La nuova prescrizione di Nordio e della maggioranza affonda il Pnrr di Liana Milella La Repubblica, 30 ottobre 2023 Nel primo semestre del 2023 la riduzione dei tempi dell’Appello, rispetto al 2019, è stata del 27% a livello nazionale. Nel 2022 invece sono stati 33mila i processi andati in prescrizione in Appello, ma la maggioranza vuole reintrodurla proprio in questo grado di giudizio. La Commissione europea non se n’è ancora accorta, ma la riforma “garantista” della prescrizione, sulla quale Carlo Nordio ha messo il cappello e che la prossima settimana sarà già in aula alla Camera, “garantisce” di perdere sicuramente l’obiettivo del Pnrr. Parliamo della riduzione - promessa dal governo italiano in cambio dei 2,3 miliardi di euro per la giustizia - del 25% dei tempi del processo penale entro il 2026 in tutti i gradi di giudizio. Ma la nuova prescrizione, oltre a far perdere i fondi all’Italia, fa di più, perché assicura l’impunità a migliaia di imputati in processi che durano da anni, che oggi si trovano in Appello. Imputati che non potranno essere condannati, pur se colpevoli, perché il reato finirà prescritto. L’ex Guardasigilli Marta Cartabia, con il via libera del premier Mario Draghi - uno che di numeri, di statistiche e di Europa se ne intende - aveva introdotto due anni fa l’improcedibilità (se il processo dura oltre due anni scatta la prescrizione) come primo tassello di una complessiva riforma col preciso scopo di raggiungere l’obiettivo del Pnrr. A inizio d’anno lo riconosceva anche l’attuale ministro della Giustizia Carlo Nordio nella sua Relazione sull’amministrazione della giustizia presentata per l’inaugurazione dell’anno giudiziario. Dove, a pagina 112 è scritto, a proposito del Pnrr e della riforma del processo penale di Cartabia, che “la riduzione dei tempi del processo è altresì funzionale a completare il percorso di riforma avviato con le disposizioni che hanno introdotto l’improcedibilità dell’azione penale”. Dunque anche Nordio sa bene che proprio l’improcedibilità serve a raggiungere l’obiettivo del Pnrr e per questo Draghi e Cartabia l’hanno voluta e preferita all’altra proposta alternativa della commissione Lattanzi, proprio quella che invece adesso viene ripresa dalla maggioranza. Come hanno scritto sul Sole 24 Ore Gian Luigi Gatta, ex consigliere giuridico di Cartabia e vice presidente della commissione Lattanzi, e il giurista genovese Mitja Gialuz, gli ultimi dati del ministero della Giustizia, quindi usciti dagli uffici di Nordio, confermano che la riforma di Draghi e Cartabia, grazie all’improcedibilità, ha consentito già oggi nel giudizio di Appello di raggiungere l’obiettivo del Pnrr, che però va garantito anche negli altri gradi di giudizio. Nonostante il Comitato tecnico scientifico nominato da Nordio a febbraio per monitorare l’impatto della riforma Cartabia non abbia ancora prodotto alcuna relazione, come la legge gli imporrebbe invece di fare, i dati nascosti nel sito del ministero di via Arenula, pubblici per quanto mai decantati da Nordio, dicono che nel primo semestre del 2023 la riduzione dei tempi dell’Appello, rispetto al 2019, è stata del 27% a livello nazionale, con una punta del 57% a Napoli dove la durata dell’Appello è passata da 5 anni e mezzo a due anni e tre mesi. Che succede se la Commissione europea si accorge che ora la maggioranza butta all’aria un meccanismo che ha contribuito a raggiungere l’obiettivo del Pnrr per cambiare tutto e tuffarsi nel nulla? Lo si può considerare un atto di puro autolesionismo alla Tafazzi, il personaggio di “Mai dire Gol” che si martellava felice e contento le parti basse con una bottiglia di plastica. Si butterà via tutto il lavoro fatto fin qui per ridurre i tempi dell’Appello che si allungheranno di nuovo a dismisura perché i magistrati - come già rivelano oggi i presidenti di importanti corti di Appello - dovranno impiegare molto tempo per ricalcolare il termine di prescrizione riprendendo in mano uno per uno migliaia di fascicoli di processi in corso, ai quali bisognerà applicare le nuove norme, che purtroppo sono retroattive. Solo a Venezia, per intenderci, sarebbero oltre tremila i fascicoli per cui ricalcolare il termine. Ma non basta. Dovranno essere riscritti i progetti organizzativi di tutte le corti d’Appello italiane, ore e ore di lavoro e di risultati raggiunti mandati in fumo. Dovranno essere rifatti tutti i calendari delle udienze che sono approntati sulla base del termine di prescrizione in modo da evitarla nei procedimenti per i reati che tornano di nuovo a prescriversi in Appello e in Cassazione. Spiega Gatta a Repubblica: “L’effetto di una riforma della prescrizione come questa sui palazzi di giustizia è come quella del cambio della data di scadenza dello yogurt nel magazzino di un supermercato: costringe a riprendere in mano migliaia di vasetti e a riordinarli mettendo davanti quelli che scadono prima. E per farlo ci vuole tempo e non è detto che nel frattempo lo yogurt non scada. Succede proprio la stessa cosa con i fascicoli di un procedimento penale”. Per non dire poi delle difficoltà a calcolare il termine di prescrizione in un Paese dove - “vera follia questa” secondo Gatta - le regole vengono cambiate ogni due anni mandando ai matti i magistrati che invece dovrebbero pensare al Pnrr. Dulcis in fundo, la maggioranza di un Governo che si vanta di essere quello della certezza della pena, e che continua a introdurre nuovi reati e ad alzare le pene, propone di reintrodurre la prescrizione in Appello condannando decine di migliaia di procedimenti penali a prescriversi, garantendo così l’impunità a quanti, senza la nuova prescrizione, sarebbero stati dichiarati colpevoli. Via Arenula dispone anche di questi dati, che però non pubblicizza ma tiene ben nascosti: 33mila processi chiusi con la prescrizione in Appello solo nel 2022. In questi casi la prescrizione è possibile perché sono reati commessi prima del blocco in Appello realizzato con la legge Bonafede, che ha fatto quello che si fa in Germania, dove la prescrizione si ferma dopo il primo grado. Per chiudere ecco quanti sono - quasi trecentomila - negli ultimi dieci anni i procedimenti andati in fumo in Appello, senza una risposta di giustizia per le vittime. Altro che certezza della pena. A Napoli nel 2022 le prescrizioni in Appello sono state il 52%, a Reggio Calabria, terra di criminalità organizzata, il 57%, a Roma il 42%. È questo il futuro che promette la riforma di Nordio, oltre far perdere i fondi del Pnrr. Eppure il ministero può analizzare i dati, raccolti nel 2018 all’epoca di Bonafede, che dimostrano come la prescrizione in Appello sia una falcidia di reati, e proprio basandosi su questi dati Bonafede l’aveva bloccata. Ma ecco un elenco per rendersi conto di cosa è avvenuto finora. Tra i trenta reati maggiormente prescritti in Appello ci sono i reati edilizi (57%), quelli sui beni culturali e il paesaggio (53%), la violazione di sigilli (49%), i falsi dei privati in atto pubblico (41%), le contravvenzioni del codice della strada, compresa la guida sotto l’effetto di alcol e stupefacenti (42%), la calunnia (39%), i reati tributari (34%), l’appropriazione indebita (35%), la contraffazione dei marchi (36%), nonché i maltrattamenti contro familiari e conviventi (12%), il furto (21%), la ricettazione (26%), la truffa (30%), le contravvenzioni in materia di immigrazione (26%), la violenza privata (22%), l’evasione (17%), la violazione della misura di prevenzione della sorveglianza speciale, la resistenza a pubblico ufficiale (17%), il traffico di stupefacenti (12%), le lesioni personali (16%). Ma evidentemente anche questi dati non fanno impressione, oppure non vengono neppure letti. “Giustizia riparativa, rivoluzione copernicana: l’incontro e l’ascolto dei bisogni della vittima” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 30 ottobre 2023 L’avvocata Diletta Stendardi: “È un istituto complementare al procedimento”, dice la mediatrice penale, “consente di agire su aspetti di cui il procedimento non può occuparsi, qualora le parti lo ritengano utile”. La giustizia riparativa è un istituto molto coraggioso, complementare al procedimento vero e proprio. L’avvocata Diletta Stendardi, che opera anche come mediatrice penale, ripercorre le tappe fondamentali che hanno portato alla creazione della giustizia ripartiva e al suo ingresso nel nostro sistema giudiziario. “Badiamo bene - dice al Dubbio Stendardi -, il coraggio è cosa diversa dalla sconsideratezza. La traversata va compiuta con la necessaria preparazione e con la bussola dei principi fondamentali e delle garanzie previsti dagli atti sovranazionali, così come dal decreto legislativo 150/2022”. Avvocata Stendardi, l’istituto della giustizia riparativa è tra le novità più importanti degli ultimi anni in ambito penale: in cosa consiste? La Restorative Justice, nata in Nord America da modelli sperimentali nella seconda metà degli anni 70 del secolo scorso e rapidamente diffusasi altrove, è un paradigma di risposta al reato che muove da una lettura relazionale sia del reato che della risposta allo stesso. Il reato è una condotta lesiva nei confronti di persone e di relazioni interpersonali e si propone una risposta che promuova l’attivazione di forme di riparazione a partire dall’incontro e dall’ascolto dei bisogni concreti della vittima. È una rivoluzione copernicana. Senza sostituire il procedimento penale, ma affiancandosi allo stesso ove le parti acconsentano, si crea uno spazio in cui prestare attenzione non già al “Chi è stato? Quanto lo puniamo?”, quanto invece al “Chi è stato leso? Come lo sosteniamo? Cosa può esser fatto per il futuro?”. Del resto, quando siamo colpiti da una ingiustizia, anche nella sfera privata, non è questo che cerchiamo? L’attenzione va a bisogni e responsabilità dei singoli e della comunità, con obiettivi di reintegrazione delle parti, ricostruzione del rispetto dei beni offesi e maggiore sicurezza sociale. Abbiamo assistito ad una evoluzione negli ultimi anni? Dagli anni 90 in avanti, Nazioni Unite, Consiglio d’Europa e Unione Europea hanno elaborato atti internazionali in materia, individuando caratteristiche qualificanti e principi fondamentali della giustizia riparativa. Quali? Partiamo dalla proposta di un incontro tra i soggetti direttamente o indirettamente coinvolti nella vicenda. E ancora: la necessaria volontarietà della partecipazione all’incontro, la presenza di un mediatore-facilitatore dell’incontro, appositamente formato, terzo e imparziale, lo svolgimento nell’interesse di tutte le parti coinvolte, sul piano della pari dignità. Fino ad arrivare alla confidenzialità dei contenuti dell’incontro e il divieto di utilizzo in malam partem di quanto dichiarato in quel contesto a all’adempimento volontario degli impegni eventualmente concordati. Lo specifico della giustizia riparativa consiste in questo metodo, più che nell’esito. Tant’è che l’esito è qualificabile come riparativo, ai sensi delle fonti sovranazionali e del nostro recente decreto legislativo 150/2022, solo se e in quanto risulti da un programma svolto secondo tale metodo e sia idoneo a rappresentare l’avvenuto riconoscimento reciproco e la possibilità di una relazione di ritrovato rispetto della dignità altrui. Cosa si “ripara” con questo nuovo istituto? L’evento storico è irreversibile. Nulla sarà più come prima che il fatto accadesse, anche nei casi in cui sia possibile porre rimedio al danno. Si lavora proprio a partire da questa “perdita del prima”, espressione del professor Adolfo Ceretti, ossia dalla perdita della sicurezza personale e interpersonale, del senso delle relazioni con gli altri, della propria precedente prospettiva sul futuro. Si lavora e si scommette sulle relazioni, promuovendo la partecipazione attiva e l’individuazione, nel dialogo mediato, di ciò che le parti ritengano debba essere riparato in conseguenza dell’offesa. Si recupera uno sguardo sulle persone quali soggetti, interpellati ad attivare capacità, invece che oggetti di indagine, osservazione, trattamento, incapacitazione. La riparazione è qui un’azione positiva con valenza più pregnante del risarcimento del danno, individuata consensualmente nell’incontro con l’altro, non imposta coercitivamente da terzi. La Restorative Justice è, essenzialmente, la giustizia dell’incontro. È la giustizia della riparazione solo e nella misura in cui la riparazione generi consensualmente da un incontro volontario. La giustizia riparativa fa il suo corso in maniera parallela al procedimento penale? Si pone come complementare al procedimento penale. Non può essere prescritta. È un percorso che viene proposto alle parti o, come spesso è accaduto, cercato autonomamente dalle parti, e che non si sostituisce al procedimento, al quale nulla toglie. Offre la possibilità di lavorare su aspetti di cui il procedimento non può occuparsi, se le parti lo ritengono utile e con l’aiuto dei mediatori. È eloquente il fatto che ovunque nel mondo i primi capitoli della storia della giustizia riparativa non sono stati scritti dal legislatore né dalle istituzioni, ma da iniziative sorte dal basso, dall’interesse e dalla passione di operatori, studiosi, magistrati, assistenti sociali, criminologi e avvocati che hanno trovato in questo paradigma la possibilità di dare ascolto e voce a vissuti, bisogni e domande portati dalle persone. In Italia, le prime esperienze sono state attivate negli ambiti della giustizia minorile e dell’esecuzione penale, che già prevedevano la possibilità di variare la risposta processuale o sanzionatoria a fronte di iniziative costruttive dell’indagato-imputato- condannato. La Riforma Cartabia è riuscita a dare alla luce una disciplina organica della giustizia riparativa grazie a una sincronia di fattori, tra cui gli impulsi sovranazionali, l’instancabile opera di sensibilizzazione di esperti e accademici, la determinazione dell’allora ministra e, in modo decisivo, le testimonianze di chi ha partecipato a percorsi di giustizia riparativa. Possiamo definire, alla luce delle sue osservazioni, la giustizia riparativa un istituto molto coraggioso? Questa è una bellissima domanda. Sì, la giustizia riparativa richiede coraggio. Al tempo stesso, alimenta coraggio. Come cantano i Subsonica, “sono cambiamenti solo se spaventano”. La libertà e la possibilità che possiamo trovare in un nuovo territorio passano sempre attraverso fatica e paura dell’attraversamento del non noto. Occorrono curiosità, intraprendenza, flessibilità, capacità di sostenere la fatica. Non va taciuto il fatto che la regolazione normativa della giustizia riparativa prevista dalla riforma suscita fatiche e resistenze sia tra gli operatori del sistema penale tradizionale che tra gli esperti di Restorative Justice. Altri Paesi prima del nostro hanno sperimentato simili momenti di spaesamento e frizione. Non è immediata l’integrazione tra la pratica della giustizia riparativa, che vive di attenzione e capacità di adattamento al caso particolare e di volontarietà, e il diritto, che è invece ancorato a regole generali e astratte e al possibile intervento coercitivo dell’autorità. Ma è una traversata che merita di essere intrapresa: ce lo indicano i riscontri empirici della possibile efficacia di questi percorsi in termini di prevenzione, beneficio per le vittime di reato e consolidamento dei legami sociali e, anzitutto, la piena consonanza tra i principi della giustizia riparativa e i valori democratici e costituzionali. Il coraggio è cosa diversa dalla sconsideratezza. La traversata va compiuta con la necessaria preparazione e con la bussola dei principi fondamentali e delle garanzie previsti dagli atti sovranazionali così come dal decreto legislativo 150/2022, che rendono sicura e potenzialmente fertile la convivenza tra giustizia riparativa e procedimento penale. Mi faccia aggiungere, però, un’altra cosa a tal riguardo. Dica pure… Per quanto riguarda il coraggio, grande, delle persone che scelgono di partecipare a un programma di giustizia riparativa, è importante precisare che il consenso all’avvio del