Il lavoro dei detenuti, la revisione del 41 bis e il coraggio di riformare il carcere di David Allegranti linkiesta.it, 28 ottobre 2023 Il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Giovanni Russo, ha annunciato cambiamenti sostanziali nei penitenziari: dal reinserimento sociale alle misure alternative, fino alla riduzione del volontariato e all’abolizione delle pene incostituzionali. Potrebbe essere una autentica rivoluzione, quella annunciata da Giovanni Russo, capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), al recente “Salone della Giustizia”. Il carcere, tra tasso di sovraffollamento esplosivo e suicidi dei ristretti, è nei pensieri di pochi, soprattutto tra i politici, e se non fosse per i Radicali e qualche meritoria associazione (L’altro diritto, Antigone), l’attenzione sarebbe ancora più bassa. Russo, che è capo del Dap dal gennaio di quest’anno, vuole revisionare il 41-bis, il cosiddetto carcere duro, e dare la possibilità ai detenuti di trovarsi un lavoro vero, in modo che il loro reinserimento sociale sia pieno e non soltanto di facciata. D’altronde, l’articolo 27 della Costituzione parla chiaro: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Russo ha spiegato questa settimana che “nel giro di un anno sarò in grado di offrire a più della metà dei detenuti del nostro Paese un’attività lavorativa”. Oggi solo poco più del trentuno per cento dei detenuti ne ha una. “Ho fatto un accordo con We Build, che è la più grande azienda multinazionale italiana di costruzione: ci hanno offerto venticinque mila posti di lavori. Ho accordi con Tim, Enel, con l’Asi di Caserta: hanno offerto migliaia di posti di lavoro per i nostri detenuti”, ha aggiunto Russo. Insomma, dice a Linkiesta il filosofo del diritto Emilio Santoro, professore ordinario all’Università di Firenze: “Sarebbe una rivoluzione copernicana per il carcere italiano: c’è da apprezzare il coraggio ed è senz’altro un gran passo in avanti rispetto alle ultime gestioni del Dap. Smettiamola con questa baggianata dei lavori socialmente utili, cioè gratuiti, ai detenuti servono lavori veri”. Il capo del Dap ha una grande fortuna, ed è bravo a sfruttarla: ci sono lavori che molte persone, soprattutto giovani, non vogliono più fare, quindi si cercano altri target, dai migranti ai detenuti. Sono persone che hanno bisogno di un reinserimento sociale e che per via di questa necessità garantiscono continuità e costanza al datore di lavoro. “In passato - aggiunge Santoro - c’era un’amministrazione penitenziaria che avviava convenzioni su convenzioni per lavori di cosiddetta pubblica utilità, quindi di volontariato; il nuovo capo del Dap invece va a cercare lavori veri”. L’aspetto interessante è che lavori come quelli nell’edilizia non sono lavori che si possono fare in carcere. Si devono usare meccanismi come il lavoro esterno dei detenuti, ma poi possono stabilizzarsi solo grazie alle misure alternative, come la semilibertà, che consente il lavoro stabile all’esterno. In questo modo il carcere passa da essere il posto in cui si è totalmente reclusi al posto in cui i detenuti vanno a dormire dopo aver lavorato tutto il giorno fuori. “Avere un lavoro è fondamentale per il reinserimento sociale dei detenuti”, dice ancora Santoro. “Se uno conosce la situazione del carcere sa che almeno un quarto dei detenuti ha il problema di dove dormire la notte. Che siano stranieri, tossicodipendenti o persone senza fissa dimora. Come diceva Alessandro Margara, autore della riforma dell’ordinamento penitenziario tra le più avanzate d’Europa, in carcere è il posto in cui si trovano i socialmente abbandonati. Per cui l’idea di lavorare fuori e tornare in carcere per dormire è importante”. Anche il passaggio di Russo sul 41-bis è coraggioso: “Stiamo rivedendo la circolare che regola il 41-bis. Sarà costituzionalmente ineccepibile”, ha detto il capo del Dap. L’idea è quella di eliminare qualunque ipotesi di trattamento che in qualche modo sia inutilmente vessatorio. Evitare, quindi, rispetto agli altri detenuti, ogni distinzione, se non quelle che impediscono nella maniera più assoluta che questi detenuti speciali possano continuare a svolgere un’attività dannosa per la società intera. “Quindi il 41-bis rimarrà, ma sarà un nuovo 41bis”. ha detto Russo. Non sarà un’impresa senza ostacoli e le dichiarazioni del capo dipartimento sembrano mirate innanzitutto a commisurare le reazioni. In più, dice Santoro, “il messaggio culturale è importante: la Corte costituzionale ha consentito al Parlamento di tenere in vita per oltre due anni l’ergastolo ostativo per poi fare una finta riforma dopo che la Corte Edu lo ha dichiarato incostituzionale. Russo dopo meno di un anno ha già detto che eliminerà ogni aspetto punitivo e vessatorio del 41-bis, che dobbiamo archiviare definitivamente la dicitura di “carcere duro”, spiegando che rimarrà uno strumento di prevenzione ma che i detenuti sono tutti uguali”. Che sia la volta buona per avere una piena applicazione dell’articolo 27 della Costituzione? La Circolare del Dap sulla media sicurezza è innovativa? No, aumenta la custodia chiusa di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 28 ottobre 2023 I modelli di detenzione del passato non possono più soddisfare le esigenze attuali. In questa prospettiva, la Circolare del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria (Dap) del 18 luglio 2022, che indica le direttive per il rilancio del regime e del trattamento penitenziario per il circuito della media sicurezza, rappresentava un passo necessario. Tuttavia, il Garante nazionale, nell’esprimere il proprio parere sulla circolare in fase di elaborazione, aveva già evidenziato perplessità su alcuni aspetti rimasti però anche nella versione definitiva del testo; perplessità in parte confermate dalla sperimentazione della Circolare effettuata nei quattro Provveditorati di Campania, Lombardia, Triveneto e Sicilia. Parliamo di uno degli ultimi atti del Garante nazionale uscente. Per questo vale la pena soffermarsi. La sperimentazione - I circuiti di media sicurezza riguardano il 71 percento della popolazione detenuta. La necessità di rivedere le politiche detentive, d’altronde, è un dovere morale e costituzionale, che richiede un bilanciamento delicato tra l’ordine e il rispetto dei diritti umani fondamentali di ogni individuo. Proprio per questo, la Circolare dipartimentale 3693/ 6143 del 18 luglio 2022 mira a rinnovare il sistema penitenziario italiano nel circuito della media sicurezza. Sperimentata in quattro regioni, definisce diverse sezioni tra cui stanze d’accoglienza, preparazione al trattamento intensificato, trattamento intensificato, sezioni di isolamento e altre istituzioni a custodia attenuata. In particolare, la Circolare prevede che l’involuzione del percorso trattamentale potrà prevedere, previa valutazione dell’équipe di osservazione e trattamento, la disposizione di rientro in Sezioni ordinarie. In questo caso, secondo questa direttiva, non c’è possibilità di reclamo. La sua efficacia sarà valutata per poi essere estesa a tutti gli istituti nazionali. Il Garante Nazionale ha monitorato l’applicazione sperimentale della Circolare, analizzando l’organizzazione nelle sezioni a custodia aperta e chiusa in quattro regioni durante tre fasi diverse. In alcuni istituti, le modifiche sono state minime, come spostamenti di sezioni. In altre regioni, ci sono stati aumenti significativi nelle sezioni di accoglienza e nei trattamenti intensificati. Il documento del Garante è una ricerca e analisi di Emanuele Cappelli e Giovanni Suriano, l’Unità organizzativa Privazione della libertà in ambito penale. Tutto coordinato e supervisionato da Daniela de Robert. Nel complesso, le sezioni a custodia aperta sono diminuite del 42% dal 2019 al 2023, mentre le sezioni a ‘ custodia chiusa’ sono aumentate. Il Garante, nelle analisi, ha anche valutato le attività offerte ai detenuti, come lavoro, formazione, attività sportive e culturali. Ed anche in questo caso emergono criticità- La diminuzione della “custodia aperta” - Il Garante, durante la sperimentazione condotta in tre fasi differenti (luglio, ottobre e dicembre 2022), ha esaminato il numero di sezioni a custodia aperta, ordinaria e con vigilanza dinamica in diversi Provveditorati italiani. Nel Provveditorato della Campania, ad esempio, si è osservato un incremento minimo delle sezioni a custodia aperta (+ 1), mentre quelle a custodia ordinaria sono diminuite (- 7). Parallelamente, le sezioni a vigilanza dinamica sono aumentate (+ 2), mentre quelle senza tale vigilanza sono diminuite (- 8). In Lombardia, la situazione è risultata differente: si è verificata una diminuzione significativa delle sezioni a custodia aperta (- 56), accompagnata da un aumento di quelle a custodia ordinaria (+ 69). Questi cambiamenti hanno riflettuto un’importante redistribuzione dei detenuti all’interno delle diverse tipologie di custodia. Le variazioni nelle sezioni hanno inevitabilmente influenzato il numero di detenuti. In particolare, si è registrato un aumento notevole delle persone detenute nelle sezioni a custodia chiusa (+ 5284), mentre quelle nelle sezioni a custodia aperta sono diminuite (- 5098). Questi dati suggeriscono un significativo spostamento nella modalità di detenzione, con un numero maggiore di detenuti assegnati a strutture a custodia chiusa. Un aspetto chiaramente critico di questa sperimentazione. Nel documento del Garante nazionale vengono riportate diverse tabelle. Nella numero 11 emerge chiaramente una significativa diminuzione complessiva delle sezioni a custodia aperta (- 44), a fronte di un aumento delle sezioni a custodia ordinaria (+ 79). Le sezioni a vigilanza dinamica sono aumentate di soli 8 reparti, mentre le sezioni a vigilanza statica sono aumentate di 30 unità. Tuttavia, la Tabella numero 13 rivela un cambiamento ancora più sostanziale: il numero totale di detenuti assegnati alle sezioni a custodia aperta è diminuito in modo significativo, passando da 12,033 nel mese di luglio a soli 2,283 nel mese di dicembre. Al contrario, nello stesso periodo, il numero di detenuti nelle sezioni a custodia chiusa è aumentato considerevolmente, passando da 7,026 in luglio a 14,100 in dicembre, rappresentando un incremento di oltre 7,000 detenuti. Depotenziamento attività trattamentali - Inoltre, durante il periodo sperimentale, sono state inaugurate 107 nuove sezioni a trattamento intensificato. È interessante notare che anche le sezioni di accoglienza e quelle previste dall’articolo 32 del regolamento esistente sono aumentate leggermente, di cinque unità ciascuna, indicando un cambiamento nelle politiche di assegnazione e custodia nelle strutture detentive. Ma emergono anche altre criticità rispetto alla sperimentazione dei quattro Provveditorati di Campania, Lombardia, Triveneto e Sicilia. L’analisi condotta dal Garante nazionale ha messo in luce un quadro alquanto insoddisfacente, soprattutto quando si confrontano i dati sull’andamento delle sezioni con le attività effettivamente svolte nei vari Istituti penitenziari presi in considerazione. Emergono diverse criticità, evidenziando come, ad eccezione di alcuni Istituti, le opportunità lavorative, culturali, sportive, ricreative e scolastiche offerte alle persone detenute non siano all’altezza delle loro esigenze e potenzialità. In particolare, si rileva una carenza di attività scolastiche, nonostante siano presenti 5,394 persone detenute che non hanno completato l’istruzione obbligatoria e 820 analfabeti. L’istruzione è fondamentale per queste persone, rappresentando la base da cui partire per costruire un futuro positivo nella società. Un’altra criticità riguarda la mancanza di spazi adeguati per svolgere le attività previste dalle norme nazionali e sovranazionali. In alcuni Istituti, mancano persino spazi per le attività scolastiche, e in diversi Istituti delle regioni Campania, Lombardia, Sicilia e Triveneto non ci sono luoghi idonei per le attività culturali, sociali, ricreative e sportive. A volte, mancano anche le aree esterne per le passeggiate all’aria aperta, necessarie per il benessere psicofisico dei detenuti. L’intento è positivo, ma va migliorato - La Circolare dipartimentale 3693/6143 “Circuito media sicurezza-Direttive per il rilancio del regime penitenziario e del trattamento penitenziario” del 18 luglio 2022, ricordiamo, ha l’obiettivo dichiarato di definire le direttive per il rilancio di un sistema di esecuzione penale omogeneo in tutto il territorio nazionale e costituzionalmente orientato; di riorganizzare il circuito e regolamentare la gestione ordinaria con un “approccio concreto, giuridicamente fondato”; di “superare il dualismo tra custodia aperta e custodia chiusa”, impostando “le direttive in ragione delle previsioni che regolano il trattamento individualizzato”. La buona volontà c’è, ora basterebbe correggere gli aspetti evidenziati dal Garante Nazionale presieduto da Mauro Palma. La nuova terna di garanti voluti dal ministro Nordio (a quanto pare, uno di loro scelto sotto indicazione del grillino Roberto Scarpinato), avranno la stessa competenza e capacità di analisi, oppure occuperanno il posto per pura formalità? Di certo, rispetto a quelli uscenti, non hanno alcuna esperienza sul campo. Droghe e carcere, le parole di Mattarella non guardano solamente al passato di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 28 ottobre 2023 Sergio Mattarella, nel ricordare il magistrato Luigi Daga, ci racconta come egli “si impegnò per restringere la carcerazione ai delitti gravi, per offrire l’opportunità di reinserimento sociale dei detenuti attraverso il più ampio ricorso alle misure alternative alla detenzione”. Il ricordo si è svolto giovedì, nel trentesimo anniversario dell’attentato in Egitto che portò Daga alla morte. Ma le parole di Mattarella non guardano solamente al passato. È evidente il messaggio relativo al cosiddetto decreto Caivano, che recherebbe supposte misure urgenti di contrasto alla criminalità minorile e sulla cui conversione in legge è oggi impegnato il Parlamento. Tanto il testo iniziale quanto un emendamento presentato da Fratelli d’Italia e, dopo un po’ di giravolte, modificato sotto spinta governativa vanno a inasprire la reazione punitiva per i fatti di lieve entità relativi alle droghe. Si tratta di quel comma 5 dell’art. 73 del Testo Unico del 1990 sul quale non a caso si andò ad agire, in senso opposto a quello cui si guarda oggi, nel 2013 quando, all’indomani della condanna della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per l’eccessivo affollamento delle carceri, l’Italia fu costretta a prendere misure conseguenti. La normativa sulle droghe è infatti la protagonista assoluta delle nostre galere: un terzo delle persone in carcere è ristretto a causa della sua violazione, con un peso enorme anche sulla spesa penitenziaria. L’aumento delle pene per episodi di lieve entità, che riguardano persone che consumano sostanze psicotrope anche leggere e che sono spesso coinvolte solo occasionalmente nel piccolo spaccio, è un vero e proprio manifesto di un uso simbolico del diritto penale, fondato su aumenti irrazionali della severità sanzionatoria pur nell’evidenza storicamente comprovata della loro totale incapacità preventiva e totale mancanza di efficacia deterrente. È evidente come si tratti solamente di un facile manifesto da dare in pasto all’opinione pubblica. La reazione repressiva al fenomeno del consumo, in particolare giovanile, che si vuole oggi inasprire