Mattarella: “Meno prigione!” di Piero Sansonetti L’Unità, 29 ottobre 2023 “Luigi Daga si impegnò per restringere la carcerazione ai delitti gravi, per offrire l’opportunità di reinserimento sociale dei detenuti attraverso il più ampio ricorso alle misure alternative alla detenzione”. Non è una dichiarazione di Rita Bernardini ma è una solenne presa di posizione del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Luigi Daga era un magistrato che svolse ruoli importanti nell’amministrazione della giustizia alla fine del secolo scorso. Fu ucciso in Egitto in un agguato terroristico. Ieri cadeva il trentesimo anniversario della morte e Mattarella ha colto l’occasione per pronunciare un breve discorso in netta controtendenza rispetto al senso comune e soprattutto agli empiti giustizialisti del mondo politico, e in particolare della maggioranza. Proprio l’altra sera la maggioranza di centrodestra aveva deciso di modificare le norme sulla droga abolendo l’attenuante che prevede la lieve entità. La destra vuole instaurare un nuovo regime nel quale il ragazzetto del liceo che compra o vende qualche spinello viene trattato come un trafficante. Difficile immaginare che Mattarella non sia intervenuto anche per provare a fermare questo nuovo eccesso “manettaro”, che peraltro era stato anticipato, poche settimane fa, da una proposta di legge analoga presentata da un parlamentare del Pd. Questo giornale - lo sapete - spesso critica Mattarella. Oggi può solo dire: per fortuna che Mattarella c’è! Io, Simona. La galera, la malattia. Due prigioni, una sola storia di Claudio Bottan* L’Unità, 29 ottobre 2023 “Ma chi te lo fa fare?” È questa una delle domande che spesso mi sento rivolgere durante gli incontri con gli studenti. Effettivamente, dopo sei anni di carcere trascorsi in nove istituti diversi e altri tre scontati in misura alternativa per reati fallimentari, sarebbe comprensibile non volerne più sapere, girare pagina e staccare la mente da un vissuto che fa male. Raccontare, parlarne e confrontarsi mettendo a disposizione la propria esperienza è anche un modo per vincere la “carcerite”. Per farlo non bastavano più le scuole, sentivo che mancava una tessera per ricomporre il puzzle di una vita fatta a pezzi e ho voluto tornare oltre le mura per raccontare una storia semplice - qualcuno dice straordinaria - ma replicabile. La prima volta alla Casa circondariale di Chieti e recentemente all’Ucciardone di Palermo: unico ex detenuto in esecuzione penale esterna a fare ritorno in carcere da “ospite” (nel senso che avevo la certezza che di lì a qualche ora sarei uscito...). Un fatto eccezionale, reso possibile dalla lungimiranza di direttori d’istituto coraggiosi e da un Magistrato di Sorveglianza che ha compreso il senso dell’iniziativa. Accanto a me c’era Simona che da tempo mi accompagna in questo viaggio oltre i limiti del pregiudizio; di fronte a noi un gruppo di persone detenute, qualcuna con “fine pena mai”, e gli studenti di due classi di un liceo di Palermo. “Esperienza forte, significativa, decisamente non banale, coinvolgente. Sono certo che ragazze e ragazzi presenti ne faranno tesoro”, ha commentato il dirigente scolastico. “Non avrei mai potuto immaginare di finire galera, ma c’è sempre una prima volta”, ha detto Simona. “Ho avuto l’opportunità di entrarci per raccontare la mia prigione, quella rappresentata dalla sclerosi multipla, la malattia che si è impadronita del mio corpo e mi ha tolto l’uso di gambe e braccia: una condanna che ha un ‘fine pena’ a breve, che però non prevede la libertà. Anche io vivo ingabbiata, ma ho la fortuna di poter portare le mie sbarre ovunque voglia. Per questo spero di essere riuscita a trasmettere un messaggio positivo alle persone detenute e agli studenti che mi hanno ascoltata”. Due prigioni, una storia. Da un lato la detenzione, dall’altro un corpo che non vuole più saperne di rispondere ai comandi. “Una handicappata e un pregiudicato” secondo l’inspiegabile bisogno di appiccicare un’etichetta a chiunque ci troviamo di fronte. Più semplicemente due persone che sono riuscite a coniugare due mondi apparentemente antitetici, quello della disabilità e quello del carcere, rafforzandosi l’un l’altra, costruendo il presente e immaginando un futuro contro barriere, ostacoli e pregiudizi. Dopo anni di carcere, quando ho potuto usufruire dell’affidamento in prova, ho iniziato a lavorare per la redazione di un settimanale; mi occupavo di sociale ed ero continuamente alla ricerca di belle storie da scrivere, poi mi sono imbattuto in quella più preziosa: Simona e la sua voglia di viaggiare che, a dispetto della malattia, l’ha portata a spingersi fino in India, Nepal e Indonesia in carrozzina. Un’intervista che dura ormai da sette anni, quello che ne è nato non è solo un articolo ma un cammino. Quindi potrei sembrare di parte quando asserisco con convinzione che leggere, studiare e scrivere durante il tempo della galera è un atto rivoluzionario, una scelta che rende liberi. Non servono “domandine” e non occorrono autorizzazioni per dare un senso alla pena. Per non sprecare il dolore ci vuole coraggio, voglia di andare oltre. E naturalmente bisogna avere la fortuna di trovare quella disponibilità all’ascolto che solo il volontariato sa offrire a chi è recluso. Il nostro bisogno di raccontarci e di condividere cercando di essere speranza ha trovato casa in “Voci di dentro”, un’associazione che nel corso degli anni ha accolto e accompagnato il percorso di un centinaio di persone in misura alternativa al carcere. Attualmente sono una ventina gli “affidati” e altre dieci persone attendono l’approvazione del proprio Magistrato di Sorveglianza per iniziare con noi un percorso fuori dalle mura della prigione. L’omonima rivista è soltanto una delle tante attività che coinvolgono volontari, persone detenute ed esperti. Una voce libera, che nel nuovo numero racconta il carcere per quello che è: “Ai confini dell’umanità”. Ecco la risposta alla domanda iniziale: se anche un solo studente, una sola tra le tante persone che incontriamo o sfogliano la nostra rivista riuscirà a comprendere l’inutilità del carcere rispetto all’efficacia delle misure alternative, allora tutto avrà un senso. *Ex detenuto, vicedirettore della rivista Voci di dentro Nordio: “Abuso d’ufficio reato evanescente”. Costa: “Riforma necessaria” di Davide Varì Il Dubbio, 29 ottobre 2023 Il ministro della Giustizia: “Quello che ci chiede l’Europa è un arsenale di repressione della corruzione ma il nostro è già l’arsenale più ricco di tutti”. “L’abuso d’ufficio è un reato evanescente, con una fattispecie estremamente vaga e generica, che tra l’altro contrasta con il principio della tassatività del reato. Ma intanto ci sono 5mila processi l’anno che poi alla fine si concludono con l’assoluzione”. Lo ha affermato il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, intervenendo alla tavola rotonda “È possibile una vera giustizia liberale?” promossa da Azione. “Processi che non solo sono inutili - ha proseguito Nordio - ma sono anche tra i più lunghi, costosi e sproporzionati che vediamo nelle aule, con sette, otto, dieci udienze. Si parla tanto di depenalizzazione, se intanto togliessimo l’abuso d’ufficio potremmo concentrarsi sulla corruzione senza disperdere energie”. “L’abuso d’ufficio è spesso collegato come reato spia della corruzione, con la quale però l’abuso d’ufficio non ha niente a che vedere - ha concluso il guardasigilli - Quello che ci chiede l’Europa è un arsenale di repressione della corruzione ma il nostro è già l’arsenale più ricco di tutti, con fattispecie penali specifiche che gli altri nemmeno conoscono”. Abuso d’ufficio, parla anche Costa - “Noi siamo convinti che lo Stato debba garantire mezzi, risorse e personale perché i reati vengano scoperti e i colpevoli sanzionati. È tuttavia fondamentale non si perda mai di vista la presunzione d’innocenza, va fermato il marketing giudiziario, le conferenze stampa show, le intercettazioni spiattellate sui giornali. Tempi certi e puntuali per i processi a garanzia della vittima ma anche del condannato: la riforma della prescrizione, sottende ad un principio irrinunciabile per una democrazia compiuta, cioè che non può sussistere un “fine processo mai”. Così Enrico Costa, deputato di Azione e responsabile Giustizia del partito, durante una tavola rotonda col ministro Nordio all’assemblea nazionale di Azione. “Da Nordio una giustizia di classe, severa con i criminali di strada e tollerante con i ricchi” di Liana Milella La Repubblica, 29 ottobre 2023 Il giudice Giovanni Zaccaro, nuovo segretario di Area: “Il caso Apostolico? Il vero obiettivo è avere una magistratura addomesticata”. E sulla nuova prescrizione dice: “Basta riforme. Servono risorse, ma stiamo rischiano di perdere i fondi del Pnrr”. Il governo? “Vuole una magistratura addomesticata”. Gli attacchi alle toghe? “Servono per avere giudici che diano ragione al potente di turno”. La nuova prescrizione? “Rischiamo di perdere i fondi del Pnrr mentre la giustizia ha un drammatico bisogno di risorse”. Giovanni “Ciccio” Zaccaro, 51 anni, barese, giudice penale. È lui il nuovo segretario di Area, la corrente di sinistra delle toghe. I colleghi lo hanno appena eletto. Ed ecco la sua prima intervista con Repubblica. Tempi molto difficili per la magistratura. Gli italiani vi temono, ma non vi amano, e lo testimoniano le statistiche. Il governo teorizza che i giudici debbano essere solo “la bocca della legge”, applicarla e basta, come dimostra il caso Apostolico. Altrimenti minaccia l’azione disciplinare o peggio l’accusa che siete politicizzati. Dunque l’aspetta un compito molto difficile... “Se il giudice fosse solo la ‘bocca della legge’ sarebbe un disastro per i diritti, soprattutto quelli degli indifesi. Del resto è un’idea abbandonata da decenni. Chi decide nei casi non disciplinati della legge? E penso ai temi eticamente sensibili sui quali il Parlamento non vuole esprimersi. E ancora, che succede nei casi in cui la legge non è chiara? E poi, quale legge? Quella nazionale? Quella europea? E se la legge viola i diritti fondamentali tutelati a livello internazionale?”. Quindi non si può fare a meno delle toghe… “Se le norme si applicassero da sole, non servirebbero avvocati, giudici e processi, basterebbe una macchina che sputa decisioni. Poi, come sanno quelli che lavorano nei tribunali, il diritto non è immobile, si evolve con l’evoluzione dei tempi, proprio grazie all’interpretazione che ne danno avvocati e giudici”. E allora perché lo slogan del centrodestra è “i magistrati devono applicare la legge”? “È uno slogan. Penso che il vero obiettivo sia quello di ridurre lo spazio di interpretazione, avere una magistratura ‘addomesticata’. Così però si limita la tutela dei diritti e delle garanzie, quando non piacciono alle maggioranze di turno”. Lei è un giudice. Si sente libero oppure condizionato da questo clima? “Va bene criticare una motivazione nel merito, ma non aggredire le persone dei singoli magistrati che adottano decisioni non gradite, così c’è il pericolo di condizionare tutti e di favorire una giustizia conformista e che dia ragione solo al più forte o al potente di turno. Spetta alle associazioni dei magistrati, e sicuramente Area lo farà, difendere i singoli e tramite essi la funzione giudiziaria”. Come vive la possibile schedatura della sua vita, delle sue idee, delle sue frequentazioni, delle eventuali manifestazioni a cui partecipa? L’esistenza di file segreti conservati da qualche parte non condiziona il suo lavoro? “Si tratta di attività non consentite in uno Stato liberale e democratico come il nostro. Dice che corriamo tutti questo rischio?” Beh, il caso Apostolico, e non solo, va in questa direzione. Gli attacchi ad personam e la delegittimazione personale paiono proprio dietro l’angolo. Ha visto il caso del suo predecessore Albamonte? Voi invitate Schlein e Conte al vostro congresso di Palermo e spunta un riquadro anonimi sul Riformista, il giornale di Renzi, in cui si ipotizza che Albamonte si candidi in Europa con Schlein… “Quella è una bufala, Albamonte ha anche