programma, sempre revocabile, non presuppone o implica un desiderio di pacificazione. Le esperienze maturate, infatti, hanno visto chi ha subito un reato approdare alla giustizia riparativa nella ricerca di emancipazione e di luoghi in cui poter esprimere dolore e rabbia, chiedere rispetto, porre le conseguenze dannose dell’offesa di fronte a chi ha contribuito a cagionarle, invocare risposte responsabili. E chi è stato indicato come autore di un’offesa sceglie di partecipare a questi programmi per spiegare la propria versione dei fatti o per non essere ridotto alla propria azione o, ancora, per condividere e proseguire una riflessione sui danni causati e attivare le proprie capacità di riparazione, anche eventualmente per chiedere una modulazione della risposta sanzionatoria. Come viene valorizzato il lavoro dell’avvocato nell’ambito di questo nuovo istituto? In molti modi. L’avvocato è chiamato a spiegare ai propri assistiti cos’è e come è disciplinata la giustizia riparativa, dal momento che questa è richiamata in tutte le informative che, per le modifiche apportate dalla riforma al codice di procedura penale, l’autorità è ora tenuta a fornire ad ogni snodo del procedimento. A prescindere dalle iniziative dell’autorità giudiziaria, l’avvocato può rappresentare autonomamente ai propri assistiti la facoltà di accesso a questi programmi, per valutare insieme a loro se vi possa essere interesse a proporne l’avvio, considerando il possibile riflesso sul procedimento, sulla quantificazione della pena o sulla sua esecuzione, ma non solo. Nei nostri studi professionali ascoltiamo spesso sentimenti di ingiustizia e bisogni di riparazione che non possono essere ospitati nel procedimento penale e potremmo valutare lo spazio sicuro e protetto della giustizia riparativa come occasione per il nostro assistito per “andare oltre ed essere altro” rispetto all’offesa subita o inferta, comprendere nel dialogo cosa e perché è accaduto e cosa ne è derivato, partecipare alla ricerca di un nuovo equilibrio. Vi è anche una sorta di esigenza di controllo da parte del professionista? L’avvocato è chiamato a difendere la corretta applicazione delle nuove norme e contrastare eventuali prassi scorrette che, ad esempio, calpestino le garanzie di riservatezza e inutilizzabilità di cui si è detto o che forzino la prestazione del consenso alla partecipazione ai programmi di giustizia riparativa. Evidenzio che il d.lgs. 150 ha affidato ai mediatori il compito di raccogliere il consenso nel primo incontro con ciascuna parte. La decisione di partecipare o meno al programma non viene prestata innanzi all’autorità giudiziaria, che si limita a inviare il caso al centro per la giustizia riparativa per una valutazione di fattibilità che verrà svolta dai mediatori, i quali poi riferiranno poi unicamente se e quale programma ha potuto essere svolto, senza riferire se il mancato svolgimento del programma o il mancato raggiungimento di un esito riparativo sia dipeso dal diniego di una delle parti o da altri elementi, ferma restando la preclusione di effetti sfavorevoli per la persona indicata come autore dell’offesa. La persona indicata come autore è così tutelata rispetto al rischio che un suo eventuale diniego possa essere valutato a suo sfavore nel procedimento ed evita un’interlocuzione diretta con l’autorità giudiziaria sul punto, che potrebbe minare la sua piena libertà di scelta. Attenti, la giustizia riparativa vuole un colpevole senza la “seccatura” di un avvocato di Oliviero Mazza* Il Dubbio, 30 ottobre 2023 Responsabilizzare l’imputato e riconoscere il ruolo della vittima significa confessare davanti al mediatore, con atto di contrizione, senza alcuna garanzia difensiva. Un primo equivoco riguarda i principi generali e le finalità. L’articolo 43 co. 2 d.lgs. 150 del 2022 non lascia dubbi sul fatto che i programmi di giustizia riparativa “tendono a promuovere il riconoscimento della vittima” e la “responsabilizzazione” dell’imputato. Nessun infingimento da parte del legislatore: la giustizia riparativa richiede ruoli definiti, vittima e colpevole, che sono ontologicamente incompatibili con la presunzione d’innocenza. Che sia un sistema vittimocentrico è confermato, senza possibilità di dubbio, dalle fonti europee (art. 12 direttiva 2012/ 29/UE, “solo nell’interesse della vittima”). Al tavolo del mediatore l’imputato verrà “responsabilizzato” senza la presenza del difensore, considerato, quest’ultimo, un elemento di disturbo. Responsabilizzare l’imputato e riconoscere il ruolo della vittima significa ammettere i fatti e le responsabilità, ossia confessare davanti al mediatore, con atto di contrizione, senza alcuna garanzia difensiva. Del resto, il riconoscimento dei fatti del caso è richiesto, quale condizione inderogabile, dall’art. 12 direttiva 2012/ 29/UE e dall’art. 30 della raccomandazione 8 (2018) del Consiglio d’Europa. La giustizia riparativa non è una scelta volontaria compiuta al di fuori del processo, ma è stata impropriamente costruita alla stregua di un procedimento incidentale rispetto a quello di cognizione (art. 129- bis c.p.p.), dando così origine a un accertamento parallelo privo di qualsivoglia garanzia, a partire dall’inaccettabile esclusione del difensore. Non farei troppo affidamento, ad esempio, sulla riservatezza (si badi, non segretezza) in ordine a quanto avverrà al tavolo del mediatore, per di più in assenza di sanzioni. Chi potrà impedire alla persona offesa di testimoniare nel processo, riferendo quanto avvenuto nel corso degli incontri di mediazione? L’art. 50 comma 2 d.lgs. 150 del 2022 prevede a carico dei partecipati un obbligo di non divulgazione (sic!) delle informazioni che è certamente cedevole rispetto al diritto di autodifesa, anche della persona offesa, mentre l’inutilizzabilità riguarda solo gli atti della mediazione, non la testimonianza che verta su di essi. Norme vaghe, fondate su concetti impropri (divulgare è cosa ben diversa dal testimoniare in un processo), non costituiscono alcun argine rispetto all’inevitabile osmosi fra i procedimenti incidentali. Quanto al carattere etico, il dialogo riparativo (art. 53 lett. b d.lgs. 150 del 2022), radicato sul riconoscimento dei ruoli e delle responsabilità (confessione), mi ricorda molto da vicino la concezione medicinale della pena di carneluttiana memoria. Vogliamo rimettere la decisione della questione penale a un mediatore metà parroco e metà psicologo, secondo la definizione di Cavallone? È questo il futuro della giustizia penale consacrato anche nei protocolli? Bisogna intervenire al più presto con correttivi di legge che isolino il sistema della giustizia riparativa dal processo penale, rendendolo davvero volontario, separando nettamente la cognizione dalla mediazione e tenendo indenni le categorie penalistiche da concetti quali pentimento e riconciliazione. Oppure ci sono altre ragioni, non dichiarate, che richiedono l’istituzionalizzazione della giustizia riparativa quale surrogato della cognizione garantita dal giusto processo? *Ordinario di Diritto processuale penale all’Università di Milano-Bicocca Nessuna forzatura, nessuna “mistica della vittima”: garanzie e diritti non sono toccati di Mitja Gialuz* e Michele Passione** Il Dubbio, 30 ottobre 2023 È un percorso dialogico condotto da un mediatore che prende le mosse non dalla responsabilità penale ma da un fatto nudo. Bisogna dare atto a Oliviero Mazza di aver preso sul serio l’impegno ad animare il dibattito attorno alla giustizia riparativa, salutata sin dalla scorsa estate dalle pagine di questo giornale con giudizi lapidari. L’oggetto della riflessione viene suggestivamente alterato dall’Autore in modo che i suoi pre-giudizi critici fondati su una rappresentazione ideologica possano risultare retoricamente efficaci e persuasivi. Viene in mente un libro (“Eager, Magia… che Mania”) che racconta come, nella letteratura streghesca, un magico rituale finirebbe per sprigionare da un pozzo una forza misteriosa che fa apparire cose invisibili, scomparire quelle visibili, rendendo le persone irriconoscibili. Ecco, partiamo da qui: la giustizia riparativa non c’entra nulla con quel mostruoso dispositivo autoritario affidato a un “mediatore metà parroco e metà psicologo”. Si tratta di un paradigma complementare e non certo alternativo al diritto penale e alle sue garanzie, che è sorto come un fatto sociale per rispondere alle insufficienze e alla crisi profonda della giustizia tradizionale. Nel nostro sistema è evidente che tanto il processo quanto la pena non riescono a mantenere le promesse degli articoli 2, 3 e 27 della Costituzione. Il d.lgs. 150/ 2022 ha codificato questo paradigma proprio con l’obiettivo di assicurare un rapporto di complementarità e di distinguere nettamente i due mondi, in ottica garantistica. Il programma di giustizia riparativa non viene assolutamente configurato come “un accertamento parallelo privo di qualsivoglia garanzia, a partire dall’inaccettabile esclusione del difensore”, né si richiede una “confessione” all’imputato; tanto meno si configura come un “sistema vittimocentrico”. L’invio da parte dell’autorità giudiziaria rappresenta una semplice autorizzazione a iniziare un programma; nessuna forzatura verso “una riparazione etica”. È diverso l’oggetto del programma di giustizia riparativa rispetto al processo; diverso è lo scopo; diversi sono gli attori. Si tratta di un percorso dialogico condotto da un mediatore che prende le mosse non dalla responsabilità penale ma da un fatto nudo, a prescindere dalla sua corrispondenza rispetto alla condotta di reato; si muove e si concentra sul conflitto e non vi si applica alcun trattamento sanzionatorio; lo scopo è mettere i protagonisti della vicenda nelle condizioni di guardarsi negli occhi per entrare in relazione e ricucire lo strappo, restituendo dignità all’altro. Nella conca della mediazione, il difensore non ha alcun ruolo semplicemente perché non si parla il linguaggio tecnico del diritto penale (e non si accerta un reato), ma quello delle emozioni sprigionate dal conflitto. Quello che le persone si dicono non deve confluire nel procedimento ordinario e vi sono diverse paratie per assicurare l’impermeabilità. Questo il sistema delineato dal legislatore (e non dai protocolli). La proposta di gettarlo nel cestino prima ancora che si parta appare nulla più che una provocazione. Occorre invece completare la più ambiziosa riforma realizzata nell’ambito penale: mettendo all’opera la Conferenza nazionale per la giustizia riparativa (nella quale il ministro Nordio ha nominato due insigni professori e avvocati, Vittorio Manes e Nicola Mazzacuva) e accelerando sull’istituzione dei centri per la giustizia riparativa e sulla formazione dei mediatori esperti. Tanti avvocati, infatti, si stanno rendendo conto delle potenzialità di questo paradigma per superare le storture quotidiane (dentro e fuori dall’aula) secondo le quali un reato è per sempre, trent’anni non bastano, buttiamo la chiave. Per superare la leva incapacitante del diritto penale, delle ostatività, delle preclusioni, la scommessa della giustizia riparativa andrebbe sostenuta con forza. Come dimostra la recentissima vicenda di Busto Arsizio, sulla quale per rispetto delle parti coinvolte non intendiamo formulare alcun giudizio, ma che consegna il dato di un’istanza (un bisogno) avanzata da un imputato, condannato, raccolta da un giudice, per un percorso che forse (forse) potrà aiutare qualcuno (l’istante, un’altra vittima, la comunità). *Ordinario di Diritto processuale penale **Avvocato Caso Carol Maltesi. Limiti, dubbi e polemiche sulla giustizia riparativa di Valentina Stella Il Dubbio, 30 ottobre 2023 È il primo esempio in Italia, almeno per un omicidio, e ha suscitato sconcerto tra i familiari della vittima. A settembre scorso a Davide Fontana, il bancario di 44 anni condannato in primo grado a trent’anni per l’omicidio, lo smembramento e l’occultamento del corpo di Carol Maltesi, è stata concessa, con la contrarietà del pm e delle parti civili, dalla Corte di Assise di Busto Arsizio l’ammissione all’istituto della giustizia riparativa, primo caso in Italia, almeno per il reato di omicidio, dell’istituto entrato in vigore il 30 giugno scorso, a seguito della riforma Cartabia. La decisione ha creato molto scontento nei familiari della vittima. La madre della giovane donna uccisa ha dichiarato: “Il sì dei giudici al reinserimento dell’assassino di mia figlia? Non è possibile, questa è un’ingiustizia. Adesso temo davvero che un giorno il mostro che ha massacrato e fatto a pezzi Carol possa tornare libero”. Il padre di Carol si è dichiarato invece “allibito” dalla notizia, mentre l’ex compagno della donna ha affermato che non ci sarà mai alcun incontro tra loro e l’omicida. Polemiche sono giunte anche dalla Rete Dafne, Rete Nazionale dei servizi per l’Assistenza alle Vittime di reato, presieduta dall’ex magistrato Marco Bouchard: “La decisione della Corte d’Assise di Busto Arsizio favorevole alla richiesta di programma riparativo per Davide Fontana ci ha profondamente turbato. La Corte d’Assise viola il sentimento d’ingiustizia che a distanza di un anno e mezzo dai terribili fatti provano ancora le vittime alla sola idea di incontrare l’imputato e non riesce a cogliere nella loro indisponibilità il rischio di una clamorosa vittimizzazione secondaria che in questo caso - lo dice la Direttiva europea 2012 che sul punto ha effetto diretto - dovrebbe essere addirittura presunta poiché una di esse ha appena compiuto sette anni ed è figlio dell’uccisa. La Corte d’Assise lede lo stesso ruolo di mediatori perché li scavalca stabilendo in loro vece la fattibilità del programma riparativo mediante ricorso a vittime sostitutive (quante? di quale età?): e che fardello dovrà portare la vittima sostituiva nel mettersi nei panni di chi si è rifiutato di entrare nella stanza del mediatore?”. A distanza aveva replicato l’avvocato di Fontana, Stefano Paloschi, che lo difende insieme a Giulia Ruggeri: “Comprendo i sentimenti dei familiari di Carol Maltesi, ma al contempo ritengo che chi lotta contro la violenza di genere dovrebbe guardare con interesse a questo istituto che in altre circostanze ha dato ottimi risultati, e magari fare richiesta di partecipare al programma”. Questo caso ha sviluppato ancora di più il dibattito tra contrari e favorevoli in merito ai percorsi di giustizia riparativa, sia per motivi giuridici sia per ragioni personali, come il dolore per una perdita. La contrarietà della famiglia di Carol Maltesi alla concessione del percorso riparativo si inserisce in quella visione di giustizia punitiva che mai risolve il conflitto, anzi, come ha scritto il magistrato Marcello Bortolato, “lo alimenta con quel perverso meccanismo che conosciamo del raddoppio del male”. Comprendiamo quanto possa essere difficile per un familiare che ha subìto un grave lutto, immaginare che l’assassino di una figlia, di un padre, di un fratello possa iniziare a ricucire il forte strappo che ha creato con la società e il nucleo parentale della vittima. Verrebbe da pensare che è quasi contro natura. Tuttavia, come disse l’ex ministra della Giustizia Marta Cartabia, che fortemente ha voluto questa nuova norma, “la definizione più sintetica e più suggestiva della giustizia riparativa è a mio parere “la giustizia dell’incontro” dove l’incontro è tra tutti i soggetti coinvolti. Crea ambiti in cui il reo responsabile del reato può incontrare la vittima ma anche la comunità interessata insieme ad un mediatore, sempre e solo se liberalmente accolto”. Facile a dirsi, difficile a farsi. Occorrono un salto culturale e una pedagogia collettiva sul senso dell’espiazione e della rieducazione in carcere troppo difficili da intraprendere, soprattutto quando il lutto è ancora troppo vicino. Quello che non aiuta è il contesto sociale entro il quale dovrebbero svilupparsi questi percorsi di giustizia riparativa: è quello della vendetta, dell’occhio per occhio dente per dente, del buttare via la chiave, del marcire in galere che impediscono anche solo di meditare di poter affrontare il nuovo percorso riparatore che non comporta alcun premio, sconto o beneficio processuale o carcerario. Eppure non si comprende che la finalità è di promuovere la possibilità che il colpevole percepisca e riconosca l’impatto che il male che ha fatto ha avuto anche non solo sulla vittima e familiari ma anche sulla collettività, fino magari a ripristinare il violato patto di cittadinanza impegnandosi in visibili forme di riparazione a favore della stessa. Non spetta a noi dare consigli alla famiglia di Carol Maltesi. Ma ai nostri contrari o dubbiosi sì. Guardare una mini seria trasmessa dalla Bbc e poi da Sky Italia “The victim”: è la storia di una madre ancora in lutto per la perdita del figlio Liam, ucciso ormai 14 anni prima da un ragazzino poco più grande di lui, che finisce sotto processo con l’accusa di incitamento all’omicidio verso l’assassino di suo figlio. Il compagno della donna, vedendo la famiglia sgretolarsi per il processo e per l’odio che la moglie cova, la affronta: “Hai fatto di te stessa una vittima e ora gli hai dato il potere su tutti noi. Il ragazzo è stato condannato, la sua pena l’ha scontata. Che altro dovrebbe fare? Sei tu ad avere il potere, non lui. Lui non può cambiare niente, ma tu invece puoi per entrambi”. E lei: “Non starai mica parlando di perdono? Liam è l’unico ad avere il diritto di perdonarlo”. E lui: “Non parlo di quello che ha fatto a Liam, ma di quello che ha fatto a te”. Lei: “Certe cose sono imperdonabili”. E lui, magistralmente: “Ma sono le uniche volte in cui il perdono significa davvero qualcosa. Qual è il punto nel perdonare il perdonabile?”