Contrasto alla recidiva, viaggio alla scoperta delle iniziative italiane di Giulia Zaccardelli spazio50.org, 2 ottobre 2023 Molte persone detenute hanno avuto più di un’esperienza di reclusione. Per prevenire il fenomeno ci sono progetti statali, regionali e privati che aprono le porte del carcere al lavoro, alla cultura, allo sport e all’intrattenimento. Da Nord a Sud comprese le Isole, i reclusi possono impegnarsi quotidianamente, valorizzare competenze e ambizioni e reinserirsi in società mentre scontano la pena. Ad aprile 2022 l’associazione Antigone - per i diritti e le garanzie del sistema penale - ha pubblicato il XVIII Rapporto sulle condizioni dei detenuti riferito al 2021. Solo il 38% stava scontando la sua prima pena; il restante 62% aveva già avuto un’esperienza di detenzione e tra questi il 18% anche più di cinque. Per ridurre il fenomeno della recidiva sono attivi numerosi progetti che permettono ai reclusi di impegnarsi nel lavoro e in attività culturali, sportive e di intrattenimento. Lavorare incide in modo determinante sul tasso di recidiva: a confermarlo è stato il consigliere CNEL, Gian Paolo Gualaccini, a dicembre 2022. Durante il convegno “Le dimensioni della dignità nel lavoro carcerario”, ha dichiarato che la recidiva tra i detenuti che lavorano è al 2%, per chi non ha un impiego sale al 70%. Si può tracciare una mappa con alcune delle iniziative attive nelle carceri, partendo dal Piemonte. Per gli anni 2023/2026, con fondi europei la Regione ha attivato ‘Sportello lavoro carcere’, affinché esperti di politiche attive del lavoro realizzino un piano personalizzato che consideri esigenze e capacità del detenuto per individuare il lavoro più adeguato e attivare un tirocinio retribuito all’interno o all’esterno dell’istituto carcerario. Ci si sposta in Lombardia: a Milano e Bergamo è attivo il progetto ‘Cercare in carcere’. L’associazione Incontro e Presenza, che si occupa di accoglienza e integrazione dei carcerati milanesi dal 1986, cerca opportunità di lavoro per detenuti ed ex detenuti: espone alle imprese i vantaggi fiscali di queste assunzioni e spesso seleziona i candidati. Le iniziative contro la recidiva non riguardano solo il lavoro: spostandosi alla Casa Circondariale di Lecco, Assocultura Confcommercio, con il progetto ‘Leggermente’, a giugno 2023 ha dato ai detenuti la possibilità di creare - e conservare - giochi da tavolo con il pedagogista Antonio Di Pietro. I giochi sono stati prodotti con materiale di riuso fornito dalla startup Piccola Sartoria Sociale. A proposito di socializzazione, dal 2018 alcune società affiliate alla F.I.R. - Federazione italiana Rugby - insegnano questo sport in varie carceri d’Italia, partecipando ai Campionati Federali ufficiali e ai tornei amatoriali. Considerato tale successo, la F.I.R. ha proposto ‘Arbitri oltre le sbarre’ per formare nuovi arbitri di rugby. Non solo giochi e sport, ma anche teatro: nella casa di reclusione di Volterra è attiva la Compagnia della Fortezza, guidata dal regista Armando Punzo, che da 35 anni mette in scena uno spettacolo durante il Festival Volterra Teatro, portato poi sui maggiori palchi. Ispirandosi a questa iniziativa, l’ACRI - Associazione di Fondazioni e di Casse di Risparmio - nel 2018 ha realizzato ‘Per aspera ad astra’, attivo in 15 carceri per promuovere il teatro e la formazione artistica professionale dei detenuti. Nel Lazio, da marzo 2023, una detenuta del carcere di Viterbo lavora in un ristorante con un contratto di somministrazione. Ciò è stato possibile grazie al protocollo d’intesa tra Manpower - agenzia per il lavoro -, Human Age Institute, che supporta le persone nello sviluppo dei propri talenti, e Fondazione Severino, che aiuta soggetti svantaggiati. Le tre organizzazioni si sono unite per favorire l’inserimento dei detenuti nel mondo del lavoro. Rimanendo nel Lazio, nella sezione femminile di Rebibbia, nel 2021 Linkem ha attivato il ‘Laboratorio Rework’: la società di telecomunicazioni ha assunto 12 detenute dopo averle formate come ‘addette alla rigenerazione di apparati elettronici’. Anche a Lecce Linkem ha assunto 10 reclusi e realizzato UNiO, innovativo sistema di video colloqui. Sempre a Rebibbia nel 2022 è stato attivato un progetto inserito nel ‘Programma Lavoro Carcerario’, nato dalle intese tra il Ministero della Giustizia e il Dipartimento per la trasformazione digitale. Le carceri italiane aprono le porte a società di telecomunicazioni che, dopo un periodo di formazione, assumono detenuti. È successo con 7 reclusi a Rebibbia, che ora sono tecnici per le infrastrutture di rete in Italia, e 7 nel Carcere di Torino. Il viaggio prosegue in provincia di Napoli, negli istituti di Poggioreale e Secondigliano: nel 2022 è stato attivato il progetto ‘Mai più dentro’, finanziato dal bando ‘E vado a lavorare’, promosso da Fondazione per il Sud. Con l’ausilio della Asl, 10 pazienti psichiatrici detenuti hanno preso parte a corsi di formazione per l’inserimento a tempo indeterminato in cooperative sociali. Lo stesso bando ha finanziato progetti anche in Calabria e in Sicilia. A Catanzaro, nella Casa Circondariale ‘Ugo Caridi’, 10 detenuti hanno partecipato al programma ‘Dolce lavoro’, conseguendo il titolo di ‘Operatore per la lavorazione e la commercializzazione dei prodotti della panificazione/pasticceria’ con cui lavoreranno nella cooperativa ‘Mani in libertà’ creata appositamente. A Palermo e a Siracusa c’è ‘Svolta all’Albergheria! Da Ballarò alle periferie per una comunità riparativa’, un programma di formazione e reinserimento lavorativo coordinato dalla Cooperativa Sociale Rigenerazioni Onlus. In Sardegna, infine, nel 2021 gli artisti Giovanna Maria Boscani e Joe Perrino hanno realizzato il documentario ‘Per Grazia Non Ricevuta’. I due hanno visitato le carceri dell’Isola a bordo di un’apecar, resa un’installazione artistica itinerante dalle richieste di grazia dei detenuti. L’intento è stato dare spazio alle storie, ai desideri e alle ambizioni dei reclusi, facendole uscire dalle mura del carcere. Avere fede in carcere, una risorsa che salva di Giulia Zaccardelli spazio50.org, 2 ottobre 2023 L’assistenza religiosa può aiutare i detenuti a connettersi con i propri bisogni spirituali e ad affrontare con consapevolezza e speranza il percorso carcerario. A raccontarlo è padre Vittorio Trani, cappellano di Regina Coeli dal 1978. Dal 1975 la legge italiana riconosce alle persone detenute la libertà di praticare la propria fede in carcere. Qui i ministri di culto possono entrare grazie ad intese tra lo Stato e la confessione di appartenenza o, in assenza, con un nulla osta ad personam dell’ufficio Culti del Ministero dell’Interno. Per i cristiani c’è un cappellano in ogni istituto. Abbiamo incontrato quello di Regina Coeli, padre Vittorio Trani, che lavora lì dal 1978, anno in cui ha fondato anche il centro VO.RE.CO. - Volontari Regina Coeli - con cui offre sostegno materiale e spirituale ai detenuti e alle loro famiglie. Chi sono le persone detenute a Regina Coeli? Molti sono immigrati, alcuni vengono dalle periferie, altri sono tossicodipendenti. Ci sono recidivi o persone che non hanno famiglia e delinquono. La maggior parte ha tra i 18 e i 45 anni. Sono religiose? Alcune no; altre hanno una fede sopita che si riaccende in carcere, quando restano sole con se stesse dopo aver perso tutti i punti di riferimento. Ci sono cristiani, musulmani, indù, buddisti, testimoni di Geova, protestanti. Ognuno ha un rappresentante; c’è attenzione e rispetto per ogni espressione di culto. Di cosa hanno bisogno i detenuti? Molti sono poveri e tramite il centro VO.RE.CO. diamo loro vestiti e prodotti igienici per il quotidiano. A chi non è italiano garantiamo una chiamata al mese a casa. Poi ci sono i bisogni spirituali: i ragazzi sono assetati di amore e di attenzione. Sin da quando arrivano hanno bisogno di parlare. Mi raccontano ogni giorno timori e speranze. Prima si sfogano, poi inizia il dialogo vero in cui si parla di responsabilità. Infine, può arrivare la conversione, ossia il recupero dei valori, tra cui la fede. Dopo aver perso tutto, i ragazzi riscoprono l’amore e imparano il perdono. Come si rivolge ai detenuti? Con rispetto e con il sorriso. Sono innanzitutto persone che hanno vissuto un evento segnante. Bisogna liberare la mente dall’idea che sono in carcere, altrimenti il rapporto è condizionato dai pregiudizi. E poi, che siano cristiani o meno, mi impegno ad essere vicino a tutti materialmente o, se lo richiedono, anche con l’ascolto e i consigli. La fede può trasformare l’esperienza del carcere? È “la” risorsa in più. I ragazzi sono soli, arrivano da contesti in cui non hanno ricevuto amore. Con la fede colmano il vuoto e la sfiducia perché scoprono di essere importanti e unici. Come comunica con gli stranieri? Lavoro con persone che sanno l’inglese, il francese, il portoghese, lo spagnolo. Può capitare che arrivi qualcuno originario del Kurdistan o della Cina e che parli solo il dialetto locale, ma anche in questi casi riusciamo a trovare un interprete. Fuori dal carcere, le persone restano in contatto con lei? Sì, spesso mi mandano lettere. Molti, però, una volta fuori, vivono una forma di rifiuto verso il carcere e tutto ciò che ha a che fare con questo mondo. In memora di Giulio Petrilli di Marcello Pesarini* Ristretti Orizzonti, 2 ottobre 2023 Apprendo ora da compagni e dal Manifesto della morte di Giulio Petrilli, col quale avevamo combattuto la battaglia per il risarcimento dell’ingiusta detenzione subita, e poi del superamento del primo comma dell’articolo 314, le “frequentazioni poco raccomandabili” e la condotta “colposa” che l’ex detenuto avrebbe come ostativa per non ottenere il risarcimento. Il nostro ultimo tentativo consistette nel proporre alla senatrice Ilaria Cucchi, seguita da Giuseppe De Cristoforo e Michele Fina, l’ultima interrogazione in ordine di tempo, che fu presentata il 15 dicembre 2022. In tutta sincerità, nel momento del dolore per la perdita di un fratello e compagno, abbraccio tutti e tutte coloro che avevano iniziato prima di me, e sono stati tanti, molti mai incontrati fisicamente, questa battaglia che sono sicuro non lasceremo. Posso solo dire a tutti noi che la chiarezza, il desiderio di verità e di giustizia aveva travalicato molte barriere, ed avevamo mobilitato persone e partiti che non avremmo mai pensato di raggiungere. Ricordo quando denunciasti anche di recente i tuoi problemi circolatori, ignorati dai medici e da te