annunciato querele. Addirittura oggi hanno scritto che il presidente dell’Anm Santalucia deciderà, in Cassazione, sui ricorsi contro le decisioni dei giudici di Catania… Un’altra bufala diffusa ad arte, visto che Peppe Santalucia è penalista, mentre quella è materia di civilisti… Davvero non sanno a cosa aggrapparsi per fare polemica contro chi, in Area o nell’Anm, prende posizione a tutela della giurisdizione”. Il Csm, dopo due settimane di trattative, alla fine apre la pratica a tutela di Apostolico. Non si è aspettato troppo? “È sacrosanto tutelare i colleghi vilipesi per l’esercizio delle loro funzioni ed è importante che il Csm sia il più possibile unito sul punto”. A mia memoria non era mai accaduto che contro un magistrato, che ha disapplicato una legge, si scatenasse una campagna così dura e martellante, il vice presidente del Senato Gasparri ha chiesto la sua radiazione dalla magistratura… “Disapplicare le norme nazionali in contrasto con il diritto dell’Unione europea è un dovere del giudice. Che, se non dovesse farlo, potrebbe rischiare un’azione di responsabilità civile. Mi pare strano che il senatore Gasparri questo non lo sappia”. Un flash sui migranti e sull’accoglienza. Quest’Italia che chiude le porte a chi fugge dalle torture che impressione le fa? “Mi ha molto colpito l’ultimo film di Garrone. Dovrebbero vederlo in tanti” Lei ha fatto parte dello scorso Csm. Come giudica quello attuale? La maggioranza dei laici al centrodestra e la folta pattuglia di Magistratura indipendente lo rende “collaterale” al governo dove il potente sottosegretario alla presidenza è l’ex toga Alfredo Mantovano? “Ogni Consiglio è diverso dal precedente. Però è fondamentale che svolga il ruolo, previsto dalla Costituzione, di garante dell’autonomia ed indipendenza della magistratura e mantenga la sua centralità nel dibattito nazionale sulla giustizia. Non è un organo amministrativo, ma un organo elettivo di rilievo costituzionale. E mi spiace che il ministro Nordio non sia ancora andato al Csm a esporre il suo programma in materia di giustizia, com’era sempre avvenuto nella storia repubblicana”. Già, Nordio e la politica sulla giustizia del governo. Il suo giudizio complessivo? “Il ministro Nordio si era presentato come un garantista e invece la sua prima iniziativa è stata introdurre il reato di rave party, poi ha continuato con l’aumento delle pene per lo spaccio di droga di lieve entità e con la stretta sulla criminalità minorile. Mi pare garantista solo con i colletti bianchi, vista la volontà di abrogare l’abuso di ufficio e di ridurre l’utilizzo delle intercettazioni per i corruttori. Insomma, una giustizia severa per i criminali di strada e tollerante con i ricchi, insomma una giustizia di classe. Ma quel che più preoccupa…”. Cosa la preoccupa più di tutto questo? “Mi preoccupa l’assenza di investimenti. Nella legge di stabilità, sul tema giustizia, non c’è nulla se non i compensi per i giudici onorari. Zero investimenti per l’edilizia giudiziaria, zero per l’informatica, zero per il personale amministrativo, zero assunzioni… Come può funzionare la giustizia così? Non vorrei che la colpa poi dovesse ricadere proprio su giudici e avvocati mentre le risorse le deve mettere il ministero. Servono meno polemiche, meno riforme e più investimenti”. La prescrizione, c’era davvero bisogno di cambiarla di nuovo? Si rischia così di addebitarvi la perdita dei fondi Pnrr per la giustizia? “La prescrizione è l’estinzione del reato per decorso del tempo. Riguarda il bilanciamento fra l’interesse della collettività alla punizione e l’interesse del cittadino a non essere condannato a distanza di anni dal fatto. Si tratta di materia delicata. Eppure è stata oggetto di continue modifiche normative, prima Orlando, poi Bonafede, poi Cartabia, ora Nordio… ogni ministro cambia le regole…Basta!”. Perché basta? “Le leggi hanno bisogno di tempo perché se ne capiscano pregi e difetti e perché si possano poi modificare o abrogare. Cambiarle ogni anno è deleterio per chi ogni giorno lavora nei tribunali. Le dico solo che gli uffici giudiziari hanno organizzato il lavoro, tenendo in conto le regole della Cartabia e gli obiettivi del Pnrr. Se adesso cambiano di nuovo le norme, dovranno cambiare anche i criteri di priorità nel trattare i processi, con pessime conseguenze sull’efficienza del servizio. Quindi lei già prevede conseguenze negative sul Pnrr? “Certo. E le spiego perché. L’Italia si è impegnata a raggiungere obiettivi ambiziosi di riduzione dell’arretrato, tutti gli operatori del diritto stanno facendo un grande sforzo, le statistiche dimostrano che siamo sulla buona strada. E invece il governo che fa? Annuncia altre riforme? Serve invece investire nella macchina, stabilizzare gli addetti all’ufficio per il processo, assumere nuovo personale, portare a termine il processo penale telematico”. Continua il tam tam sulla separazione delle carriere. È un modo per mettere il pm sotto l’esecutivo, anche se Nordio cita se stesso e lo smentisce? “La separazione delle carriere è una battaglia di parte minoritaria dell’avvocatura. Parte dal falso presupposto che i giudici che decidono siano “appiattiti” sulle richieste dei pm che fanno le indagini, perché sono tutti parte della stessa categoria. In realtà, non c’è alcun appiattimento. I dati dimostrano che molto più della metà dei processi cominciati dai pm finiscono con assoluzioni. La cronaca ci dice che spesso il gip rigetta la richiesta del carcere del pm, come è successo nei giorni scorsi a Milano, per una richiesta di un pm in un’inchiesta sulla’ndrangheta”. Lei cita un caso che però sta suscitando un forte scontro, proprio per questa bocciatura... “Certo, e invece è un caso di normale dialettica processuale. E a proposito delle critiche sulle decisioni giudiziarie, le dico che così come non vanno bene le aggressioni della politica alla persona del magistrato che adotta una decisione sgradita, allo stesso modo non va bene nemmeno che un pm, nell’impugnare un provvedimento non condiviso, vada oltre la contestazione della motivazione ed arrivi a criticare il giudice che lo ha adottato. Così come non va bene che un giudice, invece che giudicare il fatto reato, giudichi la persona dell’imputato o peggio la strategia del suo difensore”. L’Italia rischia l’effetto Polonia e Ungheria? “Un fantasma aleggia, nel mondo, quello dell’insofferenza verso le istituzioni di garanzia, fra cui la magistratura, e verso la stampa libera. È l’effetto del populismo che, identificando governati con governanti, mal sopporta chi tutela i diritti e le garanzie delle minoranze ed esercita il pensiero critico. Ma in Italia esiste una cultura giuridica diversa, esiste un’accademia attenta, un’avvocatura attrezzata. Tutte vigileranno per non arrivare agli eccessi ungheresi”. Umbria. Il provveditorato delle carceri torna in regione di Andrea Pescari Corriere dell’Umbria, 29 ottobre 2023 Il Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria torna in Umbria. Avrà sede a Perugia e unirà Umbria, Abruzzo e Molise. È quanto emerso dopo uno schema di decreto della presidenza della Repubblica trasmesso dal Ministero della Giustizia, con comunicazione firmata dal direttore generale Massimo Parisi, alle organizzazioni sindacali in data venerdì 27 ottobre. Dopo 8 anni dal complicato accorpamento Umbria - Toscana, il nuovo provveditorato includerà 15 istituti penitenziari, 4 sono quelli umbri. “Una vittoria importante per la nostra regione e per la Lega che ha sempre creduto in questa necessità” dicono il segretario regionale Lega Umbria Riccardo Augusto Marchetti, il deputato Virginio Caparvi e il consigliere regionale Manuela Puletti. Poi, sul sottosegretario alla Giustizia, senatore della Lega Andrea Ostellari, aggiungono: “Ha dato seguito alle battaglie promosse da alcuni anni dai parlamentari Umbria della Lega e dalla presidente Donatella Tesei per il ripristino a Perugia di un presidio fondamentale per la sicurezza. Ringraziamo il Sottosegretario della Lega, Ostellari - proseguono gli esponenti leghisti - per essersi interessato alla nostra regione, cogliendo appieno le istanze fondamentali provenienti dal territorio in seguito agli incontri avuti con la presidente Tesei e dopo aver effettuato un sopralluogo nelle carceri di Terni e Spoleto. Poter contare su un provveditorato umbro vorrebbe dire non dipendere più dalla Toscana - concludono - ed essere quindi in grado di garantire maggiori strumenti a disposizione di una gestione locale, consapevole delle problematiche che insistono sugli istituti di pena regionali e delle dinamiche territoriali esistenti”. Milano. Carceri da terzo mondo, dove curarsi è un’utopia di Antonio Sabbatino La Notizia, 29 ottobre 2023 Le quattro carceri della città metropolitana di Milano ospitano in totale 3.726 detenuti. Ma curarsi negli istituti è un’utopia. Per le quattro carceri della città metropolitana di Milano (San Vittore, Opera, Bollate e il minorile Beccaria), che ospitano in totale 3.726 detenuti, il rapporto tra infermieri e reclusi è di 1 a 200 durante il giorno e di 1 a 600 durante la notte. Il dato è stato reso noto nel corso di un incontro tra le Rsu dell’Asst Santi Paolo e Carlo di Milano, dove è attiva la struttura complessa “Direzione coordinamento carceri” alla quale afferiscono le quattro strutture di detenzione, e le commissioni Sanità e Carceri, riunite in seduta comune, di Regione Lombardia. Il referente Rsu Andrea Pinna ha parlato di un “disagio ormai schiacciante” che induce molti infermieri ad abbandonare e scegliere di andare a lavorare altrove. Mediamente un professionista che lavora nelle carceri svolge annualmente duecento ore di straordinario all’anno ed è soggetto a massacranti turni aggiuntivi che, secondo Pinna, sarebbero finanziati anche con i fondi destinati all’abbattimento delle liste di attesa. “Avremmo voluto darvi il numero di pazienti reclusi ma questo dato non ci è stato fornito. Riteniamo che a oggi l’Asst Santi Paolo e Carlo non conosca il numero esatto di detenuti-pazienti”, ha aggiunto Pinna, che ha lamentato il muro innalzato dalla stessa azienda sanitaria di fronte alla richiesta “di avere dati precisi sul personale impiegato all’interno di questa realtà”. Richiesta bocciata perché, secondo l’Asst, “non era stata ben circostanziata”. Il problema per i sindacati è anche che l’azienda socio-sanitaria considera tutti i detenuti bisognosi di cure come pazienti ambulatoriali, quando le “quattro realtà sono molto diverse per tipologia di reclusi e tipologia, perché si va dagli anziani di Opera che sono al 41 bis ai minori ristretti al Beccaria”. “Recentemente l’assistenza alla palazzina Sai di Opera, con circa 98 pazienti più complessi, è stata esternalizzata a una cooperativa. Abbiamo personale ingaggiato con contratti atipici che lavora insieme a dipendenti della Asst con forte turnover e senza continuità. Varrebbe poi la pena verificare la presenza e il numero di medici, per la quasi totalità liberi professionisti: ci è stato segnalato che sembrerebbero esserci fogli terapia di alcuni reclusi non aggiornati da anni”, ha proseguito Pinna. Col rapporto di un infermiere ogni 200 detenuti nella fase diurna del turno, e di 1 ogni 600 nella fase notturna, “ci chiediamo”, ha detto ancora il referente Rsu, “cosa succede dentro le mura: la terapia viene somministrata o semplicemente distribuita? Non possiamo sapere con certezza se il paziente detenuto la prende, la butta, la vende o se la mette da parte per un successivo uso massivo, soprattutto nel caso di antipsicotici”. Citando un’inchiesta di Altreconomia secondo la quale a San Vittore e Opera ci sarebbe un consumo di psicofarmaci cinque volte superiore a quello della popolazione generale. “Ve lo dico da infermiera: immaginare di poter tenere in piedi un servizio con un infermiere ogni 200 detenuti, significa mettere in difficoltà l’infermiere stesso, perché la somministrazione dei farmaci dovrebbe essere sorvegliata, ma da soli è difficile. E se succede qualcosa la responsabilità, quindi la colpa, è sua, non di chi lo ha mandato allo sbaraglio. Perciò, da un