. Alla fine i due protagonisti si ritroveranno uno dinanzi all’altro separati da un mediatore per cercare di perdonarsi a vicenda. La serie termina con una bellissima frase del poeta Rumi: “Al di là delle idee di male e di giusto c’è un campo: ti incontrerò lì”. Agnese Moro: “Mio padre avrebbe approvato la scelta di incontrare chi ha ucciso lui e la sua scorta” di Franco Insardà Il Dubbio, 30 ottobre 2023 La figlia dello statista da anni gira l’Italia per raccontare l’esperienza degli incontri tra vittime e protagonisti della lotta armata. “Io non dimentico cosa mi è successo e non lo considero meno terribile di allora. Dopo aver stretto la mano agli artefici di quel dolore, però, dopo aver potuto chiedere loro “perché l’hai fatto?” so che tutto è tornato al suo posto. Siamo seduti uno vicino all’altro, siamo amici, ci preoccupiamo per le famiglie altrui: c’è stata una frattura ma oggi è necessario che sia così. Questa per me è il senso profondo della giustizia. Pensavo fossero mostri, ho scoperto che anche loro sono persone nella mia mente loro sono dei mostri senza cuore, senza pietà. E lo sono anche stati. Ma poi ha scoperto in loro un dolore infinitamente peggiore del mio che li fa essere totalmente disarmati nei nostri confronti. Ho imparato da loro che se tu vuoi ascoltare qualcuno e poi parlare ti devi disarmare da pregiudizi e rabbia. Incontrare chi ha fatto del male è un atto di amore verso se stessi, perché trovarsi faccia a faccia con chi ha compiuto atti tremendi di violenza è l’unico modo possibile per uscirne”. Sono le parole che Agnese Moro ripete pubblicamente quando viene invitata a parlare della sua esperienza. Un cammino iniziato nel 2007 da un gruppo di persone, sia vittime sia membri della lotta armata, guidati dal padre gesuita Guido Bertagna, Adolfo Ceretti, professore ordinario di Criminologia all’Università Cattolica di Milano e dalla sua collega Claudia Mazzucato, docente di Diritto penale. Un percorso che è stato prodomico per la giustizia riparativa, della quale il professor Ceretti può essere considerato il padre e spiega spesso: “Nella comprensione della giustizia le vittime non erano considerate: ci si concentra solo sul colpevole. Si ignorava il vissuto della vittima, imprigionata in un eterno presente che alimenta l’odio. L’odio dà un ruolo a sé e al nemico. La giustizia riparativa cerca di liberare vittime e carnefici dai loro inferni”. “Quando ho ricevuto la proposta di padre Guido inizialmente ho rifiutato - racconta Agnese Moro nei suoi frequenti incontri - ma mi sono resa conto che lui mi veniva incontro per qualcosa di diverso. Si era accorto del mio dolore e in 31 anni nessuno l’aveva mai fatto. Alla fine dei processi ero soddisfatta perché quelle condanne stabilivano che la violenza non è uno strumento legittimo per affermare un ideale ma dal punto di vista personale non avevano forma risarcitoria. Io non stavo meglio sapendo che un altro soffriva”. Sono quelle che Moro definisce le “scorie radioattive di un’ingiustizia piccola o grande che sia” che restano addosso sia alla vittima sia all’autore del reato. Quel percorso doloroso e silenzioso è diventato nel 2016 “Il libro dell’incontro” che racconta il cammino di Agnese Moro, Giovanni Ricci, figlio di uno degli agenti uccisi in via Fani il 16 marzo 1978, di altre vittime e di alcuni ex militanti della lotta armata: da Valerio Morucci ad Adriana Faranda, da Maria Grazia Grena a Franco Bonisoli. Proprio da quest’ultimo ha preso spunto Angelo Picariello, quirinalista di Avvenire, per scrivere “Un’azalea in via Fani”, che ha “il merito di aver avuto il coraggio di alzare il velo sui conflitti della nostra storia”, come disse Agnese Moro presentandolo. Parlando degli incontri con gli ex terroristi la figlia dello statista dice: “Guardi in faccia dei vecchietti come me, cadenti o meno, ognuno ha sul viso la storia di quello che gli è successo e sono storie terribili. Perché quando hai pensato di salvare il mondo, ma alla fine scopri che hai ucciso solo delle brave persone che non possono tornare indietro, e quella giustizia che volevi l’hai solo tradita è davvero terribile. Ecco perché è importante fare un percorso insieme”. E Agnese Moro ribadisce che suo padre avrebbe approvato questo cammino di riconciliazione e il fatto che “queste due realtà “ex giovani” feritesi reciprocamente, possano oggi incontrarsi e sanare qualcuna di quelle ferite io sono certa che per lui sia motivo di contentezza”. Come ricorda spesso Nicodemo Oliverio, allievo di Moro alla cattedra di diritto e procedura penale alla Sapienza proprio nell’anno accademico del rapimento “l’ultima lezione, il 15 marzo 1978, fu proprio sulla rieducazione dei detenuti. Senza dimenticare i suoi dubbi sull’ergastolo, una posizione che restituisce appieno la contemporaneità del pensiero di Moro. E non sfugge a nessuno come l’articolo 27 della Costituzione sia stato ispirato proprio da lui”. La figlia dello statista da anni porta in giro per l’Italia la sua esperienza, insieme con altre vittime ed ex terroristi, e dice: “Ci sono tante persone che vengono non solo per capire come mai io, Giovanni Ricci e altri familiari delle vittime siamo insieme agli ex terroristi, ma tanti anche per curare la loro memoria, feriti per aver tifato per la morte di mio padre e lo raccontano vergognandosi di se stessi, altri che erano bambini e hanno vissuto quel periodo avendo paura. È stato sorprendente che dopo tanti anni qualcuno venisse a interessarsi del mio dolore”. E Giovanni Ricci confida che quando ha incontrato Morucci gli ha detto: “La tua croce è più grande della mia”. Lasciare impunito il pm che ignora le prove utili alla difesa: errore fatale di Alberto Cisterna Il Dubbio, 30 ottobre 2023 A non rispettare le regole è una minoranza, che però va sanzionata nel processo, anche col proscioglimento dell’imputato. O salta tutto. Altro urge e problemi più gravi sono nell’agenda e nelle preoccupazioni del paese. Forse, però, è proprio questo il momento per riprendere le fila di un discorso le cui braci ardono in profondità e che resta comunque centrale nel tempo che verrà. La separazione delle carriere è stata al centro del dibattito recente del congresso dell’Unione delle Camere penali, e il cambio al vertice dell’associazione non sembra annunciare una diversa postura sull’argomento. Per l’avvocatura italiana e per una parte maggioritaria della politica, scindere il pubblico ministero dal giudice resta un passaggio obbligato per arrivare al tanto sospirato giusto processo. Anche se, in verità, un nugolo di aborti in primo grado, di assoluzioni in appello, di ribaltamenti in cassazione sembrerebbe flettere il barometro verso un clima meno fosco e urticante rispetto a quanto si denuncia. È vero, lo sappiamo. Il punto vero di frizione è quello delle indagini preliminari, delle intramontabili conferenze stampa, del trafugamento delle carte, della famosa gogna mediatica. Su questo versante, malgrado il molto che si è fatto (in primo luogo la legge sulla presunzione di innocenza) e si vorrebbe fare (la contestata via del nuovo “tribunale della cattura” al posto del gip), la ferita resta aperta, ed è qui che si appuntano le critiche più aspre dei fautori della separazione. Soluzioni radicali non godono del sufficiente sostegno per entrare nel torrido agone della discussione. Così resta impraticabile l’idea dell’eliminazione del controllo giurisdizionale (ossia del gip) dalla fase delle indagini preliminari, sul modello anglosassone; rescissione che isolerebbe l’attività del pubblico ministero da ogni contaminazione/avallo giurisdizionale e rafforzerebbe il circuito di responsabilità che, al momento, è particolarmente lasco proprio in forza della presenza del gip negli snodi più rilevanti delle indagini (libertà personale, intercettazioni etc.). Il processo penale in senso stretto (dal primo grado alla Cassazione) appare avviato a metabolizzare in profondità la parità tra le parti grazie anche a circa 20 anni di separazione di fatto delle carriere a causa anche degli scarsi travasi tra i due alambicchi. Certo resta il “buco nero” dei processi di mafia, soprattutto in alcuni fortilizi giustizialisti, per i quali ancora l’avvocatura denuncia storture, contiguità, accomodamenti che, tuttavia, potrebbero avere radici diverse dall’unicità delle carriere e che si potrebbero spiegare, forse, per comunanze di vita, condivisione di frequentazioni, medesime provenienze concorsuali. In ogni caso, è nella commistione tra giudice e pm durante la spesso lunga fase delle indagini preliminari che si deve ricercare la ragione profonda delle resistenze e degli imbarazzi che talvolta le difese avvertono nella gestione dei dibattimenti quando si tratta di sconfessare non solo e non tanto l’accusa, quanto il giudice che ne ha avallato le scelte più invadenti e corrosive sul piano delle libertà. E quando la liaison si interrompe o spezza, gli effetti sono eclatanti e le polemiche quasi scabrose. Con sempre minore convinzione e, a tratti anche sbeffeggiata, si oppone ai “separatisti” la tesi che il codice di procedura imponga al pm la ricerca finanche delle prove favorevoli all’indagato (articolo 358) a dimostrazione non tanto di una impredicabile terzietà, quanto di una sostanziale neutralità dell’accusa rispetto all’esito delle indagini. È vero, e non reso sufficientemente chiaro alla pubblica opinione, che la stragrande maggioranza dei procedimenti finisce in archivio proprio perché (anche) il pm, alla ricerca di elementi completi per la ricostruzione della vicenda, si imbatte in prove favorevoli all’indagato. Ma quando la posta si innalza - o per l’adozione di misure cautelari o per la “qualità” dell’indagato - allora la partita tende a smarrire le regole, e troppe volte l’arbitro non fischia i falli commessi dall’accusa nell’ignorare (quando non occultare, come purtroppo è emerso) le prove in favore della difesa. La norma non prevede sanzioni processuali di alcun tipo, e nulla importa all’imputato che il pm neghittoso, negligente o, peggio, in malafede, finisca sotto la scure di un eventuale procedimento disciplinare. L’unica vera sanzione processuale per un processo in cui si accerti che prove non sono state acquisite dal pm per sua colpa è quello dell’immediato proscioglimento dell’imputato perché la partita è stata truccata e, come nel calcio, anche la perdita di qualche immeritato scudetto non guasterebbe. Si discute al calor bianco del caso della giudice catanese e dei suoi provvedimenti in materia di immigrazione clandestina; si scovano fotogrammi e brandelli di fanghiglia mediatica per minare la legittimità dei suoi provvedimenti. L’Anm si è espressa chiaramente, in persona del presidente Santalucia, su questa inedita prassi, e diversità di valutazioni emerse di recente tra le correnti sul gradiente di difesa della giudice si spiegano con modi molto diversi di intendere la terzietà. Ma tra chi alimenta la polemica, ancora non c’è chi trovi il modo, piuttosto, per sanzionare nel processo - che l’accusa promuove - l’atteggiamento del pm che si sia colposamente o dolosamente disallineato dall’obbligo di cercare e/ o esibire le prove favorevoli all’imputato. Con il pericolo che costui altri processi inauguri e altre scorrettezze possa commettere. Non basta il versante, meramente autarchico e corporativo, delle valutazioni di professionalità riformate dalla legge Cartabia oggi alla prova dei decreti attuativi. Il processo unfair, ossia ingiusto perché scorretto, non può raggiungere per definizione la verità, e l’inattingibilità del suo scopo euristico non deve essere dichiarata dal giudice sulla base di valutazioni troppo discrezionali, ma imposta dalla legge in presenza di una riconosciuta e grave violazione dell’articolo 358 su qualunque versante dell’articolo 187, ossia la responsabilità, la pena, l’imputazione. Anche una pena ingiusta perché un’attenuante è rimasta occultata, inficia il processo per intero. È un problema di regole e chi non le rispetta perde a tavolino. Caltanissetta. Detenuto si toglie la vita in carcere, momenti di tensione al pronto soccorso di Vincenzo Falci castelloincantato.it, 30 ottobre 2023 Tragedia in carcere dove un detenuto ha deciso di farla finita. E sono stati poi momenti di forte, fortissima tensione al pronto soccorso dell’ospedale Sant’Elia. Sì perché è lì che è stato subito trasferito il recluso ma per i sanitari non c’era ormai più nulla da fare. In quei frangenti, quando hanno compreso che era deceduto, i parenti della vittima sono andati in escandescenza. Sono stati momenti di grande nervosismo nell’area dello stesso pronto soccorso perché i parenti del detenuto morto in carcere si sono lasciati prendere da un forte nervosismo. La situazione si è fatta elettrica tanto da rendere necessario ‘intervento di una pattuglia di polizia per riportare la calma. Roma. L’appello dei detenuti di Rebibbia: “Cure sempre più difficili, mancano medici” Adnkronos, 30 ottobre 2023 Dalla Casa di reclusione di Rebibbia a Roma, la denuncia: “Per noi il diritto alla salute e alla cura è messo in discussione”. “In carcere ci si ammala tanto e curarsi è sempre più difficile, malgrado l’encomiabile impegno dei medici presenti negli istituti. Ma sono sempre meno”. Lo denunciano i detenuti della Casa di reclusione di Rebibbia a Roma che, da qualche anno, hanno dato vita al notiziario “Non tutti sanno”, realizzato all’interno del penitenziario. Un appello che ha una valenza generale, per l’intero territorio nazionale, e che per questo i detenuti indirizzano al presidente della Federazione nazionale degli Ordini dei medici, Filippo Anelli, all’Ordine romano, ai sindacati medici ma anche alle istituzioni tutte e, sul caso specifico, al presidente della Regione del Lazio, Francesco Rocca, anche responsabile della sanità regionale. “La crisi della sanità pubblica e la mancanza di risorse - si legge nel testo firmato da Roberto Monteforte, giornalista coordinatore della redazione di ‘Non tutti sanno’ - infatti, colpiscono in modo diretto e pesante i livelli di assistenza sanitaria, le condizioni di vita e di lavoro dei medici, ma anche quelli della popolazione detenuta che già oggi sconta la carenza di assistenza sanitaria, la difficoltà ad usufruire in tempi efficaci di esami clinici e prestazioni specialistiche anche per i limiti posti dalla detenzione e dal sovraffollamento delle carceri. L’effetto è che per noi il diritto alla salute e alla cura è messo in discussione. Lo sarà ancora di più se, come abbiamo constatato, risultano sempre meno i medici che decidono di prestare la loro attività nelle carceri”. “Rivolgiamo a lei - continua l’appello che in queste ore comincerà a circolare anche sui social - rappresentante istituzionale dell’intera categoria dei medici, e a chi ne tutela i diritti economico-sindacali questo accorato appello che parte dalla realtà del carcere, con la speranza che possa raggiungere ogni professionista della sanità, ne interpelli la coscienza, ne stimoli l’impegno, sostenga le giuste aspettative economiche e di carriera per chi affronta il disagio di curare la popolazione ‘ristretta’. Per noi la sanità pubblica rappresenta l’unico strumento di tutela della nostra salute, del nostro diritto alla cura, della nostra dignità di cittadini e di persone, di futuro possibile. Vorremmo non fosse dimenticato”. Napoli. Chiudere Poggioreale: la denuncia di Cozzolino riaccende il dibattito sul tema di Antonio Salzano mardeisargassi.it, 30 ottobre 2023 “Ci sono stato appena 19 ore e dico: Poggioreale va chiuso”. Questo il titolo di un articolo apparso su L’Unità, il quotidiano fondato da Antonio Gramsci nel 1923 e da poco più di cinque mesi diretto da Piero Sansonetti. A firmarlo è l’europarlamentare Andrea Cozzolino, indagato nell’inchiesta Qatargate e condotto nel carcere napoletano per poche ore prima di essere messo ai domiciliari. Il tempo necessario, insomma, a rendersi conto delle condizioni disumane in cui vivono gli oltre duemila detenuti, quasi 500 in più di quanto consenta la vecchia struttura realizzata nel primo Novecento e per la quale lo stesso Cozzolino opportunamente dichiara che non servono ristrutturazioni, inutile indugiare. Ogni tentativo è solo accanimento terapeutico. Chiuderlo è un’urgenza non rinviabile. Al 30 aprile di quest’anno i detenuti presenti nelle carceri del nostro Paese erano circa 56mila, dei quali 17.654 cittadini stranieri. 