dei centri per i minori stranieri non accompagnati, con meno garanzie per la determinazione della loro età. Né necessità né urgenza - Insomma governo e maggioranza procedono per successive approssimazioni, mentre gli sbarchi proseguono e basta, in percentuale raddoppiata rispetto allo scorso anno (gli ultimi dati del Viminale indicano una flessione solo nell’ultimo mese, ma è pacifico che dipenda da fattori diversi dalle leggi italiane). Le opposizioni attaccano: “Fanno la faccia feroce ma brancolano nel buio”, secondo Riccardo Magi, deputato di Più Europa, “Il ricorso reiterato a diversi decreti sulla stessa materia è la prova di tentativi-spot e non di una condizione di necessità e urgenza. Anzi, per certi versi l’emergenza è creata e aggravata proprio dalle nuove norme”. I numeri degli arrivi dimostrano che le Ong non sono un “pull factor”, né le leggi una deterrenza anche secondo Matteo Mauri, deputato Pd ed ex viceministro dell’Interno: “Meloni e Salvini hanno sostenuto che se fossero arrivati loro al governo sarebbe cambiato tutto. Ma, nonostante abbiano reintrodotto i vecchi decreti Salvini e abbiano ridotto i salvataggi delle navi di soccorso private, nulla è cambiato. Anzi, i numeri degli arrivi si sono impennati”, “I cinque decreti sull’immigrazione, uno ogni due mesi, sono tutti mirati a fare la faccia dura contro i migranti per coprire il fallimento. Dimostrano l’assenza di una strategia per gestire i fenomeni migratori. E il disastro nella gestione dell’accoglienza è sotto gli occhi di tutti”. Il modello Ceco dove il detenuto è messo al centro di Monica Bizaj* Il Dubbio, 31 ottobre 2023 “Together for greater support of the families of convicts” è un progetto europeo volto al sostegno delle famiglie dei condannati voluto dalla comunità europea. Alcuni mesi fa l’associazione sannita “Gramigna odv” ci proponeva una collaborazione attiva nell’ambito del progetto europeo “Together for greater support of the families of convicts”, volto al sostegno delle famiglie dei condannati, progetto co- finanziato dall’Unione Europea sotto il programma Erasmus+. La conferenza introduttiva, alla quale ho avuto l’onore di partecipare rappresentando Sbarre di Zucchero, si è svolta a Praga il 25 ottobre, presso la sala conferenze del Fitzgerald Hotel, ed ha visto la partecipazione di oltre 30 rappresentanti di un totale di 17 organizzazioni provenienti da 3 paesi dell’Unione Europea (Repubblica Ceca, Italia e Slovacchia). Tra le organizzazioni partecipanti, oltre al coordinatore del progetto VOLONTÉ CZECH, o. p. s. e al suo partner Gramigna OdV (rappresentato dalla dott. ssa Fabrizia N. De Palma), c’erano anche le carceri con cui storicamente collabora Volonté (Jirice, Svetlá nad Sázavou, Kynšperk, Kurim, Belušice), e diverse organizzazioni no- profif, come Yellow Ribbon z. s., Podané ruce, z. s., Sale della Terra (rappresentato dalla dott. ssa Maria Carbone), la Direzione Generale del Corpo di Polizia Penitenziaria e di Sorveglianza Giudiziaria della Repubblica Ceca ed io, per Sbarre di Zucchero. Durante questo primo ed introduttivo workshop del progetto “Insieme per un Maggiore Sostegno alle Famiglie dei Condannati” quindi, abbiamo illustrato ai partecipanti la nostra personale esperienza con le organizzazioni di cui facciamo parte, introducendoli alle attività e buone pratiche messe in atto per dare concreto sostegno alle famiglie dei detenuti. Nel mio primo intervento, durante la sessione mattutina, dal titolo “Assessing female prisoners in Italy: key challenges”, ho voluto dare innanzitutto una base numerico/statistica e normativa che delinea la detenzione femminile in Italia, per introdurre i partecipanti alle maggiori criticità che incontrano le donne in detenzione, in strutture non concepite per le donne e sotto un ordinamento penitenziario che le menziona solo una manciata di volte, senza quindi delle norme ad hoc che prendano in carico le loro specificità, per