superati quando eri nel carcere di Fossombrone. Arrivederci, grande maestro di lotta. *Comitato per il diritto al risarcimento per ingiusta detenzione a tutti/e Quando le norme della politica vengono “fermate” dai giudici di Rinaldo Frignani Corriere della Sera, 2 ottobre 2023 Dalla Consulta (che bocciò i provvedimenti di Salvini) ai no dei tribunali. Era il 9 luglio di tre anni fa quando la Consulta bocciò il decreto sicurezza del 2018 fortemente voluto dall’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini per contrastare l’immigrazione clandestina nel nostro Paese. La Corte costituzionale dichiarò illegittima la norma che escludeva i richiedenti asilo dall’iscrizione all’anagrafe, in quanto violava l’articolo 3 della Costituzione che sancisce l’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge. Per i giudici quel provvedimento era “irrazionale” e conteneva un’“irragionevole disparità di trattamento”. Una decisione che costrinse la responsabile del Viminale Luciana Lamorgese a correggere in corsa i decreti sicurezza: una conferma del fatto che le misure prese dalla politica, anche sull’onda del consenso popolare, si possono poi scontrare con la realtà dei fatti. Non solo nelle aule dei tribunali, ma anche nella concreta applicazione nella vita di tutti i giorni da parte delle amministrazioni locali e delle forze dell’ordine. E adesso, dopo il rilascio dei tre migranti dal centro di trattenimento di Pozzallo in seguito alla decisione del tribunale di Catania che ha ritenuto il decreto Cutro contrario alle norme europee e alla Costituzione, si teme che la storia possa ripetersi. Del resto il recente passato è costellato da sentenze e decisioni dei giudici che hanno evidenziato le falle nei provvedimenti votati anche con numeri importanti in Parlamento. Fra i casi più recenti quello del maggio scorso: ancora una volta la Consulta ha stabilito che non si può automaticamente respingere una richiesta di rinnovo del permesso di soggiorno per motivi di lavoro a uno straniero condannato per reati di lieve entità - in quelle circostanze per piccolo spaccio di droga e vendita di merci contraffatte contestando di fatto per illegittimità costituzionale due commi di due articoli della legge sull’Immigrazione del 1998. E ancora: sempre la Corte costituzionale ha dichiarato illegittimo l’aumento di un terzo della pena per i reati commessi da immigrati irregolari sul territorio nazionale, bocciando di fatto il decreto legge 92/2008 sulle misure urgenti in materia di sicurezza pubblica in quanto anch’esso viola l’articolo 3 - e anche l’articolo 27 che sancisce “L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva” - della Costituzione. In pratica secondo i giudici essere clandestino non può rappresentare un’aggravante. Ma proprio la Consulta si è espressa anche su altre questioni che riguardano i migranti e la loro integrazione nella società italiana contestando la legittimità costituzionale di leggi e decreti, con decisioni che fanno giurisprudenza nei tribunali. Come la sentenza con cui ha risolto la questione dei bonus bebè e l’assegno di maternità negati alle cittadine extracomunitarie senza permesso di soggiorno definitivo. La violazione della Carta costituzionale è sempre al centro delle disposizioni della Consulta. Anche quando riguarda leggi regionali che negano diritti agli stranieri soprattutto in materia di welfare. Un esempio è la discriminazione delle famiglie dei migranti individuata dalla Corte che qualche anno fa ha bocciato una norma della Regione Veneto nella quale veniva stabilito come titolo preferenziale per l’iscrizione dei bambini all’asilo nido la residenza ininterrotta per 15 anni. Ma anche sul fronte del contrasto al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, gestita spesso da clan malavitosi che sfruttano i profughi sbarcati in Italia, la magistratura è intervenuta con decisione: come a maggio dello scorso anno con l’assoluzione di quattro rifugiati eritrei perché il fatto non sussiste dopo un processo durato sei anni per aver aiutato alcuni connazionali e per questo condannati in primo grado con l’accusa di aver fatto parte di un’organizzazione di trafficanti di esseri umani. Prescrizione, il procuratore Pinto: “La pietra tombale su tanti processi ai colletti bianchi” di Marco Grasso Il Fatto Quotidiano, 2 ottobre 2023 “Cambiare ogni due anni le leggi è un ostacolo alla giustizia”. “Il ritorno alla ex Cirielli rischia di essere una pietra tombale su molti importanti processi contro la pubblica amministrazione o di altra natura”. A parlare è Francesco Pinto, procuratore aggiunto di Genova, coordinatore del pool reati economici, e contitolare del fascicolo bis nato dopo il crollo del Ponte Morandi: “Anche i processi nati dopo il disastro del viadotto Polcevera rischiano ripercussioni. In particolare, tutto il filone che riguarda i falsi sulle certificazioni di sicurezza”. Cosa comporta un ritorno alla vecchia prescrizione? A prescindere dal merito, cambiare ogni due anni regime sulla prescrizione è di fatto un ostacolo alla giustizia. Dà luogo a incertezza dei tempi processuali e impedisce qualsiasi tipo di programmazione del lavoro. Cosa occorrerebbe alla giustizia? Un fermo biologico. Un lasso di tempo sufficiente per lavorare e consentire di vedere che effetti produce una riforma appena varata. Se scendiamo nel merito, ci sarebbero altre cose da dire. Quali? Quella legge si chiama ex Cirielli perché il suo promotore la sconfessò. Ne smentì insomma la paternità. Ne prese le distanze una volta resosi conto degli effetti perversi. All’epoca si verificò quello che in tempi remoti si faceva con i figli frutto del peccato o della vergogna, che rimanevano senza nome. Quella norma divenne uno dei simboli delle leggi ad personam berlusconiane... Qui siamo oltre il berlusconismo. Si vuole rendere sistemica una normativa ideata per i processi dell’ex premier, senza che ci siano più né Berlusconi, né i suoi processi. Quali potrebbero essere gli effetti sui processi nati dal crollo del Morandi? Bisognerà aspettare il testo definitivo, ma essendo una norma più favorevole per gli imputati sarà applicabile in modo retroattivo. Sono a rischio i processi? Nell’immediato potrebbero esserci ripercussioni sui reati di falso. La prescrizione degli omicidi colposi e del disastro ha in teoria tempi più lunghi, se si conferma l’impostazione della Procura, che ipotizza le aggravanti dell’incidente in un luogo di lavoro e l’omicidio stradale. Il Morandi viaggiava con il sistema della legge precedente alle riforme Bonafede-Cartabia, quella Orlando. Cosa cambierebbe? La prescrizione continuerebbe a correre anche tra le diverse fasi del procedimento. Per processi particolarmente complicati non è una cosa secondaria. Spesso tra una sentenza di primo grado e l’inizio di un processo d’appello passa anche un anno fra lettura del dispositivo, deposito delle motivazioni, trasmissione degli atti, i tempi dell’appello e la fissazione del nuovo processo. In questo modo la lancetta della prescrizione continuerà a correre. La politica sembra avere un interesse molto alto su questo tema, ma l’opinione pubblica non gradisce né che i processi durino così tanto, né che dopo anni vada tutto in fumo... I processi hanno tempi fisiologici, soprattutto quando si tratta di accertare vicende complesse. L’opinione pubblica deve sapere però che se diventano una corsa contro il tempo qualsiasi aspettativa di giustizia è destinata a essere vanificata. Ma che i tempi della giustizia italiana siano molto lenti è una realtà, o no? Il nostro sistema giudiziario è tra i più complessi al mondo. È consentito di rifare integralmente in appello il processo già celebrato in primo grado, senza eccezioni ma anche senza rilievo costituzionale, al contrario del ricorso in Cassazione. In appello, per fare un altro esempio, un imputato già condannato può patteggiare, concordando una pena diversa rispetto a quella del primo grado. Questo non facilita il ricorso a riti alternativi, come il patteggiamento e il rito abbreviato, prima del dibattimento di primo grado. Tutto questo non è consentito nei principali Paesi europei a noi più vicini, dove mediamente il procedimento penale ha tempi di definizione molto più rapidi. In Francia, per fare un esempio, il maxi-processo del Bataclan si è concluso in modo definitivo dopo un anno e mezzo di dibattimento. Una tempistica che per noi è più simile a un processo di medie dimensioni. Giulia Bongiorno: “Così fermiamo il correntismo dei pm” di Federico Novella La Verità, 2 ottobre 2023 La leghista che sta lavorando alla riforma della giustizia: “Separeremo le carriere e ci sarà un doppio Csm. Ma nessuno vuole assoggettare la magistratura alla politica. La castrazione chimica? Ecco perché è utile”. Giulia Bongiorno presiede la commissione del Senato che sta mettendo a punto il fascicolo cruciale della riforma della giustizia: “Dobbiamo scardinare il correntismo delle toghe, serviranno due Csm, uno per la magistratura giudicante e uno per quella inquirente”. Il ministro Carlo Nordio ha parlato di progetto già incardinato, ed è effettivamente iniziato l’iter parlamentare. Può dirci qualcosa in più sui tempi? “Nella commissione che presiedo ci stiamo occupando del disegno di legge chiamato “Nordio”, che interessa una serie di materie delicate come l’abuso d’ufficio, il traffico di influenze e alcune norme di procedura penale. Su questa prima parte della riforma stiamo lavorando alacremente e abbiamo effettuato 25 audizioni di esperti”. Intervenire sulla lentezza dei processi è ancora una priorità? Come pensate di accelerare i processi civili? “È necessario ridurre i tempi dei processi civili e penali senza assottigliare le garanzie. La dilatazione dei tempi amplifica le sofferenze di imputati e persone offese, e la lentezza della giustizia civile comporta costi economici non indifferenti a scapito di cittadini e imprese. Servono anche personale amministrativo e magistrati”. Il governo ha chiesto all’Europa di rivedere i target sull’arretrato dei tribunali civili (65% entro fine 2024 e 90% entro giugno 2026). Perché è così complicato intervenire, e quali sono secondo lei gli obiettivi che si porrà il governo nella prossima riforma? “L’arretrato dei tribunali civili costituisce un ostacolo notevole, ma le pretese degli attori - e dunque i loro diritti - richiedono una valutazione attenta”. È ancora perplessa sull’abolizione dell’abuso d’ufficio, nonostante l’insistenza del ministro