continua a portare avanti un sistema che tutto il mondo - e per prime le Nazioni Unite - ha riconosciuto come fallimentare nella sua incapacità di prevenire quei fenomeni che sostiene di voler combattere. Come dimostra in Italia la mancata diminuzione del traffico e del consumo di stupefacenti dal ‘90 a oggi. È un sistema dagli altissimi costi economici e sociali. Invece di intervenire sui servizi per la tossicodipendenza e sull’educazione, si punta sulla sola sanzione repressiva che finisce per diventare desocializzante, spingendo la persona esclusa a commettere i medesimi reati e, in una spirale che vede diminuire le occasioni di reinserimento, anche a diventare manovalanza della criminalità organizzata. Ancora parlando di Daga, Mattarella ha aggiunto che “il suo insegnamento umano e professionale di fedele servitore della Repubblica rimane prezioso per rendere coerente il nostro sistema penitenziario coi principi costituzionali”. Il populismo penale è quella strategia politica che, del tutto incurante del dato statistico, mira a guadagnare facili consensi promettendo di usare il pugno di ferro contro la piccola criminalità. Sotto la spinta dei vari populismi penali - proprio come quello che oggi vediamo in azione - negli ultimi trent’anni le carceri italiane hanno visto raddoppiare la popolazione detenuta, nonché riempirsi di ogni sorta di povertà e marginalità sociale. Il nostro sistema penitenziario, così come lo stesso nostro sistema penale, si è posto in contraddizione con i principi fondamentali della Repubblica. Ringraziamo il presidente Mattarella per aver usato parole così nette nel ricordarlo. *Coordinatrice dell’Associazione Antigone Caso Cospito, il cortocircuito sul 41 bis di Luigi Manconi e Marica Fantauzzi La Repubblica, 28 ottobre 2023 Il provvedimento assunto nei confronti dell’anarchico sembra avere il significato di una sentenza esemplare e di un messaggio pesantemente simbolico. Il 15 novembre di un anno fa sulle pagine di questo giornale si parlava per la prima volta dell’applicazione del regime di detenzione del 41 bis all’anarchico Alfredo Cospito. Detenuto nel carcere di Sassari, Cospito da un mese aveva iniziato lo sciopero della fame contro le limitazioni imposte da quel regime speciale: l’ora d’aria passata in un piccolo rettangolo di cemento, la socialità ridotta a due persone, le comunicazioni con l’esterno trattenute in entrata e in uscita, la possibilità di leggere pochi e selezionati testi. E a seguire tutta una serie di ulteriori proibizioni e divieti, tra cui - il più insensato - quello di tenere sulle pareti della cella le fotografie dei propri genitori defunti. Misure, tutte, che nulla hanno a che fare con l’obiettivo originario del 41 bis, che è solamente uno: l’interruzione delle relazioni tra il recluso e l’organizzazione criminale di appartenenza. Da quel 15 novembre più volte si è scritto di come fosse iniqua l’applicazione di quel dispositivo nei confronti di un detenuto la cui appartenenza a un’organizzazione criminale formalizzata, gerarchica e centralizzata veniva messa in discussione, non solo da numerosi giuristi, ma anche da alcune sentenze. Cospito, nel frattempo, metteva in atto un digiuno totale, inizialmente nel silenzio più assoluto, poi in un caos mediatico che finì per arrivare a condizionare la stessa agenda politica. In quella circostanza molti appresero per la prima volta quali possono essere gli effetti di un digiuno prolungato e quali le sue conseguenze irreversibili. Poi, la Corte costituzionale ha emesso un primo verdetto positivo: si apriva uno spiraglio verso una riduzione di pena e si ribadiva l’incostituzionalità di un automatismo che vietasse di accedere ai benefici, a prescindere dall’entità della sanzione inflitta. Ora, dopo un anno, il Tribunale di Sorveglianza di Roma ha confermato l’applicazione del 41 bis nei confronti di Cospito. Contro tale decisione va ricordato che la Procura nazionale Antimafia e Antiterrorismo, la Direzione distrettuale Antimafia di Torino, il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, hanno espresso parere favorevole al trasferimento di Cospito a una forma di detenzione di minore afflittività, come quello di alta sicurezza. La stessa opinione era stata argomentata dal Procuratore generale presso la Corte di Cassazione. Per poter ignorare questi così importanti pareri, il Tribunale di Sorveglianza di Roma ha dovuto definire “contraddittorie” le motivazioni di un organismo autorevole come la Direzione nazionale Antimafia e Antiterrorismo. Di conseguenza, il provvedimento assunto nei confronti di Cospito sembra avere il significato di una sentenza esemplare e di un messaggio pesantemente simbolico. A rafforzare tale sensazione ci sono due elementi: nelle motivazioni della conferma del 41 bis, si indica lo sciopero della fame attuato da Cospito come indice della sua pericolosità, mentre ragionevolmente lo si sarebbe potuto interpretare come l’esatto opposto: ovvero la scelta pacifica di un’azione nonviolenta. Inoltre, in quelle stesse motivazioni, il magistrato estensore non ricorre all’espressione giuridica “41 bis”, bensì alla formula giornalistica “carcere duro”. Cosa che la detenzione speciale non è e non deve essere. Non è, secondo la legge, un sistema più afflittivo, più pesante, più segregativo di esecuzione della pena. È, come già si è detto, un regime che ha la sola ed esclusiva finalità di interrompere i rapporti tra il recluso e l’organizzazione criminale esterna. Bizzarro che i magistrati del Tribunale di Sorveglianza spensieratamente lo dimentichino. Nonostante ciò, non si può dire che quest’anno sia passato inutilmente. Se non altro una quota più ampia di opinione pubblica ha avuto l’occasione di conoscere meglio quel sistema di detenzione che un ex magistrato come Gherardo Colombo considera “non costituzionale”. Dl Caivano, via libera al Senato con la fiducia. Testo alla Camera di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 28 ottobre 2023 Critici i penalisti: gli aumenti di pena massima e minima per i reati di lieve entità in materia di stupefacenti contraddicono i principi di proporzionalità. Via libera in Senato (con 90 sì, 45 no, e zero astenuti) alla conversione in legge (con modificazioni) del cd. Dl Caivano (123/2023), norma “bandiera” del Governo Meloni che contiene “misure urgenti di contrasto al disagio giovanile e alla criminalità minorile”, prevedendo un generale inasprimento delle pene e un accesso al carcere più facile per i minori. Il voto è passato con la “fiducia”. Per Boccia (Pd): “è sintomo che la maggioranza è spaccata”. Per Gasparri (Fi) la fiducia è giustificata dai 340 emendamenti: “una procedura chiaramente ostruzionistica” mentre “Caivano è urgente”. Il testo ampiamente modificato a seguito dell’esame presso le Commissioni riunite Giustizia e Affari costituzionali, passa ora all’esame della Camera. L’articolato si compone ora di 25 articoli (erano 14) suddivisi in 4 Capi: I (articoli 1-2) concerne interventi strutturali nel territorio del Comune di Caivano; II (articoli 3-9) disposizioni in materia di sicurezza e prevenzione della criminalità minorile; III (articoli 10-12) contiene disposizioni in materia di offerta educativa; IV (articoli 13- 16) disposizioni per la sicurezza dei minori in ambito digitale. (v. comunicato n. 118). Molto critici i penalisti che bollano la legge come “carcerocentrica” e “contraria ai principi della Costituzione”. “Le iniziative del Governo in materia di stupefacenti - si legge in una nota delle Camere penali - rischiano di portare allo stremo un sistema carcerario oramai al collasso”. Sia gli aumenti della pena massima che minima per i fatti di lieve entità, spiegano i penalisti: “contraddicono ogni principio di proporzionalità e non risolvono in alcun modo”. Sullo stesso registro anche l’Associazione Antigone. Per il Presidente Patrizio Gonnella: le norme vanno “ampiamente riviste in direzione di una minore punibilità, in linea col sistema di giustizia minorile degli ultimi 30 anni”. Per Gonnella non vi è “alcuna emergenza criminalità giovanile”, visto che “negli ultimi dieci anni il numero delle denunce è stabile a 30.000”. “A preoccupare - prosegue - è l’aumento previsto delle pene da 6 a 18 mesi per i reati di lieve entità per quanto riguarda la legge sugli stupefacenti”. Critici anche M5S che stigmatizza l’incapacità di affrontare adeguatamente i problemi legati alla violenza contro le donne e all’accesso dei minori ai siti pornografici, mentre viene data priorità a temi come il calcio rispetto a questioni educative e di prevenzione della criminalità giovanile. Mentre il PD ha posto l’accento sulla mancanza di misure preventive, interventi educativi e politiche sociali per favorire la responsabilizzazione e il recupero dei minori e ha sollevato preoccupazioni sull’impatto delle misure sulle strutture penitenziarie minorili. Le novità in sede di conversione - Rilevanti le novità inserite in sede di conversione. Nel Capo II “Disposizioni in materia di sicurezza e di prevenzione della criminalità minorile” all’articolo 3 è stato inserito un comma 2-bis che prevede il coinvolgimento delle Guardie giurate per segnalazioni urgenti di situazioni di pericolo ai servizi di emergenza sanitaria. Aggiunto anche l’articolo 3-bis relativo ad un “Osservatorio sulle periferie” per “monitorare le condizioni di vivibilità e decoro delle aree periferiche delle città”. L’articolo 3-ter, anch’esso aggiunto reca invece “Ulteriori disposizioni in materia di misure a tutela della sicurezza pubblica e della sicurezza delle città”, con lo stanziamento di fondi. Giro di vite anche sul porto d’armi con l’inserimento di un comma 1-bis all’articolo 4 (Disposizioni per il contrasto dei reati in materia di armi od oggetti atti ad offendere, nonché di sostanze stupefacenti con specifiche aggravanti) e la previsione di un aumento di pena di un terzo quando il fatto è commesso: a) da persone travisate o da più persone riunite; b) nei pressi di una scuola; c) nelle vicinanze di istituti di credito, uffici postali o bancomat, parchi e giardini pubblici stazioni; d) di una riunione pubblica. Uno degli interventi chiave ed anche più contestati è quello in tema di stupefacenti che modifica le pene per i reati qualificati di “lieve entità”. Viene infatti modificato l’articolo 73, comma 5, del testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti (Dpr n. 309/1990): alle parole: “da sei mesi a quattro anni” sono sostituite dalle seguenti: “da sei mesi a cinque anni” ed è aggiunto, in fine, il seguente periodo: “Chiunque commette uno dei fatti previsti dal primo periodo è punito con la pena della reclusione da diciotto mesi a cinque anni e della multa da euro 2.500 a euro 10.329, quando la condotta assume caratteri di non occasionalità?”. L’articolo 12 (Disposizioni per il rafforzamento del rispetto dell’obbligo di istruzione) viene poi inserito un comma “01” sulla “Vigilanza” in cui si prevede che il sindaco, mediante accesso all’Anagrafe nazionale dell’istruzione (Anist) individua i minori non in regola e “ammonisce senza ritardo il responsabile”. Sempre in sede di conversione è stato aggiunto l’articolo 13-bis. (Disposizione per la verifica della maggiore età per l’accesso a siti pornografici) che vieta l’accesso dei minori a contenuti a carattere pornografico “in quanto mina il rispetto della loro dignità e ne compromette il benessere fisico e mentale, costituendo un problema di salute pubblica”. Inoltre, i gestori di siti web e i fornitori delle piattaforme di condivisione video, che diffondono in Italia immagini e video a carattere pornografico, “sono tenuti a verificare la maggiore età degli utenti, al fine di evitare l’accesso a contenuti pornografici da parte di minori degli anni diciotto”. Infine, l’articolo 15-bis. Prevede il rafforzamento delle misure e dell’operatività dell’Agenzia per la cybersicurezza nazionale. Da Mafia capitale alle Sezioni Unite. La giurisprudenza “conforta” il gip di Milano di Simona Musco Il Dubbio, 28 ottobre 2023 Il giudice che ha negato gli arresti è stato accusato di aver fatto fare passi indietro nella lotta alle mafie. Ma la sua non è la prima decisione critica sulle accuse di mafia. Il gran rifiuto di Tommaso Perna, il gip che ha respinto la richiesta di misure cautelari per 142 persone avanzata dalla procuratrice aggiunta di Milano Alessandra Dolci e dalla sostituta Alessandra Cerreti, non è un’azione peregrina che crea una novità assoluta nel panorama giudiziario. E trova anzi la sua più grande conferma in una sentenza che ha fatto storia, ovvero quella del processo “Mafia Capitale” (rectius: Mondo di mezzo). Un processo che è servito a chiarire un concetto: se tutto è mafia, nulla è mafia. Torniamo all’accusa: secondo le due toghe, che hanno presentato ricorso in appello, la scelta di Perna (che non segna di certo la fine dell’inchiesta, ma questo sembra non contare) riporterebbe le lancette indietro di 30 anni nella lotta alla criminalità organizzata. “Relegare la manifestazione mafiosa di permeazione del tessuto economico alla presenza o meno di attività violente, vale una retrocessione trentennale nell’evoluzione giudiziaria e investigativa”, scrive la procura. Che intanto ha dimezzato le richieste d’arresto, presentando ricorso per i soli 79 indagati accusati dei reati più gravi. Non è in discussione - e sicuramente non lo è nemmeno per il gip - la presenza delle mafie al nord, che è accertata, sin dagli anni 80 e 90, da plurime sentenze. Bisogna rispolverare, però, la sentenza della Cassazione che ha stroncato la tesi di “Mafia Capitale” per capire quanto Perna si sia solo affidato alla giurisprudenza per scrivere il proprio provvedimento: a Roma non c’era mafia perché non c’era metodo mafioso, non c’era intimidazione, solo corruzione e patti scellerati tra persone libere. Per poter parlare di 416 bis, si leggeva in quella clamorosa sentenza, è necessario che il gruppo “abbia fatto un effettivo esercizio, un uso concreto della forza di intimidazione”. Non basta “la mera probabilità”, bisogna dimostrare che il gruppo quella forza la possegga e che l’abbia usata. È necessario che tale forza “derivi dall’associazione in sé e non dal prestigio criminale del singolo associato” e che tale capacità “produca assoggettamento omertoso”. E bisogna fornire una prova concreta di tali elementi. Nelle 5mila pagine portate dalla procura a Perna, al quale solo dopo il deposito dell’ordinanza è stata consegnata una memoria integrativa che citava sentenze e pentiti, tali elementi - stando all’ordinanza - non ci sarebbero stati. La procura, nel suo ricorso in appello, nega di aver voluto contestare “una super associazione mafiosa composta dalle tre mafie italiane”, ma “mere “componenti” delle tre tradizionali che sul territorio milanese si alleano strutturalmente tra loro per aumentare possibilità di profitto”. Eppure è proprio la procura ad affermare di aver ricostruito come “le singole componenti abbiano dato vita ad un’unica associazione, all’interno della quale ciascuna componente mafiosa ha apportato capitali, mezzi (mobili ed immobili), risorse (anche umane), background, reti relazionali e quant’altro fosse necessario all’associazione stessa e funzionale alla sua nascita, al suo sviluppo ed alla sua affermazione sul territorio”. E pur nel rispetto dei legami con le cosche d’origine, scrivevano, “questa eterogenea associazione gode di propria organizzazione, di un proprio ed autonomo programma, di proprie regole e