Carcere, le parole al vento del ministro Nordio di Andrea Oleandri* lavialibera.it, 27 ottobre 2023 Dopo un anno di governo Meloni, le priorità annunciate dal ministro della Giustizia su carcere e sistema penitenziario sono rimaste al palo. L’esecutivo ha invece aumentato pene e sanzioni, secondo uno schema populista che Carlo Nordio stesso criticava. Il 22 ottobre 2022 il governo guidato da Giorgia Meloni è entrato in carica, con la premier e i ministri che, come da rito, hanno giurato davanti al presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Quel giorno c’era anche il ministro della Giustizia Carlo Nordio che, sul tema del carcere e delle pene, molto aveva detto e preannunciato. Dopo un anno però, come vedremo, tutto è rimasto nelle intenzioni. Solo pochi giorni dopo il giuramento davanti al capo dello Stato, il 27 ottobre, durante un convegno per la presentazione del calendario della polizia penitenziaria, Nordio ha dichiarato che le carceri sarebbero state la sua priorità. “La certezza della pena, che è uno dei capisaldi del garantismo, prevede che la condanna dev’essere eseguita, ma questo non significa solo carcere e soprattutto non significa carcere crudele e inumano che sarebbe contro la Costituzione e i principi cristiani”, ha ripetuto il ministro, pronunciandosi anche rispetto alla necessità di costruire nuove carceri e migliorare quelle esistenti. Solo poche settimane prima della sua nomina, nel settembre del 2022, Nordio aveva rilasciato altre dichiarazioni: “Chi usa di frequente frasi come ‘dobbiamo aumentare le penè fa squillare nei propri interlocutori alcuni campanelli d’allarme molto preoccupanti. Perché chiedere più pene significa rinunciare ad applicare le sanzioni che già ci sono oggi. E chi tende a intercettare una domanda di sicurezza degli elettori giocando con il rialzo delle pene, alla fine non fa altro che ingrassare un populismo che in pochi mi sembra vogliono combattere davvero, quello penale”. Un anno dopo sul carcere è calato il silenzio e l’inattivismo, mentre sul fronte penale tanto si è mosso, molte pene sono state aumentate, nuovi reati sono stati varati e quel populismo penale che Nordio criticava, sembra invece essere diventato uno dei fari che guida l’intervento del governo in tema di giustizia. Ma andiamo con ordine e partiamo dal carcere. Al momento della nomina del ministro, detenute e detenuti erano 55.835 (dato al 30 settembre 2022), mentre soltanto un anno dopo in carcere si contano 58.987 persone. Oltre 3mila in più in soli 12 mesi. L’Italia, a passi rapidissimi, si avvicina ai numeri che nel 2013 costarono la condanna della Corte europea dei Diritti dell’uomo (Cedu) per aver trattato in maniera inumana e degradante le persone recluse, non garantendo lo spazio minimo vitale di 3 metri quadrati a persona. Spazio che, dalle visite effettuate nel 2023 dall’Osservatorio di Antigone, mancava in alcune delle celle di 16 dei 51 istituti visitati. Succede anche che in certe carceri ai letti a castello si stia aggiungendo il terzo piano, il che significa dormire a due metri da terra e a pochi centimetri dal soffitto. Quando l’Italia ha subito la condanna della Cedu i ricorsi presentati dalle persone detenute furono circa 4mila. A seguito della pronuncia della Corte di Strasburgo, il nostro Paese introdusse una serie di novità legislative e una di queste riguarda i rimedi compensativi (in giorni di sconto della pena o in denaro, a seconda se si fosse ancora detenuti o già si fosse tornati in libertà) per chi è sottoposto a trattamenti inumani e degradanti. Nel 2022 sono arrivate agli uffici di sorveglianza italiani 7.643 istanze per violazione dell’art. 3 (la maggior parte proprio per l’assenza dello spazio minimo vitale di 3 metri quadrati). Di queste, 4.514, vale a dire il 57,4 per cento, erano state accolte. Con i numeri del sovraffollamento che nel 2023 risultano ancora più alti, vedremo cosa accadrà. Di certo c’è che nonostante questi dati non si riesce ad aprire un dibattito serio sul carcere. Dibattito che langue anche davanti al dato dei suicidi, arrivati a 54 tra le persone detenute, indice di un malessere generalizzato che gli alti numeri non consentono di prendere in carico adeguatamente. Dell’edilizia penitenziaria, poi, neanche l’ombra. Ma questo non è un male se si guarda ai costi. Per costruire un nuovo carcere in grado di contenere 250 persone, servono circa 25 milioni di euro. Ma si parla solo delle mura. Perché poi un carcere va riempito di attività e personale, quest’ultimo già drammaticamente sotto organico in