Nordio e anche di molti sindaci? “Con spirito collaborativo e costruttivo, c’è stato un confronto con il ministro Nordio. Il punto di equilibrio è stato raggiunto: l’abrogazione dell’abuso d’ufficio precederà una riforma complessiva dei reati contro la pubblica amministrazione, per evitare eventuali vuoti di tutela”. Ci sono punti di vista diversi nella maggioranza anche sulle intercettazioni e la loro pubblicazione. È una materia che necessita di una regolamentazione più stringente? “In certi casi la regolamentazione manca del tutto, anche perché l’evoluzione della tecnologia è rapidissima. La commissione che presiedo ha svolto 46 audizioni di esperti, i cui risultati hanno messo a fuoco i limiti dell’attuale disciplina delle intercettazioni. Nella parte conclusiva abbiamo indicato possibili interventi. Rileviamo, per esempio, la necessità di assicurare l’affidabilità dei software impiegati nelle operazioni di intercettazione e quella degli esiti dell’attività di captazione e sottolineiamo le gravi lacune del nostro sistema, che minano l’efficienza del contrasto all’impiego dei criptofonini e del dark web per eludere le intercettazioni”. Sulla separazione delle carriere, invece, intervenire è più complicato. Il ministro aveva annunciato per l’autunno un ddl costituzionale. Slitteranno i tempi? “Non sono in grado di dirlo. Di certo è uno dei punti del programma della maggioranza e, a scanso di polemiche, preciso ancora una volta che nessuno vuole assoggettare la magistratura alla politica”. Dopo le rivelazioni di Palamara sulle correnti della magistratura, a trent’anni da Tangentopoli crede ci sia ancora un problema di toghe politicizzate? “Si deve distinguere tra un correntismo sano e un altro orientato esclusivamente all’occupazione dei posti di rilievo, divenendo di fatto vero e proprio potere di controllo delle istituzioni giudiziarie. Scardinare questo secondo tipo di correntismo significa garantire l’indipendenza della magistratura e tutelare anche quei magistrati che sono stati penalizzati proprio perché fuori dalle correnti”. Come possiamo ripensare l’organigramma della giustizia? È necessaria una riforma del Csm. e in quale direzione? L’autogoverno della magistratura deve restare intoccabile? “La commissione che presiedo sta affrontando il tema dell’elezione della componente togata. Ma si potrebbe pensare anche alla legificazione delle circolari del Csm, che costituirebbe espressione massima della sua autonomia e, al contempo, un freno ai cambi repentini di orientamento. Naturalmente, la separazione delle carriere richiederebbe di istituire due diversi Csm, uno per la magistratura giudicante e un altro per quella inquirente”. A 40 anni dall’arresto di Enzo Tortora, possiamo dire che gli errori della magistratura possono effettivamente uccidere? La responsabilità civile dei magistrati è un’idea realizzabile nel concreto? “Un errore giudiziario incide sulla vita di chi è accusato ingiustamente, con conseguenze a volte fatali. E giusto il principio secondo il quale chi commette un errore deve pagare, ma bisogna evitare approcci ideologici e puramente colpevolisti nei confronti di un’intera categoria”. Ha detto che le donne vittima di violenza vengono tradite due volte: dal partner e dallo Stato. Perché denunciare è così difficile? “Per vergogna, ma anche per paura di guai peggiori e per timore di non essere aiutate: alcune sentenze di assoluzione di imputati accusati di violenza contengono passi nei quali sembra che sia la vittima a essere giudicata, anziché l’imputato”. Perché è stato “rafforzato” il cosiddetto Codice Rosso? “Il Codice Rosso, stabilendo un termine di tre giorni entro cui ascoltare una donna vittima di violenza, era stato pensato come un’ambulanza che corre a sirene spiegate in soccorso di chi denuncia. Ma se poi anziché l’ambulanza si manda una carrozza a cavalli, la vittima nel frattempo viene massacrata. Anche la migliore delle leggi è inefficace, se non viene applicata correttamente”. Quindi? “È stato rafforzato perché è inaccettabile che la donna che denuncia non riceva aiuto subito: velocità è quello di cui ha un disperato bisogno. È stato dunque introdotto un rigoroso controllo per una corretta applicazione della legge: e in caso di ritardi, il capo della procura può revocare l’assegnazione del fascicolo al magistrato incaricato, e riassegnarlo a chi è in grado di intervenire subito”. Da Pontida ha rilanciato la castrazione chimica per gli stupratori. Molti la giudicano una misura inutile e incostituzionale, anche perché la maggior parte delle violenze avviene tra le mura domestiche. Come mai non la ritiene eccessiva, e a quali condizioni questa misura potrebbe essere applicata? “Ho fatto riferimento alla castrazione chimica come a un trattamento farmacologico, su base volontaria, da proporre ai recidivi. È uno strumento volto a inibire impulsi incontrollabili di un soggetto bisognoso di aiuto, in assenza del quale è molto probabile che reiteri violenze commesse in passato. È stato già adottato in paesi come Svezia, Finlandia, Germania, Danimarca, Norvegia, Belgio e Francia”. Locri (Rc). Cara Meloni, vieni in carcere a vedere gli “scafisti” a cui dai la caccia di Ilario Ammendolia L’Unità, 2 ottobre 2023 Reclusi nella sezione più numerosa. Sembrano galeotti curvi sui remi che spingono in avanti questa folle nave che è il carcere. Li tengono insieme ai penultimi: i calabresi. La comune galera li rende fratelli. Mentre vado in visita al carcere di Locri vedo gli orti e le vigne distrutte dal caldo eccessivo e l’erba secca per la mancanza di pioggia. Non c’è acqua nella Locride eppure l’immenso invaso sul Lordo è a secco da una decina di anni e nessuno si domanda il perché. Passo tra gli scheletri di vecchie industrie dismesse o interdette e arrivo al cupo carcere che sembra un monumento all’angoscia e alla follia. La delegazione in visita al luogo - giustamente detto “di pena”, perché di questo si tratta - è composta da esponenti di Nessuno tocchi Caino e dalla Camera penale di Locri. Ci spiegano che il carcere è diviso in quattro sezioni. Una di queste, la più numerosa, potrebbe essere subito chiusa e i prigionieri liberati. Sono i cosiddetti scafisti. La Meloni vorrebbe dar loro la caccia in tutto il mondo terracqueo. Venga a vederli. Anzi li mostri a quella parte dall’opinione pubblica avvelenata dai media di regime che li vorrebbe alla gogna senza saperne nulla. Sono ragazzi. Vivono in quattro o cinque nella stessa cella. Non conoscono la nostra lingua e spesso non si capiscono neanche tra di loro. La loro colpa? Spesso non hanno fatto proprio nulla, ma nel peggiore dei casi hanno tenuto in mano il timone per qualche chilometro mentre i veri scafisti pagati dai governi occidentali si allontanavano. Magari l’hanno fatto per non pagarsi il viaggio, altre volte perché minacciati da un fucile. Bisognerebbe vedere i loro volti tristi e i loro corpi raggomitolati quasi per non farsi vedere. Sembrano galeotti curvi sui remi che spingono in avanti questa folle nave che è il carcere. In un mondo giusto altri dovrebbero occupare il loro posto: i signori della guerra che li hanno cacciati dalle loro case, i governi corrotti che li opprimono con l’aiuto dell’Occidente, i veri trafficanti di schiavi e di morte, coloro che hanno bombardato i loro villaggi, rapinato le loro ricchezze. Ma costoro vengono ricevuti nelle cancellerie d’Occidente con tutti gli onori. E allora bisogna trovare il “capro espiatorio”: gli scafisti! Un falso che grida vendetta al Cielo. E siccome i veri scafisti vivono nel benessere e difesi dai loro governi, si spacciano per tali gli ultimi della Terra e li mettono insieme ai penultimi che sono i calabresi che vivono al piano di sopra dello stesso carcere. La comune galera li rende fratelli. I calabresi, in rapporto, al numero della popolazione, sono i più numerosi nelle carceri italiane. Figli di una Regione senza speranza. Figli di una terra lucidamente diffamata per spingerla fuori legge. Come dall’Africa anche dalla Calabria si scappa. I ragazzi fuggono via dalla ndrangheta e dall’anti-ndrangheta, come un tempo fuggivano o via dai “padroni, dai pretori e dai gendarmi”. Quelli che trovi in carcere sono i figli degli “ultimi”, dell’emarginazione, dell’ignoranza. Ragazzi che non hanno mai visto la bellezza che li circonda. Il presidente del Tribunale di Locri, Fulvio Accurso, che gentilmente ci accompagna nella nostra visita, ha avviato un progetto con quattro detenuti. Ha investito in fiducia, in affetto e nel risveglio dell’amor proprio latente nei quattro giovani. Hanno lavorato a riordinare gli archivi del tribunale. Quasi da uomini liberi. I risultati sono stati eccezionali, tant’è che il magistrato dice “sono persone a cui potreste affidare tranquillamente le chiave di casa”. Se così è, e così è, perché non chiudiamo questo orribile posto di sofferenza che incattivisce gli animi e genera ingiustizia? Perché si continuano a distribuire anni di carcere dove non ci sarebbe alcun bisogno. Perché non si mette fine a tanto spreco di denaro pubblico? A tanta inutile sofferenza? Esiste un’altra via, quella indicata dai Costituenti, che il carcere lo hanno conosciuto come reclusi dal regime fascista, e che, forti della loro esperienza, avevano scritto l’art. 27 della nostra Costituzione. Se potessi rivolgermi a Elly Schlein direi: venga a Locri Segretaria. E non per incontrare le “autorità” o improbabili dirigenti del suo partito. Una parte del nostro popolo, quello a noi più caro, perché più sacrificato, è dentro quelle mura o intorno ad esse si aggira in una terra in cui la Costituzione è quotidianamente calpestata dalla propaganda di regime. Lei potrebbe liberare tanta energia compressa da costruire anche con coloro che vengono considerati gli “scarti” della società, un’Italia più giusta. Una Sinistra più vera e non più prigioniera dal notabilato e dai perbenisti. Lo faccia, Segretaria, non perda altro tempo. Genova. Detenuto 23enne in fin di vita piantonato all’ospedale, la madre: “Non me lo fanno vedere” genova24.it, 2 ottobre 2023 “Abbiamo l’ok del tribunale ma gli uffici del carcere alla domenica sono chiusi, temo di non vederlo più”. “Non me lo fanno vedere nonostante la gravità della situazione non mi è stata data l’autorizzazione perché alla domenica gli uffici del carcere sono chiusi e nessuno può farci nulla, nonostante ci sia il via libera del tribunale. Sta male, i dottori mi riferiscono che non si riesce a svegliare, e io ho