ritorsioni per chi le viola”. Per analizzare la questione si può far ricorso anche alla sentenza pronunciata a Sezioni Unite sulla cosiddetta “mafia silente”, la numero 36958 del 2021 (tra gli estensori anche l’attuale presidente Margherita Cassano), secondo cui il giuramento di mafia non basta a provare la partecipazione al sodalizio criminale: gli atteggiamenti antropologico-culturali (giuramenti, riti di affiliazione eccetera) possono essere sì sintomatici, ma è necessario trovare elementi di riscontro relativamente all’estrinsecazione della violenza mafiosa. Secondo i giudici, occorre “riscontrare empiricamente che il sodalizio abbia in termini effettivi dato prova di possedere tale “forza” e di essersene avvalso: solo così può attribuirsi rilievo all’oggettività del metodo mafioso”, in ossequio ai principi di materialità e offensività. “Forza intimidatrice del vincolo associativo, condizione di assoggettamento e condizione di omertà costituiscono altrettanti elementi necessari ed essenziali perché possa configurarsi il reato di cui all’art. 416-bis c.p. associativo”, continua la sentenza, secondo cui “cardine della fattispecie è la forza di intimidazione: ciò che viene in rilievo non è, dunque, un qualunque atteggiamento, pur se sistematico, di sopraffazione o di prevaricazione, ma una vis che, promanante dal vincolo associativo, è capace di generare una condizione di assoggettamento e di omertà”. Si tratta “di una carica intimidatoria, spesso identificata come “fama criminale”, che rappresenta una sorta di “avviamento” grazie al quale l’organizzazione mafiosa proietta le sue attività nel futuro. Geneticamente, quindi, la forza deve essere riferita all’associazione in quanto tale e deve connotare la struttura in sè, diventandone una qualità ineludibile, in grado di imporsi autonomamente”. Per i giudici, dunque, è “necessario che l’associazione abbia conseguito, in concreto, nell’ambiente circostante nel quale essa opera, un’effettiva capacità di intimidazione sino a estendere su di sé un alone permanente di paura diffusa, oggettivamente percepibile, che si mantenga vivo anche a prescindere dai singoli atti di intimidazione concreti”. Tutte cose che Perna, in quella richiesta, non ha trovato. Per il giudice non c’è reato, ma il Pm indaga Persichetti di Frank Cimini L’Unità, 28 ottobre 2023 L’ex br scrive ad Albamonte, che lo accusa di favoreggiamento. “Come avrei potuto essere complice nel 2021 di una persona fuggita nel 1981?”. “Vorrei tanto che un uomo, un uomo solo mi capisse. E desidererei che quell’uomo fosse lei”. Questo scriveva il protagonista del romanzo di Georges Simenon, Lettera al mio giudice. Paolo Persichetti, invece, ha scritto al pm Eugenio Albamonte una lettera aperta dal titolo: “Io indagato per favoreggiamento di chi e per cosa?”. “Il favoreggiamento c’è o non c’è” scrive il ricercatore storico in passato condannato per fatti di lotta armata. Il favoreggiamento sarebbe relativo alla presunta divulgazione di materiale riservato della commissione parlamentare di inchiesta sul caso Moro. Una storia tra l’assurdo e l’incredibile dove un anno fa il gip scrisse che non c’era reato dopo la caduta di quello più grave nel giro di pochi giorni, l’associazione sovversiva finalizzata al terrorismo. “E chissà se mai ci sarà”, aggiungeva il giudice. Che il reato fosse il favoreggiamento Persichetti lo ha saputo dopo una richiesta formale alla procura fatta perché i termini di indagine sono scaduti da tempo. Non è possibile fare alcuna attività e il pm non decide cosa fare, se chiedere il processo o archiviare. La data del reato - diciamo così - è il 2015. Quindi sarebbe già tutto prescritto. E con ogni probabilità la procura di Roma per uscire dal cul de sac in cui si è cacciata punta proprio a quello. Per non ammettere di essersi sbagliata, sintetizziamo così. La materia è molto delicata. Fa parte, questa indagine, di una lunga caccia ai misteri inesistenti del caso Moro, a una sorta di gruppo di mandanti e complici occulti che non sono mai stati trovati ma si sono rivelati utili per mettere in circolazione volumi e atti a partire da ormai quasi mezzo secolo fa. Paolo Persichetti fu perquisito l’8 giugno del 2021. Subì il sequestro di tutto il possibile e immaginabile comprese le carte mediche del figlio diversamente abile. Nel 2015 ci fu l’invio via mail a un sacco di persone, ricorda Persichetti, di un breve stralcio della prima bozza di relazione annuale della commissione Moro2. Testo pubblicato a distanza di 48 ore. “Perché ci sia favoreggiamento deve esserci prova del sostegno alla fuga o al riparo oppure al sostentamento. Come avrei potuto favorire nel 2015 una persona fuggita dall’Italia nel 1981 quando avevo 19 anni?. Parliamo di una persona che vive, lavora e ha famiglia in un paese dove ha residenza e nazionalità. In che modo avrei potuto favorire persone già condannate all’ergastolo per quei fatti? - scrive Persichetti - Interrogare una fonte storica, ricostruire quel che ha fatto o non ha fatto integrando o divergendo dalle conclusioni giudiziarie sarebbe forse un reato?”. Albamonte è un magistrato di sinistra, corrente Area, appartiene a quella parte politica che in pratica da sempre alimenta i misteri che diversi processi negli anni hanno escluso. Anche perché nessun pentito, nessun dissociato ha mai detto nulla al riguardo. “Terrorismo” e soprattutto “Moro” sono paroline magiche che permettono di formulare le ipotesi più strambe e tenerle in piedi senza mai provarle. Insomma sul punto non ci sono regole da rispettare. Aveva ragione lui su tutta la linea: “Il mio sangue ricadrà su di voi”. Lui sì che aveva capito bene. Dietro le Brigate Rosse c’erano solo le Brigate Rosse al culmine di uno scontro sociale e politico durissimo sfociato in una guerra civile a bassa intensità. Neanche troppo bassa a dire il vero. Ma dopo mezzo secolo c’è ancora chi lo nega raccontando favole. Pena sostitutiva alla detenzione negata dal giudice se inadeguata a contenere il rischio di recidiva di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 28 ottobre 2023 Il giudizio di legittimità può solo vagliare la presenza di una completa motivazione sulla prognosi di mancato adeguamento alle prescrizioni alternative al carcere. Le pene sostitutive di quelle detentive brevi sono applicate dal giudice in base a una valutazione squisitamente di merito che s’incentra sul contenimento o l’annullamento del rischio di recidiva da parte del condannato. Il giudice sostituisce quindi la sanzione penale detentiva con una misura maggiormente finalizzata alla rieducazione e risocializzazione del condannato che deve però - in base a un giudizio prognostico del giudice - essere ritenuto capace di rispettare le prescrizioni imposte in alternativa al carcere. Spiega la Corte di cassazione penale - con la sentenza n. 43622/2023 - che in caso di diniego della pena sostitutiva il giudice di legittimità potrà solo verificare che la sentenza di merito contenga adeguata motivazione sul punto illustrando i motivi per cui non è possibile assumere un giudizio prognostico favorevole all’ipotesi che il condannato si adegui alle prescrizioni sostitutive dettate dal giudice e dai programmi riabilitativi imposti. Di fatto il ricorrente chiedeva l’applicazione dell’articolo 20 bis del Codice penale introdotto dalla Riforma Cartabia. Novella legislativa che ha ampliato la categoria delle pene detentive brevi portando il massimo della condanna da due a quattro anni. La graduazione tra pena e istituto applicabile nel singolo caso - a titolo di pena sostitutiva - è attualmente la seguente: - in caso di condanna entro i 4 anni sarà applicabile la semilibertà sostitutiva o la detenzione domiciliare sostitutiva; - in caso di condanna fino a tre anni sarà applicabile il lavoro di pubblica utilità sostitutivo; - in caso di condanna non superiore a 1 anno sarà applicabile la pena pecuniaria sostitutiva. Ovviamente, come è noto, la Riforma ha esteso i casi di sostituzione della detenzione pena eminentemente punitiva con pene mirate - in ossequio al principio costituzionale dell’articolo 27 della Carta - alla rieducazione e risocializzazione di chi ha commesso un reato. Ma, come spiega la Cassazione, tale finalità diviene perseguibile solo se la sostituzione non vanifica il fondamento anticrimine della pena cioè evitare la ripetizione del medesimo o di altri reati. Il rischio di recidiva è quindi l’argine non superabile che porta a disconoscere l’applicabilità della sostituzione del carcere con un diverso percorso riabilitativo del condannato. Nello svolgere tale disamina prognostica il giudice decide anche se optare o meno per la sospensione condizionale della pena comminata. Va, infatti, ricordato che dalla Riforma risultano non cumulabili il beneficio della sospensione condizionale con i trattamenti sostitutivi della detenzione. Prima della Riforma il limite della condanna che consentiva l’applicazione della pena sostituiva e della sospensione condizionale era il medesimo. E soprattutto erano cumulabili. Invece ora l’articolo 61 bis della legge 689/1981 introdotto dalla riforma Cartabia pone il divieto di cumulo e comporta che il giudice in base al rischio di recidiva anche medio tempore opti per uno o per l’altro degli istituti. La sospensione condizionale è una sorta di monito ad astenersi dalla commissione di nuovi reati in base alla concessione una tantum del beneficio. Invece, la pena sostitutiva - come precisa la Cassazione - opera al raggiungimento del fine rieducativo del condannato risultando più idonea al contenimento del rischio di recidiva. La Consulta: “Legittima la revoca della patente per chi guida ubriaco” di Giovanna Trinchella Il Fatto Quotidiano, 28 ottobre 2023 “Tre anni pena proporzionata per i pirati della strada”. Doppia decisione della Consulta in tema di incidenti stradali. I giudici sono intervenuti sia sulle norme che regolano la guida in stato di ebrezza, sia su quelle che regolano l’omissione di soccorso con fuga. Entrambi i verdetti hanno stabilito che le pene previste sono legittime e proporzionate. La revoca per chi guida ubriaco - È legittima e non è incostituzionale la revoca della patente di guida per chi guida ubriaco e provoca un incidente - anche se di lieve entità - se il tasso alcolemico è superiore di tre volte (1,5 g/l) il limite previsto dalla legge (0,5). Per i giudici della Consulta, che hanno depositato la sentenza 194 (redattore Giovanni Amoroso): “Si tratta di un comportamento altamente pericoloso per la vita e l’incolumità delle persone, tenuto in spregio del dovuto rispetto di tali beni fondamentali. La previsione di una severa misura amministrativa di natura preventiva tende alla protezione di beni giuridici primari ed è giustificata dalla condizione di temporanea inaffidabilità alla guida, alla quale si è posto consapevolmente il soggetto condannato, e dalla maggiore pericolosità del comportamento censurato rispetto alle ipotesi non parimenti aggravate”. Il caso arrivato alla Corte costituzionale era stato sollevato dalla Corte d’appello di Milano: l’imputato era stato condannato a otto mesi e 7.200 euro, con la concessione dei doppi benefici di legge perché incensurato e l’applicazione della sanzione amministrativa accessoria della revoca della patente di guida. L’incidente non aveva provocato danni ad altre persone. Ma per le toghe: “La modestia delle conseguenze dell’incidente non smentisce la gravità della condotta di chi si mette alla guida in stato di ebbrezza con tasso alcolemico superiore all’1,5 g/l in una condizione tale da non aver il pieno controllo del veicolo condotto, come mostra ex post l’incidente provocato a causa di tale alterata condizione psico-fisica”. Il conducente era finito contro il guard-rail. Secondo i magistrati bisogna tenere in considerazione il fatto che “la ratio dell’aggravante è da ricercarsi nella volontà del legislatore di punire più gravemente qualsiasi turbativa delle corrette condizioni di guida, in quanto ritenuta potenzialmente idonea a porre in pericolo l’incolumità personale dei soggetti e dei beni coinvolti nella circolazione a causa della strutturale pericolosità connessa alla circolazione dei veicoli che richiedono una particolare abilitazione alla guida”, quindi “la scelta di non distinguere, ai fini dell’operatività della revoca, in funzione della gravità dell’incidente corrisponde a un criterio di prevenzione generale non irragionevole nei confronti di colui il quale, con un tasso alcolemico superiore al livello soglia dell’1,5 g/l, guidi in un evidente stato di alterazione e di compromissione delle sue condizioni fisiche e psichiche”. Anche perché “la revoca della patente di guida non ha una efficacia ostativa permanente, in quanto il titolare di patente revocata può conseguire un nuovo titolo abilitativo”. Per i pirati della strada giusto che la pena minima sia 3 anni - Sempre la Consulta oggi ha stabilito che “è ragionevolmente proporzionata la pena di tre anni di reclusione per il conducente che, avendo causato lesioni gravi, si dà alla fuga”. Per i giudici fuggire dopo un incidente la “esprime la cosciente determinazione di non volersi assumere la responsabilità dei propri comportamenti: costui ‘decide scientemente di fare prevalere su tutto la propria impunità […] a scapito dell’interesse immediato delle persone coinvolte nell’incidente’“. Per i pirati della strada quindi la pena non può essere inferiore a quella che è stata stabilita. Nella sentenza 195 (relatore Luca Antonini) ha dichiarato infondate le questioni sollevate sull’articolo del codice penale che prevede che se il conducente si dà alla fuga, porta il giudice ad applicare, per le lesioni personali stradali gravi, la pena invariabilmente fissa di tre anni di reclusione. Per la Consulta la pena a 3 anni “non può non essere riconosciuta ragionevolmente proporzionata”. In mancanza della soglia minima dei tre anni, infatti, “il calcolo di convenienza potrebbe indurre il conducente a scegliere la fuga”, sia nella fattispecie base delle lesioni (perché a fronte del modesto aumento di pena si sarebbe evitato il coinvolgimento nella causazione dell’incidente), sia nell’ipotesi di lesioni gravi causate in caso di guida in stato di ebbrezza alcolica (oltre una certa soglia di tasso alcolemico) o sotto l’effetto di stupefacenti. Anche in questo caso a sollevare il caso era stato il Tribunale di Milano. Santa Maria Capua Vetere. Detenuto si suicida in ospedale, il Garante: “Libero tra pochi mesi” di Nico Falco fanpage.it, 28 ottobre 2023 Un 50enne, recluso nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, si è tolto la vita nel reparto dove era stato ricoverato a seguito di un precedente tentativo di uccidersi. È il quarto caso in Campania nel 2023. Ci sarebbe una storia di profonda solitudine dietro il suicidio di un detenuto recluso nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, in provincia di Caserta: l’uomo, che sarebbe stato scarcerato tra pochi mesi, si sarebbe tolto la vita per il timore di restare solo una volta libero. A raccontare il retroscena è il garante dei detenuti campani, Samuele Ciambriello, specificando che si tratta del quarto suicidio maturato in ambienti carcerari in Campania dall’inizio del 2023, il 55esimo considerando le strutture detentive di tutta Italia. F. L., 50 anni, stava scontando una pena per reati di droga; era già stato in carcere nel 2018. Avrebbe tentato il suicidio già sabato, ma sarebbe stato prontamente salvato dagli agenti della Polizia