poi condurli alla nascita di Sbarre di Zucchero, dal suicidio di Donatela Hodo a quanto da noi fatto in poco più di un anno, sia a favore di chi è ancora in detenzione (raccolta e consegna abiti e generi di prima necessità per l’igiene personale, la donazione di prodotti di make-up alle detenute per l’ 8 marzo, i numerosi convegni e dibattiti pubblici, volti alla sensibilizzazione dei cittadini che non conoscono o, peggio, mal conoscono il pianeta carcere) sia per chi la detenzione l’ha conclusa, supportando ed accompagnando soprattutto le loro famiglie, anche grazie all’enorme rete di stima e collaborazioni che abbiamo tessuto nei mesi con altre associazioni. E proprio il supporto alle famiglie che Sbarre di Zucchero ha dato e continua a dare è stato il succo del mio intervento nella sessione pomeridiana - Stigmatization of the convicted person’s family: Double punishment for the families of prisoners in Italy -, una sorta di story telling con racconti di criticità subite dalle famiglie dei detenuti (che scontano una sorta di doppia pena appunto), e che abbiamo supportato ed aiutato, perché la narrazione di storie di vita reali è tra le Mission principali di SdZ. Sono rimasta colpita da parecchi aspetti che caratterizzano il sistema penitenziario ceco, ma ciò che mi ha veramente stupita è il fatto che sono proprio le direzioni dei penitenziari a ricercare la collaborazione delle associazioni di volontariato e delle ONG, per lo sviluppo e la messa in pratica di nuove progettualità per il miglioramento della vita detentiva, con occhio di riguardo alla situazione debitoria dei detenuti ed al rafforzamento delle relazioni affettive familiari. Particolare cura viene riservata ai figli dei detenuti, per creare percorsi ed occasioni di incontri più sereni (e con meno sbarre) col genitore detenuto. 35 carceri che ospitano circa 20 mila detenuti, di cui 1 solo esclusivamente femminile, con una capienza di 500 posti letto e che, al momento, ospita 800 donne detenute, sotto la custodia media di circa 300/ 350 agenti penitenziari. Tra i partecipanti e relatori c’era la direttrice generale di questo Istituto femminile, Monika Myšicková, del corpo di polizia penitenziaria della Repubblica Ceca, la quale ci ha spiegato come, ad esempio, sia lei stessa (e chi con lei lavora) ad ideare reparti differenziati e progetti, chiedendo il sostegno di associazioni come Volonté, con la quale c’è una stretta collaborazione da anni; troviamo dunque il reparto per le detenute anziane, quello per le madri con figli (aperto nel 2002), quello per le detenute tossicodipendenti, per le minorenni, per le ree di reati particolarmente gravi ed anche quello per le detenute prossime al fine pena (6 mesi residui). Ogni reparto ha le sue esigenze specifiche di vita quotidiana, soprattutto dal punto di vista dell’assistenza medica, in uno Stato dove il Ministero competente non è tenuto a “fornire” personale medico agli Istituti e sono quindi i direttori ad occuparsi di trovare i medici per le loro aree sanitarie; su mia domanda specifica circa l’eventuale esistenza di programmi periodici di screening per la prevenzione di patologie prettamente femminile, la direttrice mi ha detto che ufficialmente non c’è un progetto in tal senso ma che essendo presenti, in pianta stabile, specialisti come psicologo, psichiatra, dentista, ginecologo oncologo, 3 medici di base e pediatra, prevenzione e cure sono un punto che non viene assolutamente trascurato. Il reparto per le detenute prossime al fine pena ha la funzione di preparare le donne al ritorno in società, indagando e trovando soluzione sulla eventuale situazione debitoria, monitorando ed intensificando le relazioni familiari, verificando la disponibilità di una casa, “digitalizzando” le donne prossime all’uscita con corsi di informatica obbligatori, il tutto per dare loro i mezzi per non tornare a delinquere. Di molto altro ancora si è trattato