paura di poterlo vedere più”. Questa è la rabbia e la disperazione della madre del ragazzo di 23 anni che venerdì scorso è stato trasferito d’urgenza dal carcere di Marassi al reparto di rianimazione del San Martino di Genova. Le condizioni del giovane sono difficilissime: arrivato in coma, al momento i medici lo stanno assistendo cercando di rianimarlo. Tutto è successo venerdì all’ora di pranzo, e a darne notizia è stata l’Uilpa Polizia Penitenziaria, che ha chiarito come il 23enne fosse “un detenuto italiano ristretto in prima sezione al piano terra, tossicodipendente”. Le condizioni del giovane sarebbero gravi, e non sono chiare le cause del malore. “Non sappiamo che cosa sia successo lì dentro - continua la madre - sappiamo soltanto che è in coma e che sta lottando per la vita”. Il giovane, in carcere per reati di resistenza e danneggiamento, potrebbe aver ingerito un mix di sostanze, secondo quanto ha riferito Fabio Pagani, Segretario Regionale della Uilpa Polizia Penitenziaria. Ma al momento questa ipotesi non è ancora stata confermata definitivamente. “Questa notte dormirò qui - conclude la donna, che viene da fuori Genova - e domattina proverò a farmi dare questa autorizzazione dal carcere, sperando che non sia troppo tardi”. Cosenza. Mancini (Pd): “Il carcere è obsoleto, andrebbe raso al suolo” quicosenza.it, 2 ottobre 2023 Così Giacomo Mancini riflette sulle condizioni dell’istituto penitenziario di Cosenza: “è vecchio, obsoleto e superato”. “Sergio Lenci è stato l’architetto che ha progettato il carcere romano di Rebibbia - così Giacomo Mancini, già parlamentare socialista, membro della direzione del PD Calabria e vicepresidente della Fondazione Giacomo Mancini. Si era messo in testa di costruire un penitenziario nel quale gli standard di vivibilità fossero elevati, rendendolo meno oppressivo così da diventare luogo nel quale fosse applicata per davvero la funzione rieducativa della pena prevista in costituzione. Mal gliene incorse. Perché i terroristi vedevano nell’azione di uomini come Lenci che pensavano di rendere più umane le carceri, il rischio di perdere quella carica eversiva, utile per organizzare la loro agognata e teorizzata rivoluzione che, a loro dire, avrebbero posseduto invece detenuti reclusi in condizioni disumane. Umanizzando la galera, insomma, l’architetto depotenziava la carica protestataria di chi la subiva e per questo, i brigatisti sentenziarono la sua uccisione. Un commando di Prima Linea nel 1980 fece irruzione nel suo studio, gli spararono un colpo (uno solo) di rivoltella in testa. Lenci miracolosamente sopravvisse. Con una pallottola conficcata nella nuca, ma sopravvisse. Della sua storia fu anche girato un film diretto da Mimmo Calopresti dal titolo la seconda volta. Non so cosa ne pensasse Lenci del carcere di Cosenza. E se mai si interrogò sul carcere della nostra città. Personalmente - prosegue Mancini - ne do un giudizio negativo (e di case circondariale nella mia attività di parlamentare ne ho ispezionate diverse). Credo che andrebbe abbattuto, raso al suolo. Vecchio, obsoleto, superato. Luogo di afflizione e sofferenza per chi vi è recluso e per chi vi presta servizio e vi lavora. Viviamo in una città in cui si devastano viali, si fanno e disfano piazzette, si abbattono alberi, ma nella quale è complicato solo avviare una riflessione vera e profonda sui luoghi, sugli spazi, sui diritti, sugli ultimi, sulla democrazia. Ma di questo avremo modo e tempo di riparlarne, di discuterne insieme. Ma fin tanto che ci saranno carceri come quello di Cosenza e anche ben peggiori, è importante che ci siano associazioni che si occupino dei diritti di tutti coloro che nelle carceri vivono, lavorano e sono reclusi. Tra questi si distinguono i compagni di Nessuno tocchi Caino, guidati da persone con competenza e passione come Elisabetta Zamparutti e Sergio D’Elia, con il quale abbiamo stretto un bel rapporto di amicizia sui banchi della camera, che svolgono un’opera importante, meritoria e che va sostenuta (nei giorni scorsi sono stati anche in Calabria e a Cosenza: bravi!). E per sostenere nel mio infinitamente piccolo il loro impegno - conclude Mancini - anche quest’anno come ogni anno ho deciso di rinnovare l’iscrizione alla loro associazione. Anche per onorare il ricordo di Marco Pannella e delle battaglie politiche e di giustizia che socialisti e radicali hanno affrontato e combattuto fianco a fianco”. La Spezia. Azione: “Carcere molto ben gestito, ma non mancano le criticità” cittadellaspezia.com, 2 ottobre 2023 “Azione provinciale La Spezia non smetterà mai di tenere accesi i riflettori sulla situazione carceri in Liguria e soprattutto a La Spezia. Come abbiamo avuto già modo di raccontare, il carcere di La Spezia è molto ben gestito dalla Direzione, da psicologi, medici, dalla Polizia penitenziaria e da tutto il personale in generale. Detenuti in attesa di nuove destinazioni chiedono di restare; all’interno della struttura vi sono vari laboratori, tra cui quello di teatro, che impegnano i detenuti in vere attività di recupero; le celle sono aperte quasi tutto il giorno; in corso di allestimento un’area verde esterna; la zona colloquio per i detenuti con figli è coloratissima, accogliente e piena di giochi”. Si apre così la nota diffusa da Azione La Spezia, che prosegue: “Tutto bello allora? No, abbiamo parlato con Andrea Marino, segretario Provinciale Sappe La Spezia, e sono emerse diverse criticità. Gli agenti della Penitenziaria lavorano a ranghi ridotti, per rispettare i turni sono costretti a fare straordinari continui. In tali condizioni si trovano quotidianamente a dover affrontare emergenze come risse, atti di autolesionismo ecc. La maggioranza dei detenuti è tossicodipendente. Noi di Azione li riteniamo incompatibili con il regime carcerario e, in visione di sperare di recuperarli, dovrebbero essere accolti in comunità terapeutiche, come peraltro dimostrano vari studi in materia. Lo stesso dicasi per i detenuti psichiatrici che avrebbero bisogno di essere accolti in R.E.M.S. ed assistiti da professionisti. La Polizia penitenziaria quindi oltre ad essere sempre sottorganico, lavorare sempre al limite della sicurezza, si trova anche a fare i conti con situazioni paradossali. Alcuni esempi: si è sbagliato a fare l’ordine delle divise e agli agenti sono state distribuite uniformi da rappresentanza e pochissime per le operazioni giornaliere. La Polizia penitenziaria può trovarsi quindi nella situazione di accompagnare un detenuto in ospedale, tra le operazioni a più alto rischio di fuga, in alta uniforme con scarpe eleganti e scomode per un inseguimento, anzi che con divisa comoda ed anfibi. Ancora, caschetti e giubbetti antiproiettile sono scaduti e devono essere sostituiti da tempo. Auspichiamo che questi problemi di attrezzature vengano risolti al più presto. Azione, inoltre, non smette di chiedere il ripristino del provveditorato per la Liguria con sede a Genova. Sede e personale ci sono già, basta solo riportare le responsabilità alla regione. La Polizia penitenziaria svolge un lavoro altamente rischioso e deve essere ascoltata in modo serio. Noi di Azione continueremo a tenere il focus su un carcere, quello di La Spezia, dove i diritti degli detenuti sono rispettati grazie all’ottimo lavoro del personale tutto. Chiediamo, e ci faremo portavoce, che vengano ristrutturate le tubature dell’acqua, i riscaldamenti e altri lavori di ripristino assolutamente necessari ad aprire le due sezioni al momento chiuse; che vengano assunti nuovi operatori e poliziotti. Il carcere è un tutt’uno con la città, non si può fare finta di niente. Un paese che ha carceri aperte alla città e che funzionano è un paese civile”. Roma. A Rebibbia l’evento “Scendiamo in campo per la pace”, torneo di calcio femminile agensir.it, 2 ottobre 2023 Si è svolto per il secondo anno consecutivo, presso la sezione femminile del carcere di Rebibbia l’evento “A Rebibbia, Scendiamo in campo per la pace”. Come per le più “sofferte” partite di calcio, in tanti, per due ore, hanno esultato e tifato le quattro squadre dell’incontro quadrangolare ospitato all’interno delle mura del carcere romano. A sfidarsi, in un’amichevole di calcetto, le detenute dell’Atletico diritti, gli operatori penitenziari e i numerosi ospiti sopraggiunti per l’occasione. Sulle loro magliette i colori delle diverse associazioni e società sportive che, insieme a Prison Fellowship Italia Onlus, promotrice dell’evento, si sono messe in gioco per lanciare, ancora una volta, un appello alla pace e all’unità tra i popoli. Per ognuna di queste realtà, tanti ex campioni e atleti olimpici dello sport. A giocare in campo, inoltre, la squadra femminile di calcio dell’Associazione So.Spe. capitanata da suor Paola D’Auria (nota religiosa tifosa della Lazio). A dare il calcio d’inizio la direttrice di Rebibbia femminile, la dott.ssa Nadia Fontana che, dopo aver ringraziato tutti gli ospiti presenti, ha sottolineato come lo sport sia importantissimo nel trasmettere valori come l’amicizia e la lealtà, ma soprattutto il rispetto della persona e delle regole, principi fondamentali per un percorso riabilitativo e per una società sana. Marcella Reni, presidente dell’associazione Prison Fellowship Italia (PFIt) ha dichiarato a margine dell’incontro: “L’augurio di ‘non ritrovarci’ insieme il prossimo anno; la vita - ha proseguito la dott.ssa Reni -, come anche la reclusione, sono partite importanti da giocare”. Suor Paola D’Auria, responsabile dell’Associazione So.Spe, ha detto: “Conosco bene la realtà carceraria perché frequento il carcere romano maschile di Regina Coeli da ben 42 anni!”