Penitenziaria; è stato quindi trasferito in ambulanza all’ospedale di Sessa Aurunca e, pur non soffrendo di problemi psichiatrici, è stato ricoverato nel reparto di Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura, dove si è ucciso. Sposato e padre di tre figli, l’uomo non aveva colloqui. Sarebbe stato scarcerato nel luglio 2024, recentemente aveva chiesto gli arresti domiciliari. Commenta Ciambriello: “Il tentativo di suicidio non era un atto strumentale, era evidente la voglia di farla finita per timore di rimanere da solo. Credo che la sua sia fondamentalmente una storia di solitudine. I suicidi, i tentativi di suicidio, le forme di autolesionismo che si verificano negli Istituti di pena sono anche il prodotto di un distanziamento sociale e culturale dal carcere della società. Abbiamo bisogno di più figure di ascolto e protezione nelle carceri. La maggior afflizione della detenzione è il tempo inutile, il tempo vuoto, la sensazione e la realtà di un tempo che viene solo sottratto. Il sentirsi soli dentro e dal mondo esterno”. Napoli. Poggioreale va chiuso: non servono ristrutturazioni, inutile indugiare di Andrea Cozzolino L’Unità, 28 ottobre 2023 Ogni tentativo è solo accanimento terapeutico. Chiuderlo è un’urgenza non rinviabile. Poggioreale va chiuso. Non esistono mezze misure, né credibili alternative. Non servono costose ristrutturazioni. Tentate, e mai concluse, tra lungaggini burocratiche, e vincoli. La vita lunga di Poggioreale, carcere costruito nel 1914, è giunta alla fine. Ogni tentativo è puro accanimento terapeutico, non c’è futuro. È un investimento di risorse ed energie senza ritorno. La chiusura di Poggioreale è una urgenza non rinviabile. Non è in discussione il lavoro di tanti, lo sforzo per rendere quel luogo più accogliente e sicuro, ridurre di qualche unità un sovraffollamento vergognoso. Siamo a 2051 persone su una capienza di 1600, quante potrebbe effettivamente ospitarne. Non è soprattutto il tempo di proclami, impegni delle istituzioni, a vario titolo e competenza. Certo, c’è il lavoro prezioso di volontari ed associazioni, c’è lo sforzo immane che fanno operatori, guardie, direttore, quotidianamente. Ma non basta più. E soprattutto non è più il tempo di affidarsi al rituale e puntuale grido di dolore, dopo una visita istituzionale. Occorre mettere fine ad una vergogna. Avviare un progressivo smantellamento, ricollocare i 2050 ospiti - detenuti, attuare un piano di rigenerazione dell’intera area urbana, aprire un confronto di alto profilo per disegnarne un nuovo futuro, coinvolgendo i cittadini del quartiere, che da anni - praticamente da sempre - convivono con quella realtà e quella storia. Ci sono stato a Poggioreale, per poche ore. Diciannove, per l’esattezza. Una notte, una mattinata, fino al tardo pomeriggio-sera, di qualche mese fa. Accolto in luogo ameno, freddo, scassato; prima in un’orribile stanza, da solo, con una terribile puzza di muffa, poi in infermeria per un rapido controllo, e infine in una cella assieme ad altri otto ospiti detenuti; per lo più giovani delle nostre periferie. Otto in una stanza fredda d’inverno e, mi raccontano, di fuoco d’estate. Pochi metri quadrati, occupati da otto letti a castello, un bagno-doccia di fortuna, un piccolo lavello cadente e alcune prese per cucinare, una finestra rotta, utile solo per fumare una sigaretta senza lasciare che la stanza sia pervasa dal fumo. Una condizione fatiscente, una vergogna, mitigata solo dalla comunanza di esperienze, da una infinita solidarietà, e dalla volontà ferma di tentare una vita normale fra il cibo che le famiglie inviano e che ha sapore di casa, la televisione e la radio sempre accese. E da alcune ore di socialità, con le celle aperte sul corridoio durante la mattinata, poi nel pomeriggio. Un grumo di sofferenza e di dolori, ma al tempo stesso la forza di una comunità, la solidarietà che nasce dal vivere una comune condizione, e spesso destino. Ma anche fonte per un non nulla di violenza inaudita, tensione che si respira nell’aria. Basta un sospiro, una parola di troppo, un giudizio affrettato per scatenare una violenza senza confini. Rieducare, avviare processi di risocializzazione tra quelle mura è impresa sconfitta in partenza. Figuriamoci per quanti sono in attesa di giudizio per un uso improprio della carcerazione preventiva. In Italia più di 25.000 persone all’anno sono detenute senza giungere neppure alla fase processuale, e tuttavia, la nostra Costituzione sancisce dei diritti, anche per chi ha sbagliato ed è stato condannato. Fra tali diritti c’è quello di avere un’altra opportunità. E i detenuti che ho incontrato erano pronti a coglierla, se solo fosse stata data loro la possibilità. Che a Poggioreale purtroppo non c’è, nonostante i tanti sforzi compiuti. Per questo indugiare, rinviare ogni decisione, attendere nuovi interventi per ristabilire una struttura più idonea ed ospitale, mi pare impossibile. Non c’è nessuna credibile e concretissima alternativa alla chiusura progressiva del carcere. Lo so che sembra una provocazione, soprattutto dopo i gravi e ripetuti fatti di cronaca e di violenza che hanno segnato Napoli recentemente. E invece, andrebbe colto proprio questo momento per tentare una rivoluzione culturale. Perché il dramma di una gioventù in formazione sbandata e priva di punti di riferimento, in preda a una violenza cieca è terrificante, ed in più amplificata da mezzi e tecnologie che spettacolarizzano la morte di giovanissimi. Occorre un luogo dove lo Stato ci sia, certo, per giudicare e punire a nome di noi tutti, ma che al tempo stesso proponga un modello di convivenza diverso, basato sullo stare e sul fare insieme, che dia dignità e considerazione a valori molto diversi dalla violenza, proponga percorsi di formazione e riscatto, faccia del debole un forte. Che crei un ponte fra “dentro” e “fuori”. Quando sono uscito, quei troppi ospiti detenuti avrebbero potuto consegnare alla mia memoria tanti messaggi individuali e personalizzati. Invece ce ne è stato uno solo, collettivo, accorato, corale. Fai chiudere Poggioreale. Brescia. Progetto del nuovo carcere, mancano i fondi. La direttrice: servono 54 milioni di Lilina Golia Corriere dela Sera, 28 ottobre 2023 In tribunale il convegno organizzato dai magistrati. Rispoli: si usino i beni confiscati. Il piano resta quello dell’acquisizione delle aree vicino a Verziano. C’è da rimodulare il progetto, ormai superato. Ma il nodo cruciale restano le risorse per la realizzazione di una nuova struttura carceraria, in sostituzione di Canton Mombello. “Servono 54 milioni di euro - sottolinea la direttrice Francesca Paola Lucrezi - rispetto allo stanziamento del 2013, pari a 16 milioni”. L’idea più percorribile è quella di un ampliamento del carcere di Verziano, nel rispetto di quanto già esistente, che garantisce vivibilità e attuazione dei percorsi di recupero in ambito culturale e lavorativo, anche grazie allo stretto legame con il territorio. È quanto emerso ieri nel corso del convegno, sollecitato dalla presidente del Tribunale di Sorveglianza, Monica Cali e ospitato nell’aula Grazia Campanato del Palazzo di Giustizia di Brescia, che ha gettato le basi per un tavolo di lavoro che consenta, attraverso una partecipazione trasversale, un confronto diretto tra le parti in causa: magistrati, referenti territoriali dell’amministrazione penitenziaria, Camera Penale, istituzioni locali e politici. “L’impegno è quello di portare a termine il progetto entro la fine della legislatura”, ha fatto sapere, con un messaggio, il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Ostellari, che segue la situazione di Canton Mombello. E l’auspicio della parlamentare leghista, Simona Bordonali è quello di trovare risorse nei prossimi bilanci. I numeri del carcere cittadino evidenziano un sovraffollamento che ha raggiunto il 200%, con 371 detenuti, rispetto a una capacità di 189, di cui 179 con problemi di tossicodipendenza e psichici, 180 stranieri che rappresentano 40 etnie. Ne conseguono problemi di salubrità e vivibilità di ambienti ultracentenari, di condivisione degli spazi, angusti e inadatti ad attività di recupero, fondamentali per la riduzione delle recidive, come ricorda l’onorevole Gian Antonio Girelli (Pd). E il recente Decreto Caivano, relativamente agli stupefacenti, per le previsioni di ulteriore aumento della popolazione carceraria, preoccupa le Camere Penali che insistono sull’utilizzo delle misure alternative. Mentre il garante dei detenuti, Luisa Ravagnani, ritiene urgente una riduzione drastica del numero dei detenuti, anche attraverso trasferimenti. “La magistratura emette condanne, ma non possiamo disinteressarci dei luoghi in cui vengono scontate le pene, per non sottoporre a ulteriore afflittività i detenuti”, ricorda il presidente della Corte d’Appello, Claudio Castelli che ha coordinato i lavori. C’è anche il disagio delle Procure, come evidenzia il Procuratore Generale, Guido Rispoli, “quando portiamo i detenuti in queste strutture mi chiedo se realmente stiamo seguendo i principi della Costituzione. Si potrebbero destinare le confische al progetto carcere”. E poi c’è il capitolo dell’acquisizione delle aree intorno a Verziano. “Massima disponibilità da parte del Comune per la realizzazione del progetto, anche con varianti al Prg”, assicura la sindaca, Laura Castelletti, in continuità con il lavoro del suo predecessore, Emilio Del Bono che ha ricordato la già discussa possibilità di procedere con esproprio o per negoziazione per cedere, poi, le aree, già destinate a “servizi” al Demanio. Ma l’investimento dovrebbe riguardare anche il personale. “Manca il 25% dell’organico di Polizia Penitenziaria, il 50% di educatori e psicologi e il 65% di amministrativi e contabili”. Intanto, il Provveditore regionale dell’Amministrazione Penitenziaria, Maria Milano, ha predisposto un piano edilizio di ristrutturazione di Canton Mombello che riguarderà finestre, controsoffitti e ballatoi, con manodopera anche dei detenuti. Sondrio. Si è dimessa la Garante dei diritti dei detenuti di Giuseppe Maiorana sondriotoday.it, 28 ottobre 2023 Orit Liss in un breve messaggio ha rimarcato “la mancata presa in considerazione delle problematiche e difficoltà espresse in questi anni”. Lo aveva preannunciato nel corso della recente commissione consiliare tenutasi a palazzo Pretorio in cui aveva espresso tutte le sue difficoltà a svolgere il ruolo in maniera consona, ma ora la decisione è stata presa in maniera concreta: Orit Liss si è dimessa dall’incarico di garante dei detenuti del carcere di Sondrio. Lo ha fatto inviando una breve comunicazione di cui è stata data lettura in avvio della seduta del consiglio comunale di ieri pomeriggio. Tra le motivazioni riportate da Orit Liss per spiegare la scelta di dimettersi, la “mancata considerazione delle problematiche e delle difficoltà espresse in questi anni” e il fatto che “l’assessore Piasini non abbia capito in pieno tali problematiche”. Tutte ragioni che hanno fatto ritenere a Orit Liss che non ci fossero più “le condizioni per proseguire nel mandato” e l’hanno così portata a rassegnare le dimissioni. Termina dunque il mandato di Orit Liss, ma ora l’amministrazione comunale dovrà trovare un successore (il mandato avrebbe avuto la sua scadenza naturale ad aprile) e rimane dunque il problema di riuscire a conciliare norme nazionali con quelle locali, di instaurare un dialogo con l’amministrazione penitenziaria e di mettere il garante dei detenuti nelle condizioni migliori per poter svolgere il proprio compito. Siena. Stefano Longo è il nuovo Garante comunale per i detenuti di Martina Strobietto Gazzetta di Siena, 28 ottobre 2023 Il sindaco Nicoletta Fabio ha scelto Stefano Longo come nuovo Garante per i diritti delle persone detenute del Comune di Siena. Dopo una laurea in giurisprudenza, un master in discipline giuridico-economiche e un corso di formazione per le attività di sostegno didattico agli studenti con disabilità, Longo ha insegnato negli istituti comprensivi di Castelnuovo Berardenga, Monteriggioni e Empoli. Attualmente ha l’incarico di docente presso l’istituto comprensivo di Castelnuovo Berardenga. Inoltre, ha ricoperto il ruolo di Consigliere di Amministrazione nell’ambito delle attività relative alla gestione amministrativa, finanziaria e patrimoniale dell’Ateneo senese tra il 2017 e il 2019. In merito alla sua nomina, Longo commenta: “Sono particolarmente onorato di questa nomina e mi metto a disposizione della comunità per la tutela dei diritti delle persone private della libertà personale, attraverso azioni che possano coinvolgere la collettività, con il confronto e la collaborazione con amministrazione comunale e le realtà istituzionali e non del territorio senese”. Il suo compito sarà quello di consolidare la tutela dei diritti fondamentali dell’individuo presenti nella Costituzione Italiana sia durante la detenzione sia nel corso del reinserimento sociale dell’individuo. Tra le sue mansioni, compaiono quelle di incentivare azioni per la partecipazione alla vita civile, di segnalare eventuali violazioni alle autorità, di incoraggiare iniziative di sensibilizzazione pubblica sui diritti umani e di promuovere protocolli di intesa con le amministrazioni interessate. Milano. L’impresa creata dai detenuti per dare lavoro a chi è in carcere: il progetto di Mitiga di Cinzia Raineri Djerbouh La Repubblica, 28 ottobre 2023 Il 70% di chi esce dal carcere compie nuovamente un reato, ma la percentuale si abbassa per chi ha svolto attività lavorative durante il periodo di detenzione. Quello del lavoro in relazione alle carceri è un tema fondamentale, soprattutto in Lombardia, la regione con il più alto tasso di sovraffollamento e che accoglie il 27% delle persone detenute in Italia. Sono circa “30mila le persone detenute che scontano pene da 1 a 3 anni. Il lavoro fuori dalle carceri può tentare di svuotare le strutture”, spiega Daniele Nahum, presidente della Sottosezione carceri del Comune di Milano, in occasione del convegno “Carcere, lavoro e sviluppo sostenibile” che si è tenuto oggi al Museo del Risorgimento. “In Brianza esiste un protocollo creato nel 2018 in collaborazione Assolombarda - spiega Alessia Villa, presidente della commissione speciale ‘Tutela dei diritti delle persone private della libertà personale e condizioni di vita e di lavoro negli istituti penitenziari’ -. Vorremmo ampliare questo modello su scala regionale, imprese, carceri, tribunali. Infatti, se il 70% di chi esce dal carcere commette un nuovo reato, la percentuale si riduce per chi ha fatto un’esperienza lavorativa”. Vincenzo Dicuonzo, fondatore di Mitiga - l’impresa nata a Bollate dai detenuti per i detenuti -, è una persona che vive in condizione detentiva in articolo 21: può uscire dal carcere per andare a lavorare. Le persone in semi-libertà in Italia sono circa 1500. Di queste, più di 600 sono a Bollate. Ed è proprio da Dicuonzo che nasce l’idea di Mitiga, che prende vita nel 2018 e che attualmente sta lavorando per accreditarsi e ottenere un riconoscimento ufficiale da parte della regione Lombardia. “Uno degli obiettivi principali è quello di voler contrastare la demonizzazione che la società ha verso le persone private delle libertà personali - racconta Dicuonzo -. È importante fornire possibilità, strumenti e supporto affinché l’individuo possa intraprendere un percorso di edificazione personale, in modo da uscire migliorato dal carcere”. Attualmente le persone detenute coinvolte sono circa 15. E, tra