coi vari partecipanti, come del progetto pilota dell’unico carcere aperto del Paese, con la sua direttrice Hana Prokopova, del progetto “Mura invisibili” con l’ass. soc. Roman Heil, e lo racconterò la prossima settimana in una diretta dai canali social di Sbarre di Zucchero, con la moderazione di Maurizio Mazzi. Ci siamo quindi dati l’arrivederci ai primi mesi del 2024, quando la seconda conferenza si svolgerà in Italia, con la promessa di proseguire la collaborazione finalizzata alla preparazione e pubblicazione di un manuale per tutti coloro che lavorano o desiderano lavorare con questo gruppo di destinatari e contemporaneamente parteciperanno alla diffusione dei risultati del progetto, esempi di buone pratiche e alla sensibilizzazione sui problemi di questo gruppo di destinatari, al fine di combatterne efficacemente la stigmatizzazione all’interno della società nel suo complesso. La partecipazione di Sbarre di Zucchero a questo importante workshop ci ha offerto l’opportunità di scambiare esperienze, creare reti internazionali, confrontare diverse prospettive e sarà un passo significativo verso un miglioramento del supporto offerto alle famiglie dei condannati in Italia. *Presidente Associazione Sbarre di Zucchero Medio Oriente. Il terrore, i diritti, la pace di Aldo Cazzullo Corriere della Sera, 31 ottobre 2023 L’antisemitismo può essere solo condannato e contrastato. Dall’assalto ai passeggeri all’aeroporto in Daghestan, alla violazione della bandiera alla Fao di Roma: chi nega agli ebrei e a Israele il diritto di esistere va combattuto. Tuttavia sarebbe sbagliato considerare l’ondata di empatia per la Palestina che pervade anche l’Occidente come una pura manifestazione di antisemitismo. Che, ripeto, esiste, a sinistra come a destra, e va fermato. Ma nelle università italiane e anglosassoni non ci sono soltanto antisemiti. Ci sono molti giovani convinti che i miliziani di Hamas, pur usando metodi inaccettabili, stiano lottando per i diritti dei palestinesi e dei popoli arabi. È a loro, a quei giovani, che possiamo e dobbiamo parlare. Per dire che stanno prendendo un abbaglio. Non soltanto Hamas ha commesso il 7 ottobre un orrendo crimine. Non soltanto Hamas usa oltre due milioni di civili di Gaza come scudo umano. Non soltanto Hamas fa il male dei palestinesi. Dietro Hamas c’è il Qatar, che tratta gli immigrati come abbiamo visto nei giorni dei Mondiali di calcio: senza tenere alcun conto non soltanto dei diritti umani figli della Rivoluzione francese, ma neppure dell’uguaglianza degli uomini di fronte a Dio, che è uno dei fondamenti dell’Islam; perché ci sono luoghi in Qatar in cui un lavoratore egiziano o pachistano o anche palestinese non può entrare, essendo riservati ai qatarini e agli occidentali, oltre ovviamente ai capi di Hamas come Ismail Haniyeh che, a differenza dei civili di Gaza, non sono sotto le bombe ma comodamente ospitati a Doha. E dietro Hamas c’è l’Iran, che tratta le donne come abbiamo visto in questi giorni: le fa bastonare a morte dalla “polizia morale” - si chiama proprio così - se non portano correttamente il velo. Dei diritti umani, ad Hamas e ai loro finanziatori e sostenitori non importa assolutamente nulla. Vogliono prendere il potere in Cisgiordania dopo averlo preso con le armi a Gaza, trasformando una vittoria elettorale in una dittatura del terrore. Ogni dittatura, come ogni gruppo terroristico, ha sempre una base di consenso, che è difficile da misurare, visto che il dissenso non è tollerato. Tuttavia la grande maggioranza della popolazione di Gaza oggi è di fatto ostaggio di Hamas. Che Israele sia determinato a eliminare Hamas dal Medio Oriente è del tutto comprensibile. Ma non basterà ucciderne i capi. Nella primavera del 2014 Ariel Sharon uccise in tre settimane il leader spirituale di Hamas, lo sceicco Yassin, e il leader politico, Abdel Aziz Rantissi; e Hamas si diede dei capi ancora più spietati. Per eliminare