lato va affrontato urgentemente il tema dei servizi per la salute nelle carceri, dall’altro non bisogna maltrattare gli infermieri: dobbiamo trattenerli, non cacciarli via”, il commento di Carmela Rozza, consigliera regionale del Pd. Frosinone. Morto in carcere a 43 anni, indagati 5 medici di Marina Mingarelli Il Messaggero, 29 ottobre 2023 “Doveva essere portato subito in ospedale”. L’uomo in prigione per stalking, i telegrammi drammatici con i genitori poco prima di morire. Detenuto morto in circostanze sospette, cinque medici del carcere sono stati iscritti sul registro degli indagati per l’ipotesi di reato di omicidio colposo. La vicenda risale al 12 dicembre del 2020, quando Davide Pacifici, 43 anni residente a Frosinone viene arrestato per il reato di stalking. Il 15 dicembre l’uomo comincia ad avere disturbi respiratori. Successivamente però la situazione peggiora, le gambe si erano gonfiate ed avevano assunto un colore violaceo. Poi aveva cominciato ad avere anche delle perdite di sangue dalla bocca. Ed arriviamo al 22 dicembre quando i genitori riescono finalmente ad andarlo a trovare in carcere. Il figlio li supplica di aiutarlo perché sta molto male. Anche se attraverso il vetro (all’epoca c’era il Covid) la madre intuisce la gravità della situazione. Davide aveva i piedi talmente gonfi che non riusciva ad indossare le scarpe. Quando la donna chiede una visita per il figlio viene rassicurata: il detenuto, le dicono, viene monitorato da sette medici della struttura. Alle ore 12 del 24 dicembre l’uomo viene trasportato in ospedale in condizioni disperate. Il 43enne morirà 40 minuti dopo dal ricovero Dall’autopsia emerge che Davide sarebbe morto per un arresto cardiocircolatorio. Secondo il magistrato inquirente non c’erano elementi per addossare la responsabilità ai medici, tant’è che chiede l’archiviazione. Ma l’avvocato Giuseppe Lo Vecchio, che rappresenta i familiari del deceduto, ha presentato opposizione. A questo punto la procura ha iscritto sul registro degli indagati cinque medici che nei giorni precedenti al decesso avevano monitorato il paziente. Il consulente di parte dottor Alfonso Finzi, specialista in cardiologia a differenza dei tecnici del pm che hanno sostenuto che era impossibile sospettare il decesso per una complicanza imprevedibile e imprevenibile, ossia un infarto miocardico, ha invece dimostrato che la morte è stata ascrivibile ad uno scompenso cardiaco giunto nella fase finale, “nella totale inerzia - scrive Finzi nella sua perizia - dei sanitari responsabili”. Secondo lo specialista se Davide Pacifici fosse stato ricoverato in ospedale ai primi sintomi, con un intervento chirurgico avrebbe potuto salvarsi. Singolare è che il giorno del decesso alle 12:19 praticamente venti minuti prima che l’uomo spirasse il padre gli aveva inviato un telegramma scrivendogli queste parole: “Caro figlio Davide, fai subito richiesta urgente per andare in infermeria o all’ospedale. Insisti per chiamare il medico all’interno, fai richiesta urgente figlio mio, appena abbiamo le possibilità di tornare di portiamo le scarpe numero 46 così puoi indossarle che hai i piedi gonfi. Tanti auguri di Buon Natale, ti vogliamo bene, Mamma e papà”. Quel telegramma purtroppo Davide non lo leggerà mai. Ma è altrettanto singolare che proprio il giorno dei suoi funerali ai genitori arriva una lettera che il figlio aveva scritto datata 15 dicembre. Nella missiva, che è stata poi ammessa nelle prove, l’uomo dice ai genitori che le sue condizioni di salute si erano aggravate e che non veniva curato adeguatamente, né aveva mai ricevuto assistenza infermieristica. “Vi prego- aveva scritto- portatemi qualche medicina perché non riesco a dormire. Ogni volta che mi stendo mi manca il respiro”. Parole che non lasciavano ombra di dubbio sul suo stato di salute. Il grande rammarico di mamma Assunta e di papà Marco è stato quello di non poter abbracciare il figlio per l’ultima volta. Augusta (Sr). Nisseno suicida in carcere, rinviati a giudizio direttrice e medico di Vincenzo Falci Giornale di Sicilia, 29 ottobre 2023 Sono accusati di mancata vigilanza e omicidio colposo. Il detenuto avrebbe manifestato l’idea di farla finita. Non sarebbero esenti da colpe per la morte nel carcere di Augusta di un detenuto nisseno. Così ha deciso il gip, accogliendo la tesi della procura, che ha ritenuto che direttrice e medico della struttura carceraria, con le loro scelte, si siano macchiati di responsabilità per l’estremo gesto compiuto in cella da un recluso, il quarantenne nisseno Emanuele Puzzanghera. Era la sera del 14 maggio 2021. Da qui il rinvio a giudizio disposto dal gup di Siracusa, Francesco Alligo, a carico della direttrice della Casa di reclusione di Augusta e del medico che era di turno nello stesso carcere e che avrebbe seguito l’evoluzione della situazione poi sfociata in tragedia (assistiti dagli avvocati Michelangelo Mauceri, Massimo Vitale e Valerio Vancheri). A loro carico il pm Stefano Priolo ha ipotizzato i reati di istigazione al suicidio, poi rimodulato in mancata vigilanza e omicidio colposo. E per questo saranno processate a partire dal giugno del prossimo anno. Nei loro confronti saranno parti civili la compagna, Catena Tortorici, le sorelle Maria Vanessa e Rosa Puzzanghera e il padre, Giuseppe Puzzanghera (assistiti dall’avvocato Ernesto Brivido). Usciti dal dossier i nomi del dirigente aggiunto a capo degli agenti di polizia penitenziaria della stessa struttura carceraria, l’agente penitenziario che il giorno della tragedia si trovava in servizio e che ha scoperto il cadavere e la coordinatrice sanitaria. È per un evento traumatico durante la sua detenzione che Puzzanghera avrebbe poi maturato l’idea di farla finita. E questo suo proposito, seppur con dietrofront e ripensamenti, lo avrebbe manifestato al medico ora finito in giudizio. Lo stesso sanitario che - secondo il gup che ha disposto l’apertura di un procedimento - dopo avere prescritto la sorveglianza a vista fino a visita psichiatrica, l’avrebbe revocata una quarantina di minuti dopo in seguito a un nuovo colloquio con lo stesso Puzzanghera, così da assumere “un comportamento negligente e gravemente imperito - ha scritto il giudice - in quanto si è sostituita alla figura dello psichiatra che avrebbe dovuto visitare il detenuto”. Per quanto concerne la direttrice, secondo lo stesso gup, pur conoscendo bene le norme cautelari perché le avrebbe diramate quattro anni fa, così come avrebbe avuto contezza della condizione specifica di Puzzanghera, il cui rischio suicidario era stato segnalato anche dal provveditorato regionale “ha - secondo il giudice - illegittimamente e imprudentemente revocato la misura della sorveglianza a vista, senza attivare e attendere le decisioni dello staff multidisciplinare”. Omissione che, secondo i consulenti tecnici, avrebbe evitato il luttuoso epilogo. Vicenza. Elena, appello dal carcere. In tanti le offrono casa di Francesco Brun Corriere del Veneto, 29 ottobre 2023 La vicentina: qui non solo reati ma persone. Voglio essere un seme. Una vita di spaccio e furti, poi un’altra vita dietro le sbarre del carcere ma anche sul palcoscenico di una carriera teatrale che le ha regalato soddisfazioni e riscatto. Ora Elena, 44 anni, di Altavilla vicentina, detenuta a Vigevano, sta affrontando una terza sfida: ha un tumore, potrebbe uscire di prigione ma non ha una casa. La sua lettera è stata pubblicata sui social e subito ha ricevuto offerte di ospitalità. “Sono stata una criminale, per guadagnarmi la vita, nella prima parte della mia esistenza... Poi ho lottato per provare a cambiare il mondo, o meglio, migliorare la società. Adesso mi trovo in un’altra tappa: sono solo una donna e, domani, come qualsiasi altra donna sarò solo un cumulo di vermi e scomparirò”. Inizia con queste forti parole la toccante lettera di Elena, quarantatreenne originaria di Altavilla Vicentina, attualmente detenuta nel carcere di Vigevano: deve scontare una pena di 19 anni e 4 mesi, conseguenza di una lunga carriera di furti, anche negli ospedali, spaccio e narcotraffico. La lettera è stata inviata a “Sbarre di Zucchero”, un’associazione che si batte per i diritti dei carcerati, che l’ha resa pubblica sui social per far conoscere la storia di Elena e aiutarla. È uno scritto profondo, pregno di sentimento, dal quale emerge tutto lo sconforto di chi si trova privato della libertà in un momento critico della propria esistenza. La donna è infatti affetta da un cancro in fase avanzata, condizione che l’ha portata a pesare meno di 40 chili per un metro e 75 di altezza, e per il quale lo scorso maggio è stata giudicata incompatibile con la permanenza all’interno di una struttura carceraria. Allo stesso tempo, però, il fatto che non disponga di un domicilio e che sia stata giudicata inabile a qualsiasi impiego (nonostante avesse dichiarato di voler lavorare) hanno fatto scattare un vero e proprio cortocircuito giuridico. Il Tribunale di sorveglianza di Milano ha infatti respinto l’istanza presentata dai legali della donna, i quali avevano chiesto una detenzione alternativa visto il suo stato critico di salute. Elena, però, non solo non dispone di un’abitazione, ma non può lavorare e non ha una famiglia alle spalle; è non è stato nemmeno possibile reperire, tramite l’intervento dei servizi socioassistenziali, un alloggio o una struttura disposte ad accoglierla. Un vicolo cieco. Alla base di questa problematica ci sarebbe il fatto che nessun ente preso in considerazione è in grado di garantirle le cure adeguate per la malattia e perciò, nonostante il parere negativo della direzione sanitaria, al momento Elena si trova ancora in cella. Nella lettera, la donna si immerge in una profonda riflessione sul senso della vita e della libertà, soprattutto in relazione alla sua condizione di detenuta. “Non posso vedere un mondo migliore se il male alberga dentro di me - le sue parole -, sotto gli occhi di tutti e nell’indifferenza di tutti. Nell’iniquità, quella detentiva, tra esseri umani e detenuti! Dove hai sin troppo tempo per lamentarti e nessuno ha tempo per ascoltarti! Dove sei un numero a prescindere da chi eri prima di esserlo, quel numero. Dove il tuo passato conta solo verso la Giustizia, non verso la tua vita vera”. Dopo un periodo vissuto di espedienti, Elena ha cercato il riscatto attraverso il teatro, portando avanti una proficua carriera di attrice e arrivando a realizzare degli spettacoli per il Comune di Milano. In seguito alla diffusione dell’appello a darle una mano, con tanto di codice Iban (diffuso sui vari canali social da “Sbarre di Zucchero” e che ha superato le 30.000 visualizzazioni su TikTok) si sono registrate le prime risposte. Prima un uomo di Verona, che si ricordava di lei e che si è proposto di aiutarla, e poi un’offerta da Vicenza, da parte di un ragazzo con problemi di tossicodipendenza che vive in un appartamento protetto messo a disposizione dalla cooperativa Insieme: il giovane si è proposto di metterla in contatto con i vertici dell’associazione per poter garantire alla 43enne una condizione migliore. Leggendo con attenzione il manoscritto, quella di Elena appare comunque come una vera e propria battaglia per la giustizia, destinata soprattutto a chi si troverà in quella situazione dopo di lei. Dopo aver citato alcuni versi di Alda Merini, che affrontano il tema della detenzione, la donna chiude la lettera con queste parole: “Ed allora spero di essere risparmiata dai vermi, e, sottoterra essere quel seme necessario alla società per guardare al carcere non solo nei reati ma nelle persone che lo abitano”. San Gimignano (Si). L’Asl porta l’educazione alla salute in carcere a Ranza valdelsa.net, 29 ottobre 2023 Dare un supporto educativo sanitario alle persone detenute è possibile. Grazie al modello IDEA (Interventi di Educazione all’Autogestione), entra nel carcere di Ranza (San Gimignano) la formazione per le persone affette da malattie croniche come: diabete, ipertensione arteriosa, scompenso cardiaco, ictus e malattie respiratorie. Il tutto è realizzabile grazie al contributo degli infermieri - conduttori