. Ma vedere giocare queste ragazze in campo, per la pace, “è davvero emozionante perché, rispetto all’ambiente maschile, esprimono tutta la loro voglia di fare squadra, di dare il meglio divertendosi e comunicando la bellezza di stare insieme per un obiettivo comune”. Fabio Cavalli: il teatro dentro le carceri di Linda Russo spazio50.org, 2 ottobre 2023 Da oltre vent’anni il regista teatrale accompagna i detenuti alla scoperta del teatro in un lavoro costante di sensibilità e riconoscimento dell’altro che arricchisce e ribalta alcune prospettive. Le Idi di marzo e la cospirazione ai danni di Giulio Cesare sono un pezzo di storia tramandato fino a noi e raccontato, tra gli altri, anche da Shakespeare. È questa stessa tragedia ad essere messa in scena nel 2012 dai detenuti di Rebibbia diretti dal regista teatrale Fabio Cavalli e immortalata nella pellicola Cesare deve morire diretto da Paolo e Vittorio Taviani che in quell’anno ha vinto l’Orso d’Oro al Festival di Berlino e ricevuto otto candidature ai David di Donatello, vincendone cinque, tra cui quelli per miglior film e miglior regista. Una scelta forte che mette in luce i parallelismi con la vita dentro al carcere. Abbiamo parlato di questo e di molto altro con Fabio Cavalli, che da vent’anni accompagna i detenuti alla scoperta del teatro. Da dove nasce “Cesare deve morire”? Con la Compagnia del Teatro Libero di Rebibbia stavamo provando i Sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello. Vennero i Taviani e mi convinsero che per un’operazione cinematografica rivoluzionaria occorreva un titolo assolutamente internazionale. Il “Giulio Cesare” era perfetto. Di fatto un cast di soli uomini: la migliore soluzione, in carcere. Tutta la Compagnia fu d’accordo. C’è un parallelismo tra il “Giulio Cesare” e la vita dei detenuti? Non si può immaginare che un’opera realizzata con i detenuti non venga investita dal loro vissuto. Spesso, con “Shakespeare in carcere”, la biografia del personaggio e quella dell’interprete si possono sovrapporre. È come se fossero accomunati da un unico tragico destino. Il mondo della Roma antica messo in scena da Shakespeare corrisponde abbastanza al racconto di Plutarco e Sallustio. In quel tempo, si contrapponevano sulla scena del potere i capi di clan familiari allargati, dotati di forze armate personali, foraggiate coi proventi delle guerre, delle razzie e delle vendette trasversali. Quando Cesare varcò il Rubicone a mano armata, ruppe un accordo fra clan. Nulla di strano, dunque, se in Cesare deve morire gli attori dell’antica tragedia si esprimono come in un bassofondo urbano contemporaneo. Lei è entrato in contatto con il mondo carcerario ben prima di questa esperienza. Ci racconta come? Vent’anni fa entravo per la prima volta nel Reparto di massima sicurezza del carcere di Rebibbia. Da volontario, ovviamente. Era il 2003 e il Direttore di Rebibbia, che conosceva il mio lavoro di regista, mi aveva invitato ad un incontro coi detenuti. Erano una ventina e, per interrompere la noia infinita delle giornate, cercavano un impegno, un traguardo da raggiungere. Pensavano di trovarlo nel teatro. Loro, che in un teatro non erano mai entrati. Conoscevano Eduardo De Filippo perché erano in maggioranza napoletani e avevano visto qualche vecchia commedia in Tv. Volevano portare in scena Napoli milionaria, forse il dramma più intenso del grande Eduardo. Non era facile. C’erano difficoltà giuridiche, organizzative, materiali, per non parlare di quelle artistiche. Comunque io accettai di dare una mano senza pensarci troppo su. Eravamo in una stanza di pochi metri quadri ed ero stato catapultato direttamente dentro quella stanza sbarrata fra condannati di mafia e di camorra. Non che avessi paura. Ma chi, nella vita, può immaginare di essere immerso in una simile irrealtà? Eduardo, Napoli, Rebibbia. Il mio racconto, ancora oggi, è confuso come il sentimento fortissimo di quella prima prova teatrale. Mi parve un capolavoro. In quell’incontro, non so dire se vidi più vita o più teatro. Come cambiano le modalità di lavoro da “dentro” a “fuori” il carcere? Il carcere è un luogo spaventoso e, per quanta scorza tu abbia, cambia il tuo modo di essere e di lavorare. Provare uno spettacolo per mesi e mesi assieme agli attori detenuti, coinvolge la sensibilità in modo totale e l’analisi del percorso teatrale rischia sempre di scivolare verso l’autoriflessione. Mi aiuta una metafora di Pirandello, quella che definisce i personaggi del suo teatro “maschere nude”. È quanto di più vicino all’idea che mi sono fatto di un uomo detenuto. A Rebibbia credo di aver conosciuto maschere nude e per poterle incontrare mi sono dovuto adeguare, provando a denudare la mia. È qualcosa che nel quotidiano, con il nostro prossimo, solitamente non si fa. Che non si sa nemmeno di poter fare. E che invece può cambiare la percezione di sé e del proprio rapporto col teatro, col cinema, col mondo. Come si può far avvicinare i carcerati al teatro e che riscontro ottiene da parte loro? A loro dico che, salendo sul palcoscenico, si esporranno al rischio estremo. Loro, che sempre hanno cercato di sfuggire tribunali e sentenze, andranno in cerca del “giudice naturale” dell’artista: il Pubblico (e io li seguo in questa sorte). In quasi tutti i racconti dei miei attori, il momento del debutto è il più emozionante di tutta la vita. Dietro le quinte, quando si apre il sipario, vivono lo sgomento assoluto. Solo un’organizzazione ferrea, uno spirito di gruppo formidabile, una solidarietà senza limiti, fanno sì che quello sgomento venga contenuto dentro una forma. Allora il terrore del palcoscenico può trasformarsi in un successo che dà senso a mesi e mesi di fatica. Dopo il primo debutto ci si prepara alla prossima sfida. Dovranno parlarne i compagni di cella (i non attori), gli agenti della Polizia penitenziaria, il direttore, i familiari. Dovrà parlarne la stampa. Si andrà a cercare il proprio nome sul pezzo pubblicato e se il critico avrà citato solo il compagno di scena, sarà la delusione. Esattamente come accade nel sistema dello spettacolo di fuori. Uscire dalle pagine della cronaca nera per entrare in quelle dello spettacolo è una trasformazione radicale della percezione di sé. La “setta dei carcerati” si è trasformata nella “setta dei teatranti”. Da qualche anno all’interno del Rebibbia Festival si svolge “Il cabaret dei somari”. Ci racconta il progetto? Ho girato alcuni film a Rebibbia negli ultimi anni. Una volta un produttore mi disse: “In questa scena si ride, meglio evitare, siamo in carcere…”. Dopo qualche discussione, quella scena che faceva sorridere lo spettatore venne tagliata. In seguito, parlando del problema del tabù della risata con i miei detenuti-attori, decidemmo di rischiare il tutto per tutto: fare il Cabaret a Rebibbia. Diciamo che ci siamo presi una pausa dalla narrazione del dolore. Un’orchestra, canzoni, scene comiche. È andata bene: 1.500 spettatori, sempre tutto esaurito. E l’anno prossimo rilanciamo con Arlecchino servitore di due Padr(i)ni, ispirato a Carlo Goldoni. Ma prima, il 23 dicembre 2023, saremo al Teatro Argentina di Roma con uno spettacolo in trasferta da Rebibbia: La Formula di Grübler, scritto e diretto da Laura Andreini, presidente del Centro Studi “Enrico Maria Salerno” che cura i progetti in carcere. È cambiato qualcosa dall’inizio delle sue attività nelle carceri ad oggi? Vent’anni fa era impensabile l’idea di portare 25 attori-detenuti nel più importante teatro romano per una serata istituzionale ma anche popolare. Eppure, dopo il successo di Cesare deve morire, siamo riusciti a farlo. Poi è arrivato il Covid. Ora si ricomincia, e mi pare di vedere che le Istituzioni ci sostengono. La Polizia penitenziaria ci sostiene. Avanti così. “Il fragile equilibrio del carcere” di Beba Marsano Corriere della Sera, 2 ottobre 2023 Dione Roach (Firenze, 1989), artista multidisciplinare italo-australiana con studi alla University of East London di Londra, vincitrice Senior del Premio Terna 2023, in Camerun ha trascorso un anno intero al seguito di una Ong. Africa equatoriale, Camerun, città di Douala. La capitale economica e commerciale del Paese sul golfo di Guinea, dove ci sono musei, gallerie, poli culturali, centri espositivi, residenze d’artista. E dove c’è un carcere che, in uno spazio per 700 detenuti, ne stipa qualcosa tra i 4 mila e i 6 mila. Un inferno di corpi in condizioni igienico-sanitarie da orrore. In questo immondezzaio non si sopravvive senza sogni. E uno è comune a tutti: la libertà. Dione Roach (Firenze, 1989), artista multidisciplinare italo-australiana con studi alla University of East London di Londra, vincitrice Senior del Premio Terna 2023, in Camerun ha trascorso un anno intero al seguito di una Ong. E nella prigione centrale di Douala ha lavorato. Lì dentro, nel 2018, è riuscita a creare Jail Time Records, il primo studio di registrazione all’interno di una galera africana, diventato etichetta discografica e marchio di produzione audiovisiva. Lì ha scovato e promosso talenti. Intanto faceva domande. “Un giorno ho chiesto a un gruppo di carcerati dove avrebbero voluto essere in quel preciso momento se fossero stati liberi. Ho raccolto le loro risposte, le ho tradotte in sfondi dipinti e, come nei vecchi studi fotografici, ho ritratto ciascuno davanti al luogo del proprio desiderio”. L’opera vincente, Bokassa (soprannome del protagonista), fa parte di questo progetto. Bokassa (“non ho mai saputo il suo nome”), che ha 39 anni ed è dietro le sbarre da nove per traffico di stupefacenti, ha detto: “in discoteca”. Legittimo. Quest’uomo asciutto, una sottile linea di baffi, lo sguardo fiero solcato di malinconia, possiede un senso del ritmo straordinario. Balla. Ma ha un problema: è senza gambe, amputate in seguito a un incidente parecchio tempo fa. “Non ha protesi, non ha sedia a rotelle; per spostarsi deve essere portato in spalla da chi trova disponibile”. E lo scatto di Dione ce lo presenta così, in groppa a un compagno. Bokassa, sguardo in camera, canotta gialla, un paio di tatuaggi sbiaditi sul braccio destro, volge le spalle alla tela che raffigura una grande sala azzurra con colonne, balaustre, luci al neon e qualche quadro; è vuota, sembrerebbe aspettarlo. Bokassa dovrebbe uscire l’anno prossimo. L’equilibrio (il tema di questa edizione) “può assumere vesti inaspettate, eppure capaci di comunicarsi con forza”, motiva la giuria, che ha riconosciuto a Dione Roach la capacità di avere interpretato l’assunto del Premio “con coraggio, unendo narrazione del presente, storia individuale e vicende collettive”. “In questo lavoro - dice l’artista - c’è una duplice idea di equilibrio. Quella di stabilità provvisoria data dalla solidarietà nella contingenza e quella di una misura interiore, risultato della combinazione di immaginazione, speranza, desiderio, che permette a questi esseri umani di rispondere con la vita alla disperazione”. Migranti. Salvini, il pizzo di Stato e la soglia dell’umanità di Luigi Manconi La Stampa, 2 ottobre 2023 Interrogato sulla possibilità dei richiedenti asilo di versare 5.000 euro per evitare l’internamento in un centro di detenzione, Matteo Salvini ha risposto così: “Hanno scarpe, telefonino e orologino”. Come a dire: possono ben permettersi di pagare quella ingente somma come cauzione per la loro libertà. È lo