l’hinterland di Milano e Pavia, in 8 hanno ottenuto un contratto a tempo indeterminato in vari settori: da quello meccanico, a quello elettrico, a quello agroalimentare. Lavoro, ma anche volontariato per le persone detenute - Alessandro Giungi, vicepresidente della Sottocommissione carceri, sottolinea che il Municipio 8 ha stipulato una convenzione con il carcere di Bollate - e anche il Municipio 5 sta lavorando in questa direzione con Opera -: ogni fine settimana permette a varie persone detenute in articolo 21 di svolgere delle attività di volontariato. Questo permette una “connessione con il territorio, con le persone e con la comunità, e di combattere lo stigma verso le persone detenute”, spiega Giungi. Livorno. Dal carcere al mondo del lavoro, i risultati del progetto Milia elbareport.it, 28 ottobre 2023 Oltre 800 ore per l’orientamento e la profilazione di 145 detenuti, a cui si aggiungono 390 ore di formazione obbligatoria per 220 detenuti che hanno portato al rilascio di patenti per la guida di trattori e patentini Haccp e fitosanitari. Un laboratorio, in via di attivazione, sull’isola di Pianosa per la trasformazione di prodotti agricoli e la produzione di conserve, sottoli, oli essenziali. Sono alcuni dei risultati raggiunti in 4 anni di attività attraverso Milia, progetto sperimentale della Regione Toscana finanziato dal Ministero della Giustizia attraverso il Pon Inclusione 2014-2020, per l’inserimento socio lavorativo di detenuti in esecuzione pena a Gorgona e Pianosa, che ha coinvolto anche persone ristrette nelle carceri di Livorno e Porto Azzurro. I risultati del progetto, intitolato con l’acronimo di “Modelli sperimentali di intervento per il lavoro e l’inclusione attiva delle persone in esecuzione penale - Regione Toscana”, sono stati al centro del convegno conclusivo svoltosi questa mattina presso la sede della Camera di Commercio di Livorno. Tra gli ospiti dell’evento, la dirigente del Ministero della Giustizia Paola Giannarelli, del Provveditore regionale Amministrazione Penitenziaria Pierpaolo D’Andria, del Presidente dell’Ente Parco Nazionale Arcipelago Toscano Giampiero Sammuri, del Garante regionale dei diritti delle persone private della libertà Giuseppe Fanfani, del sindaco di Campo nell’Elba Davide Montauti. In apertura, l’intervento introduttivo dell’assessora al lavoro e alla formazione Alessandra Nardini che ha definito il progetto “un’esperienza importante e preziosa”. “Potersi formare e poter lavorare mentre si sconta la pena in carcere - ha osservato Nardini - riduce notevolmente il rischio di recidiva perché favorisce poi il corretto inserimento o reinserimento lavorativo successivo. Questo è un tema su cui c’è ancora tanto da fare e la situazione carceraria è un problema molto importante a livello nazionale, ma come Regione ci impegniamo a fare la nostra parte, per sostenere il ruolo rieducativo che il carcere dovrebbe avere costruendo anche un percorso di reinserimento”. “Il progetto Milia è concluso, ma non lo è di certo il nostro impegno per lavorare all’inclusione sociale e lavorativa di chi sta scontando una pena”, ha aggiunto l’assessora ricordando “gli oltre 3 milioni di euro del Fondo Sociale Europeo 2021-2027 che abbiamo investito per finanziare percorsi di formazione rivolti a detenute e detenuti, anche minori, nei penitenziari toscani”. Nardini ha chiuso il suo intervento ringraziando “gli uffici regionali e tutti i soggetti coinvolti per aver realizzato il progetto in anni difficili come quelli della pandemia e in condizioni logistiche non semplici alla luce dei luoghi in cui il progetto è stato attuato”. Dall’assessora un ringraziamento anche “all’assessorato al sociale con cui collaboriamo riguardo agli interventi formativi rivolti alle detenute e ai detenuti” e “all’assessorato all’agroalimentare per quelli in ambito agricolo”. Agricoltura e agrolimentare sono i settori su cui Milia ha maggiormente sviluppato le attività di formazione, alla luce anche delle attività lavorative svolte storicamente da detenuti sulle due isole dell’Arcipelago toscano. Due le direttrici seguite: da un lato soddisfare bisogni di rafforzamento delle competenze e di crescita delle professionalità, dall’altro creare attività produttive autosostenibili economicamente. Le persone coinvolte hanno partecipato a due o più corsi, ricevendo anche un’indennità oraria per la frequenza, e nel 97% dei casi hanno conseguito le diverse idoneità previste. Milia ha consentito anche di lavorare alla creazione di un rete informale tra istituzioni, servizi, terzo settore per aumentare le occasioni di formazione e facilitare l’inserimento nel mondo del lavoro. Busto Arsizio. Dalla coop del carcere i cesti di Natale che danno lavoro ai detenuti di tutta Italia di Lucia Landoni La Repubblica, 28 ottobre 2023 Don David Maria Riboldi, cappellano della casa circondariale di Busto Arsizio: “Noi non facciamo la carità ai detenuti, diamo loro una concreta opportunità di riscatto”. Oltre tremila cesti venduti e 80mila di euro di indotto economico generato per le cooperative carcerarie di tutta Italia negli ultimi tre anni, ma soprattutto centinaia di persone coinvolte, che hanno l’opportunità di ritrovare la propria dignità attraverso il lavoro: sono i numeri del progetto “Cesti di Natale” promosso dalla cooperativa La Valle di Ezechiele, fondata nel 2019 da don David Maria Riboldi, cappellano della casa circondariale di Busto Arsizio (in provincia di Varese), per favorire il reinserimento sociale di detenuti ed ex detenuti. I cesti natalizi in vendita - sono disponibili le opzioni da 25, 35, 50 e 75 euro - vengono assemblati con i prodotti provenienti da 15 realtà sparse su tutto il territorio nazionale, 12 delle quali carcerarie: le confetture, per esempio, arrivano dalla cooperativa sociale Il Gabbiano del carcere di Sondrio e i biscotti dai ragazzi “Cotti in Fragranza” dell’Istituto penitenziario minorile Malaspina di Palermo, mentre il sugo viene prodotto dalla cooperativa Pietra di Scarto del carcere di Foggia e il caffè dalla cooperativa Lazzarelle del carcere femminile di Pozzuoli. Tra le novità dell’edizione 2023 (la quarta da quando è stato lanciato il progetto) ci sono i prodotti del neonato Pastificio Futuro del carcere minorile di Casal del Marmo di Roma - visitato da Papa Francesco lo scorso Giovedì Santo, si propone di “tramutare la speranza in futuro con la durezza del grano e la tenacia dei sogni” - e la Prison Beer “Antonio” (nata dalla collaborazione della Valle di Ezechiele con il birrificio The Wall di Venegono Inferiore, nel Varesotto, e Lorenzo Dabove), che porta il nome di una delle 22 persone a cui la cooperativa di Busto Arsizio ha dato lavoro da quando è stata fondata, nessuna delle quali ha più commesso reati. Nel 2020, al debutto, furono ordinati 700 cesti, che diventarono mille nel 2021 e 1400 nel 2022: “Speriamo che il numero cresca anche quest’anno e il miglior marketing è il passaparola, quindi è importante che quante più persone possibile vengano a conoscenza dell’iniziativa - sottolinea don David Maria Riboldi - Lo ribadiamo, a chiare lettere: il nostro progetto non è di assistenzialismo. Non ‘facciamo la carità’ ai carcerati. Diamo lavoro. Permettiamo a persone che stanno scontando la loro pena di ricostruirsi la vita con un lavoro onesto e retribuito”. I cesti sono prenotabili fino al 31 ottobre compilando il form dedicato sul sito www.lavallediezechiele.org, scrivendo a cestidinatale@lavallediezechiele.org o chiamando il numero 0331.370514 (anche WhatsApp, dalle 9 alle 13 dal lunedì al venerdì). Piacenza. Padri e figli, alle Novate laboratorio di scrittura per detenuti e studenti Libertà, 28 ottobre 2023 Alcuni sono giovani, poco più che ragazzi. Altri hanno i capelli bianchi. A una prima occhiata non si può sapere chi di loro sia stato padre, fuori dalle mura delle Novate. Certo è che continuano a esserlo anche lì dentro, fra le pareti dei corridoi colorate come quelle di una scuola. Chissà cosa hanno pensato gli studenti del liceo Gioia che l’altro pomeriggio si sono ritrovati a depositare negli armadietti zaini e cellulari per entrare nella casa circondariale di Piacenza: ad accoglierli la direttrice Maria Gabriella Lusi che dal 2020 sostiene il progetto “Genitori comunque” portato avanti con l’associazione “Verso Itaca”. A essere promossi sono dei percorsi di genitorialità che mettono a fianco padri liberi e papà in carcere, facendoli incontrare e condividendo lo strumento della scrittura autobiografica. In quest’ottica un ruolo però lo hanno anche i ragazzi che fanno un percorso sull’essere figli: ieri ad accompagnare una trentina di studenti delle ultime classi del Gioia sono state la dirigente scolastica Cristina Capra e le insegnanti Elisabetta Malvicini, Annalisa Trabacchi e Donata Horak. Il progetto è partito con una conferenza della professoressa Maria Cristina Bolla sulla genitorialità nel mondo antico che ha visto intervenire, nel ruolo di lettori, Paolo Contini e Alberto Gromi: presenti, oltre ai ragazzi del Gioia, anche i detenuti e le detenute delle Novate. “Credo che conoscere anche questa realtà nella vita offra l’occasione di sviluppare un senso di cittadinanza particolare - spiega Lusi rivolgendosi agli studenti - non si viene in carcere per curiosità ma per vivere un pezzo di vita. La scuola si apre al carcere e viceversa: del resto ad accomunare questi due mondi è il loro essere istituzionale, sociale ed educativo”. Ascoli. “Oltre le parole”, prima restituzione del progetto sviluppato nel carcere cronachepicene.it, 28 ottobre 2023 È il prodotto di un gruppo di lavoro coordinato dall’Ambito Sociale Territoriale 22 che, oltre al capoluogo, comprende anche i Comuni di Acquasanta, Arquata, Folignano, Maltignano, Montegallo, Palmiano, Venarotta e Roccafluvione “Oltre le parole” è il nome di una iniziativa dell’ Ambito Territoriale Sociale 22 che comprende i Comuni di Ascoli, Acquasanta, Arquata, Folignano, Maltignano, Montegallo, Palmiano, Venarotta e Roccafluvione da realizzare all’interno del carcere di Marino del Tronto. Il progetto è il prodotto di un gruppo di lavoro coordinato dal coordinatore dell’Ambito Domenico Fanesi, e sviluppato dall’associazione di promozione sociale “La Casa di Asterione”. Il tutto si svolge grazie alla collaborazione della direttrice della casa circondariale Daniela Valentini e della responsabile dell’Area Educativa Cristina Sabatini. Obiettivo principale è migliorare la qualità dell’esperienza carceraria dei detenuti riducendo il disagio sociale e individuale connesso con la difficoltà di comunicare, agevolando il recupero dei soggetti. Secondariamente, si vuole ottenere l’alleggerimento dell’attività di gestione dei detenuti da parte degli agenti penitenziari. Le azioni del progetto mirano a potenziare l’offerta del trattamento rieducativo e riabilitativo delle persone sottoposte a provvedimenti dell’autorità giudiziaria, all’interno degli istituti penitenziari, in funzione anche della ri-attivazione di questi servizi in alcuni casi interrotti nell’emergenza Covid; a stabilizzare il sistema integrato previsto dalla legge regionale 28 del 2008; a sviluppare l’integrazione territoriale di tutti i soggetti pubblici e privati portatori di interesse unitamente alla cosiddetta comunità territoriale ma anche a creare uno spazio di sostegno; a creare una rete di supporto e accompagnamento che coinvolga sia i detenuti che i loro familiari che si trovano all’esterno; a creare un clima comunicativo più sereno e svolgere un’azione di mediazione e di coordinamento nei confronti delle associazioni di volontariato che prestano, o intendono prestare, le proprie attività all’interno del carcere. Le modalità operative del progetto consistono in una attività di mediazione culturale destinate ai detenuti immigrati presenti nell’Istituto penitenziario e alle loro famiglie che risiedono nel territorio. Ci sarà spazio per la mediazione linguistica e assistenza genitoriale ma anche spazio per le attività di natura più propriamente artistiche come i laboratori di Teatro Sociale, Musica, Cineforum e altre attività multidisciplinari d’arte come la pittura e la costruzione di oggetti scenografici. Il team de “La Casa di Asterione” è composto da dieci professionisti (psicologi; mediatori linguistici; mediatori culturali; operatori di teatro, musica e arte cinematografica) che hanno seguito le attività in questi mesi e lo faranno fino ai primi mesi del 2024. “Il percorso di recupero - ha detto il sindaco Marco Fioravanti - passa anche attraverso iniziative come questa, fondamentali per ridurre il disagio sociale e per dare la possibilità ai detenuti di esprimersi e comunicare. Fondamentale è l’attività di mediazione culturale, per una maggiore e più efficace integrazione dei detenuti immigrati”. L’assessore ai Servizi sociali, Massimiliano Brugni, ha aggiunto: “Il nome del progetto è già di per sé molto significativo: vogliamo andare “Oltre le parole” e dare un aiuto concreto a chi è sottoposto a provvedimenti dell’autorità giudiziaria, offrendo un’opportunità di sostegno e supporto che coinvolga anche le famiglie”. Primo momento di restituzione delle attività svolte martedì 31 ottobre alle ore 10 all’interno della casa circondariale con il momento di Teatro Sociale diretto da Davide Calvaresi. Asti. Il teatro entra in carcere: sabato 18 novembre lo spettacolo aperto al pubblico lanuovaprovincia.it, 28 ottobre 2023 Composto da due atti, vedrà sul palco 15 detenuti della casa di reclusione di Quarto nell’ambito del progetto promosso da Agar teatro ed Effatà con Comune di Asti e direzione del carcere. Si intitola “Teatro Oltre” per richiamare il concetto che con l’arte si riesce ad andare oltre le sbarre del carcere. Parliamo del progetto promosso da Agar teatro e Associazione Effatà - insieme a Comune di Asti, Casa di reclusione di Quarto d’Asti e Federazione italiana teatro amatori - che prevede la realizzazione di uno spettacolo teatrale che coinvolge, in qualità di attori, circa quindici detenuti del carcere astigiano. A presentarlo, ieri (venerdì) in conferenza stampa, Silvana Nosenzo e Mario Li Santi (Agar Teatro), Giuseppe Passarino (Associazione Effatà), il dirigente comunale del settore Cultura Angelo Demarchis e la direttrice del carcere Giuseppina Piscioneri, affiancata da Debora Chiarle dell’area trattamentale della casa di reclusione. Il progetto - “Il progetto - ha spiegato Silvana Nosenzo, regista dello spettacolo con Pellegrino Delfino e Mario Li Santi - fa parte del programma “La città entra in carcere”. Prevede la realizzazione di uno spettacolo teatrale in due atti al termine del laboratorio di teatro che abbiamo tenuto in carcere, che coinvolge circa 15 detenuti. Il primo atto, intitolato “Arte oltre i pregiudizi”, è un testo collettivo nato durante il laboratorio, formato da lavori, racconti e brani che i partecipanti hanno proposto e che abbiamo trasformato teatralmente. Ad esempio, è stato inserito un canto che un detenuto cantava sempre in occasione dei pranzi di famiglia. Abbiamo quindi recuperato il vissuto precedente con una trasposizione artistica in leggerezza, come richiesto da loro”. “I detenuti - ha aggiunto Mario Li Santi - si sono così riscoperti, sul palco, in ruoli diversi. Hanno apprezzato molto il laboratorio e ne hanno evidenziato l’importante funzione. Alcuni ci hanno detto che, se avessero scoperto il teatro trent’anni, fa forse non sarebbero finiti in carcere”. Il secondo atto è invece una commedia brillante, intitolata “Un picnic di tre disperati”. “È un testo che racconta una divertente storia ricca di sotterfugi, inganni, espedienti, scritta in napoletano e poi italianizzata da un partecipante al laboratorio”, ha anticipato Silvana Nosenzo. Lo spettacolo sarà messo in scena nella casa di reclusione in due date: martedì 7 novembre la serata sarà destinata ai familiari dei detenuti - attori e comprenderà anche un’ora di incontro tra parenti; sabato 18 novembre, alle 10 (ma bisognerà presentarsi all’ingresso un’ora prima), lo spettacolo sarà invece aperto al pubblico. Biglietti: 10 euro. È obbligatoria la prenotazione entro l’8 novembre tramite mail a: biglietteriateatroalfieri@comune.asti.it (allegando copia della carta di identità in pdf). La prenotazione sarà confermata via mail in prossimità dello spettacolo. Gli altri progetti - Silvana Nosenzo ha quindi sottolineato che l’attività teatrale non terminerà con le due rappresentazioni. “Come richiesto dai detenuti - ha continuato - proporremo in carcere due spettacoli della nostra compagnia, ovvero “Basta un click” e “Il fu Mattia Pasquale”, cui seguiranno spettacoli di altre compagnie”. Tra i titoli proposti, “Fine pena ora” di Elvio Fassone. Inserito nella Stagione teatrale dell’Alfieri, dove sarà in scena il 14 marzo 2024, è al centro di un progetto dell’associazione Effatà con gli studenti, in primo luogo con gli alunni dell’istituto Monti. “In obbedienza ai nostri filoni di attività - ha aggiunto Passarino - ci siamo inoltre assunti gli oneri dei costi della compagnia per rappresentare lo spettacolo in carcere: ci saranno 60 posti a favore dei detenuti interessati a vederlo. Seguirà anche un incontro con un facilitatore e gli attori della compagnia”. Il commento della direttrice Piscioneri - A sottolineare i benefici dell’attività teatrale che coinvolge i detenuti anche la direttrice del carcere, Giuseppina Piscioneri. “La finalità del trattamento penitenziario - ha ricordato - è il reinserimento del detenuto nella società. A questo riguardo condivido in pieno l’attività teatrale, perché consente ai detenuti di esprimere le emozioni interiori. Inoltre, nonostante l’elevata burocrazia che comporta, crea un ponte tra interno ed esterno, ovvero tra carcere e città”. D’accordo Debora Chiarle: “È importante avvicinare la popolazione ad un mondo che conosce poco”. Milano. Marcello, l’ergastolano pittore dopo il 41 bis di Elisabetta Andreis Corriere della Sera, 28 ottobre 2023 “I miei quadri in Vaticano per Papa Francesco. Con l’arte riempio il silenzio”. Collegato alla mafia catanese, 74 anni, è detenuto a Opera. La sua mostra “Rinascita” dai penitenziari all’Auditorium San Fedele. “Grazie ai quadri sono riuscito ad agganciare le mie due figlie. Sono un monito per i giovani”. Qualche mese fa, chino davanti a una tela bianca, pennello e tavolozza in mano, c’era un uomo che piangeva. Poi però la tela ha preso vita. I colori hanno dato forma a un dipinto piccolo e importante. E martedì, l’uomo ha consegnato il suo quadro, ispirato alla settecentesca Madonna che scioglie i nodi, a Papa Francesco. Si sono incontrati al Vaticano, si sono seduti vicino, hanno parlato. Eppure il pittore, che si chiama Marcello d’Agata, ha un nome “pesantissimo”, collegato alla famiglia di Nitto Santapaola e ai tempi terribili e bui della sanguinosa violenza catanese, quando Cosa nostra voleva mostrarsi intoccabile e spietata, e da quelle parti continuava a mietere vittime. D’Agata ha passato dieci anni al 41 bis e ora - da vent’anni - sconta l’ergastolo più severo, con la scritta ufficiale e immutabile sul foglio: “Fine pena mai”. Eccolo, D’Agata: “Mi attacco alla pittura come fosse la mia vita. Grazie ai quadri sono riuscito ad agganciare le mie due figlie, mi è venuta voglia di nutrire un po’ di speranza. L’arte è l’unica cosa che forse mi permetterà di lasciare loro anche qualche ricordo di cui non mi vergogno”. Le figlie sono cresciute lontane da lui che aveva rotto ogni rapporto familiare “per non metterle a rischio”. Quelle figlie le ha ritrovate da poco, pochissimo. C’è sempre da scoprire qualcosa degli uomini, quando si scende negli abissi dei condannati che provano a non morire tra quattro mura. Già nel 2018 due dei quadri di d’Agata, una “Natività” e una “Annunciazione”, erano stati scelti dall’Ufficio filatelico del Governatorato della Città del Vaticano per illustrare alcuni francobolli pontifici. Un grande onore: anche perché in questo tempo che parla (quasi) solo a chi è online, i detenuti sono rimasti forse gli unici che per chiedere a qualcuno “come stai?” devono ancora prendere carta e penna, scrivere, imbustare. E infine affrancare. “In cella abbiamo così tanto tempo da soli, con il silenzio intorno, che dipingiamo i quadri per avere qualcuno con cui parlare”, sorride d’Agata. Baffi e occhi piccoli, minuto nei suoi 74 anni, con l’aiuto del Touring Club Italiano e dell’associazione “Dentrofuoriars” ha organizzato la prima mostra di opere realizzate da persone recluse nei quattro penitenziari milanesi - da Opera a San Vittore, dal Beccaria a Bollate. E adesso, quella mostra, che hanno chiamato “Rinascita”, grazie ai volontari del progetto Touring “Aperti per voi” rimarrà nel foyer dell’Auditorium San Fedele di via Hoepli fino al prossimo 5 novembre. Riavvolge il nastro, Marcello d’Agata. A casa erano otto figli. “Mio padre decise che quattro potevano studiare e quattro dovevano lavorare”. Lui a dodici anni faceva i turni di notte al bar del benzinaio di famiglia e di giorno dormiva in macchina. “Al bar, con il buio, veniva un giovane, prendeva il caffè, parlavamo. Tutto è iniziato da lì”, ricorda. Non dà la colpa a nessuno se non a se stesso, racconta ancora con un brivido come è entrato nel clan, con il “battesimo del sangue” e il banchetto con la tavola imbandita e i boss di Cosa nostra intorno. “Mi piacerebbe che la mia storia servisse a qualche ragazzo per evitare di finirci dentro”, alza lo sguardo. E poi: “Il regime del 41 bis è giusto, non ho mai pensato un attimo di dover pagare in modo diverso per quello che ho fatto. Ma una cosa pesa tantissimo, lì. E si tratta in fondo di una cosa molto semplice: non poter neanche cucinare. Nelle altre sezioni i detenuti preparano i piatti che mangiano: è un modo di sfogarsi, di passare il tempo. Ci si scambiano le ricette, “ho fatto questo tipo di carne, ho fatto questo tipo di pasta”...”. Magari sarebbe diventato un cuoco, d’Agata, invece ha trovato la sua strada nell’arte pittorica. Una figlia lo abbraccia: “L’uomo non è il suo errore, ma ci vuole tanta sofferenza per capirlo. Ognuno deve avere la possibilità di rinascere se stesso”; è arrivata da lontano per l’inaugurazione della mostra. Il papà per una frazione di secondo sorride: “Dentro ai nostri quadri, oltre ai nostri errori ci sono tutte le nostre speranze e le nostre scuse”. Fiction su Cutolo: la contraddizione insanabile tra dolore e libertà artistica di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 28 ottobre 2023 “Indignato, sbigottito e annichilito”, così Claudio Salvia ha reagito alla riedizione della fiction “Il camorrista”, realizzata nel 1986 da un giovane Giuseppe Tornatore che tornerà presto sugli schermi di Canale 5 in versione lunga e restaurata. La serie racconta la parabola di Raffaele Cutolo, lo spietato boss della Nuova camorra organizzata(Nco), un’organizzazione che ha ucciso migliaia di persone tra cui Giuseppe Salvia, padre di Claudio e vicedirettore del carcere di Poggioreale, freddato il 14 aprile 1981 in un agguato sulla tangenziale di Napoli. Nell’intervista intervista rilasciata a Repubblica, Salvia, che oggi è uno stimato funzionario del ministero dell’Interno, non trattiene la delusione e il dolore per la scelta di Mediaset: “Cutolo è stato il boss per eccellenza, ha distrutto intere famiglie e frantumato, letteralmente, la vita di centinaia di innocenti. Perché riportare alla luce un tale carnefice e non raccontare il coraggio e l’integrità di tanti uomini dello Stato che hanno pagato con la vita i principi di rettitudine e legalità?”. Parole comprensibili per chi ha visto profanare la propria vita dalla violenza camorrista e mai potrà leggere quella vicenda se non attraverso il filtro della propria memoria offesa; quella sofferenza, quel tormento sono sentimenti intangibili che meritano un rispetto assoluto. Durante le riprese Tornatore venne minacciato da Cutolo in persona che, con il linguaggio obliquo tipico delle cosche, si lamento del fatto che il film fosse “girato da un siciliano”, messaggio chiarissimo. Per questo il regista non ci sta a passare per un agiografo del boss: “Non posso accettare che la mia serie sia un insulto alle vittime della camorra, nessuno può dirlo” ha replicato. È una contraddizione insanabile: da una parte lo strazio di chi ha subito un terribile lutto e il diritto a esprimere pubblicamente il proprio disagio, dall’altra la libertà di raccontare le vicende più cupe della nostra storia anche attraverso gli occhi dei “cattivi”. Con i quali il cinema mantiene da sempre un costante rapporto di ambiguità, facendone i protagonisti della scena, mostrandone anche i lati umani e informali, giocando sull’inevitabile identificazione degli spettatori pur mantenendo ferma la condanna morale. Pensiamo ai tanti film sui mafiosi italo- americani interpretati da attoria amatissimi dal pubblico come Marlon Brando, Robert De Niro, Al Pacino, che mostrano dal di dentro l’epica criminale, le loro balorde carriere, le ambizioni sfrenate, le irresistibili ascese e l’ineluttabile caduta, personaggi shakespeariani che hanno costruito il nostro immaginario e a cui siamo affezionati nonostante tutto il male che hanno provocato. Recentemente ha creato aspre polemiche Dahmer, la serie Netflix diretta da Ryan Murphy e consacrata al “mostro del Milwaukee”, lo psicopatico serial killer che tra il 1978 e il 1991 uccise con metodi atroci 17 ragazzi, quasi tutti omosessuali e appartenenti a minoranze etniche. Interpretata da uno straordinario Evan Peters, Dahmer è stata una delle serie più viste di sempre sulla piattaforma streaming e ha profondamente scioccato i parenti delle vittime che hanno accusato Netflix di “pornografia del dolore” e di rendere l’assassino un personaggio affascinante e complesso. “Hanno creato un spettacolo sulla nostra tragedia e lo hanno fatto per pura avidità” tuonò Rita Isabell, sorella di uno dei ragazzi torturati e assassinati. Per tornare in Italia e sempre sulla figura di Cutolo è difficile non pensare a Don Raffaè, la canzone di Fabrizio De André in cui il boss della Nuova camorra organizzata viene descritto in modo sarcastico come “un uomo geniale che parla co’ me”. Il brano, che uscì nel 1990 sull’album Novecento non suscitò particolari polemiche, anche perché lo stesso De André ci tenne a spiegare, in modo forse un po’ democristiano, che il vero protagonista della sua canzone non era tanto Raffaele Cutolo ma Pasquale Cafiero, brigadiere del corpo di polizia penitenziaria del carcere napoletano di Poggioreale. Le guerre e noi: l’orrore e le ispezioni di Andreina Corso Ristretti Orizzonti, 28 ottobre 2023 Liliana è in fila: c’è l’ispezione e devono accertare se sei sana, se puoi lavorare con efficienza. Se lo sei, passi ed esci dalla fila e vai nella direzione dei sani, radunati ai lati. Se non lo sei, come Janine, che ha le dita delle mani sanguinanti, le falangi tagliate da una lama d’acciaio durante il duro lavoro imposto a lei e alle altre ragazzine, mani che tiene nascoste dietro alla schiena (ma i nazisti non li imbrogli), attenti e disciplinati come sono, ti indicano un’altra direzione, quella delle docce di fumo. Ti ordinano quell’altra direzione, come si usa nei campi di concentramento. Liliana è inorridita, ha paura, vorrebbe dire qualcosa alla sua amica, anche solo mi dispiace, abbracciarla, trattenerla, accarezzarle un braccio, baciarle la mano ferita o magari inginocchiarsi e supplicare ‘quei’ tedeschi, di lasciarla vivere, di avere pietà. A Liliana crolla il mondo addosso, il troppo odio annienta: rimane impietrita e muta. Liliana, l’ispezione l’ha superata, ma dentro il suo cuore si insinua un silenzio disperato esploso nel rimorso e nel rancore verso se stessa che pur sapeva di essere una bambina coraggiosa, leale e fiera. Liliana Segre racconta sempre questo episodio che ancora le esplode nel cuore e la tortura. Lo racconta ai ragazzi che incontra nelle scuole, nei suoi libri, nelle numerose interviste dove si sente dire parole consolatrici, rassicuranti, come “che lei non avrebbe potuto fare niente, che anche Janine l’ha capito il suo terrore, che tutto era troppo spaventoso e crudele per essere affrontato da una bambina. Eppure Liliana non ce la fa a perdonarsi, non vuole perdonarsi, troppo dolore nella memoria e troppa memoria incisa nel dolore. Ho avuto modo di rileggere il libro di Liliana Segre e la storia di Janine, del silenzio e del rimorso si è travasata sulle guerre che oggi come ieri abitano la Terra, distruggendola, uccidendo e straziando corpi di uomini donne e bambini. E nel versarsi e debordare allagando i territori in guerra, ha fatto emergere la nostra fragile, sfuggevole consapevolezza rispetto a quel che succede ad esempio in Ucraina, in Russia, in Israele o nella fascia di Gaza. . . e di tante altre realtà violate, si potrebbe dire. Il dolore di Liliana, mi permetto di chiamarla così, pensandola bambina alle prese con l’inferno, ci dice qualcosa alla nostra coscienza? Facciamoci un’ispezione a modo nostro: cosa sappiamo, cosa pensiamo delle vittime delle guerre? Talvolta le vediamo avvolte in lenzuola bianche fra le macerie, altre riverse a terra, arrese al male. A volte le vediamo sedute per terra, affamate, a volte in un letto di ospedale, senza domani E noi? E noi non sappiamo chi sono, non le conosciamo quelle vittime, nulla sappiamo della loro voce, dei sorrisi, dei pianti, dei sogni, è come se vivessimo su Marte, noi, personaggi osservati da Isaac Asimov che non conosciamo più nessuno oltre il pianeta rosso. Sì, qualcuno di noi vorrebbe scendere sulla Terra per capire cosa succede, però costa fatica e siamo tutti o quasi” in tutt’altre faccende affaccendati”. Confusi da ragioni e torti che la ragione respinge, dentro disquisizioni tattiche, rivendicazioni, diritti, vendette, conflitti armati in grado di provocare stragi, noi e le nostre improbabili tifoserie, saremo in grado un giorno di chiedere il cessate il fuoco? Mi si perdoni l’ingenuità e persino l’ovvietà. La guerra non è una necessità, è portatrice di morte e di odio, Papa Francesco invoca la Pace, non tanto e non solo come un pensiero ideale, invoca la volontà di ognuno di noi di spendersi in qualche modo perché un urlo universale convinca i promotori della guerra, che sono pochi in fondo rispetto ai popoli, che sono uomini (intoccabili?) ad abbandonare quelle strategie mortali che riducono gli esseri umani a foglie secche che si sbriciolano fra le dita. Quel tenero e commovente rimorso di Liliana Segre, sarebbe importante contagiasse gli esecutori delle guerre, perché in fondo c’è sempre un tempo di ascolto della voce dei popoli, che chiedono cose semplici come pane, casa, lavoro, istruzione, sicurezza. Ci sarà, si spera il tempo del ripensamento per affidare alla giustizia, all’equità un domani senza armi, senza odio, senza vendette: un domani di Pace vissuta. Nel futuro, anzi da subito, mettiamoci convinti anche la nostra civiltà, la fatica e i nostri rimorsi come bene collettivo da spartire e amalgamare