formati secondo il metodo elaborato all’Università di Stanford. Qualche mese fa, è stato proposto alla Direzione della Casa di Reclusione di Ranza un progetto della durata di un anno per seminari per l’autogestione delle malattie croniche. Dal mese di agosto, questa opportunità è stata usufruita da una quindicina di detenuti affetti da diabete tipo 2. Il secondo seminario coinvolgerà a breve circa altre 20 persone affette da malattia cronica. Il primo ciclo del seminario ha compreso sei incontri di circa due ore e mezzo, uno a settimana, con l’obiettivo di creare consapevolezza e un miglioramento in termini di salute a persone in uno stato di detenzione. I conduttori coinvolti nel progetto hanno avuto una grande partecipazione e interesse da parte dei detenuti, la motivazione a migliorare il proprio stato di salute è uno stimolo importante. Quest’ultimo punto è di estrema importanza, visti gli elevati numeri di persone affette dalle malattie croniche. Le competenze acquisite e attese sono: la gestione quotidiana del proprio stato di salute; le scelte nutrizionali - piramide mediterranea - leggere le etichette nutrizionali; l’attività fisica; la gestione delle emozioni; l’abilità del problem-solving e di prendere decisioni. Torino. Klodian, la prima volta di un detenuto-arbitro. “Il rugby ti cambia” di Riccardo Bruno Corriere della Sera, 29 ottobre 2023 L’esordio a Torino. “Prima reagivo anche per una sciocchezza, adesso mi piace stare in mezzo alla gente”. Il presidente della Federugby: “Il nostro sport ha una capacità innata di formare al rispetto delle regole”. Al quinto minuto di gioco non ha fretta di fischiare il fallo, concede il vantaggio e i ragazzi del Cus Torino lo sfruttano arrivando a meta. Alla sua prima partita, alla sua prima decisione importante, l’arbitro Klodian Bajraktari, albanese, 27 anni tra pochi giorni, fa la scelta corretta. Il suo non è debutto come tutti gli altri, è la prima volta che un detenuto fa il direttore di gara di un incontro di rugby, campionato regionale under 14, la squadra di casa contro il Biella. Klodian questa mattina ha lasciato il carcere Lorusso e Cutugno e ci farà ritorno dopo la partita, permesso speciale per poter esordire in casacca rossa e scudetto tricolore. Il rugby l’ha scoperto dietro le sbarre. “Da ragazzo ho fatto boxe e calcio, ma questo sport mi ha appassionato subito. Per l’adrenalina e il contatto fisico, e perché è davvero uno sport collettivo”. Klodian non è di molte parole, ha uno sguardo profondo e attento. Racconta che i primi tempi preferiva stare da solo, che il rugby ha cambiato il suo carattere. “Prima reagivo anche per una sciocchezza, adesso mi piace stare in mezzo alla gente”. Una condanna a 12 anni per rapine, 3 anni e mezzo ancora da scontare. Con la palla ovale si è subito distinto, da Verona è stato trasferito a Torino per entrare ne La Drola, la prima squadra in Italia di detenuti che ha giocato pure in serie C. A giugno ha scelto di seguire il corso per direttore di gara, nell’ambito del progetto “Arbitri oltre le sbarre” promosso dalla Federugby: 8 iscritti, 7 detenuti e un agente della Polizia penitenziaria, Salvatore Santoro che oggi è qui ad accompagnarlo: “Si sta comportando bene - commenta durante la gara -. Il rugby è uno sport bellissimo ma non è semplice. Ci sono tante regole da conoscere e da far rispettare”. Presto anche lui scenderà in campo per la prima volta, oggi invece tocca a Klodian controllare l’energia di ventisei ragazzini, sanzionare scorrettezze e tenere conto dei punti. Carlo Damasco, ex arbitro internazionale che scelse di chiudere la sua carriera dirigendo proprio un incontro con una squadra di detenuti e che adesso cura questo progetto per portare lo sport nei penitenziari, lo segue a bordo campo come un padre premuroso. “Oggi è un momento storico - dice -. Per ottenere tutte le autorizzazioni e far uscire un detenuto ci sono difficoltà enormi. Per fortuna la direzione del carcere ci ha aiutato, speriamo di avere aperto una strada”. Per accedere al corso rivolto a detenuti “a bassa pericolosità”, Klodian ha dovuto superare una serie di selezioni e valutazioni. Non è l’unica iniziativa di riabilitazione e reinserimento, ma questa ha uno straordinario valore simbolico. “Chi ha infranto le regole nella vita è chiamato a farle rispettare nel gioco” sintetizza Damasco. Aggiunge Gabriele Pezzano, consigliere della Commissione nazionale arbitri della Federazione: “Klodian ha iniziato un percorso che se vorrà potrà continuare. Sta creando legami e relazioni che gli potranno essere utili quando avrà scontato la pena”. La Federazione italiana rugby crede molto in questo progetto. “Da un punto di vista sociale è un risultato straordinario vedere un giovane che sta svolgendo un percorso di risocializzazione scendere in campo come direttore di gara - osserva il presidente Marzio Innocenti -. Il rugby ha questa capacità innata di formare al rispetto delle regole”. Walter Rista è l’anima di queste iniziative. Nazionale a fine anni Sessanta, era in Argentina con altri ex azzurri quando il loro pullman ne urtò un altro. “Noi scendemmo tutti, dall’altro invece non usciva nessuno. Poi scoprimmo che non potevano farlo perché erano detenuti. Da quel momento mi sono ripromesso di portare il rugby dentro il carcere”. Rista è tra i promotori di “Ovale oltre le sbarre Onlus” e presidente de La Drola, la squadra dove gioca Klodian: “Il rugby aiuta i detenuti a capire che esiste un altro modo di vivere - spiega. La stragrande maggioranza di loro vuole cambiare fortemente la propria esistenza”. Si sente il triplice fischio, l’incontro è terminato. Klodian è stato attentissimo, ha corso dietro ogni pallone senza mai perdere di vista un’azione. Si scioglie in un sorriso solo adesso quando vede i ragazzi delle due squadre che, dopo essersi affrontati duramente, si riuniscono in cerchio. E tutti insieme urlano: “Viva il rugby! Hip, hip, hip urrà”. Roma. La fotografia può essere d’aiuto in un carcere? di Francesca Orsi fotocult.it, 29 ottobre 2023 Tania Boazzelli, presidente dell’Associazione Scatto Libero, ci racconta un progetto con i detenuti del carcere di Rebibbia e altre iniziative tese ad aiutare attraverso il mezzo fotografico. L’Associazione Scatto Libero di Roma entra in contatto con realtà socialmente “difficili” e con la fotografia aiuta le persone che vivono situazioni di difficoltà a trovare la loro espressione, un modo creativo per ascoltare la loro voce, in carcere o anche in case famiglia. Ne abbiamo parlato con Tania Boazzelli, presidente di Scatto Libero. Come nasce l’Associazione Scatto Libero e con che intenti? In realtà nasce prima come un mio pensiero nella testa, in un periodo particolare della mia vita in cui ho abbracciato la fotografia come si farebbe con un salvagente. Partendo, quindi, dall’uso del mezzo fotografico come aiuto esistenziale ho pensato che potesse avere lo stesso effetto anche sugli altri, su quelle persone che, in difficoltà, hanno bisogno di scoprire un altro modo per esprimersi, oltre che con le parole. Così tramite una mia conoscenza siamo entrati dentro al carcere - nello specifico nella Terza Casa Circondariale, sezione maschile, di Rebibbia - non fotografando noi, ma attivando dei laboratori e degli incontri con i detenuti sulla fotografia. Il primo progetto, nel 2017, è stato Progetto Pellicola durante il quale ai detenuti è stata data una macchina fotografica analogica per raccontare la loro quotidianità dentro il carcere, con il pieno sostegno da parte della direttrice del carcere e degli educatori. Hanno partecipato in quindici e abbiamo preso per ogni ragazzo tre scatti, stampandoli (un 30×40 e due 18×24) e poi esponendoli. Che reazione hanno avuto i detenuti alla proposta del progetto? Durante il primo incontro che abbiamo fatto eravamo guardati da occhi un po’ impauriti, distaccati, perché pensavano che il progetto fosse un nostro racconto fotografico sulla quotidianità di un carcere, e non avevano capito che, invece, il nostro intento era proprio quello di ribaltare la soggettiva e dare a loro stessi la possibilità di raccontarci la loro quotidianità. Dopo aver spiegato questo “dettaglio” l’atmosfera si è sicuramente alleggerita. Che indicazione avete dato a loro prima di fotografare? All’interno di un carcere non c’è niente, ma chi ci vive sa cosa c’è di importante. Fotografando, sono andati alla ricerca di quei luoghi che appartenevano alla loro quotidianità, nei loro “posti affettivi”. Abbiamo suggerito di seguire questo filone narrativo. E dal punto di vista pratico? Li abbiamo lasciati all’istinto. Avevano in mano una macchina fotografica usa e getta, molto facile quindi da utilizzare. Guardi e scatti. Però, li abbiamo introdotti al lavoro di qualche fotografo noto, per dar loro qualche riferimento. Prima ci raccontavi che le fotografie prodotte sono state esposte. Dove? Sul muro esterno del carcere. Abbiamo pensato che fosse anche molto simbolico, idealmente era come se volessimo abbattere quel muro. Nel frattempo un ragazzo che ha partecipato al progetto era uscito e ha potuto vedere anche le immagini esposte esternamente. È stato un bel raccordo. Hanno fotografato solo luoghi o ci sono, ad esempio, anche ritratti di persone? Anche ritratti, certo. Persone che facciano parte di una loro routine quotidiana. Tanti hanno fotografato i gatti del carcere, che per loro rappresentano una vera compagnia. C’è chi ha fotografato un canarino, venuto da fuori e “addomesticato”, tenuto sulla spalla o comunque sempre portato con sé, anche quando facevamo lezione. La loro idea di “sopravvivenza” è quella di rendere affettivo un mondo che altrimenti sarebbe molto “freddo” e scomodo. Progetto Pellicola è stato, quindi, il primo progetto. Ce ne sono stati altri in seguito? Sì, assolutamente. In carcere, a Rebibbia, dovevamo starci solo un anno, ma in realtà, un po’ perché anche noi ci siamo affezionati al gruppo e alla loro realtà, siamo rimasti altro tempo, portando avanti altri due progetti. Uno sulla violenza sulle donne che è diventato anche una mostra, Come rami intrecciati, alla Casa della Memoria a Roma, l’altro, Ritratto di famiglia, ancora inedito, racconta degli incontri con i parenti e le famiglie nel weekend. Cosa è emerso dal laboratorio sulla violenza di genere? Il messaggio che ne è emerso è sicuramente il fatto di rendersi partecipi contro la violenza sulle donne. Hanno usato me e una collega come modelle, simbolo per rappresentare questo concetto. A corredo delle loro immagini sono state scritte, inoltre, delle poesie da un membro dell’Associazione, Arzachena Leporatti, e una poesia da un’assistente del carcere. Avete fatto un laboratorio anche con il fotografo Alessandro Penso, usando le Polaroid. Perché l’utilizzo della Polaroid? Anche per una questione prettamente pratica. Nel senso che Ars Imago, rivenditore di materiale analogico per la fotografia, ha messo a disposizione le macchine fotografiche e Polaroid ci ha regalato le cartucce. Quindi abbiamo sfruttato questa disponibilità e Alessandro è stato contento dell’idea. È stato un progetto articolato, composto non solo dal momento dello scatto, ma anche da un ulteriore atto creativo sopra l’immagine prodotta da parte dei detenuti. Infatti, un elemento aggiuntivo all’immagine sono state le frasi e le inserzioni scritte sopra, come se l’immagine prendesse voce, la loro voce. Il risultato del laboratorio con Alessandro ha dato luce non solo a delle immagini, ma a delle immagini più un concetto, espresso non solo dal linguaggio fotografico, ma anche dalla scrittura e dalla matericità della Polaroid. Le immagini prodotte, la loro composizione, la resa finale con l’aggiunta scritta, sono tutti passaggi studiati a priori, pre-visualizzati da ogni ragazzo, insieme ad Alessandro. Tutta la progettualità di questo laboratorio ha portato ad un pensiero consapevole sulla fotografia da parte dei detenuti. Alessandro è stato bravissimo a spiegare ad ognuno di loro come usare il mezzo seguendo la loro idea narrativa. È stata, recentemente, pubblicata da Fugazine una fanzine con le immagini dei