9mila detenuti in più rispetto alla capienza regolamentare, con un tasso di sovraffollamento pari in media al 119%. Più che condivisibile, dunque, l’articolo dell’europarlamentare sin dal 2009, sospeso dal Partito Democratico dopo il coinvolgimento nello scandalo per corruzione e riciclaggio di denaro nello scorso dicembre. Un articolo il cui contenuto, in quanto allo stato indecente nel quale si trova la struttura e l’inaccettabile affollamento, da anni è denunciato da Samuele Ciambriello, l’instancabile Garante campano dei detenuti: Poggioreale, carcere invaso da topi e blatte. In cella anche 10/12 persone, docce senza acqua calda. Al 9 luglio di quest’anno sono avvenuti 96 morti nelle carceri italiane di cui 33 suicidi, 5 in Campania. Non la solita passerella dei parlamentari prevista dall’art.67 della legge 354 del 26.7.1975 sull’ordinamento penitenziario, ma un ingresso da detenuto quello di Cozzolino: Una notte, una mattinata, fino al tardo pomeriggio-sera, di qualche mese fa. Accolto in luogo ameno, freddo, scassato; prima in un’orribile stanza, da solo, con una terribile puzza di muffa, poi in infermeria per un rapido controllo, e infine in una cella assieme ad altri otto ospiti detenuti; per lo più giovani delle nostre periferie […] Pochi metri quadrati, occupati da otto letti a castello, un bagno-doccia di fortuna, un piccolo lavello cadente e alcune prese per cucinare, una finestra rotta, utile solo per fumare una sigaretta senza lasciare che la stanza sia pervasa dal fumo. Una condizione fatiscente, una vergogna. Provare per credere: il motto di una vecchia pubblicità si fa valido per quanti da sempre trattano il tema delle carceri con superficialità e scarsa conoscenza, peggio quando questa realtà è affrontata limitandosi a sporadiche visite da parte di quanti dovrebbero garantire un minimo di condizioni umanamente accettabili ed elaborare forme alternative a un sistema fallimentare, fino a una riforma radicale degna di un Paese civile. Quale l’impegno del governo per mantenere lo stato attuale in termini di risorse? 0,35 centesimi in media al giorno per detenuto e l’attività di rieducazione affidata per la quasi totalità ai volontari. Incide sul sovraffollamento, poi, il ricorso alla custodia cautelare in carcere, pari al 26,6% del totale delle persone detenute, in calo rispetto al passato ma più alto della media europea (fonte Antigone). Proteste, quelle di Cozzolino e di Samuele Ciambriello, che non trovano un minimo di risposta o, per la richiesta di mascherine e test dopo un caso di Covid nel penitenziario di Santa Maria Capua Vetere dell’aprile di tre anni fa, soffocate con una violenza inaudita, drammatica, per un totale di 177 vittime, 117 indagati e 52 misure cautelari, un processo dagli esiti più che incerti. 1.140 minuti sono stati sufficienti all’europarlamentare per rendersi conto e provare sulla propria pelle quanta mortificazione è capace di causare una classe politica da troppo tempo insensibile e menefreghista su un tema che non solo non porta consensi ma genera malumore in una società altrettanto riluttante su un argomento che, va detto in tutta franchezza, non interessa nessuno se non i soggetti direttamente coinvolti e le loro famiglie. Esperienza, quella di Cozzolino, resasi possibile per la revoca dell’immunità decisa dal Parlamento Europeo, ma impossibile per la quasi totalità dei parlamentari italiani protetti dall’immunità e dalla solidarietà reciproca che, salvo rarissime eccezioni, non consentirà mai una esperienza detentiva neanche di sole poche ore, al peggio direttamente ai domiciliari. Quanto mai calzante il motto provare per credere, dunque, condividere anche se per un brevissimo lasso di tempo sofferenze e condizioni inaccettabili che nessun reato, neanche il più grave, può giustificare e assolvere quanti hanno responsabilità politiche e amministrative. Il grado di civiltà di un Paese si misura anche da come questo governa la giustizia. Le parole di Nelson Mandela tornano quanto mai opportune: Si dice che non si conosce veramente una nazione finché non si sia stati nelle sue galere. Una nazione dovrebbe essere giudicata da come tratta non i cittadini più prestigiosi ma i cittadini più umili. Roma. All’Ipm di Casal Del Marmo scoppia la protesta dei detenuti in nome del Pastificio La Repubblica, 30 ottobre 2023 Notte di rabbia nella nuova ala in vista dell’inaugurazione prevista il 10 novembre del progetto accanto al carcere. Tutti trasferiti i detenuti rivoltosi. Calderone: “Siamo in una situazione di totale abbandono”. Risse, devastazioni e incendi. E quella rabbia pronta a esplodere in ogni momento. A Casal del Marmo non ci sono i colpi di scena della fiction Mare Fuori. Ma solo la più cruda delle realtà, dove il più banale dei litigi si può trasformare in una catastrofe. “Siamo in una situazione di totale abbandono”, denuncia Valentina Calderone, il garante dei detenuti del Campidoglio, che questa mattina visiterà l’istituto penitenziario minorile dopo l’ennesimo fine settimana di violenze. Porte blindate e sanitari andati distrutti. E danneggiamenti nella nuova ala appena ristrutturata. L’ultima protesta è scoppiata sabato notte per dissidi legati all’inaugurazione del pastificio Futuro, il progetto del carcere grazie a cui circa 20 ragazzi che vivono nell’istituto avranno un lavoro. A capitanare la devastazione sarebbero stati alcuni dei detenuti esclusi dal progetto, tre giovani di nazionalità marocchina, tra cui un 24enne, che lavorava proprio nel pastificio. Il giovane, rientrato in carcere in seguito a un nuovo arresto, avrebbe perso la testa dopo aver saputo del suo imminente trasferimento. Gli altri due detenuti lo avrebbero assecondato nella protesta, accusando gli educatori dell’istituto di una differenza di trattamento. I detenuti “preferiti” inseriti nel progetto del Pastificio, vista come un’opportunità di riscatto e speranza, gli altri abbandonati a loro stessi. Così quello che dovrebbe essere il fiore all’occhiello dell’istituzione penitenziaria rischia di diventare un caso, a pochi giorni dall’inaugurazione, prevista il 10 novembre. Le proteste sono durate diverse ore, tanto che quando ieri mattina il parroco si è presentato sul posto la situazione era ancora tesa. “Non c’è stato nessun ferito grazie alla velocità del personale della polizia penitenziaria che è intervenuto subito”, afferma Massimo Costantino, segretario generale del sindacato Fns Cisl Lazio, che da mesi denuncia il sovraffollamento di Casal del Marmo, dove vivono 54 detenuti a fronte dei 45 previsti. I protagonisti dei danneggiamenti sono stati trasferiti, fanno sapere dal ministero della Giustizia. Ma la situazione all’interno dell’istituto minori continua a essere esplosiva. “Mi recherò questa mattina per capire cosa è accaduto. Casal del Marmo è abbandonato - aggiunge il garante dei detenuti Calderone - Il problema è il sistema penitenziario che è in sofferenza. Diminuiscono gli investimenti in risorse e programmi e contestualmente cresce il malessere dei detenuti”. Solo lo scorso 2 ottobre, per protestare contro il vitto scadente, alcuni giovani avevano dato fuoco a una cella e a un padiglione. Il 6 settembre, invece, erano state sequestrate diverse dosi di hashish e cocaina e un punteruolo, proprio nei locali del Pastificio, che nei mesi scorsi era stato visitato anche da papa Francesco. Sarebbe stato questo episodio a scatenare le violenze di sabato. Lecce. “Pochi infermieri nel carcere”, l’allarme del sindacato Fsi Usae leccesette.it, 30 ottobre 2023 Perrone: “reclutare sanitari affinché sia garantita la sicurezza del personale e dei detenuti”. Carenza di personale infermieristico in carcere per garantire adeguata assistenza sanitaria ai detenuti. La segnalazione sugli organici sanitari all’interno del penitenziario Borgo San Nicola, indirizzata con una nota ai vertici sanitari dell’Asl Lecce, porta la firma del segretario provinciale e regionale Fsi-Usae, Francesco Perrone. La situazione è diventata critica - scrive il sindacalista - a seguito della comunicazione regionale di autorizzazione del nuovo piano assunzionale senza l’aggiornamento e l’integrazione dei servizi di sanità penitenziaria attraverso il completamento dei Piani di fabbisogno triennali. Sarebbe necessario - chiarisce Perrone - reclutare almeno 12 infermieri, ma attualmente il personale infermieristico è nettamente al di sotto degli standard stabiliti dalla Regione Puglia. Le carenze d’organico non solo creano un sovraccarico di lavoro per i professionisti già presenti, ma mettono a rischio la sicurezza e la qualità dell’assistenza ai detenuti. In particolare, diventa difficile fornire un adeguato servizio assistenziale per i detenuti che richiedono cure mediche, terapie, e supporto psicologico. Soluzioni strutturali dunque, e non tampone, sono le richieste avanzate da Perrone: Il ricorso al lavoro straordinario e cambio turni per colmare le carenze di organico è ormai una prassi comune, ma non può essere una soluzione a lungo termine. Inoltre, i Livelli Essenziali di Assistenza (Lea) sono garantiti principalmente grazie allo spirito di sacrificio degli operatori. La situazione è resa ancora più critica dal crescente sovraffollamento della Casa Circondariale di Lecce. Inoltre, il personale sanitario è anche spesso vittima di aggressioni da parte della popolazione carceraria, mettendo a rischio la loro incolumità fisica e psicologica. Pertanto - conclude il segretario Fsi-Usae - occorrono interventi immediati per reclutare sanitari, affinché sia garantita la sicurezza del personale e dei detenuti. Caserta. Diritti dei detenuti, conclusa formazione per Polizia penitenziaria casertanews.it, 30 ottobre 2023 Il dipartimento di Scienze Politiche della Vanvitelli ha formato 150 tra agenti, personale del Prap e del Ministero della Giustizia. Cerimonia conclusiva, al dipartimento di Scienze Politiche di Caserta, del primo corso di formazione sui diritti dei detenuti riservato al personale della Polizia Penitenziaria, del Provveditorato regionale dell’Amministrazione Penitenziaria e del Ministero della Giustizia. In attuazione del protocollo d’intesa sottoscritto un anno fa tra il direttore del dipartimento di Scienze Politiche, Francesco Eriberto d’Ippolito, ed il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, Mauro Palma, circa 150 tra agenti della penitenziaria, del Prap e del dicastero di via Arenula, hanno partecipato al corso dal titolo “Limitazioni della libertà personale e strumenti di protezione dei diritti umani”, secondo un piano didattico composto da 12 moduli coordinato dal docente Fortunato Gambardella, e promosso, nell’ambito del Piano annuale regionale della formazione 2023, dal Provveditorato regionale dell’Amministrazione Penitenziaria della Campania. Al termine dell’ultima lezione ai 150 tra agenti provenienti dalle diverse carceri circondariali campane, e personale del Prap e del Ministero della Giustizia, sono stati consegnati gli attestati conclusivi del corso di formazione, da parte del direttore di Scienze Politiche, d’Ippolito, del direttore del Provveditorato regionale dell’Amministrazione Penitenziaria della Campania, Lucia Castellano, e del direttore personale Prap Campania, Carlotta Giaquinto. “Il corso ha inteso fornire gli strumenti più appropriati per l’analisi dei diritti umani dalla duplice angolazione storico-culturale e socio-giuridica, con il preciso fine di educare alla loro salvaguardia, a maggior ragione in scenari problematici, offrendo, altresì, un’ampia panoramica degli organismi internazionali attivi in tale ambito. La tutela dei diritti umani, come sancita nella normativa nazionale, europea e internazionale, si fonda sul pieno riconoscimento dell’appartenenza di ciascun essere umano, indipendentemente dalle specificità dei singoli contesti, ad un’unica ed indistinta comunità. L’impegno del dipartimento di Scienze Politiche continuerà anche su questo importante versante attraverso l’organizzazione di un master specifico, cui lavorerà già dalle prossime settimane il docente Gambardella”, dichiara il direttore d’Ippolito. Ferrara. Al Libraccio si parla di diritti umani, carcere e populismo penale con Stefano Anastasia ferraratoday.it, 30 ottobre 2023 Martedì alle 17.30 presso la libreria Libraccio è in programma il primo appuntamento della nuova edizione de ‘I Libri della Ragione’. Stefano Anastasia presenta il suo volume ‘Le pene e il carcere’ e discute di un argomento mai così attuale con due docenti di Unife, Stefania Carnevale e Andrea Pugiotto. Necessità e forme della pena restano un problema in ogni società democratica. Chi autorizza, in che misura, con quali limiti l’inflizione di una sofferenza legale? L’interrogativo appare ineludibile quando si presenta nell’estremo della pena capitale, ma riecheggia anche nella privazione della libertà cui sono costretti i condannati alla pena detentiva, spesso in carceri sovraffollate e in condizioni fatiscenti. Eppure la domanda di giustizia in forma di carcere e pena cresce diffusamente, insieme con le facili risposte populiste che le sollecitano e ci scommettono. In questo libro la complessità del tema viene indagato attraverso la differenza tra diritto e potere di punire, la distanza tra il volto costituzionale della pena e la sua realtà e le sfide che una concezione radicale dell’universalità dei diritti umani pone alle prassi punitive e alla stessa istituzione carceraria. Stefano Anastasia è ricercatore di sociologia del diritto nell’Università di Perugia e docente di criminologia presso Unitelma Sapienza. Dal 2016 è Garante delle persone private della libertà per la Regione Lazio e coordinatore nazionale dei garanti territoriali. Asti. La città entra in carcere con la rassegna “Teatro oltre” di Selma Chiosso La Stampa, 30 ottobre 2023 Asti entra in carcere e abbraccia un’umanità dolente. Il carcere si trova a Quarto, da qualche anno ha cambiato pelle e da casa circondariale è diventato istituto ad alta sicurezza. Ospita circa 300 detenuti, ergastolani o con pene lunghissime da scontare, soprattutto per