stesso Salvini che, qualche tempo fa, aveva definito “croceristi” i naufraghi soccorsi in mare. Nel mentre, l’Italia conduce un’aspra controversia con il governo tedesco, accusato di finanziare le Ong; e irride la nitida spiegazione fornita dalla ministra dell’Interno tedesca Nancy Faeser: “Sono volontari che salvano vite umane”. Si deve registrare, con ciò, l’irruzione della malvagità in politica? E, se fosse così, saremmo davanti a una svolta? Intanto va detto che una politica migratoria equa ed efficace dovrebbe affidarsi, in primo luogo, ai principi dell’utilitarismo, ovvero alla reciprocità degli interessi di tutti i soggetti coinvolti: autoctoni e nuovi arrivati. Infatti, l’immigrazione nei Paesi occidentali discende da cause economiche, finanziarie, demografiche, sociali, ambientali e militari: e richiede dunque strategie fondate su politiche lungimiranti, capaci di accogliere e non di respingere, di includere e non di segregare, di ampliare il sistema di cittadinanza e non di restringerlo. A partire dal presupposto, scientificamente fondato, che i grandi flussi migratori possono contribuire allo sviluppo dei sistemi sociali e alla crescita della ricchezza delle nazioni. Pertanto, la politica migratoria deve basarsi sulla faticosa impresa di conciliare l’interesse degli Stati e quello degli individui nel quadro del diritto internazionale e dei valori universali. Ma quando le politiche utilitaristiche non funzionano o tardano a funzionare il discorso umanitario mostra la sua fragilità. E diventa bersaglio di una politica che si presenta come pragmatica, insofferente verso i principi, ridotti a mera retorica, e ostile nei confronti di emozioni e sentimenti. Ma siamo sicuri che quello in corso sia un conflitto tra “cattivisti” e “buonisti”? Penso proprio di no: ritengo piuttosto che stia emergendo una vera e propria ideologia anti-universalistica e anti-umanistica. Facciamo un passo indietro, fino alla riunione del Consiglio dei Ministri, tenutasi a Cutro pochi giorni dopo il naufragio della notte fra il 25 e il 26 febbraio scorso, e alla conferenza stampa della presidente del Consiglio Giorgia Meloni. A chi le chiedeva perché non avesse incontrato i famigliari dei naufraghi, Meloni rispondeva: “Oggi ho finito adesso, dopodiché io… ci vado volentieri”. E non ci andò. Quel giorno, l’intero evento governativo ignorò accuratamente i corpi dei morti, lo strazio delle bare bianche dei bambini, il dolore dei parenti. Non vi fu alcun elemento di religiosità ispirata a una confessione o al culto dei morti, nessuna cerimonia funebre, nessun rito civile e nessuna coscienza pubblica della tragedia. Piuttosto, una politica totalmente secolarizzata che parlava solo attraverso provvedimenti di natura prevalentemente repressiva. E, soprattutto, nessun riferimento al sacro, come dovrebbe esser proprio di ogni circostanza che richiama la morte di esseri umani. Ecco, questo mi sembra il dato cruciale: la diffusione, specie all’interno della cultura di destra, di una sorta di neo-nichilismo, che riduce tutto alle dimensioni della politica e che riduce la politica alle dimensioni dell’interesse più prossimo, circoscritto, contingente. Ma l’immigrazione non può essere piegata a tali anguste misure e, dunque, alle conseguenti decisioni di governo: respingimenti, espulsioni, detenzione. Di conseguenza, l’evento governativo di Cutro è risultato un fatto irreligioso e sconsacrato proprio perché totalmente incapace di considerare il fattore umano e la sua radice più profonda. Ciò che in Occidente, nell’età contemporanea, chiamiamo sacro rimanda all’idea di persona che lo sviluppo della civiltà ha elaborato e che si fonda sul concetto di dignità. È tale concetto a costituire il tratto unico e irripetibile dell’individuo e a rappresentare il valore essenziale delle relazioni umane e il fondamento stesso del legame sociale. È esattamente questo che fa della vita di ogni persona un bene intangibile e della sua morte un evento di crisi. E una lacerazione non rimarginabile. È esattamente questo che rende concreto, concretissimo, l’antico ammonimento: la morte di un solo individuo rappresenta la perdita dell’intera umanità. L’irreligiosità di quella iniziativa del Governo a Cutro, l’assenza di ogni elemento di sacralità, il mancato tributo ai defunti e l’indifferenza verso i sopravvissuti sono altrettante spie di quell’atteggiamento mentale: i migranti non hanno la dignità di persone o comunque non hanno una dignità pari alla nostra. Vengono degradati, cioè, a cose: “scarpe, telefonino e orologino”. Sono un allarme sociale e un’emergenza criminale, una minaccia e una invasione, un fattore di disordine e una insidia. La loro qualità di esseri umani titolari di una irriducibile dignità - e per questo, come si diceva, sacri - viene cancellata. Eppure, una diversa e più degna e rispettosa considerazione dei migranti sarebbe compatibile anche con una politica migratoria conservatrice. Perché aggiungervi, dunque, questo elemento di malvagità? E tanto ostentato sprezzo? Perché, credo, è congeniale a una operazione culturale e ideologica che mira ad abbassare il livello di senso morale della società italiana. Se di questo si tratta, la posta in gioco è davvero alta. Migranti. Meloni: “Basita per la sentenza di Catania, è contro il governo. Un pezzo di Italia lavora per l’illegalità” di Cesare Zapperi Corriere della Sera, 2 ottobre 2023 La presidente del Consiglio su Facebook si scaglia contro il giudice che ha rimesso in libertà un immigrato. “Un pezzo di Italia fa tutto il possibile per favorire l’immigrazione illegale”. Giorgia Meloni contesta la sentenza del giudice di Catania che ha rimesso in libertà un immigrato fermato in base alle norme dell’ultimo decreto varato dal governo. Su Facebook scrive: “Sono rimasta basita di fronte alla sentenza del giudice di Catania, che con motivazioni incredibili (“le caratteristiche fisiche del migrante, che i cercatori d’oro in Tunisia considerano favorevoli allo svolgimento della loro attività”) rimette in libertà un immigrato illegale, già destinatario di un provvedimento di espulsione, dichiarando unilateralmente la Tunisia Paese non sicuro (compito che non spetta alla magistratura) e scagliandosi contro i provvedimenti di un governo democraticamente eletto”. L’attacco della presidente del Consiglio è diretto. “Non è la prima volta che accade e purtroppo non sarà l’ultima. Ma continueremo a fare quello che va fatto per difendere la legalità e i confini dello Stato italiano. Senza paura”. Sono parole forti che evocano uno scontro aperto tra il governo e la magistratura. Parole che seguono quelle di tanti altri esponenti dell’esecutivo che a caldo avevano commentato la decisione della toga catanese con toni forti. Ma Meloni non se la prende solo con il magistrato siciliano. Il fronte delle contestazioni è più ampio e chiama in causa anche i paesi europei (a partire dalla Germania con cui da giorni è scontro aperto). Parlando della gestione dei flussi migratori, la premier sottolinea che si tratta di “un lavoro difficile, certo, ma che può portare a risultati concreti, con pazienza e determinazione”. E poi affonda i colpi: “Certo, tutto diventa molto più difficile se nel frattempo altri Stati lavorano nella direzione diametralmente opposta, e se perfino un pezzo di Italia fa tutto il possibile per favorire l’immigrazione illegale. E non parlo solo della sinistra ideologizzata e del circuito che ha i propri ricchi interessi nell’accoglienza”. Migranti. La promessa di Nordio: “Guerra globale ai trafficanti di uomini” di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 2 ottobre 2023 Il ministro a Palermo per i 20 anni della Convenzione Onu contro il crimine: “Dobbiamo ingaggiare una guerra totale e globale senza sconti ai trafficanti di esseri umani. L’impennata degli sbarchi deve imporre una riflessione seria”. Dall’Aula bunker dell’Ucciardone, dove è in corso la cerimonia dei vent’anni della Convenzione Onu contro il crimine organizzato, il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha parla di immigrazione. “C’è l’esigenza di una risposta unitaria per fronteggiare l’emergenza che riguarda il traffico dei migranti. Io vorrei lanciare oggi una proposta per avviare una ‘ cooperazione rafforzata’ con gli Stati che intendono irrobustire la cooperazione giudiziaria fra di loro, al fine di combattere il traffico di migranti e la tratta di essere umani”, ha proseguito Nordio, annunciando la firma di due trattati con i ministri della Giustizia di Algeria e Libia. Nel biennio 2021- 2022, per reati legati alla tratta di esseri umani sono stati iscritti nuovi 166 procedimenti con 468 indagati. Per il reato di associazione a delinquere finalizzata al traffico di migranti, sono stati iscritti 26 nuovi procedimenti con 92 indagati. “Serve intensificare le attività di indagine sulle rotte del Mediterraneo anche attraverso scambi di investigatori, ampliare la rete degli esperti nazionali per l’immigrazione e la sicurezza in tutti i Continenti, potenziare la cooperazione tecnica sotto il profilo dell’attività formativa con progetti didattici mirati alla prevenzione e al contrasto del crimine organizzato, attivare degli appositi strumenti per finanziare le squadre investigative comuni”, ha affermato poi il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi. “L’Ufficio delle Nazioni unite contro la drogae il crimine (Unodc) stima che a livello globale il business del traffico migranti generi affari per 6- 7 miliardi di euro ogni anno”, ha continuato Piantedosi, ricordando che “vanno aggiunti i proventi ottenuti dal successivo sfruttamento delle vittime con il racket della prostituzione, del lavoro nero e dell’accattonaggio”. Per molti migranti, dunque, il rapporto con il trafficante non si esaurisce con l’ingresso illegale nel territorio europeo, ma prosegue con la presa in consegna delle vittime da parte di organizzazioni criminali. “Sul traffico dei migranti, l’intensificazione degli sforzi deve farci collaborare ancora di più per distruggere i mezzi di fortuna che vengono utilizzati nei viaggi della disperazione, a cominciare dai “barchini”, per individuare i luoghi dove vengono costruiti e i fornitori dei materiali”, è stato il commento del sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano. “Spiace il riacutizzarsi delle polemiche sul ruolo delle Ong. Credo che non debbano esserci polemiche ma l’oggettiva rappresentazione di quello che accade. Le indagini giudiziarie