il terrorismo occorre isolarlo politicamente e finanziariamente. In questo momento sta accadendo il contrario, come dimostrano le parole - gravissime - di Erdogan, che non condivide certo i nostri valori, ma ci piaccia o no comanda il secondo esercito della Nato ed è stato rieletto presidente della Turchia cinque mesi fa con ventotto milioni di voti. Infatti Biden, che non è certo nemico di Israele, sta cercando di frenare Netanyahu, per evitare sia lo spargimento di sangue innocente, sia l’allargamento del conflitto. Chi si sta occupando dei civili di Gaza? Non l’Egitto, che ha chiuso il valico di Rafah e rifiuta di accogliere profughi. Non la comunità internazionale, che non ha voluto o potuto aprire corridoi umanitari, anche via mare. Chi si sta occupando dei palestinesi della Cisgiordania? Neppure loro sono un blocco monolitico. A Jenin, al Nord, è forte la Jihad islamica; a Hebron, a Sud, Hamas; Ramallah resta la sede - assaltata ogni notte e difesa dalla polizia - dell’Anp, l’Autorità nazionale palestinese, che per quanto screditata è al momento l’unico argine contro il terrorismo islamista. Per questo dalla crisi di Gaza non si uscirà soltanto con le armi. Israele non si fermerà finché non avrà raggiunto un obiettivo militare tale da poter proclamare che il 7 ottobre è stato vendicato, e che alla fine pure questa guerra, dichiarata da Hamas, è stata vinta. Ma una prospettiva politica andrà pure aperta. Non sono stati soltanto Netanyahu, e la maggioranza relativa dell’elettorato israeliano che l’ha sostenuto in questi anni, a illudersi che la questione palestinese potesse essere accantonata. Si sono illusi anche i governi arabi che avevano sottoscritto i patti definiti propagandisticamente “di Abramo”, adesso finiti a loro volta nel cestino. La pace si è rivelata un’illusione, dopo il fallimento di Oslo e della trattativa Barak-Arafat; ma anche l’idea di annettersi la Cisgiordania a colpi di insediamenti, come da promessa elettorale di Netanyahu, si è rivelata impossibile. Se l’Occidente - gli Stati Uniti d’America e l’Unione europea - può ancora sperare di giocare un ruolo in questa crisi, deve aver ben chiaro chi è, quali sono i suoi valori, quali i suoi interessi. La sicurezza di Israele e i diritti dei palestinesi non sono incompatibili, anzi sono connessi. Non basta proclamare la necessità di uno Stato palestinese; nessun governante di Israele, neppure il più illuminato erede di Netanyahu, accetterà mai uno Stato palestinese in mano ad Hamas o a qualsiasi altro gruppo che non riconosca Israele, anzi sia deciso a distruggerlo. Criticare il governo israeliano è cosa diversa dall’antisemitismo, certo. Ma nelle piazze dell’Occidente oggi si vedono sia l’odio anti-ebraico, sia l’abbaglio sulla vera natura di Hamas. E questi due inquietanti fenomeni non aiutano né la comprensione delle cose, né la coesione interna delle società occidentali: una forza di cui avremo grande necessità, in vista del tempo durissimo che ci è dato in sorte. Medio Oriente. La vera forza dell’Europa: persuadere, influenzare di Maurizio Ferrera Corriere della Sera, 31 ottobre 2023 C’è un ruolo specifico che la Ue, divisa e debole, può giocare per spegnere l’incendio di Gaza? C’è un ruolo specifico che l’Europa può giocare per spegnere l’incendio di Gaza? E, più in generale, far ripartire il processo di pace? Le divisioni durante il Consiglio europeo del 26 ottobre e il voto discorde in merito alla mozione Onu su Gaza hanno confermato che la Ue è tuttora incapace di esprimere una strategia condivisa. Agli occhi dei Paesi arabi l’Europa è vista come un “elefante con le gambe di un pollo” (il loro modo di rendere la nostra metafora del gigante dai piedi d’argilla). Grandi ambizioni, elevato potenziale di influenza, ma incapacità di decidere e di agire. Se le divisioni interne e gli assetti istituzionali impediscono interventi diretti sul campo, la Ue deve almeno salvaguardare