reati di mafia. Al di là del muro c’è un mondo abitato anche da educatori, poliziotti, volontari, impiegati. Grazie alla direttrice Giuseppina Piscioneri (che ha la reggenza anche di Vercelli e Alba) e agli amministratori cittadini, nel muro si è aperta una porta. La chiave è il progetto “La città entra in carcere”: un ventaglio di iniziative che vanno dal teatro al corso di cucito, dal lavoro, allo studio. Il sindaco Maurizio Rasero, la direttrice Piscioneri, Beppe Passarino di Effatà, lo hanno spiegato bene: “Il carcere fa parte della città, è giusto interagire e conoscerci a vicenda, al di là dei luoghi comuni. Molti detenuti provengono da altre regioni, alcuni dei parenti si sono trasferiti ad Asti. Una realtà che non può restare avulsa dal contesto sociale. Interagire darà risultati per tutti”. Il primo giro di chiave, che apre invece di chiudere, è il teatro. Una osmosi tra il Teatro Alfieri e il carcere che diventa palcoscenico. Delfino Pellegrino, regista, spiega: “Siamo partiti dal fatto che divertire deriva dal latino e significa volgere, andare altrove”. Altrove: oltre le sbarre, oltre una vita di “prima”. Parole catartiche che i detenuti hanno scelto per loro e come titolo della rassegna: “Teatro Oltre”. “Vi avessi conosciuto prima, la mia vita sarebbe stata diversa”, oppure “Avessi incontrato il teatro 30 anni fa non sarei qui”. Sono alcune delle frasi dei detenuti che per mesi, due ore alla settimana, preziose più dell’oro hanno lavorato con i volontari per realizzare lo spettacolo Silvana Nosenzo: “Per due ore alla settimana il laboratorio teatrale ha regalato leggerezza e felicità, ma ha preteso anche studio, disciplina, impegno. Nella prima parte della pièce ci sono brani, poesie, racconti, nella seconda una piccola commedia “Un picnic di tre disperati”“. Lo spettacolo andrà scena in carcere il 18 novembre alle 10. Una “prima” per tutta la città, realizzata in collaborazione con il Teatro Alfieri e l’assessorato alla Cultura. Si entra con prenotazione obbligatoria (biglietteriateatroalfieri@comune.at.it con copia della carta di identità). Ingresso 10 euro alla biglietteria del Teatro Alfieri. Ingresso 10 euro alla bigliettaria del Teatro Alfieri. Quando il cuore è un valore aggiunto: il 7 di novembre lo spettacolo andrà in scena in carcere, in una edizione riservatissima, dove gli spettatori saranno esclusivamente i parenti dei detenuti. Nosenzo: “Essere sul palco sarà motivo di orgoglio, un modo diverso, una veste nuova per presentarsi ai propri cari”. Poi un’ora di colloquio e un piccolo rinfresco. Un’ora di vita regalata. In primavera il teatro entrerà in carcere con spettacoli della rassegna in cartellone all’Alfieri e al Civico di Moncalvo. Teatro anche con lo spettacolo “Fine pena ora” (cartellone Teatro Stabile di Torino) che nello stesso giorno sarà visto sia dagli studenti del Monti che dai detenuti: un altro ponte. Intanto si preparano i corsi e piace molto quello di cucito. Perché il carcere è uno scampolo di mondo dove la vita continua: oltre a scontare la pena, si lavora, studia, ci si laurea. Ci sono battesimi, cresime, matrimoni. Tutto avviene in modo diverso, imbrigliato dalle regole strette della burocrazia e della sicurezza, per cui tutto deve essere autorizzato e analizzato. Ma succede. La scienza come antidoto alla (mala)politica proibizionista di Franco Corleone e Grazia Zuffa* L’Unità, 30 ottobre 2023 Pubblichiamo la prefazione al nuovo volume “Dalla parte della ragione” (ed. Menabò, 2023), che raccoglie scritti del sociologo Peter Cohen, tra i più importanti studiosi a livello internazionale nel campo delle droghe. La collaborazione di Peter Cohen con Fuoriluogo si è estesa per tutto l’arco dell’attività del mensile, circa un ventennio fino al 2010. Fuoriluogo, inserto mensile del quotidiano Il Manifesto, è stato un punto di riferimento per il movimento riformatore fino dai primi anni novanta, sia per l’apertura alle esperienze europee, sia perché seppe cogliere la novità che la riduzione del danno avrebbe introdotto anche nel dibattito italiano. I due aspetti si intrecciavano strettamente, poiché la spinta alla Riduzione del danno veniva dalla Svizzera, dalla Gran Bretagna, dalla Germania delle città coalizzate per contrastare le politiche tough on drugs di matrice statunitense. Ma soprattutto dall’Olanda, paese pioniere della riduzione del danno: che fi no dagli anni sessanta, su ispirazione di commissioni di esperti dirette da illustri criminologi e forte di un sistema ben sviluppato di welfare, aveva istituito un sistema di “tolleranza” - di “diritto penale minimo”, si potrebbe dire- per le droghe. Da qui la scelta editoriale di aprire il confronto con esperti e studiosi di altri paesi, col supporto di Forum Droghe che organizzava convegni e seminari cui parteciparono molti protagonisti del dibattito internazionale, da Ethan Nadelmann, a Rodney Skager, a Pat O’Hare, a Axel Klein, a Matteo Ferrari, per citarne alcuni. E naturalmente c’era Peter Cohen, già legato da amicizia da Giancarlo Arnao, il maggiore studioso antiproibizionista in Italia, uno degli animatori di Fuoriluogo. Fu proprio Giancarlo Arnao a introdurlo nel circolo del giornale. Il rapporto di Peter Cohen con Fuoriluogo - il più intenso fra tutti- con il tempo si è arricchito di una lunga amicizia che dura ancora. Il contributo scientifico di Peter è stato grande, ne parleremo fra poco. Ma vi è qualcosa di più. Peter Cohen ama l’Italia e si è appassionato alla vicenda politica italiana e al movimento per la riforma della politica delle droghe che per più di venti anni ha impegnato giuristi, operatori e giovani dei centri sociali alternativi. Ha partecipato alla costruzione di una rete capillare di movimento in tante città, da Venezia a Torino, da Udine a Genova, da Ferrara a Mantova, da Firenze a Cassino, da Catania a Roma: tanti legami si sono stretti anche a tavola, nella trattoria di don Gallo e in tanti altri locali apprezzando le cucine regionali e i buoni vini. Peter Cohen ha sempre privilegiato le pratiche politiche “dal basso”, emblematico è il suo contributo alla vicenda del festival reggae Rototom, che si svolgeva in Friuli, a Osoppo. In quello spazio libero si tenevano discussioni serrate e Peter partecipò in diverse occasioni: memorabile il confronto con il farmacologo Gian Luigi Gessa su uno dei temi centrali dell’elaborazione di Cohen, la teoria neuroscientifica della “dipendenza” da lui magistralmente confutata (vedi il saggio dal titolo L’imperatrice nuda). In seguito il festival Sunsplash Rototom fu chiuso e il suo fondatore fu accusato niente meno che di “facilitazione del consumo” sulla base della legge antidroga. Fuoriluogo fu in prima linea nella mobilitazione per far cadere il castello di accuse e alla fine il processo si concluse con l’assoluzione: Cohen partecipò alla battaglia e ai festeggiamenti per la vittoria. Dedicò alla vicenda anche un saggio (dal significativo titolo “La politica della droga come fuga dalla razionalità”). L’idea di raccogliere gli scritti di Peter Cohen in un volume ci è venuta quasi naturale, considerando il loro valore. Avevamo però la preoccupazione che potessero apparire legati a un confronto politico superato, dopo la svolta di legalizzazione della cannabis verificatasi prima in Uruguay, poi in Canada e soprattutto negli Stati Uniti. E considerando che questi radicali cambiamenti sono avvenuti relegando le Convenzioni Onu sullo sfondo come mummie inaridite: a riprova peraltro dell’acume politico di Cohen, che molti anni prima aveva scritto invitando i riformatori a non impegnare le loro forze nella battaglia per cambiare le Convenzioni, i “testi sacri della Chiesa della proibizione”; e a scegliere l’obiettivo più realistico e conveniente di lasciare che i trattati internazionali deperiscano nel tempo, come sembra stia accadendo. La riserva è però caduta guardando al contesto italiano e alla novità dell’ascesa al governo della destra nel 2022. La premier Giorgia Meloni, che da sempre si è battuta per il “pugno duro sulla droga”, ha dato l’avvio a una aggressiva campagna neo proibizionista, affidata al sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano, lo stesso che venti anni fa fu l’ispiratore del giro di vite della legge Fini-Giovanardi. Rientra oggi in circolazione la stessa paccottiglia di parole d’ordine reazionarie, fondata sugli stessi “miti”: la “droga è droga”, senza distinzione, perché la droga è il Male con la m maiuscola. Va perciò combattuta senza cedimenti alla riduzione del danno. Nel mirino è soprattutto la cannabis, stepping stone (o droga di passaggio) alle sostanze pesanti: il “mito” per eccellenza per sbarrare la strada alla legalizzazione. Quanto ai consumatori “tossicodipendenti”, devono essere rinchiusi nelle comunità sul modello di San Patrignano: per “salvarsi” dalla droga, nell’anima e nel corpo. Gli scritti di Cohen sono perciò un patrimonio prezioso in questo frangente politico, è ovvio. Ma gli faremmo un torto se volessimo rinchiudere la valenza politica del suo lavoro nel recinto della contingenza attuale. C’è un fi lo rosso nel suo pensiero, valido oggi come domani, perché indica il rapporto rigoroso che deve intercorrere fra scienza e politica; fra teoria e ricerca per validare gli assunti teorici da una parte, e le scelte politiche conseguenti, dall’altra. Lo stesso filo di tessitura della sua identità e impegno personale. Peter è un politico e un attivista in quanto studioso che mette a disposizione della politica il suo sapere. Ed è uno studioso in quanto animato dalla passione politica, in primo luogo di ricondurre l’uso di droghe alla dimensione umana, di interpretarlo in una cornice larga, facendo ricorso alla storia e alla filosofia (prima ancora della sociologia). Si legga l’illuminante scritto “La religione laica dell’individuo indipendente” che spiega la profonda paura della “dipendenza” quale minaccia agli ideali della cultura occidentale. E si prenda nota del suo invito (nel più recente testo “L’emancipazione della dipendenza”) a considerare la dipendenza come una delle caratteristiche fondamentali dell’esistenza umana, quella di “creare legami” con vari oggetti di attaccamento (luoghi, persone, animali, abitudini etc.). Da questa visuale più larga, la dipendenza può fare meno paura e chi usa droghe non apparirà più come “l’altro”. Tornando al rapporto fra scienza e politica. La scienza serve in primo luogo a mettere in luce il carattere non-scientifico delle attuali politiche proibizioniste, fondate sull’idea dell’uso di droga come male e danno (non controllabile se non con il ricorso alla proibizione). Ma - scrive l’autore - “il concetto di uso è una categoria morale, non una categoria empirica”. Se si vuole trattare l’uso di droghe come fenomeno empirico, allora bisogna indagare i modelli di consumo e la loro evoluzione nel tempo. Scoprendo così che un assunto di base della filosofia proibizionista, la “escalation” del consumo fi no alla dipendenza, non è validato scientificamente: parlano in tal senso le ricerche epidemiologiche, così come le ricerche qualitative che indagano in profondità i modelli di consumo e la loro evoluzione nel tempo. In aperta opposizione all’ipotesi di escalation, si evidenzia “che nella maggior parte dei casi il consumo nei setting naturali è soggetto a un notevole “controllo”. Ne consegue la possibilità/necessità di un “cambio di paradigma”: dal paradigma farmacologico - centrato sulla (schiavitù della) addiction - al paradigma psicosociale - centrato sui “controlli” (le regole sociali all’uso) e sulle capacità di autoregolazione delle persone che usano droghe. Dall’obiettivo di “eliminazione del consumo” - perseguito dalle politiche di proibizione - alla “regolazione” del consumo, tramite politiche di sostegno ai controlli sociali, alternative alla proibizione. Per Cohen, che elabora questi concetti già negli anni novanta, quando la riduzione del danno diventa la nuova bandiera del movimento riformatore, questo approccio rappresenta il “nuovo cardine” del cambio di paradigma. Sta qui, nell’offerta di un solido fondamento teorico alla riduzione del danno, il contributo più interessante del Cohen scienziato e politico. E sta qui la sua attualità. La riduzione del danno, sotto forma di offerta di servizi e trattamenti alternativi al drug free, si è largamente affermata in pressoché tutto il mondo, è vero. E tuttavia non si è (ancora) affermata come alternativa, paradigmatica e politica, al proibizionismo. Forse perché neppure tutto il variegato movimento di riforma l’ha saputa riconoscere, accettare, sostenere come tale. Le diverse anime della riduzione del danno si sono manifestate fi no dall’inizio, Cohen chiarisce questa dialettica di posizioni. Per alcuni, la “riduzione (fi no all’eliminazione) del consumo e la riduzione del danno non sono obiettivi alternativi: la riduzione del consumo sarebbe infatti parte integrante della riduzione del danno. In parole più politiche, la riduzione del danno sarebbe una strategia di “convivenza” con la proibizione. Ma c’è un’altra visione, teoricamente più rigorosa (e di orizzonte politico più avanzato): l’obiettivo di soppressione del consumo, perseguito dalla legge penale, confligge con la regolazione sociale del consumo, perseguita dalla riduzione del danno. Poiché il controllo penale minaccia fino a distruggere i controlli sociali e nega le capacità di autoregolazione delle persone che usano droghe, in nome della stessa mission della proibizione, di eliminazione del consumo. Questi strumenti concettuali permettono di ragionare criticamente sull’attuale collocazione della riduzione del danno nel dibattito europeo, all’interno della politica dei “quattro pilastri”. Questa politica - comunemente definita di equilibrio fra azioni convergenti: prevenzione, trattamento, riduzione del danno, applicazione della legge penale) può essere un esempio di strategia di “convivenza” con la proibizione. Con tutti i suoi limiti, primo fra tutti il fatto che la centralità del pilastro penale non è stata sostanzialmente intaccata, come dimostrano le cifre dell’incarcerazione per i reati delle legislazioni antidroga. Ma può essere anche vista come una tappa del movimento di riforma “dal basso”, che scommette sulla forza delle pratiche (di riduzione del danno, appunto), per modificare l’immagine sociale delle droghe e incidere sulle politiche pubbliche. Per un movimento in marcia verso il “cambio di paradigma”, questo volume può essere un alleato prezioso. Il modello è l’uomo solo al comando, così si torna agli anni dei totalitarismi di Donatella Stasio La Stampa, 30 ottobre 2023 Se il progetto della premier Meloni non troverà argine, farà cadere uno a uno i limiti al potere, essenza della democrazia. È vero quel che dice Giorgia Meloni quando attribuisce al suo governo una “responsabilità storica” nel voler portare l’Italia “nella Terza Repubblica” con l’annunciata riforma costituzionale. Non c’è dubbio che sia il disegno riformatore sia il primo anno di governo del centrodestra spingano il nostro Paese e le nostre istituzioni in direzione opposta a quella in cui ci ha portato la storia dal dopoguerra, e cioè la democrazia costituzionale, fondata su un sistema di pesi e contrappesi, dove il potere politico delle maggioranze di governo è controbilanciato da una serie di limiti a tutela del pluralismo e delle minoranze e dove le istituzioni interloquiscono e collaborano tra loro. Limiti che servono a evitare abusi e derive autoritarie. Questa “democrazia interloquente” - così l’ha definita Meloni più volte - proprio non piace alla destra di governo, che punta invece a una “democrazia decidente” (sono sempre parole della premier), in ossequio alla “semplificazione” del quadro istituzionale. Che, nei fatti, significa scarnificazione della democrazia costituzionale. In questo senso, la responsabilità del governo Meloni è “storica”, perché vuole riportare l’Italia al massimo della semplificazione istituzionale, rappresentata da quell’”uomo solo al comando” che la nostra democrazia costituzionale