ogni ruolo. Insomma, già oggi il sistema penitenziario assorbe annualmente oltre il 30 per cento del bilancio complessivo del ministero della Giustizia (3,3 miliardi a fronte dei 10 stanziati). Poi c’è il problema, non secondario, di quante carceri servirebbero. Oggi i posti conteggiati dall’amministrazione penitenziaria sono 51mila, ma da rilevazioni del garante nazionale per i diritti delle persone private della libertà personale, sappiamo che i posti disponibili sono circa 3mila in meno. Dunque in questo momento ci sono 11mila persone che non hanno un posto letto regolamentare. Di carceri nuove, ferma restando l’ipotetica dimensione di 250 posti per ciascun istituto (e considerando che le ultime carceri costruite hanno richiesto tempi tra i 5 e i 10 anni per essere completati), ne servirebbero 44 se si volesse riportare il sistema nella piena legalità. Anche se le statistiche ci dicono che il numero dei detenuti è in ascesa e, già tra un mese ne potrebbero servire 45, poi 46 e via dicendo. Nonostante queste evidenze, che fanno capire quanto l’edilizia penitenziaria non può rappresentare da sola la soluzione, il dibattito interno all’attuale governo resta focalizzato su questa prospettiva, di fatto condannando l’esecutivo all’immobilismo, anche rispetto a misure alternative alla detenzione, meno costose e capaci di produrre un impatto positivo in termini di minore recidiva. Oggi queste misure interesserebbero circa 8mila persone. Individui che, invece, continuano a rimanere chiusi dentro gli istituti, sempre più affollati. Affollati anche come conseguenza dei più recenti interventi governativi. Se sul fronte carcere è tutto fermo, in questo primo anno di esecutivo Meloni molto è stato fatto invece sul fronte penale, dove il governo ha continuato a utilizzare e alimentare quel che lo stesso Nordio definiva populismo, ovvero rispondere ai problemi aumentando pene e sanzioni. Ricordiamo la legge contro i rave party, con le pene più severe previste per chi organizza feste illegali; il decreto Cutro, che prevede l’aumento delle pene per gli scafisti fino a 30 anni di carcere; la norma sulla violenza agli operatori medici, con pene più alte per chi minaccia o compie atti di violenza ai danni del personale sanitario; il nuovo reato di omicidio nautico, con pene e aggravanti per chi provoca lesioni gravi o morte di persone al timone di un’imbarcazione. E ancora, tra gli altri, il decreto Caivano, che merita un’attenzione a parte per le sue numerose implicazioni anche sul sistema penitenziario. Si alzano le pene per lo spaccio di lieve entità, comportando così la possibilità di arresto in flagranza e di custodia cautelare in carcere (sia per gli adulti che per i minorenni); per i soli minorenni viene potenziata la facoltà di arresto in flagranza per il reato di “porto d’armi od oggetti atti ad offendere” e si inaspriscono le pene, fino a raddoppiarle, da due a quattro anni. Si introduce la pena fino a due anni di reclusione per i genitori di un minore in età di obbligo scolastico, nel caso di dispersione assoluta e fino ad un anno in caso di elusione dell’obbligo. Senza dimenticare una serie di disegni di legge, come la proposta di portare a cinque anni di carcere chi esalta condotte illegali sul web; quella per introdurre nuove pene per l’occupazione abusiva di immobili; l’introduzione del reato universale di gestazione per altri che, già approvato dalla Camera lo scorso luglio, è ora in discussione al Senato. Molti di questi provvedimenti derivano da un attivismo legislativo del governo che non ha mai registrato pari in epoca repubblicana. In questi primi 12 mesi, infatti, secondo i dati raccolti da Openpolis, il 55,8 per cento delle norme approvate sono state leggi di conversione, per le quali il parlamento diventa quasi esclusivamente un organo ratificante. Anche molti degli interventi succitati sono frutto di questa decretazione d’urgenza. Non è mai facile fare un bilancio, soprattutto quando l’arco temporale è breve, tuttavia il carcere arrivava da un 2022 drammatico, con un numero di suicidi (85) mai registrati prima. Si erano chiesti interventi urgenti che il governo non ha intrapreso, neppure quelli minimi, come l’aumento delle telefonate per cui il ministro Nordio si era impegnato solo poche settimane fa, dopo il duplice suicidio di due donne avvenuto a distanza di pochi giorni nel carcere di Torino, e che non ha avuto alcun seguito. *Responsabile comunicazione di Antigone Droghe: Fd’I aumenta le pene, ma il Colle invoca meno carcere di Leonardo Fiorentini* L’Unità, 27 