la sua reputazione di elefante, agendo sul terreno che le è più congeniale: la persuasione, la costruzione di consenso, il dialogo volto a identificare un terreno comune. Priva di hard power (basato su determinazione e deterrenza, come quello americano), la Ue utilizzi al meglio il suo capitale di soft power , supportato da una attiva diplomazia politico-culturale e da una coerente strategia di aiuti economici. Ai margini degli ultimi vertici internazionali, alcuni leader (Giorgia Meloni fra i primi) hanno detto che bisogna uscire dalla logica dello “scontro di civiltà”, ossia abbandonare l’idea che Islam e Occidente siano intrinsecamente incompatibili sul piano dei valori. Un’idea che ha cominciato a circolare nel secondo Ottocento, con la formazione dei movimenti pan-islamisti, e che ha trovato la sua formulazione più sistematica nel libro di un noto scienziato politico americano, Samuel Huntington (The Clash of Civilizations, 1996). Se si resta all’interno di questa logica, è quasi impossibile avviare percorsi di pacificazione basati sugli assunti della tolleranza, condizione imprescindibile per realizzare la formula “due popoli due stati”. Islam e Occidente cristiano hanno per lunghi periodi convissuto senza guerra, con molti esempi di reciproca compenetrazione. Il pan-islamismo anti-occidentale fiorito nel secolo scorso si trasformò in un movimento radicale e fondamentalista durante la Guerra Fredda, in particolare dopo il ritorno di Khomeini a Teheran. I dati d’opinione disponibili segnalano che molte donne e uomini dell’Islam (persino all’interno della Striscia di Gaza) disapprovano oggi il terrorismo e appoggerebbero un appeasement con Israele e più in generale con l’Occidente. Nel 2019 la Lega Araba Musulmana organizzò alla Mecca una conferenza con più di 1.200 duecento delegati provenienti da 137 Paesi. Fu firmata una Carta nella quale si condannano estremismo e violenza. In Indonesia (il più popoloso Paese musulmano) è nata una organizzazione per la promozione di un “Islam umanitario” con più di 90 milioni di associati, oggi protagonista principale del network Religion 20, il punto d’incontro per i movimenti religiosi musulmani di orientamento moderato. L’organizzazione ha condannato i massacri di Hamas. Pur con parole più tiepide, i governi che hanno firmato gli Accordi di Abramo con Israele hanno anch’essi deplorato l’uso della violenza contro i civili. E lo scorso settembre decine di intellettuali arabi hanno scritto una lettera aperta al presidente dall’Autorità Palestinese protestando contro le sue affermazioni anti-semite. L’Islam moderato esiste. Come ha giustamente osservato lo studioso turco Mustaka Akyol durante un’intervista a Reset, i suoi esponenti sono circondati da robuste forze illiberali impregnate di settarismo religioso e nazionalismo autoritario. Ciò nonostante si stanno aprendo spazi per un possibile incontro con i valori della democrazia liberale. Sviluppi che l’Europa fa fatica a vedere, anche a causa dei propri pregiudizi. Un esempio per tutti. Dopo il 7 ottobre, sia Le Monde che Le Figaro hanno lamentato il silenzio da parte delle autorità islamiche francesi. In realtà, quasi tutte avevano rilasciato comunicati fortemente critici contro Hamas e l’uccisione di civili innocenti. Come consolidare e soprattutto valorizzare i nuovi spazi? Non c’è una bacchetta magica: organizzare fori di dialogo (come l’Euromed, promosso dall’ Ispi), proposte di mediazione, erogazione di finanziamenti condizionali, diplomazia orientata al peace building, azioni mirate verso i giovani, ossia le future classi dirigenti delle società arabe. Il Piano Africa della Ue, a cui sta lavorando il governo italiano, potrebbe estendere i propri obiettivi dal contenimento dell’immigrazione alla promozione di reti per l’interazione politico-culturale. I rischi da evitare sono ulteriori fallimenti come quello tunisino: restare alla finestra mentre un Paese