devono accertare se e quali complicità ci siano nei vari atti del percorso”, ha detto Mantovano. Droghe. A Palermo è emergenza crack: dosi a 5 euro vendute anche a ragazzini di 12 anni di Alessia Rotolo Il Fatto Quotidiano, 2 ottobre 2023 Giulio Zavatteri era un ragazzo di Palermo, un adolescente con la passione per il disegno e il rap che frequentava il liceo classico. Era il 15 settembre del 2022 quando suo padre, Francesco, lo ha trovato raggomitolato accanto al letto: ucciso a 19 anni da un’overdose di crack. “Chiamavo Giulio, Giulio…ma lui non rispondeva”, racconterà il genitore. Giulio è solo una delle vittime che si moltiplicano ogni giorno nel capoluogo siciliano, dove negli ultimi anni il crack si è imposto sul mercato delle droghe. “La situazione è fuori controllo, coinvolge ragazzi sempre più giovani. Il crack è una sostanza di cui conosciamo pochissimo, che viene assunta sempre insieme ad altre, soprattutto oppiacei. E a mancare è un adeguato sistema di prevenzione, che senza una legge quadro regionale è impossibile da sostenere”, racconta Francesco Montagnani di Sos Ballarò. “Sta sostituendo marijuana e hashish” - Venduto anche a dosi da cinque euro nei vicoli attorno allo storico quartiere di Ballarò, a Palermo il crack sta sostituendo lentamente il consumo di marijuana e hashish. E infatti girando per il centro storico è sempre più facile imbattersi in ragazzi, spesso giovanissimi, che ne fanno uso. Le associazioni del quartiere, riunite dall’assemblea pubblica Sos Ballarò, denunciano da tempo quello che accade nel rione: grazie a una sinergia col comune e con l’Asp già nel 2017 è stata attivata un’unità mobile, un camper, per fare prevenzione e informazione. Parallelamente è nato il primo gruppo di aiuto composto da ex consumatori: si chiama Awakening, cioè “risveglio” ed è attivo una volta a settimana al circolo Arci Porco Rosso. Il problema è che con l’esplosione della pandemia l’unità mobile si è fermata e il consumo di crack è cresciuto violentemente in tutta la città. Con effetti devastanti. Si è abbassata l’età media di chi si fa- Il craving da crack, infatti, è una delle più tremende crisi d’astinenza: il bisogno di assumere la sostanza diventa impellente, incontrastabile, tanto da influenzare ogni singolo attimo e aspetto della vita. Chi si trova in questa situazione ha la tachicardia, le mani che sudano, il corpo preso da tremori e vertigini. Si sente angosciato e irrequieto, è in balia dell’ansia, non riesce a dormire. È questa la nuova pandemia che si sta diffondendo silenziosamente a Palermo: il consumo di crack è esploso e parallelamente sono aumentati pure i casi di microcriminalità. Furti e scippi per comprarsi una dose. Ragazzi sempre più giovani, dato che nel frattempo l’età dei consumatori si è abbassata: nel 2017 le stime dell’Asp raccontavano di giovani tossici che cominciavano a farsi tra i 16 e 26 anni. Una forbice che oggi, secondo le associazioni, è diminuita addirittura fino ai 12 anni: a Palermo a farsi di crack stanno cominciando anche i ragazzini delle medie. In netto aumento anche il numero effettivo di consumatori, anche se i dati ufficiali - basati sui numeri di chi accede al Servizio per le Dipendenze patologiche - sono molto inferiori a quelli reali: la maggior parte di chi si fa di crack, infatti, vive nascosto tra case abbandonate e vicoli bui. “Lo spaccio ormai è h24. Ho visto persone di ogni età e di ogni estrazione sociale, prima erano soprattutto italiani adesso anche stranieri”, racconta un quarantenne che abita Ballarò. “La settimana scorsa - aggiunge - mi veniva da piangere a vedere una ragazza incinta completamente fatta. Di notte c’è chi si prostituisce in cambio di dosi: il crack li mostrifica in pochissimo tempo, diventano degli zombie”. L’obiettivo: fare approvare una legge - Dopo la fine della pandemia Sos Ballarò ha cercato di far ripartire il contrasto allo spaccio e all’uso di crack, coinvolgendo anche l’Università di Palermo. È proprio grazie ad alcuni docenti che si sta battendo una strada fondamentale: quella dell’istituzione di una rete regionale di contrasto alle dipendenze. L’obiettivo è quello di colmare un vuoto normativo. “In Sicilia, manca una legge quadro sulle dipendenze patologiche e non c’è nemmeno un’articolazione normativa regionale dei Livelli essenziali d’assistenza (Lea) in materia di dipendenze”, dice Clelia Bartoli, docente del corso di Deontologia, sociologia e critica del diritto all’Università di Palermo che, insieme a un gruppo di studenti. ha coordinato il lavoro di redazione partecipativa di una proposta normativa. “Dalla dipendenza all’interdipendenza” è il titolo del disegno di legge popolare che prevede la creazione di un sistema integrato e diffuso di prevenzione, trattamento, riduzione del danno e inclusione sociale in materia di dipendenze patologiche: l’obiettivo è farlo approvare dall’Assemblea regionale siciliana entro la fine dell’anno. La mancanza di una norma sulle dipendenze patologiche, infatti, si è tradotta finora in una profonda carenza di fondi, personale e servizi. Basti pensare che a Palermo il personale medico dei Serd (il Servizio per le Dipendenze patologiche) è composto solo da cinque persone a fronte di un’utenza di circa 2000 pazienti. Numeri che richiederebbero l’impiego di almeno cento medici, secondo le proporzioni stabilite dalla legge. Non va meglio nel resto della Regione: a Catania gli operatori sono addirittura diminuiti. Oggi sono solo un quarto rispetto a quelli attivi vent’anni fa, quando l’emergenza era rappresentata dall’eroina. Riconoscere i diritti e la dignità degli animali è stato un grande passo per la nostra umanità di Claudia Ricci* Il Dubbio, 2 ottobre 2023 Secondo la legge e la Carta devono essere considerati “esseri senzienti”, capaci di provare dolore ma anche felicità e paura. Cresce anche nelle aule di giustizia la tutela dei diritti degli animali. Da solo, l’Ente Nazionale Protezione Animali presenta in media una denuncia al giorno. E emerge con sempre maggiore chiarezza il collegamento tra la violenza verso gli animali e quella verso le persone. La tutela degli animali nasce da istanze sociali che hanno portato all’attenzione del legislatore il sentimento che si nutre verso, appunto, gli animali. Con la Legge 189, nel 2004 è stato inserito, nel codice penale, un intero Titolo, il IX bis, che con specifiche norme tutela il “sentimento per gli animali”. In una visione antropocentrica, ogni volta che si verificava il maltrattamento o l’uccisone di un animale, si parametrava il reato sulla condotta dell’autore del fatto illecito a danno della bestiola, senza necessità o per crudeltà. L’inflizione della sofferenza, insomma, era collegata al sentimento di pietà e compassione provato per gli animali. Negli ultimi undici anni, grazie a due fattori di sviluppo delle conoscenze - scientifiche, da un lato, e giuridiche dall’altro - si è giunti a prendere in considerazione la sofferenza “degli animali” e non solo fisica, ma anche etologica. La scienza naturale e l’etologia hanno sempre più riportato a un dato oggettivo la sofferenza degli animali legata al loro sistema neurologico e comportamentale (come per gli esseri umani) che, portate dall’Enpa nelle sedi giudiziarie e nelle interlocuzioni con le amministrazioni locali, hanno fornito gli elementi che hanno condotto i tribunali, in un crescendo di sentenze (fino alla Cassazione) che gli animali sono “esseri senzienti”, capaci di provare dolore ma anche felicità, paura e emozioni. Enpa, su segnalazione di cittadini, grazie a azioni di concertazione con le amministrazioni locali, a protocolli d’intesa con le forze dell’ordine per il rispetto della legalità, ha attivato dunque ogni azione legale possibile per la tutela del degli animali, non semplicemente finalizzata al loro benessere. Questa evoluzione, tuttora in corso, ha avuto la sua maggiore espressione lo scorso anno, con l’approvazione del nuovo comma dell’art. 9 della Costituzione. Ora la Repubblica tutela costituzionalmente l’ambiente, la biodiversità e “disciplina i modi e le forme di tutela degli animali”. Con le sue azioni legali, Enpa tutela gli animali, che sono in sé indifesi, non in grado di difendersi da soli dalla crudeltà altrui, oggetto spesso di saccheggio, di vendita in nero, di deportazione per sperimentazioni (vietate o non vietate). E tutela l’ambiente, il complesso ecosistema in cui abitano animali ed esseri umani. L’elemento oggettivo, ormai incontestabile che Enpa porta all’attenzione delle Procure della Repubblica e poi nei Tribunali, è l’essenza stesa dell’animale che da “cosa” è ormai inconfutabilmente considerato un “chi” e che l’uomo ha l’onere di attuare ogni azione preventiva e repressiva dei comportamenti lesivi del patrimonio animale e ambientale. Gli animali, essendo esseri senzienti, hanno sviluppato una capacità di assimilare le abitudini umane e di affiancare l’uomo, dimostrando supporto affettivo, fedeltà e gratitudine per ogni attenzione, fino ad essere fondamentali negli ospedali nella pet therapy e nei percorsi di sostegno ai disabili, agli anziani, ai bambini. A ciò si aggiunga la capacità degli animali di affiancare l’uomo in ambiti istituzionali di spicco: i cani dei corpi militari speciali, antidroga, di salvataggio marino, di ricerca di persone scomparse, di accompagnamento per strada dei non vedenti. Enpa, dunque, è portatore di questo valore oggettivo che deve dunque avere una tutela in sé, ontologica e in aggiunta alla tutela del sentimento di compassione e amore che l’uomo prova per essi. Di tale tutela diretta, Enpa si fa promotrice e tramite, affrontando le diverse questioni legali legate al mondo animale che, nelle centinaia e centinaia di processi affrontati in Italia - principalmente in sede penale - ha fatto emergere una sorta di “geografia dei reati” e “temi di reato” a danno degli animali. Nei territori dove è maggiormente presente la fauna selvatica, ad esempio, si riscontrano violazioni venatorie (bracconaggio, caccia in aree protette, furto di animali a scopi commerciali) mentre in aree dove non è ben gestito il randagismo, si registrano gravi reazioni di intolleranza verso gli animali vaganti (avvelenamento, sevizie). Preoccupante il traffico illegale di animali da compagnia che si realizza in particolari snodi stradali. Anche le espressioni di disagio sociale (o l’interesse economico) sfociano spesso in reati a danno di animali: minori che non distinguono la realtà dalla finzione