insieme alle parole instancabili e generose di Liliana Segre. Ronda della Carità di Firenze, 30 anni per gli ultimi di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 28 ottobre 2023 Samba, gambiano, dorme tutte le sere nel parco delle Cascine. “Sono stato in una struttura per migranti, poi ho ricevuto la protezione internazionale e sono dovuto andare via”. Nei giardini della Fortezza c’è Khaled, pachistano, insieme ad altri connazionali. Sono arrivati dalla rotta balcanica, ma nei centri di accoglienza non ho trovato posto. In centro c’è Claudio, siciliano, un passato familiare burrascoso e qualche anno in carcere, fino a pochi giorni fa accampato con la sua tenda nel vicolo di Santa Maria Maggiore. “Io mi vergogno a vivere in queste condizioni, a stare accanto al Duomo a chiedere l’elemosina, a dormire in questa tenda”. Il suo labrador sempre accanto, Rex. “Quello che mi dà un cane non mi dà una persona”. E poi Massimo, dorme fuori dalla chiesa del Romito (anche lui in tenda) da quasi quattro anni: “È iniziato tutto con la pandemia, lavoravo in una pasticceria, che però ha chiuso, sono rimasto a piedi”. Perde il lavoro, si sgretolano gli affetti familiari, finiscono i soldi. E si ritrova per strada. “Ormai ci ho fatto l’abitudine”. Sono più o meno mille ogni notte i senzatetto nelle vie, nelle piazze, nelle stazioni e in alloggi di fortuna della provincia di Firenze, secondo quasi tutte le associazioni che ogni notte si fanno carico di aiutarli, anche grazie al coordinamento comunale delle unità di strada. La Ronda della Carità è una di queste. “In strada vediamo sempre più giovani ragazzi africani e asiatici che non trovano accoglienza” racconta la presidente Marisa Consilvio. Sono quelli che lasciano le strutture del sud e si ritrovano a Firenze per chiedere asilo. Non sempre ci sono posti per loro, quasi tutti i centri sono pieni. E poi ci sono quelli che fuoriescono dalle strutture perché l’accoglienza è terminata. Molti vorrebbero proseguire per il nord Europa ma le frontiere sono difficili da superare. “Vogliono farci credere che siamo di fronte a un’emergenza migranti, ma i numeri sono relativamente bassi - aggiunge Consilvio - Se ci fossero più fondi per l’accoglienza, queste persone potrebbero seguire percorsi di inclusione nei centri a loro dedicati. E invece finiscono per strada, con tutte le conseguenze del caso. È il sistema che non li integra”. Parole simili da Serena Velona, presidente di Acisjf Firenze. “Ogni giorno al nostro help center alla stazione tocchiamo con mano i problemi di tanti ragazzi che vivono per strada. Arrivano in condizioni pietose, a volte scalzi, affamati. I bandi governativi per l’accoglienza nelle strutture sono stati fatti al ribasso e tante associazioni si sono tirate indietro, questi sono i risultati”. Ma i senzatetto non sono soltanto migranti. “Gli italiani non sono mai spariti, ce ne sono meno in percentuale rispetto a prima ma ci sono ancora - spiegano dalla Ronda - molti hanno visto la loro vita precipitare dopo con il Covid”. Persistono in strada anche persone che arrivano dall’Est Europa. Come Marius, romeno, che dorme in una stamberga nel giardino dell’ospedale di Careggi: “Vorrei lavorare, ho lasciato il curriculum al centro per l’impiego, ma ancora non ho trovato niente”. Tra le associazioni di strada c’è anche Medu: “Ci preoccupa molto la salute mentale delle persone che incontriamo” dice la coordinatrice Silvia Ciofi Baffoni. Per Michele Brancale della Comunità di Sant’Egidio “i senza dimora sono in aumento e anche le persone, a volte famiglie intere, che si rivolgono a noi per un pacco alimentare”. Suicidio assistito, a Roma non si può. L’Asl nega il diritto di Eleonora Martini Il Manifesto, 28 ottobre 2023 Diritti. Il diniego opposto ad una malata oncologica con tutti i requisiti richiesti dalla Consulta. Per la sanità regionale manca il sostegno vitale (che c’è). In Veneto avrebbero detto sì. A Roma una signora di 57 anni, malata oncologica in fase terminale, ha chiesto di mettere fine alle proprie sofferenze che reputa ormai intollerabili. Ha tutti i requisiti stabiliti dalla Corte costituzionale nella importante sentenza 242 Cappato/Dj Fabo del 2019 per accedere al suicidio medicalmente assistito nella propria abitazione, ma l’Azienda sanitaria regionale Asl Rm 1, nella persona del Commissario straordinario Giuseppe Quintavalle e del direttore sanitario Gennaro D’Agostino, le negano quello che la Consulta ha riconosciuto come diritto costituzionale, sollecitando peraltro un intervento del legislatore. Diritto che finora ha permesso ad almeno altre sei persone, in Italia, di ottenere il nulla osta alla morte volontaria. La donna, che preferisce mantenere l’anonimato e chiede di non essere identificata neppure con un nome fittizio, ad inizio agosto aveva richiesto alla propria azienda sanitaria la verifica delle proprie condizioni di salute, come prevede l’iter indicato dai giudici costituzionali. A settembre una commissione medica multidisciplinare l’aveva visitata ma dopo alcune settimane, non ricevendo risposta, il pool di avvocati dell’associazione Luca Coscioni a cui la signora si era rivolta ha diffidato la Asl Rm1 a non perdere ulteriore tempo, perché ogni giorno che passa è vissuto come una tortura dalla paziente. Solo a quel punto arriva la comunicazione dell’Azienda sanitaria regionale: è un diniego netto, senza certificazioni allegate, secondo quanto riferisce l’associazione Coscioni. “Non c’è né la relazione multidisciplinare redatta dai medici che hanno sottoposto a verifica la nostra assistita né il parere del comitato etico competente - ricostruisce l’avvocata Filomena Gallo, a capo dell’associazione e coordinatrice del collegio legale - L’azienda sanitaria riconosce che la signora è affetta da una malattia irreversibile fonte di sofferenze per lei divenute intollerabili e che è nella piena capacità di autodeterminarsi ma esclude la presenza di un trattamento di sostegno vitale, nonostante sia chiaro dalla documentazione medica che la signora è sottoposta a terapia antalgica di derivazione morfinica e ad una terapia di sostegno con ossigeno, alla quale è attualmente sottoposta in modo continuativo. Senza la terapia antalgica, per intenderci, il dolore sarebbe talmente insopportabile da indurle la morte. Ma non sono stati neppure ascoltati i suoi medici personali”. La donna però non vuole sottoporsi alla cosiddetta terapia del dolore “per non lasciare i suoi cari in una lunga ed estenuante attesa della morte”. E, malgrado abbia intrapreso le procedure per l’aiuto al suicidio in una clinica svizzera, preferirebbe concludere la propria esistenza nella sua città. L’associazione Coscioni si è opposta al diniego “illegittimo” ma dall’Asl Rm1 ancora nessuna risposta. “Se non arriverà entro poche ore - conclude l’avvocata Gallo - la signora sarà privata definitivamente del suo diritto di scegliere sul suo fine vita e sarà costretta ad affrontare un’agonia contro la propria volontà”. È la seconda volta che accade nel Lazio, dunque non solo con la Regione guidata dalla destra. Il primo diniego era stato opposto nel 2021 (quando assessore alla Sanità era Alessio D’Amato, allora Pd oggi Azione) alla richiesta della 37enne Daniela, dilaniata da tre tumori, che non ha fatto in tempo ad arrivare alla prima udienza del processo intentato contro la sua azienda sanitaria: è morta poco prima. Nel Veneto leghista invece, per esempio, la signora Gloria, anche lei malata oncologica, ha ottenuto il nulla osta al suicidio assistito che si è consumato nel luglio scorso perché i farmaci chemioterapici che assumeva sono stati riconosciuti come sostegni vitali. Come anche l’assistenza h24 è stata considerata dal Friuli Venezia-Giulia un sostengo vitale che ha permesso alla signora Anna, affetta da distrofia muscolare, di ottenere l’autorizzazione ad una “dolce” morte. Starà ora a lei, e a lei sola, decidere se e quando farsi aiutare. Il pediatra negato ai bimbi migranti. “Kofi e gli altri, a un passo dalla morte per malattie banali” di Elena Dusi La Repubblica, 28 ottobre 2023 La Società Italiana di Pediatria sulla salute dei minorenni stranieri in Italia: mortalità e povertà più alte, rischi di infibulazione e matrimoni forzati. E se il genitore perde il lavoro si rischia di restare senza assistenza. I genitori di Kofi erano arrivati in Italia dal Ghana. Quando il bambino - Kofi non è il suo vero nome - è finito in pronto soccorso a Parma a causa del diabete, loro scuotevano la testa increduli. “Ligi alle prescrizioni del medico, davano ogni giorno l’insulina al bambino. Peccato che gliela somministrassero per bocca, non come si dovrebbe, con un’iniezione”. Kofi è arrivato sul ciglio della morte per un banale malinteso linguistico, poi è stato ripreso per i capelli. A raccontare la sua storia emblematica è Gianni Bona, il pediatra di Novara e dell’università del Piemonte Orientale che trent’anni fa ha fondato il Gruppo di lavoro sul bambino migrante della Società Italiana di Pediatria (Sip). Il Gruppo ha appena presentato al congresso della Sip di Torino gli ultimi dati sulla salute dei bambini stranieri in Italia. Il succo è che barriere linguistiche e burocrazia possono essere un ostacolo all’assistenza sanitaria anche per chi ha i documenti in regola. Prendiamo per esempio l’accordo Stato-Regioni del 2012 che garantisce l’iscrizione al servizio sanitario nazionale e l’assegnazione di un pediatra di famiglia gratuito a tutti i bambini presenti in Italia, indipendentemente dallo status giuridico della famiglia, regolare o no. “Deve ancora essere ratificato dalla stragrande maggioranza delle Regioni, quindi in pratica è disapplicato quasi ovunque” spiega Piero Valentini, il pediatra della Sip che dirige attualmente il Gruppo per i bambini migranti e lavora al Policlinico Gemelli di Roma. Senza questo intoppo burocratico non solo Kofi, ma anche Andrej, rumeno - ancora una volta il nome è di fantasia - sarebbe vivo. “Aveva 5 mesi e da 2 mesi non cresceva. Qualunque pediatra, se lo avesse visitato, si sarebbe insospettito e avrebbe scoperto la causa. Invece quando è arrivato da noi la tubercolosi era così avanzata che il bambino è morto dopo nove mesi di trattamenti e ricovero” racconta Valentini. Asma, diabete, malattie infettive come tubercolosi o addirittura sifilide. Sono molti i problemi di salute che i bambini migranti in Italia portano come un fardello invisibile e che possono degenerare se non sono individuati da un pediatra. È accaduto a Jawad (non il suo vero nome), 15 anni, bengalese. Fino a quando il padre ha lavorato come lavapiatti, il pediatra di famiglia ha seguito il suo diabete. Poi con il licenziamento e la perdita del permesso di soggiorno del genitore, per una serie di nodi burocratici mai risolti, il ragazzo non ha più potuto ricevere l’insulina. Oggi se la cava solo perché ha trovato un ambulatorio per migranti irregolari non troppo lontano da casa. Secondo i dati dell’Istat relativi al 2022 i minorenni stranieri in Italia sono 1,3 milioni. Fra loro circa un milione è nato in Italia da genitori stranieri: appartiene quindi alla seconda generazione. Se si guarda ai nuovi nati, i piccoli migranti sono il 15% del totale. A loro si sommano i mille rivoli dei bambini arrivati sui barconi, spesso non accompagnati, o tramite i ricongiungimenti familiari. Per tutti loro ottenere l’assistenza dal sistema sanitario non è sempre facile: la mortalità infantile fra i migranti è del 3,7 per mille contro il 2,3 degli italiani. Il tasso di povertà delle famiglie straniere con minori è del 36%, mentre quello delle famiglie italiane con minori è dell’8%. L’obesità fra i bambini stranieri è schizzata dall’1% al 10% in dieci anni. “No, non è un paradosso. Il cibo spazzatura costa meno di quello sano” conferma Bona. “Un’altra conseguenza dello stravolgimento dello stile di vita è la pubertà precoce, soprattutto nelle bambine. Parliamo di 5, 6, 7 anni. E’ davvero troppo presto”. Se già i maltrattamenti sono più diffusi fra i bambini stranieri (i casi che finiscono di fronte ai servizi sociali sono il triplo rispetto agli italiani), a trovarsi in una posizione particolarmente fragile sono le ragazze. Secondo i dati del Gruppo per i bambini migranti circa 2mila minorenni nate in Italia sono costrette a sposarsi nel paese d’origine, spesso con matrimoni precoci o forzati. Le ragazze che provengono da paesi in cui si pratica l’infibulazione sono 76mila. “Può accadere al Pronto Soccorso di notare le mutilazioni genitali durante le visite fatte per altri motivi” conferma Bona. “In genere la pratica non avviene in Italia, dove è vietata, ma nei paesi d’origine durante una vacanza o una visita ai parenti. Mi è capitato anche di conoscere uno studente del Niger, un futuro pediatra, deciso a far infibulare un’eventuale figlia”. C’è poi il capitolo dei minori non accompagnati: i bambini o i ragazzi arrivati soli coi barconi. Valentini ricorda un adolescente dall’aria sveglia partito dal Ghana per stare meglio non in termini economici, ma proprio di salute. “Non si sentiva bene, ma nessuno sapeva spiegargli perché. Decise allora di partire, anche se non era particolarmente povero. Attraversò Mali, Mauritania, Libia, qui fu detenuto, ma poi riuscì a salpare. La sua barca affondò e venne rispedito in Libia, ma non desistette e al secondo tentativo raggiunse Lampedusa. Al centro di accoglienza si accorsero che effettivamente non stava bene e lo mandarono da noi al Gemelli. Bastò una semplice lastra per capire che il suo problema era la tubercolosi. Quando lo seppe pianse, perché da lui sarebbe stata una diagnosi letale. Invece guarì e credo che oggi sia tornato al suo villaggio”. Ai più piccoli, i bambini, nei centri d’accoglienza si chiede a volte di esprimere i sentimenti con un disegno. “Non raffigurano quasi mai le scene violente del viaggio” racconta Bona. “Quello è troppo, viene spesso rimosso. I loro disegni raffigurano in genere le scene dell’infanzia perduta nei loro paesi d’origine: le case, le feste, i nonni. Sono disegni pieni di tristezza, nostalgia, senso di sradicamento”. Ferite che l’Italia e i suoi pediatri, nonostante la burocrazia, fanno di tutto per medicare. Crimini di guerra, l’accusa dell’Onu di Domenico Quirico La Stampa, 28 ottobre 2023 Ci sono popoli dimenticati, tanti, troppi: i tibetani, i karen, gli yanomani dell’Amazzonia, gli uiguri del Xinjiang, i curdi, sì anche i curdi a cui dedichiamo attenzione quando ci servono, contro Saddam Hussein o il neo califfato, per scaricarli poi nel loro frammentato oblio. Conosciamo le loro tragedie, a menadito, certo: ma ci sono cose più importanti nel disordine mondiale per farcene carico. Non disturbano. Non hanno carri armati o bombe, non compiono attentati. Vegetano. È diventare inutili che dà un senso di disperazione. Israeliani e palestinesi, invece, non sono popoli dimenticati. Sono due popoli soli. E forse questo è anche peggio. Ieri l’Onu li ha accumunati: nella condanna dei crimini di guerra che entrambi avrebbero commesso! Nell’ennesimo atto della tragedia in Palestina, in un momento in cui la Storia non ci dà tregua, sappiamo a memoria riepilogare tutto ciò che li divide, una unica terra che entrambi considerano loro, il vizio assurdo, i morti innumerevoli di ieri e di oggi, esser l’uno Occidente e l’altro Oriente. Dire che’ “la questione ha due lati” è una espressione che comincio a detestare. Perché oggi si evoca, dalle due parti, l’incubo di una’ “distruzione’’. È con questa paura, peraltro, che