piccolo ma cruciale per il fianco Sud della Ue è progressivamente scivolato verso il nazionalismo autoritario, soffocando una delle voci più promettenti dell’Islam moderato come Rached Gannouchi, presidente del partito musulmano Ennhada. Mostrare al mondo il proprio modello di pace, prosperità e giustizia è solo il primo passo che una potenza “normativa” come la Ue può compiere. Il passo successivo è quello di intercettare, dialogare, supportare quei leader e quelle organizzazioni che possano (anche se non subito) cambiare dall’interno i regimi illiberali dei propri Paesi. Solo l’elefante Europa ha le risorse culturali e reputazionali per imboccare questa strada. Peraltro la sola strada che le gambe malferme della Ue possono sorreggere in questo momento. Medio Oriente. La sicurezza di Israele dipende dalla sicurezza dei palestinesi di Nadia Urbinati* Il Domani, 31 ottobre 2023 Dovrebbe essere chiaro a tutti, ai potenti leader di governo come agli opinionisti e ai cittadini, a coloro cioè che contribuiscono, in forme e con autorità diverse, a creare l’opinione nelle nostre democrazie, che anche qualora Hamas venisse sconfitto, resterebbe comunque la questione palestinese. Resterà fino a quando non si tradurrà in una forma statuale (o insieme o accanto a quella di Israele), fino a quando cioè quel popolo potrà contare su un sistema nazionale di difesa come tutti gli stati, senza affidarsi a milizie, fanatici e fondamentalisti al soldo di chi mira ad esercitare un’egemonia sulle popolazioni arabe e musulmane (e non solo) della regione. A queste forze (che sono stati, non popolazioni) la questione del popolo palestinese interessa poco, disposte come sono a creare le condizioni per una carneficina della quale non sono meno responsabili del governo israeliano guidato da Netanyahu. La sicurezza di Israele dipende dalla sicurezza dei palestinesi. Insistere su questo legame, mostrarne la forza morale e la ragionevolezza politica, comporta lasciar cadere gli argomenti che si stanno cucinando ora dopo ora nei nostri paesi; argomenti che generano un odio di tipo religioso, come quello che presenta questa guerra in Medio Oriente come uno “scontro tra e di civiltà”, una lotta tra il “bene” e il “male” che comanda di stare in religiosa identificazione con un popolo contro un altro. La sicurezza dei due popoli dipende dalla sicurezza di ciascuno di loro. Diversamente c’è sterminio, eliminazione dell’altro, guerra permanente. Questa logica è stata all’origine dell’antisemitismo del Novecento che ha fatto scrivere all’Europa una delle pagine più vergognose della storia dell’umanità, e che ha avuto un peso non indifferente nelle scelte su come chiudere il libro, per risolvere quel che l’Europa aveva prodotto. Lo scontro religioso identitario che giustifica la guerra santa è il baratro nel quale rischiamo di cadere, nuovamente. Dovrebbe essere la missione delle opinioni pubbliche del mondo, a partire da quelle dell’Europa e dei paesi democratici, proferire parole chiare, senza balbettii. Per questo, l’argomento dei diritti umani fondamentali e del diritto internazionale è il più forte. Messo oggi sotto i piedi dalle logiche del consenso mediatico e da leader politici improvvidi, questo argomento è la sola strada per aiutare il processo di sospensione delle ostilità, primo passo di un processo verso un nuovo ordine politico nella regione, che sarà oggettivamente difficile e lungo. Ad esso non si può rinunciare, come sempre nei casi di guerra. Ma in questo caso soprattutto, perché non c’è soluzione, ora che tutte le soluzioni di ripiego o del meno peggio sono state esplorate, e si sono rivelate perdenti e foriere di conseguenze terrificanti. La debole e frammentata voce dell’Unione europea, l’andare in ordine sparso dei leader di governo dei suoi paesi membri, è indicativa di una logica binaria che è la peggiore nemica della pace. L’Europa, quella che abitiamo, è nata su