ha voluto invece arginare dopo la drammatica esperienza dei totalitarismi del ventesimo secolo. In un’epoca attraversata da massicce regressioni democratiche, Meloni interpreta lo spirito del tempo e, se non incontrerà un argine adeguato, farà cadere, uno ad uno, i limiti al potere, cioè l’essenza delle democrazie pluraliste. La “Terza Repubblica” che ci attende è, dunque, quella della “democrazia decidente” e della “semplificazione”. Di fatto, l’abbiamo già conosciuta nei dodici mesi passati. Dopo anni di governi di “coalizione”, “tecnici”, “strani”, “promiscui”, il governo Meloni è il primo esecutivo politico uscito dalle elezioni, sorretto da una maggioranza parlamentare omogenea e non litigiosa (così assicurano le sue diverse anime), numericamente molto ampia. Chi lo guida, infatti, ha ricevuto l’incarico dal presidente della Repubblica in tempi e con modalità rispettosi del dettato costituzionale. Eppure, nonostante queste premesse lasciassero immaginare una navigazione più “normale” che in passato, il governo si è finora mosso all’insegna della forzature delle regole istituzionali: un massiccio ricorso ai decreti legge, quasi fossimo in una continua emergenza (peggio di quella che davvero abbiamo attraversato negli anni precedenti, a causa del Covid); continui voti di fiducia sulle leggi da approvare in Parlamento, non più luogo di confronto ma solo di ratifica; ostentata insofferenza verso ogni forma di controllo o vigilanza (valga per tutte la vicenda dei controlli interni della Corte dei conti sull’attuazione del Pnrr); l’idiosincrasia per la leale collaborazione istituzionale (basti pensare a tutti i casi di mancata attuazione di sentenze della Corte costituzionale, per esempio in materia di tutela dei figli, di doppio cognome, di eutanasia ecc...). Ecco i numeri. Al 22 ottobre 2023 (dopo un anno di governo) si contavano 45 decreti legge, circa 4 al mese (ritmo diminuito dopo l’estate grazie alla moral suasion del Quirinale), 52 decreti legislativi, 64 disegni di legge, 33 richieste di fiducia su altrettanti provvedimenti, 161 testi legislativi. Sempre secondo le rilevazioni del governo, dei 154 provvedimenti deliberati a tutto settembre 2023 dal Consiglio dei ministri, il 61% ha riguardato 5 punti del programma di governo”. Insomma, tutto si può dire tranne che questo esecutivo non sia stato… “decidente”. È francamente preoccupante che un governo che già interpreta in modo così “assolutistico” il proprio potere, ritenga di dover cambiare la Costituzione per disfarsi di interlocutori, controllori, di ogni limite, insomma, al proprio operato. In settimana, forse, conosceremo i dettagli dell’annunciata riforma della Costituzione. Le indiscrezioni più recenti dicono che sarà una proposta minimalista per introdurre l’elezione diretta del premier e togliere al presidente della Repubblica ogni interlocuzione sulle maggioranze parlamentari. L’incarico verrebbe conferito in modo automatico a chi ha vinto le elezioni. In caso, poi, di crisi di governo, non ci sarebbe alcuna sfiducia costruttiva ma il tentativo di formarne un altro con la stessa maggioranza, che vota un nuovo premier. Altrimenti si va al voto. Dunque, anche lo scioglimento delle Camere da parte del Capo dello Stato diventerebbe un atto automatico. In sostanza, il presidente della Repubblica non sarebbe più un interlocutore istituzionale, come invece avviene oggi. Proprio perché a Meloni non piace la “democrazia interloquente”. Sullo sfondo c’è poi il (difficile) rapporto con gli organi di garanzia, Corte costituzionale e magistratura, che in uno stato costituzionale europeo di diritto sono indipendenti. La maggioranza continua infatti a coltivare un’altra riforma costituzionale, quella sulla separazione delle carriere, non priva di contraccolpi sull’equilibrio dei poteri in uno scenario di accentuata “democrazia decidente” (alla Orban, per intenderci). A parole, si garantisce che autonomia e indipendenza dei magistrati non saranno toccate ma la cronaca ci costringe a fare i conti con una diversa realtà. Basti pensare alla reazione di autorevoli esponenti del centrodestra (persino di quelli che si definiscono liberali, come il ministro Nordio) di fronte a magistrati “non allineati” alla volontà del governo: puntualmente, la “riforma della giustizia”, ovvero la separazione delle carriere, viene brandita in chiave punitiva e di ritorsione, con buona pace dell’autonomia e indipendenza delle toghe. Questo è accaduto - da ultimo - con l’incredibile attacco alla giudice Apostolico e a chi, come lei, ha emesso decisioni in materia di immigrazione sgradite al “governo democraticamente eletto”. Invece di fermarsi alle critiche (sempre legittime) e all’impugnazione del provvedimento ritenuto sbagliato, il governo è partito lancia in resta contro quei giudici, esponendoli a una gogna mediatica solo per aver applicato la legge in modo indipendente e motivato. È un segnale inquietante, nonostante i tentativi di ridimensionarlo. I fondatori della democrazia statunitense già alla fine del 700 dicevano che se gli uomini fossero angeli non ci sarebbe bisogno di un “governo limitato”. Ma non siamo angeli, e perciò abbiamo bisogno di checks and balances. Ora come allora. Una conquista di civiltà che dobbiamo preservare. La violenza troppo esibita allontana lo spettatore di Gigi Riva* Il Domani, 30 ottobre 2023 C’è un equivoco nell’idea, peraltro diffusa con nobili intenti, che la violenza vada sempre mostrata affinché sia un monito a rifiutarla, condannarla e a impedire, in definitiva, che dilaghi. Ma è proprio così? Basterebbe un calcolo empirico all’ingrosso per concludere che no. Siamo invasi, pervasi, da immagini truci che imperversano dalle televisioni ai social media, aumentate a dismisura ora che alle guerre dimenticate se ne sono aggiunge due fortemente mediatizzate e non si può certo affermare che la quota di violenza sia diminuita anzi si è dilatata sia che si tratti di eserciti e terrorismo sia che riguardi la micro e la macro criminalità. Perché la violenza è una droga, esercita un fascino perverso, stimola il voyeurismo quando non l’ammirazione, in casi estremi anche l’imitazione. C’era un tempo, prima che l’homo videns prendesse il sopravvento sull’homo sapiens (copyright di Giovanni Sartori), in cui i quotidiani avevano deciso di non raccontare nei dettagli le modalità di un suicidio, tanto più se non erano usuali (violenza su sé stessi) perché si era appurato statisticamente che altri lo avrebbero copiato. Ora che le informazioni arrivano sempre più da media visivi il problema è centuplicato e non bastano gli avvertimenti come “attenzione, non guadare, potrebbe urtare la tua suscettibilità”, o “abbiamo deciso di non mandare in onda le sequenze più scabrose”: scatenano ancora di più il desiderio di andare a cercare il celato attraverso le mille possibilità di cui la rete dispone. Propaganda e proselitismo - Non si sono mai del tutto placate le polemiche sulle serie tv o i film che riguardano le mafie nostrane perché diffonderebbero “una cattiva immagine del paese”. Fanno in realtà di peggio, oltre a mitizzare personaggi negativi: sdoganano una supposta normalità di certi metodi spicci, esattamente come i videogame. Analogamente va con la guerra, in circostanze ovviamente molto diverse. Hamas non è lo Stato islamico per progetto politico e finalità. Ma Hamas dallo Stato islamico ha mutuato l’insegnamento che la propaganda attraverso efferatezze immonde favorisce il proselitismo. Abu Bakr al-Baghdadi non ha mai avuto tanti volontari per il suo esercito quanti se ne sono contati dopo spettacolari esecuzioni capitali riprese con tecnica sopraffina. Così i terroristi del 7 ottobre con le telecamere Go Pro legate sulla fronte hanno creato l’idea di una luciferina “geometrica potenza” che ha sicuramente eccitato le menti dei più benevolmente disposti ad accogliere il messaggio estremo. Il desiderio di rimozione - C’è poi il problema delle persone di buona volontà. La massa indistinta che ripudia la violenza e si commuove davanti al bambino sterminato senza pietà, ai piccoli coccolati dagli assassini dei genitori e poi rapiti, ai vecchi in cattività, ai giovani di un rave party in precipitosa fuga senza scampo dalla fine intuita quando non esplicitata. Poco dopo sugli schermi scorrono le distruzioni di una città, i palazzi che crollano, i corpi inanimati o irrimediabilmente feriti altri bambini. Una overdose di violenza che colpisce il cuore, le viscere, muove alla pietas. Ma, e questo è il punto, provoca alfine un desiderio di rimozione, come se fosse impossibile sopportare oltre. E si cambia canale. Delegando a un’offerta umanitaria il compito di lavare l’offesa della propria distrazione e coprendo così l’incolmabile distanza tra l’enormità dell’evento e la personale capacità di incidere. Certo con qualche senso di colpa. Il cuore, le viscere, coinvolti. Le autorità israeliane qualche giorno fa hanno chiesto ai giornalisti di lasciare i propri telefonini fuori da una stanza dove hanno proiettato le parti più indigeribili delle nefandezze di Hamas. Sfidandoli a cercare le parole per descrivere quanto avevano visto. E ridando, consapevolmente o meno, un primato alla parola scritta. Primo Levi - Impossibile non pensare a Primo Levi, alla persona che da noi e non solo, attraverso un linguaggio scarno e senza aggettivi, è riuscita a trasmettere come nessun altro l’enormità della Shoah, cioè della catastrofe dell’umanità che, per intuibili motivi, non aveva potuto avere immagini. Levi parlava non alle viscere ma alla testa. Ed era lo stesso intento di un altro grande ebreo, Bertolt Brecht, che aveva teorizzato la volontà di rivolgersi al cervello degli spettatori attraverso lo “straniamento”. Perché l’emotività non influisse sulla capacità raziocinante, la sola che permette un approccio in qualche modo scientifico alle questioni e favorisce nel tempo lungo la comprensione dei fenomeni. Al contrario delle emozioni fine a sé stesse che scompaiono nel breve spazio di una performance. Per questo dobbiamo diffidare della violenza estetizzata, della sua invasività che produce assuefazione e una seppur umana fuga nel nostro quotidiano. E finiamo per cullarci nell’idea, per dirla con Lucrezio, di vedere dalla riva l’altrui naufragio. Un’illusione. *Scrittore Discriminazione, razzismo e povertà: l’altra faccia della crisi climatica di Cristina Nadotti La Stampa, 30 ottobre 2023 Le diseguaglianze crescono e i conflitti si acuiscono. Serve una politica che restituisca alle popolazioni la capacità di autodeterminazione. Nell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile dell’Onu l’obiettivo di sconfiggere la povertà è il primo. Per raggiungerlo, agire sulle cause climatiche che portano alcune persone ad essere più colpite da eventi meteo estremi, ad avere meno accesso all’acqua pulita e alle fonti di energia è indispensabile. Cambiare, insomma, un paradigma che ha portato all’elaborazione del concetto di “razzismo climatico” è cruciale. Vanessa Pallucchi, con la sua attività di portavoce del Forum del Terzo Settore, organismo che rappresenta 94 organizzazioni nazionali e oltre 158 mila sedi territoriali nel volontariato, nell’associazionismo, nella cooperazione e nell’impresa sociale, e la sua esperienza come vicepresidente di Legambiente, è tra coloro che si battono per “combattere le diseguaglianze e affermare un modello di sussidiarietà circolare”. Il peggioramento delle condizioni climatiche in tutto il mondo aggrava le divisioni sociali preesistenti, perché colpisce più duramente le persone di colore che vivono in condizioni di povertà. Quali le azioni possibili? “Il terzo settore si occupa di accoglienza, con un lavoro di integrazione e coesione che viene fatto su tutte le persone svantaggiate. Poi c’è tutta la partita che ha a che fare in modo più specifico con l’ambiente, con riflessioni e strategie più generali che associazioni come Legambiente, ma non solo, portano avanti nei grandi consessi internazionali come le Cop”. Ai grandi vertici si obietta spesso che diano poco spazio a voci diverse da quelle dei Paesi più industrializzati... “Infatti il nostro ruolo è anche di contribuire ai summit o alle Cop con riflessioni di carattere internazionale sul clima. All’interno della crisi ambientale bisogna individuare due grandi direttrici connesse tra di loro: le guerre e le migrazioni. Moltissime tra le persone che lasciano i loro Paesi di origine lo fanno perché i territori in cui hanno sempre vissuto sono colpiti da carestie e desertificazioni. Le guerre si originano spesso per il controllo delle fonti energetiche, in aree dove si sviluppano dittature che detengono il monopolio delle risorse”. La Cop28 sarà tra due mesi. Intravvede nuove opportunità per porre al centro la ridistribuzione delle risorse? “Come sempre alla vigilia di ogni Cop ci sono molte aspettative, ma anche la consapevolezza di una forbice tra quanto sarebbe indispensabile mettere in atto e il limite delle politiche e del sistema economico correnti. Anche a Dubai ci sarà la contrapposizione tra il diritto ad evolversi di Paesi che contribuiscono in misura minima alle emissioni di gas climalteranti e gli interessi energetici dei Paesi occidentali. Così, i risultati sono sempre più modesti di quanto sarebbe necessario, o di quanto ci si attendeva”. Ci sono perciò poche speranze? “No, c’è piuttosto la determinazione a impegnarsi per costruire una politica diversa, che restituisca alle popolazioni e ai territori la loro capacità di autodeterminazione. Come dicevo, all’interno del sistema economico corrente le disuguaglianze crescono, i conflitti si acuiscono. Gli esempi più lampanti sono quelli dei Paesi africani, dove l’interesse dei Paesi industrializzati a estrarre minerali indispensabili per i prodotti tecnologici si manifesta con ingerenze fortissime”. Il colonialismo, insomma, non è mai finito? “In questo caso parlo più come cittadina che come rappresentante del Forum del Terzo Settore. È chiaro che il sistema economico globale elabora soluzioni sul proprio modello culturale, tralasciando di prendere in considerazione le conseguenze che avranno in altri contesti. Faccio un esempio: diamo impulso alle auto elettriche, ma in che modo questa tecnologia che mira a ridurre le emissioni nelle nostre città impatterà altrove?”