ottobre 2023 La stretta sulle condotte di lieve entità proposta nel dl Caivano conferma la linea: colpire pesci sempre più piccoli. Mattarella però parla chiaro: in cella solo per delitti gravi. Quando ieri il Presidente Mattarella, ricordando Luigi Daga, magistrato morto 30 anni fa dopo un attentato in Egitto, ha sottolineato il suo impegno “per restringere la carcerazione ai delitti gravi, per offrire l’opportunità di reinserimento sociale dei detenuti attraverso il più ampio ricorso alle misure alternative alla detenzione” il pensiero di molti è andato al dibattito sul Decreto Caivano. Parole chiare quelle del Capo dello Stato che ha richiamato anche l’impegno per “rendere coerente il nostro sistema penitenziario coi principi costituzionali”. Parole pronunciate proprio all’indomani del blitz di Fratelli d’Italia al Senato, dove pare non basti l’aumento a 5 anni della pena massima per la lieve entità per droghe presente nel decreto. Il Senatore Marco Lisei aveva presentato un emendamento che nella sua forma. originaria - che martedì aveva ottenuto il parere favorevole del Governo - avrebbe impedito di fatto ai giudici la possibilità di applicarla in giudizio. Prevedeva infatti che il comma 5° dell’art. 73 del Testo Unico, quello che fissa pene minori per fatti che “per i mezzi, la modalità o le circostanze dell’azione ovvero per la qualità e quantità delle sostanze, è di lieve entità”, venisse escluso in caso di condotta a fine di lucro. “Una follia giuridica” l’aveva subito definita Riccardo Magi, segretario di Più Europa, ricordando come “già oggi in sette casi su dieci si finisce in carcere proprio con la lieve entità” e che “piuttosto servirebbe mi intervento di depenalizzazione che distingua tra le diverse sostanze”. Per il capogruppo del Pd in commissione Giustizia, Alfredo Bazoli, invece si mettevano “sullo stesso piano Pablo Escobar e lo studente che rivende una canna al compagno. Salta il principio di proporzionalità, ed è palesemente incostituzionale”. Dopo le polemiche - e forse qualche colpo di tosse dal Colle - la sera ha portato consiglio. Così l’emendamento Lisei è stato riformulato. Si introduce “solamente” un pesante aggravio per le condotte di lieve entità “non occasionali”: la pena minima triplica a 18 mesi, pur esistendo già l’aggravante connessa alla recidiva. Vista la platea degli accusati di spaccio questo intervento è probabile si trasformi in un aumento generalizzato delle condanne. Con l’aumento di quella massima, volto esplicitamente a rendere possibile la detenzione preventiva, è lecito prevedere un ulteriore aggravamento della drammatica situazione del nostro sistema carcerario. La linea del governo è chiara: abbassare, e di molto, il tiro della legge penale, per andare a colpire sempre di più pesci sempre più piccoli. E poi garantire risorse - accentrandole con la Legge di Bilancio al Dipartimento Antidroga - per le comunità: quelle che fanno uscire i nostri ragazzi dal “tunnel della droga” ma passando prima da un Tribunale, oggi finanziabili anche attraverso l’8 per mille. Si tratta di un goffo tentativo di seguire la narrazione della carota e del bastone che già abbiamo conosciuto ai tempi della Fini-Giovanardi. Del resto l’Alfredo Mantovano, ispiratore della legge di allora, oggi è sottosegretario antidroga e uomo forte del Governo Meloni. Per farlo si mistificano evidenze e dati, facendo finta di ignorare come le carceri italiane siano già zeppe di spacciatori e che la legge sulle droghe sia l’effettivo volano della carcerazione in Italia come dimostra ogni anno il Libro Bianco. Nelle stesse ore in cui al Senato è andato in scena questo teatrino proibizionista, il governo usciva sconfitto dal secondo round al TAR del Lazio sul decreto che ha inserito le preparazioni orali a base di cannabidiolo (CBD) nelle tabelle dei farmaci stupefacenti. Il Tribunale Amministrativo ha infatti ritenuto fondato il ricorso promosso da Ici - Imprenditori Canapa Italia contro il Decreto del Ministro della Salute Schillaci, rinviando il giudizio nel merito all’udienza fissata per il prossimo 16 gennaio. Il TAR ha rilevato che il decreto manca del nuovo parere del Consiglio Superiore della Sanità e non è chiara in ordine al “dirimente profilo” degli “accertati concreti pericoli di induzione di dipendenza fisica o psichica”, peraltro smentiti addirittura dall’OMS (vedi l’Unità del 5 settembre 2023). Il TAR reputando “fondati, sia pure a un sommario esame, i vizi di carenza istruttoria e di vizio di motivazione” e non ritenendo sussistere imminenti rischi per la