detenuti della Terza Casa Circondariale di Rebibbia, Così nun me scordo. Come è nata questa collaborazione? Volevamo fare una “zine” con le immagini prodotte durante i nostri progetti in carcere, ma non c’eravamo mai riusciti per questioni di tempo. Tramite un contatto sono arrivata a Paolo Cardinali di Fugazine. Paolo ha, poi, avuto accesso a tutti gli scatti dei ragazzi - non solo quelli che avevamo selezionato noi per la mostra sul muro del carcere - e da quel corpus di immagini è partito per produrre un suo editing che ha dato vita a Così nun me scordo, inserendo, oltre alle fotografie, anche degli elementi scritti che sono frasi che i ragazzi dicevano durante il laboratorio. Il titolo, infatti, è la frase di uno dei partecipanti, riferita all’esperienza del laboratorio. La maggior parte delle immagini prodotte dai vostri laboratori e progetti sono in bianco e nero. Perché? Il bianco e nero è stata una scelta dettata dalla mia voglia di stampare, io stessa, le immagini e inoltre, secondo me, si sposava bene con la narrazione del carcere, dava giustizia all’intensità di questa esperienza. Perché avete pensato che proprio il linguaggio fotografico fosse adatto a far raccontare una realtà sociale come il carcere? Il linguaggio fotografico è espressione forte di chi, magari, non ha voglia di parlare. In carcere non tutti hanno voglia di parlare. L’immagine fotografica traspone visivamente anche le urla. I ragazzi, con le foto che hanno prodotto, sono stati liberi di urlare. La vostra progettualità con realtà socialmente “difficili” si focalizza unicamente su carcere? Siamo stati, ad esempio, anche alla Repubblica dei Ragazzi, una casa famiglia a Civitavecchia. Dopo aver lavorato per tre anni con la realtà carceraria abbiamo pensato alla possibilità di usare un metodo simile anche in altre dimensioni e così siamo arrivati lì. Non avevamo mai lavorato con adolescenti e bambini, non è stato facilissimo soprattutto per la loro giovane età e per una gestione dell’attenzione molto più complessa. Come in carcere abbiamo portato le macchine fotografiche, ci ha aiutato il fatto che i ragazzi fossero già avvezzi alla produzione di immagini con il telefono, ma il processo dell’analogico era comunque, per loro, una realtà nuova che li ha messi in contatto con l’origine dell’immagine, con la matericità, e li ha portati a capire i meccanismi di una macchina fotografica. La cosa che ci ha fermato è stato, indubbiamente, la pandemia. Dopo sei mesi che eravamo a Civitavecchia il Covid ha chiuso ogni progetto e quando avremmo potuto tornare, a fine pandemia, molti ragazzi non erano più in casa famiglia e quindi si è un po’ disperso tutto. Azzerare le storie non riscrive il nostro passato di Loredana Lipperini L’Espresso, 29 ottobre 2023 L’azione di un dittatore o di un gruppo terroristico non trascina con sé lo stigma per gli artisti. Per questo i casi Adania Shibli e Patrick Zaki ora e le follie come quella di annullare le lezioni su Dostoevskij perché russo sono preoccupanti. Eppure dovremmo aver imparato, grazie a secoli di letteratura, che dividere il mondo in due opposti invocando il sangue dell’uno o dell’altro significa dimenticare non solo che esiste l’ormai dileggiata complessità, ma che esistono le posizioni tacitate (quelle degli uomini e delle donne di pace, per esempio), ed esistono anche, in ognuno, le luci e le ombre. Ce lo ha insegnato fra gli altri il professor Tolkien, facendo soccombere il gentile Frodo al potere dell’anello e, prima ancora, cambiando senso a un aggettivo del poema La battaglia di Maldon, dove si narra del conte inglese Byrthnoth che nel 991 manda a morire i suoi uomini “for his ofermod”. “Audacia”, si era tradotto fino a Tolkien. “Smisurato orgoglio”, corresse il professore. Ciò che causa morte si deve a questo, e dimenticarlo, trasformando ogni discussione in tifoseria (da entrambe le parti, se di parti si deve parlare) per il nostro smisurato orgoglio, significa vanificare ogni possibilità di confronto politico, culturale e sociale: nei fatti, ormai guardiamo la televisione per sapere chi vince nei dibattiti, non per capire qualcosa di quel che avviene intorno a noi.I passi indietro della settimana sono due. Intanto, la sconcertante decisione della Buchmesse di Francoforte di cancellare l’assegnazione del Literaturpreis alla scrittrice palestinese Adania Shibli, autrice del romanzo Un dettaglio minore, dove si narra un fatto vero del 1949, ovvero lo stupro e l’omicidio di una ragazza beduina da parte di soldati israeliani. Cancellare il premio non significa cancellare quella morte, così come non cancellerà la mostruosità compiuta da Hamas negli ultimi giorni. Azzerare le storie non riscrive la Storia. Eppure, è quanto viene fatto, in una follia di ripolarizzazione non dissimile da quella che, nel primo periodo dell’invasione russa in Ucraina, portò solerti funzionari dell’Università Bicocca ad annullare le lezioni su Dostoevskij e altre istituzioni a togliere concerti dal cartellone o a evitare la partecipazione russa a festival e manifestazioni. Come se l’azione di un dittatore o di un gruppo terroristico dovesse trascinare con sé lo stigma per gli artisti passati e presenti. Come se l’Italia fosse raccontabile con quella P38 adagiata su un piatto di spaghetti con cui la bollò Der Spiegel nel 1977. Il secondo caso è quello di Patrick Zaki, l’attivista egiziano incarcerato, condannato e poi graziato per reati d’opinione, che ha definito serial killer il premier israeliano Netanyahu per l’attacco ai civili di Gaza. Su Zaki è caduta la mannaia dei rifiuti e degli insulti: via dai festival e dagli incontri, via dalla televisione, giornali serissimi che gli danno del cretino e commentatori meno seri che lamentano di aver “sprecato tempo” a battersi per i suoi diritti. Tifoseria, appunto. Allora, la cosa preziosa, quella che ci insegna a immaginare possibilità negate, è il più antico poema epico della letteratura europea e mediterranea, l’Iliade, che termina con due nemici acerrimi che piangono insieme il figlio e il compagno. Ed è dalle lacrime congiunte di Achille e Priamo che la Buchmesse dovrebbe trarre tesoro, e capire che dobbiamo conoscere tutte le storie, perché ci consegnano, secolo dopo secolo, quello che non abbiamo neppure il coraggio di sognare perché lo riteniamo impossibile. “Nelle scuole andrebbe insegnato il coraggio di Aaron Shwartz e Julian Assange” di Ugo Mattei L’Espresso, 29 ottobre 2023 Il funzionamento della tecnologia sofisticata ci sfugge del tutto. Così siamo costretti a fidarci di chi la produce. Mentre bisognerebbe sviluppare un sapere critico, lavorando sull’alfabetizzazione e introducendo nelle aule le storie di chi ha lottato in questa direzione. La nostra epoca va caratterizzata come l’era della conoscenza. La conoscenza è strettamente legata all’intelligenza, ma non ne è un sinonimo. L’intelligenza, infatti, è etimologicamente comprensione, sicché uno potrebbe considerare impossibile conoscere ciò che non si comprende. Scienza, conoscenza, intelligenza e comprensione tuttavia, di fronte alla complessità del reale, hanno via via sviluppato fra loro relazioni sfumate e cangianti, generando fenomeni sociali, come la tecnologia, di fronte ai quali lo iato fra conoscere e comprendere diviene abissale. Per millenni gli umani hanno conosciuto il fuoco senza comprenderlo, e ciò risulta vero oggi per la stragrande maggioranza degli automobilisti, di coloro che ascoltano la radio, guardano la tv o utilizzano un cellulare. Per il non specialista, infatti, la tecnologia è sempre una sorta di magia, che genera sorpresa e meraviglia. A fine Ottocento sentire la voce di una persona lontana in una cornetta. Oggi vedere sullo smart phone l’immagine del nipotino che ti sorride da New York. Il “capitalismo cognitivo”, la migliore e più asettica definizione della nostra epoca, si è sviluppato con internet come sua infrastruttura portante, proprio come la prima modernità non poteva svilupparsi senza il nuovo mondo conquistato dagli Europei. Esso costituisce una trasformazione a trazione statunitense che utilizza la locuzione “smart” per caratterizzarsi. Anche qui smart e intelligente non sono perfettamente sinonimi, perché il primo prescinde totalmente dall’idea di comprendere. Smart è colui che sa risolvere un problema nel modo più rapido e efficiente possibile, ha una connotazione pratica che prescinde dalla comprensione profonda, ma riguarda la capacità di utilizzare la tecnologia (es. smart city). I nativi digitali, molto smart col cellulare, non hanno alcuna idea del suo reale funzionamento. (A questo proposito merita la lettura di Juan Carlos De Martin, “Contro lo Smart Phone”). Un processo simile di adattamento del significato delle parole alle circostanze tecnologiche, che tende a generare uno slittamento di senso permanente, sta avvenendo con la locuzione intelligence nell’acronimo A.I. A prescindere dal legame storico con spionaggio (Central Intelligence Agency), qui il senso non ha nulla a che fare con la comprensione, che è una esperienza umana, ma ha tutto a che fare con la rapidità prodigiosa in cui la macchina impara ad aggregare dati. Insomma, si veicola l’idea per cui si può essere non solo smart, ma anche intelligenti senza comprendere, cioè conoscendo in modo del tutto superficiale. Ovviamente, la conoscenza superficiale, proprio come il multitasking che genera disattenzione, ci rende del tutto vulnerabili ad artifici e raggiri volti a carpire la nostra buona fede, problema che riporta paradossalmente in auge il più antiscientifico fra i principi di conoscenza, ossia l’antico ipse dixit. Lo ha detto l’esperto certificato e dunque è vero! Le opinioni e spiegazioni difformi rispetto all’ipse dixit altro non possono essere che fake news. Ciò necessariamente rafforza anche sul piano etico un mainstream di riferimento e genera credulità popolare che si presta ad ogni abuso. Per esempio, quando furono messi in circolazione i “Btp Futura” nel 2021, con grande pompa patriottica, chiedendo agli italiani di partecipare alla ripresa post-covid, con un investimento sicuro minimo di otto anni, nessuno ha fatto comprendere il senso della presenza delle clausole c.d. di “azione collettiva”, inventate nel 2013, che consentono la ristrutturazione del debito, generando un grave rischio. Oggi, chi volesse uscire dalla trappola può liquidare circa 60 ogni 100, ossia avrebbe già perso, ignaro, oltre il 40% del suo investimento patriottico di lunga durata. Del resto, chi investe in risparmio gestito (comprando polizze assicurative o fondi di investimento offertigli dalla sua banca) non comprende la struttura delle commissioni, che sono talmente consistenti da mangiarsi strutturalmente ogni ritorno. Se si acquistasse direttamente il sottostante (ossia le azioni, le obbligazioni o i titoli di Stato) che invece lascia acquistare dal gestore del fondo che la banca colloca, si risparmierebbero migliaia di euro e si potrebbe pure evitare di dare soldi senza saperlo a chi produce armi. Lo slittamento di senso verso un ipse dixit tecnocratico ci porta a fidarci degli attori mainstream, credendo alla loro pubblicità. Ma questa credulità ha un costo politico. Per esempio, oggi le banche fanno ben più della metà dei profitti in commissioni a rischio zero, cosa che le disincentiva a imprestare i soldi essenziali per l’economia reale del Paese. Disintermediando i propri risparmi i cittadini servirebbero il bene comune non solo il proprio interesse! In una parola, nella società dell’intelligenza, l’ignoranza genera povertà personale e collettiva. La sola soluzione è dunque investire in conoscenza come bene comune, ossia una intelligenza critica, trasparente, condivisa disinteressata e davvero accessibile. È questa la ragione per cui occorre partire dalle scuole. Ed è sacrosanto avanzare serie perplessità a che la multinazionale Pfizer, ben nota per la sua spregiudicatezza, finanzi un programma di lotta alle fake news nelle scuole italiane proponendo “alfabetizzazione medico-scientifica per studenti e professori”. Occorrerebbe piuttosto sviluppare una alfabetizzazione