. C’è dunque anche una sorta di razzismo verso conoscenze diverse da quelle del Nord del mondo? “Questa è da sempre una mia opinione di tipo personale. Stiamo puntando moltissimo sulle tecnologie, ma siamo sicuri che i linguaggi della Natura, spesso appannaggio di popolazioni meno avvantaggiate, vadano abbandonati? Qui ritorna la nostra idea di cooperazione, che deve servire a fare un lavoro di integrazione e di allineamento reciproco, non di sovrapposizione”. Gaza, Ucraina, Libano, Sahel: le guerre del mondo uccidono la scuola di Corrado Zunino La Repubblica, 30 ottobre 2023 Le guerre allontanano la scuola, e aiutano a mantenere bambini e adolescenti nell’ignoranza. Nella Striscia di Gaza, ma anche in Cisgiordania, da sabato 7 ottobre la scuola non esiste più per i giovani palestinesi, che già prima della Nuova guerra non avevano l’istruzione come priorità. Come ricorda l’organizzazione non governativa Terre des Hommes il diritto alla conoscenza dei bambini palestinesi è sempre sotto minaccia, tanto più negli ultimi tre anni, segnati dalla pandemia, le frequenti interruzioni delle lezioni - pesanti attacchi israeliani a Jenin, Nablus, nella stessa Gerusalemme Est, ovviamente nella Striscia di Gaza - e i numerosi scioperi causati dalla crisi finanziaria che il sistema educativo palestinese conosce da tempo. Bisogna ricordare che su una popolazione totale di 5,3 milioni di palestinesi, 2,1 milioni - e il dato si riferisce alla fase precedente alla Nuova guerra - avevano bisogno di assistenza umanitaria. Sono centinaia i minori detenuti nelle carceri israeliane, scrive Terre des Hommes facendo notare come “il numero esatto non viene diffuso dalle autorità penitenziarie”. Il reato che viene spesso contestato è il lancio di pietre, la cui pena può arrivare fino a 20 anni di reclusione. “Il diritto all’istruzione non è garantito a questi minori detenuti, mentre lo è per i minorenni israeliani in carcere”. Già nella prima metà del 2023 i raid aerei israeliani avevano colpito scuole, adesso, nelle ore dell’attacco di terra, la distinzione tra luoghi civili e luoghi militari si è fatta invisibile. Si studia, in Palestina, affidandosi alle iniziative dei volontari. Terre des Hommes si è spinta nelle zone più remote del Governatorato di Hebron, quindi nei campi profughi di Al Amari, Qalandia e Al Jalazoun. In Libano un’intera generazione di palestinesi e siriani sta crescendo senza istruzione. Con l’avvio della scuola molti minori non sono tornati in classe perché costretti a lavorare. Qui l’impegno educativo trova i volontari di Un Ponte Per specialmente attivi. Lezioni incerte per il 67% degli ucraini - La guerra in Ucraina dopo venti mesi regala questa stima, diffusa dall’Unicef: il 67 per cento degli studenti ucraini non può seguire con costanza e a tempo pieno le lezioni. Il martellamento dei russi sugli edifici scolastici è costante, e ormai non è più solo una tattica di battaglia, piuttosto una scelta di distruzione culturale. I professori del Paese denunciano gli arretramenti nell’apprendimento della lingua ucraina da parte dei ragazzi e quest’anno il governo di Volodymyr Zelensky ha chiesto che tutte le prime lezioni, sostenute il primo settembre, il Giorno della conoscenza, fossero dedicate in tutta la nazione alla salute mentale. Scuole chiuse in Burkina Faso, Niger e Mali - L’aumento della violenza nella regione del Sahel-Burkina Faso, Niger e Mali ha portato alla chiusura di oltre 7.821 scuole primarie, con un aumento del 20 per cento nell’ultimo anno. Lo riporta Save the Children. Sono 5.318 in Burkina Faso, 1.545 in Mali e 958 in Niger. Lo scorso giugno 1,4 milioni di bambine e bambini non hanno avuto accesso all’istruzione e alle competenze necessarie per contribuire pienamente alle loro comunità da adulti: erano duecentomila in più rispetto a giugno 2022. L’Onu ha proclamato il 9 settembre Giornata Internazionale per la protezione delle scuole dagli attacchi. Save the Children ha chiesto ai governi di sostenere nel Sahel la crescita della Safe Schools Declaration, un impegno e un quadro di riferimento per consentire agli Stati di proteggere l’istruzione nei contesti fragili. Nel Sahel molti bambini e insegnanti sono troppo spaventati per raggiungere le classi. In alcuni casi gruppi armati hanno attaccato direttamente le istituzioni scolastiche e danneggiato gli edifici. Molti bambini sono sfollati a causa del conflitto e non hanno più accesso all’istruzione. “Siamo fuggiti dal nostro villaggio e non ho con me nessun documento che provi che sono andato a scuola altrove”, ha raccontato Mohamed, 13 anni, che con la sua famiglia ora vive a Pissila, in Burkina Faso. “Quando vado a letto la sera, non riesco nemmeno ad addormentarmi. Se penso che non potrò più fare quello che facevo prima, mi fa davvero male. La scuola avrebbe migliorato la mia vita”. La violenza in tutta l’Africa occidentale e centrale aveva già un impatto devastante sull’istruzione dei bambini: nel 2022, 57 milioni di minori dell’Africa centrale e occidentale non frequentavano le scuole, quasi un quarto dei bambini di tutto il mondo Ad oggi, nella regione 17 Stati su 27 hanno sottoscritto la Safe Schools Declaration. “La violenza armata nel Sahel sta privando le bambine e i bambini della loro istruzione e del loro futuro”, ha dichiarato Vishna Shah, direttore regionale di Advocacy e Campagne di Save the Children. In Gambia ActionAid ricostruisce l’edificio - ActionAid sta finanziando, con raccolte fondi realizzate nelle piazze, la ricostruzione di una scuola elementare in Gambia, a Sinchu Gundo. Accoglie bambini di nove comunità della zona ospitando 400 studenti, tra i 4 e i 13 anni. La scuola è stata costruita nel 1995, ma i danni provocati dal clima e la mancanza di manutenzione hanno reso il complesso fatiscente e pericoloso. Il tetto è scoperto in più punti e la struttura ormai inagibile. “In un paese dove la crisi climatica mostra i suoi drammatici effetti, l’estrema siccità rende ancora più terribili le condizioni di povertà di migliaia di persone e l’abbandono scolastico aumenta a livelli che non possiamo ignorare”, spiega Lorenzo Eusepi, vicesegretario generale ActionAid Italia. “È necessario che ai bambini venga garantita la possibilità di andare a scuola e costruire il proprio futuro in luoghi sicuri e accoglienti”. Medio Oriente in fiamme, “vedere” l’altro lato. Così si può ricomporre la frattura emotiva generata dalla guerra di Carlo Rovelli Corriere della Sera, 30 ottobre 2023 I pro Palestina: quando denunciamo le sofferenze dei bimbi di Gaza, ci ricordiamo di quelli israeliani uccisi? I pro Israele: chiamare antisemita chi non faccia il tifo per le bombe sui civili non ci libererà dal razzismo. Ho una parola da dire, anzi sussurrare, alle persone che stanno dall’uno e dall’altro lato della radicale frattura emotiva suscitata dagli eventi di Gaza. Permettetemi di rivolgermi per primi ai milioni di manifestanti in Italia e nel mondo, solidali con le sofferenze del popolo di Gaza. È difficile non sentire empatia per Gaza, data la palese agonia di tanti palestinesi in questo momento. Mi sento uno di voi. Ma vi ricordate che il punto da difendere era proprio che l’empatia non può essere a senso unico? Certo è ridicolo accusare di antisemitismo chi si indigna per le sofferenze di un popolo bombardato - siamo arrivati perfino all’imbecillità di denunciare come antisemite persone come Greta Thunberg. Ma stiamo tenendo presente anche il fatto reale che l’antisemitismo esiste, è reale, ed è vero che è in aumento? Che la storia secolare degli ebrei e il tragico racconto dell’Olocausto perpetrato dal regime nazista nutre in tanti ebrei un ricorrente e comprensibile terrore? Quando denunciamo le sofferenze dei singoli bambini, donne, e uomini a Gaza, per mano dell’esercito israeliano, prima di ogni analisi storica e di ogni attribuzione di colpe, ci ricordiamo anche che ci sono singoli bambini, donne, e uomini israeliani trucidati? Prima di fare aritmetiche (certo, sbilanciate), o attribuire responsabilità, prima di rimarcare quali strutture politiche siano oppressi o oppressori, ci ricordiamo di mettere in chiaro che la responsabilità non è mai collettiva, e che stiamo difendendo il diritto alla vita, alla casa, a non essere schiacciato, anche per gli esseri umani che stanno dall’altra parte di un conflitto? Sono certo che quasi tutti voi mi rispondiate “ma è ovvio”. Ma ci rendiamo conto che se non lo ripetiamo con chiarezza, ogni nostra espressione di solidarietà con chi soffre, ogni nostra denuncia di ingiustizia, ogni nostra richiesta di giustizia, viene percepita da chi per motivi di etnia, di educazione, di formazione, si trova dall’altra parte della barricata, come una dichiarazione di odio, una condanna a morte, il riapparire dello spettro dei pogrom, i ricorrenti massacri di ebrei nella storia? Fra noi ci sono cari amici ebrei che hanno sempre detestato la politica oppressiva di Israele, hanno sempre militato per il riconoscimento di uno Stato palestinese pienamente indipendente, ma ora esitano, indietreggiano, spaventati dalla vasta marea nel mondo che condanna gli eccidi compiuti dallo Stato israeliano, ma non vuole dire una parola sugli ebrei massacrati. Non vedere questo effetto è cecità, è spingere verso il baratro, verso l’inevitabilità dell’odio. Non si tratta di un dettaglio. Si tratta della capacità di vedere entrambi i lati di una tragedia, di comprendere cosa motiva chi vede le cose diversamente. E permettetemi ora di rivolgermi invece a chi appunto sta dall’altra parte di questa tragedia. Capisco il senso di assediamento, capisco cosa suscita sentire nelle piazze del mondo intero gli inni a Hamas. Capisco la vostra percezione del mondo. Mi sento uno di voi. Ma ci rendiamo conto che chiamare antisemita chiunque non faccia il tifo per un bombardamento su civili non porta a liberarci dalla piaga infetta dell’antisemitismo e del razzismo? Al contrario, alimenta proprio l’antisemitismo? Ci rendiamo conto che è la stessa nostra paura, e ciò che questa paura provoca, a nutrire comportamenti che alimentano reazioni antiebraiche contro di noi? Ci rendiamo conto che più lamentiamo e usiamo la violenza di Hamas come giustificazione per le nostre azioni, più forniamo argomenti emotivi proprio a chi ritiene che l’unica risposta possibile alla violenza sia ancora più violenza? Pensare di stravincere ammazzando tutti gli altri non può funzionare, in un vasto mondo in cui l’Assemblea generale delle Nazioni Unite vota 120 verso 14 contro uno Stato israeliano che rifiuta una tregua. Chiamare “diritto alla difesa” lo scatenamento di una violenza estrema non ci rafforza, ci indebolisce. Proviamo per un momento anche noi a guardare il conflitto dalla prospettiva dell’altra parte: dall’altra parte non ci sono solo estremisti fanatici che vogliono sterminare gli ebrei. Ci sono anche quelli lì, ahimè, ma sono una minoranza sparuta nel mondo: perfino la carta fondante di Hamas auspica una convivenza pacifica fra Islam e ebraismo. Se identifichiamo sempre chiunque non ci sostenga con la minoranza più estremista, se tacciamo di antisemitismo chiunque non sostenga la linea politica più dura, stiamo gettando via tutte le soluzioni possibili, e attirandoci nemici. La maggioranza di chi non è d’accordo con noi non vuole la nostra morte, e neppure farci del male. Vuole non essere bombardata, non essere oppressa, vivere in una democrazia, dove chi è governato possa votare chi lo comanda. Ecco, questo volevo provare a dire, sommessamente, a chi emotivamente si sente da una parte e a chi si sente dall’altra. Proviamo per un momento a guardare le cose dall’altro lato. A chi invece soffia sul fuoco, da una parte e dall’altra, per calcoli strategici geopolitici di potere, o a chi su questo dolore lucra vendendo armi, non ho nulla da dire, se non ricordare le parole finali di Bob Dylan in Masters of war. Rileggetele. Medio Oriente. Religione e incentivi, perché 700 mila coloni ostacolano la pace? di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 30 ottobre 2023 Da poche stanze d’hotel affittate a Hebron per la Pasqua del ‘68 alla missione di “ebraicizzare” la terra con ogni mezzo. All’inizio parve una cosa da niente, un atto un poco folle da parte di un gruppetto di ebrei religiosi particolarmente originali e tanto innamorati della terra d’Israele: affittare poche stanze nell’hotel A-Naher Al-Khaled nel centro di Hebron per celebrare assieme alle loro famiglie la Pasqua ebraica del 1968. Il governo laburista di Levi Eshkol in principio storse il naso, dai giorni seguenti la travolgente vittoria del giugno 1967 si era deciso che i “territori occupati” ai danni di Giordania, Egitto e Siria (eccetto Gerusalemme Est che era stata subito annessa) andavano preservati intatti, per poter renderli agli arabi in cambio della pace e del pieno riconoscimento di Israele. I nuovi coloni - Ma poi erano arrivati i “no” dei nemici, le trattive si prolungavano, il neonato Olp lanciava attentati assieme a slogan che ricordano oggi quelli di Hamas. E poi c’era l’euforia della vittoria e la suggestione molto romantica nell’idea di “colonizzare la terra”, dopo tutto era patrimonio del primo sionismo, quello delle ondate migratorie agli inizi del Novecento. Di diverso c’era il carattere religioso dei nuovi coloni, li guidava un certo rabbino Mosge Levinger, che era nato a Gerusalemme nel 1935, ma era ben lontano dal sionismo socialista. Se questo predicava la necessità tutta laica di lavorare la terra per creare “l’ebreo nuovo” in grado di difendersi da solo, Levinger parlava invece di riportare gli ebrei alle regioni che erano state dei regni di Israele prima della distruzione del Secondo Tempio. I primi lo facevano con il fucile e l’aratro, i secondi si riferivano in termini teologici a una missione per volontà di Dio. Ma c’era un secondo argomento proposto da Levinger che andava a toccare nel profondo le sensibilità di leader politici e militari laburisti come Golda Meir, Ytzhak Rabin, Moshe Allon e Moshe Dayan: lui voleva portare la sua gente sia a Hebron, dove nel 1929 la popolazione palestinese aveva ucciso 69 ebrei, sia nella vicina Kfar Etzion, località simbolo della guerra del 1948, quando l’esercito giordano e i volontari palestinesi trucidarono 127 combattenti dell’Haganah e membri di kibbutz locali che pure stavano arrendendosi. Due massacri che nella modalità, sebbene non nei numeri, hanno richiamano ciò che è avvenuto il 7 ottobre per mano di Hamas. Quella prima Pasqua fu però un passo irreversibile. Perché Levinger e i suoi il giorno dopo si rifiutarono di partire. Iniziò un lungo braccio di ferro con governo ed esercito: alla fine il compromesso fu di abbandonare il centro di Hebron (dove sarebbero tornati con un colpo di mano dieci anni dopo) e sistemarsi in una base militare semiabbandonata sulla collina che sovrasta la città. Era nato l’insediamento di Kiriat Arba, che da allora rimane il cuore pulsante dei coloni oltranzisti. “Ebraicizzare la terra” - Qui Levinger pose il quartier generale dei “Gush Emunim”, il blocco dei fedeli, che aveva come missione prima quella di “ebraicizzare” la terra con ogni mezzo, a qualsiasi prezzo, anche minacciando, derubando, persino uccidendo la popolazione palestinese. Quando si proclama che “Dio lo vuole” poi diventa molto difficile fare compromessi. Come ci disse ancora negli anni Ottanta Ehud Sprinzak, uno degli storici locali più attenti alla destra israeliana: “La maledizione per il nostro popolo è stata la vittoria del 1967, quando il nazionalismo sionista laico impadronendosi dei luoghi santi ebraici si è sposato con la destra religiosa xenofoba”. Per molti osservatori, l’assassinio di Ytzhak Rabin nel 1995, che voleva la pace in cambio della resa di parte delle terre, è frutto di quel connubio. Negli anni Settanta la colonizzazione proseguì in modo semiclandestino sulla falsariga del “Piano Allon”, che prevedeva di annettere la valle del Giordano e la dorsale di Gerusalemme, Gush Etzion e poco altro. I coloni tendevano a mettersi nelle basi militari, che poi lentamente diventavano loro. La svolta fu però con la “mapach”, la rivoluzione alle elezioni del 1977, quando il Likud di Menachem Begin andò per la prima volta al governo soppiantando l’egemonia laburista. Da allora la colonizzazione del Golan e soprattutto della Cisgiordania sono diventate priorità in cui investire il meglio. Il sostegno del governo - Poco prima dell’intifada, la grande rivolta palestinese scoppiata nel dicembre 1987, i coloni erano circa 200.000. Le violenze arabe non li fermarono, tutt’altro. E neppure l’avvio del processo di pace tra Rabin e Yasser Arafat nel 1993. Anzi, sostenuti specie dalle organizzazioni ebraiche americane, i coloni continuarono a crescere proprio in quelle terre che avrebbero dovuto costituire lo Stato palestinese. Nel 2005 Ariel Sharon ritirò i 15.000 coloni di Gaza lasciando capire che la Cisgiordania era tutta loro. I governi di Netanyahu li hanno sostenuti con ogni mezzo: oggi sembrano una presenza irreversibile. Secondo il censimento Onu del marzo 2023 sono circa 700.000 (di cui 230.000 a Gerusalemme Est) e le colonie in Cisgiordania sono 279: dei residenti nella regione circa un quarto sono motivati dall’ideologia, gli altri da incentivi economici del governo. Medio Oriente. Pregiudizi d’Occidente sui palestinesi di Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera, 30 ottobre 2023 Israele viene criticato perché si affiderebbe solo alla forza senza neppure immaginare una soluzione politica. Ma neanche dalla controparte arriva alcuna proposta. Nella stragrande maggioranza dei talk televisivi e dei commenti della stampa, nelle dichiarazioni pubbliche di tutto lo schieramento di centro-sinistra (ma non solo) ha sempre più spazio il tema “consigli ad