e maltrattano o uccidono animali allo scopo di acquisire notorietà sui social pubblicandone i filmati; canili/gattili lager finalizzati a lucrare sulla gestione degli animali; allevamenti che non rispettano le norme per il benessere degli animali per ottenere un risparmio sui costi di mantenimento. E poi l’annosa questione delle presunte tradizioni: Comuni che consentono lo svolgersi di manifestazioni folkloristiche dove gli animali, utilizzati come se fossero oggetti, sono sottoposti a sofferenze indicibili e diventano oggetto di ludibrio generale. Insieme alla associazione “Link-Italia” presieduta da Francesca Sorcinelli, Enpa da diversi anni evidenzia come vi sia un collegamento (link, appunto) tra la violenza sugli animali e la violenza sulle persone: sono, purtroppo, sempre più numerosi i casi in cui uomini, nell’esercitare violenza sulle proprie compagne, le ricattano minacciando di fare del male ai loro animali; oppure, casi in cui persone hanno commesso omicidi dopo aver fatto “palestra”, con atroci crudeltà, sugli animali. Anche in questo ambito, vi sono processi dai quali emerge la stretta correlazione tra violenze. Ecco perché Enpa non sottovaluta nessun comportamento a danno di animali: c’è il rischio di una escalation verso la violenza a danno delle persone (spesso le fasce deboli: donne, bambini, anziani, disabili, etnie diverse). Ad oggi Enpa ha una media di 365 denunce all’anno (una al giorno) che spesso si concludono con sentenze esemplari che fanno giurisprudenza e segnano la linea e il passo dell’evoluzione uomo-animale. Dotato di intelligenza sviluppata dallo studio e dall’evoluzione sociale, l’uomo (ma anche le Istituzioni, portatrici di interessi sociali) dovrebbe valorizzare il patrimonio faunistico, apprezzandolo e proteggendolo, o, quanto meno, restandone distante con un atteggiamento neutro privo di risvolti illeciti. Vanno contemperati tutti gli interessi (umani, animali, ambientali) in questo grande condominio che è il nostro pianeta. *Avvocata - Responsabile Ufficio legale dell’Enpa - Ente nazionale Protezione animali Stati Uniti. Il caso di Kenneth Smith, che in Alabama rischia l’esecuzione con ipossia da azoto di Thomas Brambilla Il Fatto Quotidiano, 2 ottobre 2023 Sant’Egidio lancia un appello alla governatrice. “Sono terrorizzato, mi state ammazzando due volte”. Sono le parole disperate di Kenneth Smith, cittadino statunitense condannato a morte dallo stato dell’Alabama per omicidio, che ora rischia di andare incontro ad un’esecuzione tramite ipossia da azoto, una pratica in cui l’ossigeno dell’aria viene sostituito dall’azoto provocando la morte del condannato per soffocamento accompagnata da sintomi atroci come iperventilazione e fame d’aria. Per questo la comunità di Sant’Egidio ha lanciato un appello rivolto alla governatrice dell’Alabama Kay Ivey, per chiedere di sospendere subito l’esecuzione che potrebbe essere imminente. La governatrice, repubblicana e in carica nel suo ruolo dall’aprile del 2017, ha infatti le facoltà di sospensione e commutazione della sentenza di condanna a morte. “Dopo alcuni decenni in cui la pena di morte è stata messa largamente in discussione e il numero di esecuzioni è sensibilmente calato, soprattutto durante gli anni della pandemia, ora, in alcuni stati degli Usa, stiamo assistendo ad una sorta di riabilitazione ideologica delle esecuzioni in nome del tornaconto politico ed elettorale di alcuni governanti ed esponenti di partito” dichiara Carlo Santoro della comunità di Sant’Egidio. “Il tutto - prosegue Santoro - avviene sulla pelle degli ultimi, di poveracci come il condannato in questione che, dopo aver già subito quattro tentativi andati male, rischia un vero e proprio accanimento contro ogni prassi con l’utilizzo di un metodo che è di fatto una camera gas mascherata, qualcosa di estremamente disumano”. Kenneth Smith, nato nel 1965, è detenuto da 34 anni nel braccio della morte a causa di una condanna per l’omicidio su commissione, risalente al 1988, di Elizabeth Dorlene Sennett. Secondo l’accusa, l’uomo, che agì assieme ad un complice, ricevette mille euro dal marito della vittima, il predicatore Charles Senneth, affinché uccidesse sua moglie. Nel corso degli anni poi, il mandante dell’omicidio si suicidò, il complice fu giustiziato nel 2010 e ora potrebbe essere la volta di Smith. Al termine del processo che lo riguardava infatti, i giurati votarono 11 a 1 per l’ergastolo senza condizionale, ma il giudice, utilizzando una norma abolita nel 2017 e non più in vigore, scavalcò il voto della giuria e decise che Smith sarebbe stato condannato a morte. La data della sua esecuzione era già stata fissata per il 17 novembre del 2022 e in quell’occasione l’uomo, solo al fine di ottenere una sospensione dell’esecuzione, avanzò la richiesta di essere ucciso con l’ipossia da azoto, ma la Corte Suprema la rigettò e consentì all’Alabama di procedere con l’iniezione letale. Nel momento dell’esecuzione però, ci fu un’interruzione dovuta alle difficoltà, riscontrate dai funzionari del carcere in quattro differenti tentativi, nell’inserimento in vena dell’ago per l’iniezione dei farmaci legali, un imprevisto che, con il passare dell’età, non è così raro per diversi condannati a morte. A quel punto, il commissario delle carceri John Q. Hamm dichiarò che l’esecuzione dell’uomo si era interrotta alle 23:21, ovvero prima della mezzanotte, quando sarebbe scaduta la validità del mandato. In quell’occasione il commissario annunciò anche che le iniezioni letali sarebbero state momentaneamente sospese per condurre una revisione interna delle procedure pratiche. Nel maggio del 2023 poi, la Corte suprema ha stabilito che l’esecuzione di Smith si sarebbe potuta svolgere utilizzando l’ipossia da azoto e ad agosto il procuratore generale dello stato ha avanzato la richiesta per la fissazione della data. L’esecuzione mediante l’uso di azoto è stata approvata come metodo solamente in tre stati: Alabama, Mississippi e Oklahoma. Il suo utilizzo è stato sdoganato a partire dal 2015 quando, a causa del boicottaggio da parte delle società farmaceutiche internazionali, vi era una diffusa difficoltà nel reperire farmaci letali per le iniezioni. L’uso di azoto per una condanna a morte rimane in ogni caso un metodo di uccisione estremamente brutale, escluso anche in ambito veterinario nell’abbattimento di animali poiché molto doloroso. Il suo impiego sull’uomo consisterebbe inoltre, come fa notare l’appello, in una sperimentazione umana, una pratica vietata dal punto di vista etico. Anche un report sull’uso di azoto nelle esecuzioni, pubblicato recentemente dall’Alabama, rivela, secondo molti osservatori, che lo Stato non è in grado di conoscere a quali sofferenze vada incontro il condannato e come tale pratica sia inoltre in contrasto con l’ottavo emendamento della Costituzione. “A discapito di quello che accade in alcuni stati però - prosegue Santoro - la sensibilità nei confronti della pena di morte negli Stati Uniti sta cambiando molto negli ultimi anni e si sta sviluppando una concreta tendenza alla sua abolizione, un segnale senza dubbio positivo. Questo orientamento proviene anche e soprattutto da parte della Chiesa statunitense, che oggi non ammette più casi in cui siano tollerate le esecuzioni e sta facendo anche diverse pressioni sull’amministrazione presidenziale affinché siano sospese le condanne a morte federali, tornate fortemente in auge con l’era Trump”. Clicca qui per firmare l’appello: https://nodeathpenalty.santegidio.org/appelli/appello-urgente-al-governatore-dellalabama-per-la-vita-di-kenneth-smith/ Scarcerato il ricercatore Italo-palestinese detenuto in Israele ma non può lasciare il Paese di Antonio Palma fanpage.it, 2 ottobre 2023 Le autorità israeliane hanno imposto a Khaled El Qaisi la consegna del passaporto che sarà sequestrato per almeno una settimana. L’uomo “non può muoversi dai Territori” e “non ho certezze su un prossimo rientro” ha spiegato la moglie. È stato scarcerato Khaled El Qaisi, il giovane ricercatore italo-palestinese che era detenuto in Israele dall’agosto scorso. La decisione è arrivata nel corso dell’udienza sul suo caso davanti a un tribunale di Rishon le Tzion, nell’area metropolitana di Tel Aviv. A darne notizia i familiari e le associazioni che da settimane stanno seguendo il suo caso. Per Khaled El Qaisi però non si tratta di una libertà completa. I giudici, infatt,i hanno acconsentito alla scarcerazione del ricercatore dell’Università La Sapienza ma solo a determinate condizioni tra cui quella di rimanere a disposizione dell’autorità giudiziaria israeliana senza allontanarsi dal Paese. Le autorità israeliane gli hanno imposto la consegna del passaporto che sarà sequestrato per almeno una settimana. “Deve restare a disposizione delle autorità alle quali ha dovuto consegnare il passaporto. Le indagini continuano e non sappiamo a cosa porteranno, ma speriamo che Khaled possa rientrare al più presto in Italia” spiegano da Amnesty Italia, confermando che al momento ancora non sono chiari i motivi dell’arresto. La notizia della scarcerazione di Khaled El Qaisi è stata confermata dalla moglie Francesca Antinucci, spiegando che l’uomo andrà a Betlemme dove soggiornerà per i prossimi sette giorni. El Qaisi non è costretto a restare a casa e può muoversi ma sempre rispettando le condizioni imposte dal Tribunale israeliano. “Per una settimana non può muoversi dai Territori” ha spiegato la moglie, rivelando che nessuno dei familiari è riuscito a parlargli direttamente. “Sono sollevata ma al momento non ho certezze su un prossimo rientro di Khaled in Italia, restiamo in allerta. Nessuno di noi è ancora riuscito a parlare con lui” ha affermato la moglie del ricercatore italo-palestinese, aggiungendo: “Per ora posso dire solo che non si tratta di domiciliari ma che fino all’8 ottobre c’è divieto di espatrio e obbligo di restare a disposizione delle autorità giudiziarie”. El Qaisi era stato fermato e arrestato dalle autorità israeliane lo scorso 31 agosto mentre rientrava con moglie e figlio di 4 anni da una vacanza in Palestina, a Betlemme, trascorsa con i parenti paterni. Al giovane, durante la detenzione, è stato impedito di parlare con i familiari e con i propri legali e anche le autorità italiane non hanno capito le ragioni della detenzione. Non è stata formalizzata alcuna accusa ma le indagini sul suo conto proseguono e, secondo il Tribunale israeliano, finché non si concluderanno non potrà lasciare il Paese.