ha sempre convissuto Israele. Possiamo esser certi che l’Occidente non lo permetterà? Tutte le iperboli ora sono destinate al silenzio. Può accadere di tutto, tutti sono in scena, Usa, Turchia, Iran, arabi, russi, jihadisti, e proprio per questo, soprattutto per questo, non si può prevedere cosa di peggio potrebbe venirne. Proviamo a rovesciare la prospettiva e cerchiamo cosa può unirli. E ad attingervi una direzione, una fede, proviamo a farne strumento di comune salvezza. A costo di dire cose brutali, irritanti, di fare scandalo. Questa verità delle verità credo sia proprio la comunanza nella solitudine. La solitudine di chi rifiuta di rintanarsi nel silenzio della dimenticanza, di scavarsi un angolino nello spazio fisico che gli è stato gettato come una elemosina: vivete lì e non disturbate più il motore del mondo. Questi due popoli avanzando, tragicamente, su un lungo cammino comune da più di settanta anni, hanno avuto il coraggio di gridar forte il problema, la stonatura, la ferita impressa dalla realpolitik della ipocrisia. Di ribadire, contro ogni bugia comoda, che con la creazione di due Stati non è mutato un fatto: entrambi non possono dare per scontato e garantito il loro diritto a vivere. Altri sì, europei americani australiani giapponesi sì. Loro no, non sono stati messi in grado di considerare il diritto alla vita un diritto naturale. Non è un problema di colpe originarie. È un problema di condizioni storiche in cui sono stati costretti. Non è per senso di giustizia e per amore che Israele e l’Entità palestinese sono stati creati da chi comandava il mondo. Nessuno nella Storia ama gli altri uomini. È per sé stessi che vengono fatte scelte importanti, spesso definitive e matrici di lunghe tragedie. Israele è nato da un rimorso, quello dell’Europa che si sentiva, tutta, colpevole della Shoah, innanzitutto, in cui gli assassini avevano agito fino all’ultimo nella omertà e nel silenzio, e prima ancora del lungo antisemitismo collettivo che attraversa l’Ottocento e il Novecento dove le zone senza macchie sono rare. Riservare l’antica terra dell’Esodo agli ebrei era solo un modo spiccio per saldare il conto, per dimenticare una colpa. Tanto è vero che nessuno si preoccupò delle conseguenze ovvero che appena proclamata la nascita di Israele gli arabi avrebbero cercato di distruggerlo. Fu solo la incredibile vittoria che salvò il piccolo Stato, non certo i suoi ambigui alleati ansiosi di dimenticarsene. E sono state ancora le guerre vinte e la forza a difenderlo da settanta anni, a forgiarne l’identità e talora anche gli errori. Lo stesso vale per i palestinesi. Bisognava sbarazzarsi, in questo gli Stati arabi erano in prima fila, di questi irriducibili perturbatori dei campi profughi che non smettevano, invece di assimilarsi nei paesi dell’esilio, di reclamare la Palestina anche se sembrava imprendibile. E poi per l’Europa c’era il problema di interrompere “la diplomazia del terrore’’ con cui i palestinesi, e alcuni Stati che ne approfittavano per le proprie strategie, negli anni settanta e ottanta cercarono di ottenere con il ricatto ciò che non veniva loro concesso. La caricatura di Stato, l’Entità, che infine hanno ottenuto con i rimasugli di ciò che gli arabi, Giordania e Egitto, avevano perduto nel 1967, Gaza e la West Bank, è stato il modo per sbarazzarsene. E lavarsene le mani. Allora è proprio in questa comune ribellione alla Storia l’idea che può liberarli da memorie rabbiose che li hanno resi estranei persino a sé stessi. Che li induce a eludere la loro biografia. Il desiderio di non morire, quasi una dimensione della mente che si estende nello spazio: palestinesi e israeliani sono il desiderio di non morire. Continuare ad essere, essere sempre, sbocciare e durare. Tutto quello che possiedono di forza, di energia e di lacrime, il tesoro della solitudine in cui specchiarsi, servirebbe a riunirli, non a dividerli. Se sapranno essere ebrei e palestinesi fino in fondo. Entrambi non devono redimere la terra, devono redimere la gente. Medio Oriente. Assemblea generale Onu, sì alla risoluzione sulla tregua di Sabato Angieri Il Manifesto, 28 ottobre 2023 Al Palazzo di vetro raggiunti i due terzi di voti favorevoli necessari. L’Italia si astiene. L’Assemblea Generale dell’Onu ha approvato la bozza di risoluzione che chiedeva la tregua a Gaza, l’ingresso degli aiuti umanitari e la fine delle evacuazioni forzate dei civili. Con 120 voti a favore, 14 contrari (tra cui Usa e Israele) e 45 astenuti (tra cui l’Italia), i due giorni di riunione sono giunti a un punto. Nonostante la gran parte dei 112 oratori che si erano prenotati per intervenire non sono riusciti a parlare, a metà giornata era già chiaro che il voto si sarebbe tenuto entro il pomeriggio di ieri (la sera in Italia). L’ambasciatore della Giordania all’Onu, Ayman Safadi, aveva richiesto l’anticipazione del voto parlando a nome del gruppo arabo di 22 Paesi che ha redatto la risoluzione alla base della riunione degli ultimi due giorni. “C’è urgenza di agire” aveva spiegato Safadi, “la tregua umanitaria è la priorità”. Il testo della bozza di risoluzione inizialmente chiedeva il cessate il fuoco a Gaza per garantire l’ingresso degli aiuti umanitari nella Striscia. Lynn Hastings, coordinatrice umanitaria dell’Onu per i Territori palestinesi aveva infatti ricordato che “le Nazioni unite non hanno ancora raggiunto un accordo con Israele per la consegna di combustibile all’interno della Striscia di Gaza”. La bozza conteneva inoltre un invito a fermare le evacuazioni forzate dal territorio settentrionale della Striscia. Secondo l’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione in Palestina (Unrwa) ieri il numero degli sfollati interni accolti dalle strutture per rifugiati dell’Onu ha raggiunto i 629 mila individui. Tre volte di più della capacità di questi centri. Altre 30 mila persone sarebbero inoltre tornate nel nord della Striscia, territorio che avevano lasciato dopo l’ultimatum delle forze armate israeliane. Tale dato, alla luce delle notizie giunte in serata sull’intensificarsi dei bombardamenti e dei raid via terra da parte di Israele, diventa ancora più preoccupante. L’Unrwa ha anche aggiunto che “le scorte di carburante dell’Agenzia Onu sono quasi completamente esaurite, mettendo a repentaglio servizi essenziali come la fornitura di acqua corrente, l’assistenza sanitaria e la produzione di pane”. Il Segretario Generale dell’Onu, Antonio Guterres, nonostante le critiche dei giorni scorsi, non si è fatto intimidire e ha ribadito: “il sistema umanitario a Gaza sta affrontando un collasso totale con conseguenze inimmaginabili per più di 2 milioni di civili. Ognuno deve assumersi le proprie responsabilità. Questo è il momento della verità, la storia ci giudica tutti”. A fine giornata il ministro giordano Safadi, ha ribadito: “votare contro la risoluzione dell’Onu significa approvare questa guerra insensata, milioni di persone guarderanno ogni voto. La storia giudicherà”. Safadi ha anche rilanciato le indiscrezioni apparse su diversi media rispetto all’inizio dell’invasione via terra delle truppe israeliane nella Striscia di Gaza (notizia poi smentita da Tel Aviv) e, poco dopo, l’ambasciata israeliana ad Amman è stata circondata da manifestanti che hanno cercato di fare irruzioni negli edifici della sede diplomatica. La bozza votata ieri non corrisponde a quella originale. Invece del cessate il fuoco era apparsa la dicitura: “tregua umanitaria immediata, duratura e prolungata che conduca alla cessazione delle ostilità, e che tutte le parti rispettino immediatamente e pienamente i loro obblighi ai sensi del diritto internazionale, in particolare per quanto riguarda la protezione dei civili”. Inoltre, il gruppo di estensori della proposta aveva chiesto: “la revoca dell’ordine da parte di Israele di evacuazione dei palestinesi dal nord della Striscia”. Quest’ultima specifica sembra chiudere definitivamente la porta alle richieste di Tel Aviv sulla dislocazione degli sfollati di Gaza negli stati vicini e amici. Infine, nella bozza è stato aggiunto anche “il rilascio immediato e incondizionato di tutti i civili tenuti illegalmente prigionieri”. In ogni caso, le risoluzioni Onu non hanno valore vincolante e per essere approvate devono essere votate favorevolmente dai due terzi dei 193 paesi membri. Il Canada, probabilmente di comune accordo con gli Usa, aveva proposto che si inserisse un emendamento nel quale si esplicitava la condanna dell’Assemblea all’attacco di Hamas e una richiesta di rilascio degli ostaggi. “Nella bozza di risoluzione al voto in Assemblea Generale mancano due parole: la prima è Hamas, ed è oltraggioso che il testo non menzioni l’autore degli attacchi del 7 ottobre. Un’altra parola che manca è ostaggi, e queste omissioni autorizzano la brutalità di Hamas”. Ha dichiarato l’ambasciatrice statunitense presso il Palazzo di vetro. Mentre a New York si continuava con la discussione, dall’Europa è arrivata una notizia che nel clima degli ultimi giorni appare in controtendenza. “Il Consiglio dell’Unione Europea terrà una conferenza di pace tra circa sei mesi per rinnovare la spinta verso una soluzione a due Stati per il conflitto israelo-palestinese”, ha dichiarato il primo ministro spagnolo ad interim Pedro Sánchez. Lo stesso che aveva provato a esercitare pressioni affinché l’UE chiedesse un cessate il fuoco immediato, senza successo a causa dell’ostracismo di alcuni stati membri. Medio Oriente. È ora di ritrovare la pietà perduta di Paolo Lepri Corriere della Sera, 28 ottobre 2023 È arrivato il momento di ritrovare la pietà perduta, mentre i carri armati israeliani entrano a Gaza e la catastrofe attesa in questi giorni drammatici seguiti al massacro del 7 ottobre rischia di materializzarsi in uno scenario al quale il mondo non avrebbe voluto assistere. Mentre nuove vittime innocenti si aggiungono alla spirale della distruzione, la memoria fa riaffiorare le parole del franco-israeliano Ofer Bronchtein, già collaboratore di Yitzhak Rabin, contenute in una lettera ad un amico palestinese pubblicata da Le Monde: “La collera che evochi di fronte alla situazione del tuo popolo è legittima. Ma il tuo silenzio di fronte al dolore del mio è insopportabile”. Bisogna adesso sconfiggere ogni silenzio. Quanto è avvenuto nei kibbutz ai confini di Gaza e al rave party di Reim - che è all’origine di quello che sta accadendo in queste ore - è stato accompagnato spesso da un allarmante deficit di solidarietà: un deficit di solidarietà e (di empatia) che è venuto prima, si potrebbe dire, della condanna per le troppe vittime innocenti provocate dalla reazione dello Stato ebraico e che la denuncia per le bombe israeliane sui civili palestinesi sta via via cancellando ulteriormente, laddove esisteva, in una perversa classifica di gravità dell’orrore. Il pogrom antiebraico di Hamas non ha fatto riflettere su una involuzione terribile - alla quale ha contribuito la linea oltranzista di molti governi israeliani e la scelta di delegittimare l’Autorità nazionale Palestinese - che in tanti hanno deciso di non vedere. L’attacco terroristico che ha fatto rivivere la barbarie dell’Olocausto non ha guarito la cecità, o nel migliore dei casi lo strabismo, di chi non si è reso conto che la causa nazionale palestinese non esiste più nei termini che l’avevano fatta diventare la bandiera universale dei diritti negati, primo fra tutti quello di avere una patria. Se ne è impossessata - anche al di là dei sentimenti di una popolazione ingannata, radicalizzata dalla miseria - un partito terrorista, votato soltanto all’eliminazione degli uomini, delle donne e dei bambini che dovrebbero convivere nella stessa terra. Un’organizzazione capace - come scrive il filosofo francese Jacob Rogozinski - “di impossessarsi della collera, della rivolta legittima contro l’oppressore, per trasformarla in odio”. E l’odio non porta mai con sé soluzioni ma solo sangue. Forse è esagerato dire, come fa lo scrittore algerino Kamel Daoud, che la causa palestinese “scivola verso il senso sbagliato della Storia” e che “ciò che aveva rappresentato un dossier di decolonizzazione appare attualmente come una questione di messianismo religioso”. Ma è un dato di fatto che l’islamismo radicale di Hamas non solo ha pilotato la società palestinese verso una direzione oscurantista - che non può essere mai accantonata quando ci si esercita nel distribuire torti e ragioni, e che spesso viene rimossa inspiegabilmente e pericolosamente - ma ha alimentato la febbre del fanatismo come “sostituzione” alla prospettiva della possibile convivenza. È obbligatorio citare ancora una volta Amos Oz, convinto che anche ad una banda di “fanatici assetati di sangue”, come i rappresentanti dell’Islam violento, sia necessario “contrapporre un’idea”. E proprio le idee sono mancate in questi anni. Tutti hanno preferito invece assurdamente sperare nello scorrere del tempo. Insomma, una visione “nostalgica” della questione palestinese continua a dominare questa epoca di errori. È cambiato tutto da quando Yasser Arafat nel 1974 brandiva il mitragliatore e il ramoscello d’olivo alle Nazioni Unite, da quando alla conferenza di pace di Madrid del 1991 l’Olp veniva tenuta dietro le quinte mentre Siria e Israele si scambiavano insulti teatrali. Ci sono state ondate di attentati kamikaze, che intellettuali palestinesi come Edward Said o Rashid Khalidi condannavano già alla fine degli anni Settanta, ci sono stati aspri combattimenti tra fazioni diverse, ma gli slogan sono sempre gli stessi. Il conflitto israelo-palestinese è diventato anche uno scontro tra due torti e gli abitanti della Cisgiordania e di Gaza - vittime di quella che il segretario generale dell’Onu António Guterres ha chiamato una “soffocante occupazione”, usati come scudi umani da Hamas che si serve degli aiuti internazionale per fabbricare morte, dimenticati dai Paesi arabi, avvelenati dall’Iran, traditi dalla corruzione della cricca dell’inamovibile ottantasettenne Abu Mazen - scatenano il senso di colpa dell’Occidente e sono diventati sempre più gli eroi del nuovo estremismo anticoloniale che spesso si esprime con intollerabili toni antisemiti. Oggi, con l’ascesa di Hamas e del suo spietato governo della Striscia, è difficile impiegare senza porsi alcuni interrogativi il termine “resistenza”, pur evitando di compiere lo sbaglio di ritenere che la società palestinese sia rappresentata dal partito-movimento terrorista finanziato dal Qatar. Resistere ad un nemico implica la volontà di costruire un’alternativa allo stato di cose esistente. “Lo Statuto di Hamas del 1988, tutt’ora in vigore, prevede - sottolinea ancora Rogozinski - che gli israeliani debbano essere combattuti in modo implacabile non solo perché occupano la Palestina, ma perché sono ebrei”. La guerra santa, in definitiva, deve condurre all’annientamento dell’avversario. È questa una delle tante ragioni - senza dimenticare le altre, profonde, consolidatesi negli anni dall’altra parte - che hanno reso sempre meno praticabile l’idea dei due Stati, un’idea che ora potrebbe risorgere in qualche modo dal buio di questa catastrofe. A chi sostiene la “lotta anticoloniale” (ma l’African National Congress di Nelson Mandela parlava di “moralità rivoluzionaria” che impediva di uccidere gli innocenti), Peter Beinart ha ricordato che al contrario dei francesi in Algeria, “gli ebrei israeliani non hanno un paese natale in cui ritornare, perché sono già a casa”. Si tratterà di dividere questa casa con i palestinesi.