di base in materia civica, politica, ecologica e finanziaria, insegnando ai ragazzi il coraggio della verità, e introducendoli ad eroi eponimi di queste battaglie come Aaron Shwartz e Julian Assange. Migranti. Affari, violenze e lobbisti dietro il business dei Cpr di Adil Mauro L’Espresso, 29 ottobre 2023 I Centri di permanenza per il rimpatrio sono gestiti da privati che puntano a un tesoretto di 56 milioni di euro, lasciando i reclusi spesso in condizioni vergognose. “C’è gente che specula sulla pelle di queste persone e non gente qualsiasi. Parliamo di lobby rappresentate in Parlamento. Tutto questo avviene nell’indifferenza generale”, spiega la senatrice Ilaria Cucchi. Il 22 ottobre 2009 Stefano Cucchi, geometra di 31 anni, arrestato perché trovato in possesso di sostanze stupefacenti, moriva nel reparto detenuti dell’ospedale Sandro Pertini dopo una settimana nelle mani dello Stato. Per la sua morte il 4 aprile 2022 la Corte di Cassazione ha condannato in via definitiva a dodici anni di reclusione i carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro. Per i depistaggi altri otto militari dell’Arma - compreso il generale Alessandro Casarsa, all’epoca dei fatti comandante del Gruppo Roma - sono stati condannati in primo grado a scontare complessivamente 22 anni di carcere. L’anno scorso Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano, si è candidata alle elezioni politiche con la lista Alleanza Verdi e Sinistra ed è stata eletta al Senato. In questi mesi ha avuto modo di continuare il suo impegno per il rispetto dei diritti civili e umani visitando due volte - a marzo e aprile - il Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di Ponte Galeria, nella periferia di Roma. I Cpr sono luoghi di detenzione amministrativa in cui vengono reclusi i cittadini non comunitari sprovvisti di un regolare documento di soggiorno oppure già destinatari di un provvedimento di espulsione. Il governo di Giorgia Meloni, nell’ambito delle norme contro l’immigrazione irregolare, ha deciso di innalzare a 18 mesi il limite massimo di trattenimento in questi centri. Cucchi ha presentato un’interrogazione parlamentare sulla somministrazione di psicofarmaci all’interno della struttura di Ponte Galeria. “C’ero già stata nel 2013 - spiega - Ricordavo un luogo terribile, ma non ai livelli in cui l’ho trovato pochi mesi fa. Sembra di essere in un giardino zoologico, perché quelle che vedi sono delle vere e proprie gabbie. Corpi abbandonati, spesso buttati a terra senza fare assolutamente nulla per tutto il giorno, nella sporcizia e nel disordine. Mi è stato riferito che il 90% degli ospiti, così vengono chiamati, anche se io utilizzerei il termine detenuti, fa utilizzo di metadone senza alcun piano terapeutico”. Ma le criticità legate a questi centri non sono soltanto di tipo sanitario. Secondo quanto segnalato dalla Coalizione italiana libertà e diritti civili (Cild) sono 56 i milioni di euro previsti nel periodo 2021-2023 per affidare la gestione dei Cpr a soggetti privati. La possibilità che sulla privazione della libertà personale qualcuno possa trarre ingenti profitti è uno degli aspetti più controversi di questa forma di detenzione senza reato e ne segna un ulteriore carattere di eccezionalità, come denuncia Cild in un rapporto dall’eloquente titolo “L’affare Cpr. Il profitto sulla pelle delle persone migranti”. Il dossier della Coalizione descrive il passaggio dalla gestione pubblica a quella privata dei centri e ricostruisce in maniera dettagliata le attività delle multinazionali Gepsa e Ors, della società Engel s.r.l. e delle Cooperative Edeco-Ekene e Badia Grande che hanno contribuito, negli anni recenti, a fare la storia della detenzione amministrativa in Italia. Una storia segnata da continue violazioni dei diritti delle persone detenute e interessi economici che preoccupano anche Cucchi, e hanno innescato anche un conflitto di poteri tra la magistratura di Catania, che ha respinto dieci convalide di trattenimenti di migranti, e il ministero dell’Interno, con il contorno di polemiche che hanno investito il pm Iolanda Apostolico. “C’è gente che specula sulla pelle di queste persone e non gente qualsiasi. Parliamo di lobby rappresentate in Parlamento. Tutto questo avviene nell’indifferenza generale e sotto gli occhi dei vari governi che si sono avvicendati in questi anni”, dice la senatrice Cucchi. Il riferimento è al Gruppo Ors Ag, con sede centrale a Zurigo e attivo da oltre trent’anni in tutta Europa. Sulle modalità repressive adottate in alcuni centri svizzeri e austriaci sotto responsabilità della multinazionale (che attualmente gestisce il Cpr di Ponte Galeria) esistono inchieste giornalistiche e rapporti di Amnesty International e Medici senza frontiere. In Italia Ors si è affidata al lavoro di lobby svolto da Telos Analisi e Strategie, uno “studio professionale che aiuta i propri committenti a comprendere l’ambiente nel quale si posizionano ed operano e ad interagire con tutte le istituzioni e gli stakeholder in modo efficace”. L’accordo tra la multinazionale svizzera e Telos risale a un documento del 2020 firmato da Lutz Hahn, direttore della comunicazione di Ors Management Ag, nel quale si delega la lobby per l’organizzazione di incontri con rappresentanti istituzionali. Nulla di illegale, ma è interessante osservare come Ors sia l’unica tra le cooperative e società che hanno gestito o gestiscono un Cpr ad avere consulenti che la rappresentano alla Camera dei deputati. “È una situazione di cui nessuno parla perché evidentemente le responsabilità politiche sono di tutti”, afferma la senatrice. “Il concetto - aggiunge - è molto semplice: più migranti ci sono, più ci si guadagna sopra. È questo il vero business e adesso avviene sotto gli occhi della destra che ne ha fatto oggetto della sua perpetua campagna elettorale. Quanto costa allo Stato finanziare dei luoghi che ricordano i lager libici? La gestione di questi centri è tutt’altro che trasparente”. E secondo Ilaria Cucchi il filo che unisce vicende come quella di suo fratello a quelli delle persone recluse nei Cpr è “la violenza di Stato nei confronti di chi non può difendersi”. Migranti. “Dentro i Cpr non ci sono diritti. Stiamo adottando il modello libico in Italia” di Susanna Rugghia L’Espresso, 29 ottobre 2023 Morti sospette, detenuti che spariscono, impossibilità di parlare con un avvocato, abuso di psicofarmaci. Il racconto di quello che succede nei centri di permanenza per il rimpatrio fatto da chi ci ha lavorato e ha provato a ripristinare la legalità e l’umanità. “Questo Cpr è una bomba pronta a scoppiare”. L’ultimo allarme sulla situazione ormai ingestibile del Centro per i rimpatri di Gradisca d’Isonzo, in provincia di Gorizia, è arrivato nelle ultime ore dalla sindaca Linda Tomasinsig. Ma la storia di questa struttura arriva da lontano, ed Eva Vigato la conosce bene. “Ormai si vuole sostituire il sistema di accoglienza con la detenzione amministrativa dei Cpr. Che il governo dichiari apertamente che intende portare il modello libico in Italia”. Eva Vigato è un’avvocata che si occupa di diritto penale e dell’immigrazione da tempo. Vive in Veneto, a Este, in provincia di Padova. Da dicembre 2019 a novembre 2020, ha lavorato per il Cpr di Gradisca d’Isonzo, all’epoca appena aperto. “Mi dicono che vogliono fare un grande progetto, avere una certificazione di qualità e che hanno pensato a me”. Vigato accetta e coinvolge altre due colleghe per creare uno sportello legale. “È chiaro che per noi i Cpr debbano essere chiusi, ma nel frattempo volevamo instaurare delle prassi virtuose per agevolare la tutela dei diritti dei detenuti”. L’avvocata si è occupata del servizio di informazione normativa all’interno del Cpr, come dipendente dell’ente Edeco-Ekene. “Decidiamo di prendere parte al progetto con le migliori intenzioni. Volevamo fare dei protocolli virtuosi, trattandosi di un nuovo Cpr. Pensavamo di avere l’occasione di partire da zero e fare un buon lavoro. Sempre ad una condizione: se fosse stata violata la Convenzione di Ginevra, ce ne saremmo andate e avremmo denunciato”. Per arrivare all’apertura del Cpr di Gradisca d’Isonzo, bisogna, però, fare un passo indietro: la storia della cooperativa Ekene comincia nel 2017, è figlia di Ecofficina e Edeco, che hanno dominato il mercato dell’accoglienza in Veneto guadagnandosi l’appellativo di “coop pigliatutto”. L’amministratore di fatto è Simone Borile, imprenditore padovano del business dei rifiuti. Nel 2016, Ecofficina-Edeco si aggiudica due centri di accoglienza a Cona e Bagnoli. A seguito della gestione di questi, ci sono stati due processi a Padova a cui è seguita la liquidazione di Edeco e la nascita di Ekene, che si aggiudica poi l’appalto del Cpr di Gradisca d’Isonzo in Friuli Venezia Giulia e di Macomer in Sardegna. “Inizialmente, ci danno carta bianca. Qualità e rispetto dei diritti, ci dicono. Anzi, se volete, portate libri e riviste. Addirittura a un certo punto volevamo portare dentro attrezzature per permettere ai ragazzi di allenarsi. Poi hanno cominciato a dire “non permettetevi più di portare i vestiti”. Noi li portavamo perché ci eravamo accorte che le magliette che distribuivano erano fatte di materiali scadenti che provocavano irritazione. Cominciamo a sospettare che giocassero a ribasso per lucrare sull’appalto. A quel punto, richiediamo un protocollo. Vogliamo soprattutto che il Cpr appena aperto rispetti l’uso degli spazi: che le stanze restino stanze, che la la mensa resti mensa, che ci sia un’area riservata ai detenuti perché possano magari leggere il libro o un giornale”, spiega Vigato. Dalla sua riapertura nel gennaio del 2019, nel Cpr friulano sono morte quattro persone. Borile è indagato per omicidio colposo per il decesso del detenuto Vakhtang Enukidze, lasciato secondo l’accusa per nove ore senza soccorsi. “Quando è arrivato il Covid sono iniziati i veri problemi perché noi non potevamo più controllare. Finché arriva il morto a gennaio. Loro ci convocano un sabato dal nulla a Monselice, e ci dicono che dobbiamo andare a bere qualcosa insieme. Ci dicono che un detenuto del centro sta poco bene. Il pomeriggio ci arriva un messaggio che ci informa del decesso. Da subito veniamo tenute alla larga. Non volevano che ci mettessimo in mezzo in alcun modo”. A quel punto le avvocate incaricano i mediatori del centro di informare le persone detenute della possibilità di chiedere protezione internazionale e di metterlo per iscritto. Da quel momento la cooperativa ha iniziato a diminuire le ore dell’ufficio legale e a far saltare gli appuntamenti e i colloqui con le persone detenute. È in quel momento che scatta la denuncia delle violazioni alla Prefettura e al Garante nazionale. Eva Vigato ha inviato all’Espresso la documentazione che attesta come nel novembre 2020 abbia redatto una segnalazione alla Prefettura, allegando le molteplici violazioni che aveva riscontrato: i detenuti non avevano accesso ai propri fascicoli, non era permesso loro di contattare senza ostacoli i propri legali o familiari, vi era un abuso nella somministrazione degli psicofarmaci: “Diversi operatori mi avevano riferito che non c’era alcun controllo sugli psicofarmaci”. Infine, i cittadini tunisini erano oggetto di veri e propri “rimpatri collettivi”, senza possibilità di richiedere asilo. “Ci siamo accorte che c’era un transito anomalo di detenuti tunisini, che entravano, stavano lì tre giorni e poi sparivano. Ho pensato subito alla rotta balcanica e alla tratta”. Segnalazioni però che non hanno avuto alcun seguito, “il prefetto in persona affermò che non c’era nulla di irregolare ravvisabile nell’operato. Mi domando come abbia fatto, in così pochi giorni e senza un serio controllo, ad affermare una cosa del genere”. La sera stessa i vertici della cooperativa rimuovono Vigato e le sue colleghe dall’incarico. “Da lì ho interrotto i contatti, poi mi sono costituita a parte civile nel processo di Cona. Nei Cpr non esistono uffici legali anche laddove l’appalto lo prevede. Siamo stati un’eccezione interrotta” conclude l’avvocata. Migranti. “Il Secondo Mare” è