Israele”. Dovunque, infatti, è tutto un mettere in guardia Gerusalemme contro gli eccessi della reazione al pogrom del 7 ottobre da parte del suo esercito, a non esagerare, a fare attenzione alle conseguenze. Sempre, naturalmente, sulla base di una premessa che non ci si stanca di sottolineare: e cioè che da decenni Israele ha sbagliato tutto e che dunque proprio noi “che come si sa siamo suoi amici” abbiamo il dovere di dirglielo. Lo Stato ebraico, infatti, non avrebbe mai pensato ad altro che a resistere ma senza mai curarsi d’immaginare una qualunque soluzione per la “questione palestinese”, avrebbe sempre mostrato un deplorevole vuoto di iniziativa politica, si sarebbe sempre cullato nell’illusione che bastasse tirare avanti. E oggi esso commette più o meno lo stesso errore: si mostra capace solo di reagire in maniera inconsulta, pensa solo a bombardare, sparare, invece di fare politica: e non capisce che così prepara unicamente altri mali a proprio danno. È chiaro dunque qual è il nostro dovere di amici dello Stato ebraico: “Aiutiamo Israele a uscire dal brutto vicolo cieco” come s’intitolava esemplarmente un articolo di Gad Lerner sul “Fatto Quotidiano” di qualche giorno fa. Una cosa soprattutto mi colpisce di questa posizione comune a tanti in Occidente: il suo implicito atteggiamento profondamente paternalistico-razzista nei confronti dei palestinesi. Ma come? Israele non riesce a immaginare una soluzione politica? Israele conta solo sulla forza? E allora i palestinesi? I palestinesi invece? I palestinesi loro sì farebbero “politica”? Ma su questo mai una parola. Consideriamo i fatti: da 80 anni, da quando sono riuniti in un “movimento nazionale”, i palestinesi hanno a disposizione risorse finanziarie praticamente infinite assicurategli da un gruppo di Paesi tra i più ricchi della terra; godono dell’appoggio diplomatico evidente di Stati assai importanti e di quello, meno evidente ma non meno reale, di giganti del calibro di Russia e Cina; infine, come si vede in questi giorni, possono pure contare sulla simpatia anche di una parte non indifferente dell’opinione pubblica di questa parte del mondo. Ebbene, come ha usato di tutto ciò il movimento palestinese in 80 anni? Si è forse preoccupato di definire una serie di obiettivi intermedi e ragionevoli alla propria azione? Ha forse mai indicato una soluzione complessiva ma minimamente plausibile e accettabile dalla controparte? Ha forse mai pensato di dar vita a un vero chiarimento al proprio interno e di liberarsi dei gruppi jihadisti antisemiti e stragisti? Di fronte alla evidentemente strabordante forza militare israeliana ha forse mai immaginato - come pure sarebbe stato ovvio - di ricorrere a forme di mobilitazione e di lotta non violenta, ad esempio a scioperi prolungati dei palestinesi stessi che quotidianamente lavorano in Israele, a scioperi della fame? Ha forse mai pensato di organizzare grandi meeting pacifici nelle capitali dell’Occidente per sostenere i propri obiettivi? La risposta è scontata. Nulla di tutto questo è mai accaduto. In realtà da 80 anni il movimento palestinese è immerso nel nullismo politico più assoluto. Di fatto con un solo obiettivo, mai ripudiato realmente ed apertamente da nessuna delle sue componenti: cancellare Israele. In tutto questo tempo i palestinesi non hanno messo in campo alcun progetto, alcun obiettivo, non si sono dotati di alcuno strumento che possa far pensare a qualcosa che abbia minimamente a che fare con la politica. Non può fare certo piacere sottolinearlo ma è la pura verità: da sempre quel movimento sa dare notizia di sé in un solo modo: con la violenza. Spesso con la violenza più gratuita (tipo investire con un’auto dei passanti o tirare dei missili a casaccio); ovvero, come il 7 ottobre, nel modo sterminazionista che si è visto. E sempre o quasi sempre - non riuscendo a nascondere l’antisemitismo ossessivo che lo agita - la volontà di colpire non il nemico israeliano ma l’ebreo. L’ebreo e basta. Ma lo sguardo dell’Occidente sembra quasi che si vergogni a trattenersi su questi aspetti certo non secondari della “questione palestinese”. Sembra che si vergogni, ad esempio, a parlare - non sia mai detto a denunciare - della diffusissima corruzione di tutti i suoi gruppi dirigenti, della loro notoria mancanza di effettiva autonomia dal momento che ognuno di loro è di fatto alle dipendenze politico-finanziarie di questo o quello Stato islamico e delle sue strategie. Il laicissimo Occidente sembra quasi che si vergogni anche a considerare per quello che è il carattere tutto imbevuto di richiami religiosi, dai toni da guerra santa (altro che politica!), della propaganda dei suddetti gruppi dirigenti verso le stesse masse palestinesi; il fatto che quelle loro parole non indicano nulla, non portano a nulla, sono solo bellicose vuotaggini utili solo a eccitare gli animi e a nascondere l’assenza di una autentica e intelligente dedizione alla causa cui fingono di dare voce. Ma l’Occidente non ha occhi per tutto ciò che viene e sta dietro il movimento palestinese. Per la sua effettiva realtà. Quasi che nel suo inconscio abbia posto il pensiero inespresso - e inesprimibile perché ispirato al più ovvio pregiudizio razzistico: “be’, lo sappiamo. Che cos’altro possiamo aspettarci da quella parte? Che cosa altro possono essere se non quello che sono?”. E così Israele - alla quale all’opposto non ci si stanca di fare la lezione a ogni piè sospinto, di dare tutti i consigli che passano per la testa, della quale non ci si stanca di computare tutti gli errori veri o presunti - Israele diviene paradossalmente anche il paravento dietro cui si nasconde il nostro timore di dire la verità ai suoi nemici, di rivelare ciò che pensiamo davvero di essi. Medio Oriente. Gli ostaggi e i 6 mila detenuti. Chi c’è nelle carceri israeliane di Davide Frattini Corriere della Sera, 30 ottobre 2023 Sono 5.200, tra loro 333 donne e 170 minori. Un altro migliaio dal 7 ottobre. Barghouti e Zubeidi i leader. La proposta del numero uno di Hamas a Gaza: uno scambio coi 239 ostaggi. Le foto degli ostaggi stanno attaccate in fila sul cavalcavia davanti al Pentagono israeliano. Il nome, l’età, il luogo dove sono stati rapiti dai terroristi. Anche il loro destino è sospeso sopra un ponte, quello dei negoziati che i famigliari israeliani pretendono vengano portati avanti a costo di un cessate il fuoco. Le speranze sono state scosse dall’allargamento dell’incursione via terra. Sotto alla sabbia della Striscia su cui si muovono i cingolati - è l’ipotesi dell’intelligence, è la certezza di chi non dorme per gli amati - sono tenuti i 239 prigionieri, quelli finora identificati. I parenti ieri hanno criticato Gal Hirsch, nominato dal premier Benjamin Netanyahu per coordinare gli sforzi: “Non vogliamo sentirci dire di rilasciare interviste alle tv internazionali, vogliamo informazioni sui nostri cari”. Hamas dice di ignorare quanti siano in totale, tanti gli stranieri. Da Gaza è emerso un comunicato di Yahya Sinwar: il capo offre la liberazione dei sequestrati in cambio del rilascio dei palestinesi incarcerati. I portavoce jihadisti mantengono l’ambiguità su quale sarebbe la sorte dei soldati catturati. Soprattutto il testo “firmato” da Sinwar è in contraddizione con i proclami di Ismail Haniyeh , leader all’estero: “La questione non sarà aperta fino alla fine della battaglia”. Il Qatar - sponsor e sostenitore di Hamas - ha agito da negoziatore e sostiene che l’ingresso delle truppe complica le trattative, gli strateghi israeliani sono convinti dell’opposto: l’avanzata mette pressione, vogliono essere loro a dettare i tempi invece che restare appesi alla tattica del rilascio lento, Hamas ha liberato quattro donne in due fasi. I detenuti sono per tutti i palestinesi - a Gaza o in Cisgiordania - il simbolo più rispettato della lotta. La maggior parte ha un parente, un amico, un conoscente che sia passato dalle celle israeliane. Tutti riconoscono il volto di Marwan Barghouti, condannato a 5 ergastoli per terrorismo, che considerano “il Nelson Mandela arabo”, accreditato da qualche governo occidentale come un successore al presidente Abu Mazen. E pure da Ehud Olmert: allora primo ministro israeliano, sarebbe stato pronto a rilasciarlo perché partecipasse a elezioni mai tenute. E tutti sanno che la faccia coperta di granelli di pepe al tritolo appartiene a Zakaria Zubeidi, che alla fine della seconda intifada aveva rinunciato al fucile M16 in cambio dell’amnistia, accordo poi revocato. Boss del Fatah di Arafat a Jenin, nord Cisgiordania, porta addosso l’esplosivo che gli si è conficcato nella pelle: una bomba esplose mentre la stava costruendo. Rimesso in prigione nel 2019, evaso, ripreso. In totale sono 5.200 - secondo i dati dell’associazione palestinese Addameer - tra loro 170 minori, 333 donne, 22 in galera da prima degli accordi Oslo (1994), 559 condannati a uno o più ergastoli. In 1.264 sono sottoposti a detenzione amministrativa, la misura che permette ai servizi segreti di prolungare l’arresto per “ragioni di sicurezza” indicate al giudice senza formulare un’accusa e senza un avvocato difensore. I numeri sono fermi a fine settembre. Dopo la mattanza del 7 ottobre, l’esercito ha eseguito oltre mille arresti in Cisgiordania, tra loro parlamentari di Hamas come Aziz Dweik. In centri di reclusione sono ammassati anche 4 mila lavoratori palestinesi che si trovavano in Israele all’inizio della guerra, non sono accusati di reati e le associazioni per i diritti umani israeliane hanno presentato una petizione per la loro liberazione e per migliorare le condizioni “disumane” in cui sono tenuti. La ferita armena dimenticata. È tempo di risolvere la crisi di Mario Giro* Il Domani, 30 ottobre 2023 Ancora una volta gli armeni fuggono e ancora una volta i turchi ne sono responsabili. L’intrigo geopolitico sta schiacciando l’Armenia che si trova isolata e dimenticata. Bisognava negoziare molto tempo fa ma è bene farlo ora senza dover attendere la prossima guerra. L’Armenia è una ferita rimasta aperta da più di un secolo e che ora la guerra di Gaza ricopre e nasconde. Così non si rimargina, tornando a interrogare l’Europa e le nostre coscienze. Ai tempi della prima guerra mondiale il Metz Yeghern, la grande strage degli armeni e degli altri cristiani dell’impero ottomano, venne coperto dal conflitto stesso. Com’è noto ogni guerra può nascondere le più terribili nefandezze, com’è accaduto con la Shoah durante il secondo conflitto mondiale. Anni prima gli armeni avevano subito orribili massacri ma la leadership ultra-nazionalista giovane-turca scelse per qualcosa di più radicale: l’eliminazione dell’intero popolo, accusato di essere una quinta colonna della Russia zarista e delle potenze europee con cui erano in guerra. Per gli armeni dell’impero si scatenò l’inferno; i superstiti furono spinti nel deserto verso la Siria e oltre. Per tanto tempo le potenze europee avevano oscillato tra la difesa dei cristiani d’oriente - tra cui spiccavano gli armeni - e i propri interessi, spesso contrapposti. Nel 1915 non ci fu nessun intervento specifico per salvare gli armeni, né alle conferenze di pace in cui si riordinò il mondo, si decise per la creazione di una grande Armenia come speravano i sopravvissuti. La nascita della Turchia moderna quasi cancellò del tutto quella vicenda, tenuta viva soprattutto da chi era scampato e dalla diaspora. L’Armenia sovietica rappresentava solo in parte il sogno del popolo: sistemazione complessa delle frontiere etnico-religiose del Caucaso, alla quale da Mosca misero mano in molti, Stalin incluso. La fragilità armena - Durante la guerra fredda la polemica attorno al termine genocidio con cui alcuni definivano gli eventi del 1915, non venne mai meno senza trovare un consenso generale soprattutto a causa dell’opposizione turca. In anni più recenti la storia è sorprendentemente riemersa anche in Turchia, con la scoperta dei cripto-armeni, i discendenti degli scampati e convertiti all’islam. Fu un colpo per la società turca che ha strappato, forse definitivamente, il velo dell’oblio e della negazione. Si sperò in una riconciliazione, voluta inizialmente anche da Erdogan. Ma poi la politica degli interessi riprese il sopravvento. Nel Caucaso turbolento Armenia e Azerbaigian - indipendenti dalla fine dell’Urss - si sono sfidati per quasi trent’anni, con alterne vicende e sotto lo sguardo calcolatore dei vicini: Russia, Iran, Turchia e occidente. Molto di ciò che è accaduto nell’alternanza politica interna di questi anni a Erevan è dipeso dagli equilibri tra diaspora (legata prevalentemente agli Usa), influenza russa, spinta turca e tornaconti iraniani. Per gli armeni il vincolo esterno ha significato un’endemica fragilità politica, un destino che li accomuna a tanti popoli dell’ex Urss. Anche a Baku tali impulsi si sono fatti sentire ma in senso filo-turco: un legame sempre più forte con gli obiettivi del neo-ottomanesimo con cui Erdogan ha voluto segnare il suo secondo decennio di potere. Un intrico del quale oggi l’Armenia rimane vittima, anche se per quasi trent’anni è parsa al contrario favorita. Il nodo geopolitico - La questione del Nagorno-Karabakh non è nuova: esisteva già in epoca sovietica ma era compressa dagli interessi strategici della superpotenza. Un sicuro game changer è stata la connessione del gas azero alle reti internazionali di distribuzione dell’energia: un fatto a cui anche l’Italia non è estranea a causa del gasdotto Tap che arriva in Puglia. Si polemizzò molto sugli ulivi da spostare a San Foca ma non si tenne conto del cambiamento geopolitico che avrebbe prodotto. Esclusa dagli accordi energetici EastMed (gasdotto tra Israele, Cipro, Grecia e Italia), Ankara non si era fatta trovare impreparata nel Caucaso, stringendo un’alleanza militare con gli azeri. Il colpo di grazia alle speranze armene è venuto successivamente dalla guerra di Siria e poi da quella in Ucraina: progressivamente Russia e Turchia si sono accordate per una peculiare forma di “collaborazione competitiva”, nella quale il Caucaso è passato di mano, almeno provvisoriamente. Gli armeni si sono trovati isolati e Baku ne ha approfittato: dopo essere stato sconfitto nel 1994, l’Azerbaigian ha potuto ricominciare la guerra nel 2020, armato coi droni turchi, portandola a termine in queste settimane con la riconquista del Nagorno-Karabakh. Ridotta all’angolo, Erevan sta di nuovo cambiando protettore, puntando sugli americani che tuttavia hanno il difetto di essere lontani. Da un punto di vista geopolitico è difficile prevedere cosa accadrà: nel Caucaso i giri di walzer delle alleanze sono sempre possibili e resta da vedere cosa farà Teheran. Tuttavia non si può eliminare la sensazione davvero sgradevole che l’ennesima cacciata degli armeni da una terra in cui sono sempre vissuti, avvenga da parte di forze sostenute una volta ancora dai turchi. È vero che l’Azerbaigian è uno stato laico che soltanto una certa propaganda vorrebbe presentare come legato all’islamismo di stampo turco. C’è poi la retorica dell’alleanza pan-turca ma è sentita più ad Ankara che a Baku, mentre le relazioni di quest’ultima con l’Europa sono ottime. È proprio tale aspetto che lascia una domanda aperta: stretta tra poteri ben più grandi, l’Armenia sarà ancora una volta sacrificata all’abbandono e alla dimenticanza? C’è sicuramente una responsabilità diretta dei protagonisti: dopo la guerra del 1994 si doveva certamente negoziare una pace definitiva e anche Erevan su questo ha mancato di saggezza politica e di duttilità. Ma oggi la ferita si è riaperta: davanti alle tristi immagini dell’esodo degli armeni e dei simboli cristiani distrutti o saccheggiati, non possiamo che domandarci quale sia stata e quale debba essere la nostra solidarietà. Alle Nazioni unite il ministro Antonio Tajani ha offerto la mediazione italiana; l’Europa si è fatta avanti: sarebbe stato più facile e assennato negoziare prima di quest’ultima fase, ma è comunque bene farlo ora per non dover attendere una prossima guerra, magari frutto di un ennesimo rivolgimento strategico.