un patto chiaro, quello dell’anti-antisemitismo. Identificare quel patto con le posizioni che si possono avere sulle decisioni del governo israeliano è irresponsabile. La crescita di forme di antisemitismo (che si riflette in altre forme discriminatorie) non va minimizzata. E non si argina né con la logica della guerra santa né con la repressione delle opinioni - la strada autoritaria è come ossigeno per l’antisemitismo. *Politologa Iran. La rabbia del regime contro Sotoudeh: arrestata al funerale della giovane Armita di Simona Musco Il Dubbio, 31 ottobre 2023 Picchiata e ammanettata perché senza velo: “Non mangia e non prende le medicine”. Aggredita e arrestata dopo aver definito la morte di Armita Garavand un “omicidio di Stato”. Nasrin Sotoudeh, la celebre avvocata iraniana in prima linea per la difesa dei diritti umani, è stata brutalmente picchiata e poi condotta in cella domenica, a Teheran, dopo il funerale della 17enne uccisa a botte dalla polizia morale iraniana, che l’ha aggredita in metropolitana circa un mese fa. Ufficialmente, la colpa dell’avvocata è stata quella di essersi presentata in pubblico senza velo - alcuni video e foto provano la sua presenza senza hijab - e “di attività contro la sicurezza mentale della società”. Ma potrebbe trattarsi di un protesto, dal momento che Sotoudeh è già finita nel mirino del regime più volte per la sua attività di difesa delle donne, tanto da essere stata condannata all’esito di un processo ingiusto. L’avvocata stava scontando la detenzione a casa, per motivi di salute. Ma ora è finita di nuovo in carcere, assieme ad altri manifestanti, tutti presenti domenica al funerale della giovane, dove si sono alzati slogan contro le autorità locali. “Armita, la tua anima è felice”, “questo fiore pieno è un dono alla madrepatria”: queste alcune delle parole urlate per la 17enne vittima della follia del regime iraniano. Che ha reagito nuovamente con la violenza, picchiando i presenti, tenuti sotto stretto controllo per tutto il corso del funerale. A finire in carcere insieme all’attivista sono stati Manzar Zarrabi, che ha perso diversi membri della famiglia sul volo 752 della Ukraine International Airlines - abbattuto l’8 gennaio 2020 pochi minuti dopo il suo decollo dall’aeroporto Internazionale di Teheran-Imam Khomeini dal Corpo delle Guardie rivoluzionarie islamiche iraniane - e due insegnanti, Masoud Zeynal Zadeh e Mohammad Garavand, parente di Armita, rilasciato nelle ore successive. Sotoudeh, Zarrabi e Zadeh sono stati invece trasferiti al centro di detenzione di Vozara, a Teheran, lo stesso dove Mahsa Amini - la cui morte diede vita ad una rivolta della società iraniana sotto lo slogan “Donna, vita e libertà” - fu massacrata dalla polizia morale lo scorso anno. I prigionieri sono stati trasferiti ieri nella prigione di Qarchak e dopo poche ore Zarabi è stata rilasciata a causa delle sue condizioni di salute, dopo aver avuto le convulsioni. Ed è stata la donna a riferire al marito di Sotoudeh, Reza Khandan, che l’attivista ha avviato uno sciopero della fame e dei medicinali sin dal momento del suo arresto. La prigione di Qarchak rappresenta un vero e proprio incubo per le detenute iraniane: in 10 metri quadrati, in stanze chiamate “capanna”, vengono ammassati 12 posti letto e mancano le finestre. “L’Iran è un posto dove nessun tipo di critica al governo è concessa. Le carceri sono luoghi senza regole e anche gli adolescenti possono essere condannati a morte, in spregio a qualsiasi convenzione internazionale. E nessun giornale può raccontare quello che accade: l’unica tv è quella di Stato, che spesso manda in onda, prima dei processi, le false confessioni estorte ai prigionieri con la tortura”, aveva raccontato tempo fa Khandan al Dubbio, sottolineando come le violazioni dei diritti umani siano diffuse e sistematiche ed avvengano per conto del governo. Il funerale di Armita si era svolto sotto l’occhio vigile