quello della burocrazia. Il Monòpoli del diritto d’asilo di Pasquale Rinaldis Il Fatto Quotidiano, 29 ottobre 2023 In Italia l’emergere della realtà dell’immigrazione irregolare è sempre più evidente, come un dipinto che svela dettagli nascosti al crescere della luce dell’attenzione pubblica. Sono molte le persone che raggiungono il suolo italiano sia attraverso rotte terrestri sia, come spesso accade, intraprendendo viaggi via mare ad alto rischio. Tuttavia, la narrazione pubblica tende spesso a concentrarsi su queste prime fasi che, sebbene siano spesso drammatiche, rappresentano soltanto il punto di partenza di un viaggio che porta a un secondo mare, un mare metaforico altrettanto insidioso. Questo “secondo mare” è rappresentato dalle intricate e spesso disumane procedure burocratiche necessarie per richiedere la protezione internazionale, comunemente nota come “asilo politico”. Con l’aumento degli arrivi in Italia negli ultimi anni, il dibattito sulla questione migratoria è tornato al centro dell’agenda politica, tuttavia, spesso si tratta di una discussione approssimativa, con poca attenzione ai dettagli complessi dell’asilo politico. Danilo Deninotti e Kanjano, nel loro reportage a fumetti intitolato Il Secondo Mare si propongono di gettare luce su questa intricata questione, disegnando un quadro completo e umano delle sfide che i richiedenti asilo affrontano nel loro percorso. L’inchiesta si sviluppa attraverso una narrazione a più livelli, offrendo una prospettiva completa sulla questione. La voce narrante guida il lettore attraverso il percorso dei richiedenti asilo, basandosi su un’intervista dettagliata con un operatore che ha vissuto egli stesso l’esperienza della migrazione e ottenuto asilo in Italia. Un approccio che fornisce un tocco umano al racconto, consentendo ai lettori di identificarsi con le sfide personali di coloro che cercano protezione. Contestualmente, gli autori analizzano i dati e le statistiche relative all’immigrazione e all’asilo politico in Italia. Questo aspetto del reportage svela la complessità del fenomeno migratorio e le numerose sfaccettature dell’accoglienza. In particolare, il percorso burocratico necessario per richiedere l’asilo politico, spesso oscuro e intricato, viene rappresentato graficamente come il tabellone del celebre gioco da tavolo “Monòpoli”, sottolineando la natura non lineare di questo processo. Un elemento di particolare rilievo nel racconto è la storia di un operatore che ha ottenuto asilo in Italia. Questa prospettiva interna offre un’immagine dettagliata delle sfide burocratiche e personali che i richiedenti asilo affrontano durante il loro percorso, conferendo al reportage una profondità e una comprensione uniche. Gli autori, Danilo Deninotti e Kanjano, portano al progetto una vasta esperienza nel mondo del fumetto e dell’illustrazione. Deninotti ha scritto reportage a fumetti e graphic novel tradotti in diverse lingue, oltre a sceneggiare storie per pubblicazioni come Topolino. Mentre Kanjano è un illustratore e fumettista che lavora come visual designer e storyboard artist per l’animazione, oltre a essere un disegnatore di storie per bambini e ragazzi. Il Secondo Mare è un prezioso contributo al panorama del giornalismo a fumetti, che offre una prospettiva unica sull’iter burocratico per ottenere l’asilo politico in Italia, con una profonda attenzione per le sfumature umane e burocratiche che caratterizzano questo complesso processo. Pubblicato all’interno de La Revue Dessineé Italia #6, rivista trimestrale indipendente di giornalismo a fumetti, rappresenta un contributo significativo alla comprensione della questione migratoria e dell’asilo politico in Italia, dando una voce autentica ai richiedenti asilo e agli operatori che li assistono. Più tasse e più reati: ecco i risultati della pena di morte di Natale D’Amico* L’Unità, 29 ottobre 2023 Ci sono molti motivi, e nobili, per essere contrari alla pena di morte. Nessuno tocchi Caino, nei quasi trent’anni che lo separano dal suo primo congresso, li ha sviscerati, descritti, spiegati. Ne ha scritto da ultimo, con straordinaria efficacia, Sergio D’Elia su questo giornale il 15 ottobre. Ve ne sono anche di meno nobili, ma non per questo meno concreti, o meno efficaci per erodere quel consenso niente affatto irrilevante di cui la pena capitale continua sorprendentemente a godere in molte parti del mondo. Le argomentazioni - diverse da quelle fondanti, in senso lato morali o relative al rapporto fra Stato e individui - contro la pena di morte si arricchiscono ora con i risultati di una ricerca condotta da Alexander Lundberg per il Cato Institute (On the Public Finance of Capital Punishment i Cato Institute - una versione più estesa della ricerca è pubblicata sulla American Law and Economics Review), qui da noi ripresa dall’Istituto Bruno Leoni nella sua newsletter settimanale. L’indagine è condotta in riferimento al Texas, e si avvantaggia della straordinaria trasparenza che, riguardo ai dati di finanza pubblica e alle statistiche processuali, caratterizza quello Stato. Il riferimento al Texas non è fuorviante perché in rapporto alla popolazione viene lì pronunciato un numero di condanne a morte (0,84 per 100.000 abitanti) non molto diverso da quello medio dei 27 Stati degli USA nei quali questa pena continua ad esistere (0,82). La premessa è quel che già si sa. Mantenere la pena di morte è una scelta costosa anche in termini finanziari. La California, ad esempio, ha speso 4 milioni di dollari per eseguire le 13 condanne a morte effettuate da quando, nel 1978, ha reintrodotto la pena di morte. Si stima che al North Carolina restaurare la pena di morte per due anni, periodo nel quale nessuna condanna è stata eseguita, sia costato 20 milioni di dollari. Era altresì già noto, e non è certo sorprendente, che i processi che comportano la possibilità di una condanna a morte durano e costano molto di più degli altri: per la maggiore probabilità di ricorso all’appello, per il maggior numero di avvocati coinvolti, per la necessità di audire un numero maggiore di testimoni, per il ricorso ad esperti di varia natura, e così via. In Texas un processo che comporta la possibilità che venga comminata la pena capitale dura mediamente 768 giorni, un numero lì straordinariamente elevato rispetto a processi per reati diversi. Negli interi Stati Uniti si calcola che un processo con potenziale pena capitale costi almeno 1,5 milioni di dollari più di un processo che preveda come massima pena possibile il carcere a vita. Esisteva una evidenza episodica delle modalità attraverso le quali le Contee, sulle quali gran parte di questi costi aggiuntivi vengono a cadere, finanziano queste spese. Ad esempio la Contea di Jasper nel 1998 ha finanziato un singolo processo contro alcuni sospetti di omicidio innalzando dell’8% l’imposta sulla proprietà. La Sierra County, avendo scelto di evitare un aumento delle tasse sulla proprietà, nel 1988 ha ridotto le sue forze di polizia per finanziare le spese dei processi per reati che prevedono la pena capitale. Grazie al puntiglioso lavoro di ricerca fatto presso il Cato Institute, ora abbiamo un’evidenza organica e ben più robusta. Siamo infatti in grado di affermare che questi costi aggiuntivi vengono finanziati dalle Contee attraverso un sistematico aumento delle imposte sulla proprietà (in primo luogo sulle abitazioni), nonché attraverso un’altrettanta sistematica riduzione delle spese per la sicurezza pubblica (in media 1,2 milioni per ogni anno in cui si tiene un processo per reati che prevedono la pena capitale). E abbiamo evidenza del fatto che la riduzione di queste ultime spese accresce il numero di reati diversi da quelli punibili con la condanna a morte, principalmente dei reati contro la proprietà. In conclusione: già sapevamo che la minaccia della pena di morte non è una deterrenza efficace contro il rischio che si commettano reati che la prevedono. Scopriamo ora che adottare la pena di morte comporta per la generalità dei cittadini un maggiore livello di imposizione fiscale e maggiori rischi per le loro proprietà. Il favore per la pena di morte si conferma basato su argomenti irrazionali, che la ragione può e deve contrastare. Con argomenti etici, ma non solo. *Magistrato della Corte dei Conti, socio di Nessuno tocchi Caino Medio Oriente. Se la battaglia delle foto genera assuefazione di Giovanni De Luna La Stampa, 29 ottobre 2023 Le foto e i video dei massacri di Hamas e quelle di Gaza distrutta invadono i nostri salotti televisivi: “una competizione vittimaria” per conquistare il favore dell’opinione pubblica, sempre più distratta. Scorrono le immagini dell’orrore. Imperversano sui social, arrivano sui nostri telefonini, ci sommergono dai televisori. È come avere la guerra in casa. Le hanno spedite prima dall’Ucraina, ora da Israele. E a mandarcele sono entrambi i contendenti. È la “competizione vittimaria”: le guerre si vincono sul campo battendo militarmente il nemico, ma si vincono anche su un altro fronte, quello di una opinione pubblica pronta a indignarsi, emozionarsi e schierarsi a favore di chi sembra (o è) “più vittima” dell’altro. La guerra del Vietnam ce lo ha insegnato: un esercito forte e agguerrito come quello americano fu sconfitto da un avversario militarmente più debole ma reso invincibile dal favore dell’opinione pubblica mondiale che, a cominciare dagli stessi Stati Uniti, si schierò senza esitazioni dalla parte dei piccoli vietcong, dei loro pigiami neri, della loro capacità di battersi contro il napalm e le armi sofisticate di una superpotenza. Da Israele e da Gaza ne sono arrivate un diluvio: prima quelle della strage del 7 ottobre, postate dagli stessi miliziani di Hamas, ebbri di sangue, ubriachi di vittoria; poi quelle da Gaza, dei bombardamenti israeliani e dei civili inermi. Ma prima ancora avevamo visto quelle delle fosse comuni di Bucha, in Ucraina, dei civili ammazzati dai russi in mezzo alle strade e tante altre ancora. Un diluvio che negli ultimi tempi ha riguardato soprattutto i bambini: sgozzati o presi in ostaggio da Hamas, sepolti dalle macerie a Gaza. Non è una novità. Il piccolo ebreo con le mani alzate, ripreso in un convoglio di deportati, è diventato uno dei simboli più toccanti della tragedia della Shoah. Senza dimenticare i bimbi scheletrici delle grandi carestie, tante altre piccole vittime messe in mostra e fotografate fino al corpicino esanime, su una spiaggia italiana, che ci ha fatto toccare con mano il dramma della fuga verso le nostre coste di migliaia di esseri umani abbandonati nelle mani di trafficanti senza scrupoli. Anche le strategie comunicative sono sempre le stesse. Hamas ha fatto circolare i video dell’orrore per glorificare se stessa e i suoi “martiri” e per “terrorizzare” gli israeliani; Israele li ha messi in rete per documentare la crudeltà di nemici che considera “bestie in sembianze umane”. Sono le regole della competizione vittimaria e vengono seguite da entrambe le parti, con una perfetta, reciproca simmetria: a un’azione dell’una corrisponde una reazione uguale e contraria dell’altra. Sul campo oggi sono in corso guerre simmetriche e guerre asimmetriche. Quella tra Ucraina e Russia è una classica guerra simmetrica, con due eserciti nazionali, due Stati, due bandiere, due alleanze; si tratta di avversari che si conoscono bene e che sanno che alla fine una pace ci sarà, ci dovrà essere. Non si sa quando, ma ci sarà. Quella tra Israele e Hamas è invece profondamente asimmetrica. Da un lato una nazione, uno Stato, un esercito che è tra i meglio attrezzati del mondo; dall’altro uno schieramento privo di una realtà statuale e che ha spesso usato come arma direttamente i corpi dei suoi militanti, (in una riedizione postnovecentesca dei kamikaze giapponesi) e che ora si è servito dei deltaplani, delle jeep, dei fuoristrada, “attrezzi” che appartengono al loisir, al turismo, intrecciando arcaismo e modernità, culti religiosi e spinte tecnologiche e cogliendo così di sorpresa anche i servizi segreti israeliani. Una guerra asimmetrica della quale non si intravede la fine perché la