delle forze della sicurezza organizzata della Repubblica Islamica, al punto che i presenti hanno evitato di mangiare e bere nella sala dei ricevimenti. Il corpo della giovane è stato sepolto nella sezione 99 del cimitero di Behesht Zahra a Teheran, ma a lungo è circolata la voce di un tentativo di impedire che il funerale si svolgesse nella capitale. Sotoudeh, nelle scorse ore, aveva espresso la propria condanna nei confronti della politica iraniana, attribuendo la morte di Armita al regime. Martedì scorso, inoltre, aveva dedicato al movimento “Donna, vita e libertà” - e in particolare alla 17enne e a sua madre - il premio “Civil Courage Prize”. Non potendo lasciare l’Iran a causa della sua condanna, a ritirare il premio a New York, a suo nome, è stata la studiosa del Wilson Center Haleh Esfandiari, finita anche lei per circa otto mesi nelle famigerate carceri iraniane. Sotoudeh ha mandato, però, un video messaggio, con il quale ha dedicato il riconoscimento alle “donne che si sono sollevate per liberarsi dal giogo opprimente del patriarcato”. “Gli occhi dei manifestanti sono stati cavati per negare loro la vista - ha affermato -, ma i loro occhi si sono moltiplicati in migliaia”. Il movimento “Donna, vita e libertà”, ha aggiunto, “non è giunto al termine”. E perdere “la speranza nel coraggio civile” non è un’opzione. “Sono ancora molte le donne che, quotidianamente, sfidano l’hijab obbligatorio nelle nostre strade - ha spiegato. Dimostrano il loro coraggio civico ma rimangono a rischio di arresto e violenza”. Proprio ciò che è successo a lei, non solo per il brutale pestaggio di domenica, ma per la scelta, da avvocata, di difendere le ragazze della “via della Rivoluzione”, ree di essersi rifiutate di portare il velo: accusata di “propaganda sovversiva” e di “aver incoraggiato la corruzione e la dissolutezza”, l’attivista è stata condannata nel 2018 a 148 frustate e 33 anni e mezzo di carcere, dei quali dovrà scontarne almeno 12. Un processo che si è svolto in sua assenza e contro il quale il Consiglio nazionale forense italiano ha alzato la voce, attirando l’attenzione del mondo sulla sistematica violazione dei diritti umani in Iran e sul sacrificio degli avvocati a tutela dei diritti. Già condannata nel 2011 a sei anni di reclusione per propaganda e attentato alla sicurezza dello Stato, Sotoudeh era stata rilasciata nel 2013 dopo uno sciopero della fame di 50 giorni, che ha suscitato indignazione in tutto il mondo. Ma la sua lotta per le donne arrestate tra dicembre 2017 e gennaio 2018 per essersi tolte il velo in pubblico, contraddicendo la legge in vigore dalla rivoluzione islamica del 1979, l’ha fatta finire di nuovo nelle maglie della “giustizia” e della spaventosa prigione di Evin. “La pace e la sicurezza del mondo si basano esplicitamente sul rispetto per i diritti umani - ci ha raccontato Sotoudeh in un’intervista esclusiva al Dubbio a dicembre dello scorso anno -. Il mondo non può sedersi a negoziare con la Repubblica islamica, ignorando le sofferenze del popolo iraniano”. Ferma la reazione del Consiglio nazionale forense, che in una nota ha espresso “profonda preoccupazione”. Il Cnf, “che sta seguendo con massima attenzione l’evolversi del caso, condanna con fermezza l’arresto arbitrario di Nasrin Soutodeh e ne chiede alla Autorità iraniane l’immediato rilascio e la garanzia che i diritti previsti dalle convenzioni internazionali e i princìpi del giusto processo le siano garantiti oltre a tutte le cure mediche necessarie. Il Consiglio nazionale forense lancia inoltre un appello affinché cessino tutte le forme di violazione dei diritti fondamentali, che in Iran si manifestano in particolare nei confronti delle donne - continua la nota -. Queste violazioni rappresentano un affronto ai più elementari principi di uguaglianza, libertà e non discriminazione sanciti nella Dichiarazione universale dei diritti umani e nelle convenzioni internazionali”.