pace sembra impossibile: gli avversari si delegittimano a vicenda e a ogni azione militare corrisponde l’incremento esponenziale di un odio smisurato. Pure, in questo scenario che si ripete nei vari conflitti che insanguinano oggi il nostro pianeta, c’è anche un altro elemento sul quale aveva richiamato l’attenzione, già un po’ di anni fa, Susan Sontag, ed è il rischio dell’assuefazione di fronte agli eccessi di una rappresentazione che ci sbatte in faccia, senza mediazioni, “il dolore degli altri”. In una di queste sere, su una rete televisiva privata, il giornalista in studio si è soffermato a lungo sui fotogrammi raccapriccianti che stava per trasmettere e sui mille dubbi che aveva circa quella messa in onda: erano del 7 ottobre, tra i più cruenti di quelli immortalati dai telefonini di Hamas. Quando il servizio è partito, però, all’orrore si è sovrapposto lo sgomento: le immagini erano quelle dello stacco pubblicitario che il giornalista aveva omesso di annunciare. Ne è venuto fuori così un groviglio inestricabile tra il sangue delle vittime e i sorrisi compiaciuti, l’allegria ostentata di uomini e donne che ci invitavano ad acquistare, a consumare. Una scena emblematica; senza soluzione di continuità nei nostri televisori arriva di tutto, un minestrone che svuota le emozioni, proponendoci uno sdegno “usa e getta”, schiacciato su un consumo vorace e veloce. Giustapposte una all’altra, le figure straziate dei bambini rincorrono gli exploit di Fabrizio Corona, la commozione si intreccia con la curiosità, la notizia con il gossip: chiusi nei tinelli delle nostre case, sprofondati sui divani dei nostri salotti, ci sentiamo rassicurati dalla percezione dei nostri interni domestici come fortezze inespugnabili. E dimentichiamo tutto, in fretta. Medio Oriente. Dalla Striscia un silenzio assordante di Michele Giorgio Il Manifesto, 29 ottobre 2023 Senza telefoni né internet non arrivano notizie. I soccorritori girano di quartiere in quartiere in cerca di uccisi e feriti nei raid israeliani. Netanyahu annuncia l’ampliamento dell’invasione di terra: “Battaglia dell’umanità contro i barbari”. Il fotoreporter Motaz Azaiza non ha bisogno di Elon Musk per aggirare la paralisi a Gaza di tutte le comunicazioni telefoniche e di Internet scattata venerdì sera poco prima che Israele lanciasse la sua prima vera incursione di terra a Gaza, accompagnata da bombardamenti aerei di una intensità mai vista. Musk ieri, facendo irritare Israele, ha detto che fornirà i suoi servizi Internet Starlink - connettività globale attraverso i satelliti - alle organizzazioni umanitarie internazionali per superare il blackout delle comunicazioni a Gaza. Più artigianalmente Azaiza, le sue storie da Gaza sono seguite da masse di follower su Instagram, prova e riprova, inserisci una sim piuttosto di un’altra, agganciandosi a ogni singola onda nella Striscia, è riuscito a postare qualche aggiornamento. Grande la soddisfazione. Grazie a lui sono filtrate informazioni sulla situazione e la condizione dei civili palestinesi. Abilità e spirito di iniziativa che non sorprendono. Da questo punto di vista i gazawi hanno sempre riservato delle sorprese. Costretti dalle privazioni ad aguzzare l’ingegno, hanno messo a punto non pochi rimedi ai problemi di vita quotidiana. Quando anni fa ci fu penuria di benzina e gasolio, come quella attuale, che durò settimane, inventarono filtri speciali per l’olio usato per le fritture trasformandolo in carburante per le auto. Uno studente universitario mise a punto un sistema per disinfettare le sale operatorie a costi irrisori, altri giovani inventarono potenti batterie ricaricabili Made in Gaza per avere l’elettricità in casa senza i costosi generatori. Alla Mezzaluna Rossa palestinese, meno abili di Motaz Azaiza, telefoni e computer sono rimasti muti. Gaza non ha più un servizio di emergenza. Il numero verde 101 per le ambulanze e il 102 per la protezione civile non funzionano più. I morti e le centinaia di feriti rimasti sotto le macerie dopo i bombardamenti di venerdì notte, i soccorritori sono riusciti a tirarli fuori solo grazie alle segnalazioni portate da volontari, il più delle volte a piedi, ad ospedali e centri sanitari. “L’intero sistema è in tilt, facciamo ricorso a metodi primitivi per salvare le persone, utilizzando la vista e l’udito. Nessuno può chiamare il numero verde, nessuno può chiedere aiuto al telefono, nemmeno i malati cronici o le donne che partoriscono”, spiega il dottor Mohammad Al Fitiani della Mezzaluna. “Senza telefoni e la rete internet - aggiunge - le ambulanze non possono nemmeno chiamarsi tra loro per sapere dove andare. Non possono far altro che ispezionare i siti dove ci sono stati bombardamenti per scoprire se ci sono persone che hanno bisogno di aiuto”. La giornalista Fares Akram, in passato della Associated Press e di Al Jazeera, ha riferito tra le lacrime di aver perso 18 membri della sua famiglia in un raid aereo. Il ministero della sanità a Gaza ha aggiornato il bilancio delle vittime dei bombardamenti a 7.703, tra cui 3.500 bambini. “Abbiamo perso i contatti con le nostre squadre a Gaza. Il silenzio è assordante”, ha affermato la direttrice del Programma alimentare mondiale, Cindy McCain. Più fortunata rispetto ad altre agenzie umanitarie è stata l’Unicef che a un certo punto ha annunciato di aver preso contatto con il suo staff a Gaza. Molti hanno rimpianto i telefoni satellitari diffusi fino a una quindicina di anni fa ma scomparsi quasi del tutto. Uguali lacrime per i walkie-talkie mandati in pensione dai telefoni cellulari Con le comunicazioni azzerate le ambulanze non possono che ispezionare i siti dove ci sono stati bombardamenti per scoprire se ci sono persone L’attacco a Gaza e contro Hamas continua, non ci sarà una tregua sino a quando Israele non avrà raggiunto i suoi obiettivi. Questo è il messaggio che ha inviato ieri sera, durante una conferenza stampa, il premier israeliano Netanyahu, assieme al ministro della Difesa Yoav Gallant e il nuovo partner nel gabinetto di guerra, Benny Gantz. “Abbiamo approvato all’unanimità l’ampliamento dell’invasione di terra” ha detto Netanyahu. “Il nostro obiettivo è sconfiggere il nemico assassino. Abbiamo dichiarato ‘mai più’ e ribadiamo ‘mai più, adesso’. Mi piange il cuore quando ho incontrato le famiglie degli ostaggi. Ho assicurato loro che esploreremo ogni strada per riportare a casa i loro cari. La loro prigionia è un crimine contro l’umanità”. Quindi ha sottolineano le partnership con i paesi europei che “Hanno espresso il loro sostegno e il loro forte desiderio per la nostra vittoria” e ha puntato il dito contro coloro che accusano l’esercito israeliano di crimini di guerra. “Sono ipocriti”, ha detto, sostenendo che Israele non colpisce i civili di Gaza mentre Hamas userebbe “cinicamente gli ospedali come rifugi… Israele sta combattendo una battaglia per l’umanità contro i barbari”. Quella in corso a Gaza, per Netanyahu e la “seconda guerra d’indipendenza” di Israele “sarà lunga e difficile ma vinceremo, questa è la missione della mia vita”. I reparti corazzati entrati nella Striscia venerdì, con la copertura massiccia dell’aviazione, restano dove sono e rappresentano l’avanguardia di incursioni ancora più ampie in futuro. L’ha ribadito in particolare il ministro della difesa Gallant, inviando come ha fatto Netanyahu un altro messaggio ad Hamas. Il gabinetto di guerra israeliano pur comprendendo il dramma delle famiglie degli oltre 200 israeliani e stranieri ostaggi a Gaza, non permetterà che si arrivi a una tregua senza aver raggiunto certi obiettivi e non negozierà uno scambio di prigionieri alle condizioni di Hamas. Una risposta indiretta al movimento islamico che ieri pomeriggio ha chiesto lo “svuotamento delle prigioni israeliane”, ossia il rilascio di 6.600 prigionieri politici palestinese in cambio della liberazione degli ostaggi. “Se il nemico vuole risolvere la questione, noi siamo pronti”, ha detto il portavoce dell’ala militare di Hamas, Abu Obeida. Nonostante le centinaia e centinaia di attacchi aerei che Israele avrebbe indirizzato contro Hamas, il movimento islamico non ha perduto la sua capacità di lanciare razzi. L’ha fatto anche ieri, anche in direzione di Tel Aviv ferendo tre israeliani. Medio Oriente. “Gli ostaggi per tutti i detenuti”: Hamas detta il prezzo, il no di Israele di Francesca Caferri La Repubblica, 29 ottobre 2023 Netanyahu cerca di tranquillizzare le famiglie dei rapiti. Che insistono: “Non importa come, riportateli a casa”. “Tutti per tutti”. Le parole sussurrate sabato mattina nella grande piazza davanti al museo di Tel Aviv da genitori, fratelli, figli dei 229 ostaggi nelle mani di Hamas a Gaza diventano un urlo quando arriva la sera e, alla fine di un lungo braccio di ferro fatto di appuntamenti rimandati, minacce e compromessi, i rappresentanti delle famiglie si siedono di fronte al primo ministro Benjamin Netanyahu, all’ex capo dell’opposizione Benny Gantz e al ministro della Difesa Yoav Gallant. “Siamo certi che uno scambio immediato tutti per tutti avrebbe un forte supporto nazionale”, dice uscendo dalla riunione Merav Leshem-Gonen, mamma di Romy Gonen, 20 anni, rapita al Supernova festival. “Qualunque tipo di negoziato sia in corso, li rivogliamo indietro tutti. In qualsiasi modo. Non ci importa che accordo dovranno fare. Tutti e subito”, le fa eco Malki Shemtov, padre di Omer, 21 anni, catturato nello stesso posto. Quella fra venerdì e sabato, con l’intensificarsi dei bombardamenti e delle azioni di terra, per le famiglie è stata “la più orribile delle notti”, per usare parole loro: da lì, la decisione di alzare la pressione sul governo e chiedere con forza un incontro che ancora non si era concretizzato. Prima Gallant lo ha promesso per oggi: poi lo staff di Netanyahu, ben consapevole del peso della campagna senza sosta che queste famiglie stanno sostenendo in Israele e all’estero, lo ha fissato per la serata di ieri. Ma ad alzare la posta e la tensione, se mai servisse, ieri ci aveva pensato anche Hamas: con un comunicato diffuso sul canale Telegram del gruppo, il portavoce del braccio armato, le brigate Ezzedine al Qassam, Abu Obeida, ha detto che il prezzo della libertà degli ostaggi è “svuotare le prigioni sioniste di tutti i detenuti (palestinesi ndr.)”. Un prezzo altissimo: non solo perché si parla di migliaia di detenuti e non solo delle 109 donne e della quarantina di minori di cui si era discusso finora, ma soprattutto perché chiede a Israele di mettere nel conto anche i detenuti “con le mani sporche di sangue”. Se raggiungesse questo obiettivo, Hamas potrebbe presentarsi agli occhi degli abitanti della Striscia e della Cisgiordania come l’unico interlocutore in grado di ottenere da Israele risultati in nome della causa palestinese, incassando una vittoria importante anche contro i nemici interni dell’Autorità nazionale palestinese (Anp). Non a caso, il portavoce dell’Idf Hagari bolla l’offerta come “terrorismo psicologico”. Ieri nella conferenza stampa seguita all’incontro con le famiglie (la prima in cui ha accettato di rispondere alle domande dei giornalisti dal 7 ottobre), Netanyahu ha detto che la questione dello scambio “è stata affrontata nel gabinetto di guerra” senza però dare indicazioni su quale possa essere l’orientamento del governo. Il premier ha sottolineato in modo deciso che la liberazione degli ostaggi è una priorità e che l’operazione di terra “può aiutare a raggiungere l’obiettivo di distruggere Hamas e riportare a casa gli ostaggi”. Come le due questioni possano essere affrontate insieme però non lo ha spiegato. Quello che appare certo è che le trattative per una liberazione dei rapiti restano in corso e con essa tutti i discorsi su cessate il fuoco, gli aiuti umanitari e la consegna di carburante. Lo confermano due fonti coinvolte a vario titolo nei negoziati e lo conferma anche il viaggio del segretario generale dell’Onu Antonio Guterres a Doha, dove ha ringraziato il Qatar per la mediazione. Lo stesso Guterres ha poi telefonato al presidente egiziano al Sisi, che gestisce un canale parallelo di dialogo con Hamas.