salute pubblica ha sospeso il provvedimento sino all’udienza di merito all’inizio del 2024. *Segretario Forum Droghe L’alternativa al carcere va costruita con i servizi per le dipendenze di Ugo Ceron* Avvenire, 27 ottobre 2023 Nei giorni scorsi il sottosegretario alla giustizia, Andrea Delmastro, ha proposto di evitare il carcere per le persone con problematiche di dipendenza patologica “almeno alla prima condanna”: Ci sembra un intento condivisibile. È necessario però collegare questa proposta ad una misura più ampia e generale circa l’applicazione delle misure alternative al carcere, in particolar modo per le persone con problematiche di dipendenza. Il nostro ordinamento giudiziario prevede già una serie di misure alternative alla carcerazione, la cui applicazione rischia spesso di essere parziale, discrezionale e lenta, vanificando a volte l’intento riabilitativo. La proposta del sottosegretario ci sembra che punti a modificare la materia sotto il profilo giudico-normativo, ipotizzando che non sia più il giudice di sorveglianza a convertire l’esecuzione della pena definitiva presso i servizi territoriali e/o in una comunità di recupero, bensì direttamente quello di dibattimento davanti al quale viene condotto l’autore del reato connesso alla sua tossicodipendenza. Questo sicuramente è condivisibile perché l’intervento pensato per la persona con problemi di dipendenza, in particolar modo quelle coinvolte in illeciti di “lieve entità” come recita il comma 5 dell’art. 73 del Testo unico delle dipendenze, deve essere orientato a seguire dei percorsi riabilitativi sia a livello territoriale che residenziale, valorizzando il ruolo degli uffici che si occupano di percorsi pensati per le esigenze di ciascuno, senza passare dal carcere. Il Testo Unico 309/90 già indicava “Istituti idonei” per l’esecuzione di programmi terapeutici e di riabilitazione, ma negli anni abbiamo visto come tale sistema fatichi a dare i risultati attesi per un concorso di cause, tra le quali mancanza di fondi, personale e regole su cui il legislatore non è più intervenuto. L’esecuzione alternativa della pena è già prevista, ma la si deve costruire fin dal suo inizio coinvolgendo l’intero sistema dei servizi per le dipendenze con un’attenzione anche al mondo del lavoro per costruire una piena inclusione. È indispensabile che i servizi specialistici - Serd, Uepe - possano costruire specifici Piani Terapeutici che possano trovare poi sui territori applicazione attraverso le diverse agenzie e le comunità terapeutiche stesse. La materia è complessa e non la si può risolvere pensando semplicemente dei luoghi cui affidare queste persone, ma servono più azioni collegate tra loro. Ad esempio oltre le strutture terapeutiche e i servizi territoriali potrebbe essere utile aprire dei centri diurni in carcere, delle sezioni dedicate in cui si fa, con attività vere, strutturate sul lavoro che servano a rielaborare la dipendenza. In alcuni Istituti di pena tutto ciò avviene già, ma tali percorsi necessitano di essere incentivati. Abbiamo in Italia un sistema della lotta alle dipendenze, pubblico e privato, capace di strutturare ed accompagnare validi percorsi riabilitativi e di piena inclusione, pertanto ci auguriamo che l’intento del Ministero di Grazia e Giustizia, tramite una revisione del Testo Unico delle dipendenze, possa contribuire ad accorciare i tempi di attuazione delle misure alternative e riesca a dotare le Asl dei finanziamenti sufficienti per fronteggiare le diverse richieste di accoglienza. *Servizio dipendenze patologiche Comunità Papa Giovanni XXIII “Le carceri italiane oggi”. Un colloquio con Susanna Marietti di Mirko nxwss.com, 27 ottobre 2023 Dalle cause del sovraffollamento delle carceri alle possibili soluzioni: ne abbiamo parlato con Susanna Marietti, coordinatrice nazionale dell’associazione Antigone. 56mila detenuti per 51mila posti, 85 suicidi nel 2022, tasso di sovraffollamento ufficiale del 110,6%. Questi alcuni dei numeri sulle carceri italiane pubblicati dall’ultimo rapporto di Antigone, associazione nata negli anni ottanta che si occupa di raccogliere e divulgare informazioni sulla realtà carceraria italiana. Quella del carcere è una grande questione sociale che il nostro Paese si trascina dietro da decenni, incapace di risolvere i problemi strutturali che ne minano le funzioni più essenziali, in primo luogo quella rieducativa. Spesso lontani dalle penne dei giornalisti e dai palchi dei comizi politici, ma anche dalle discussioni a tavola in famiglia, le carceri sono una realtà tanto isolata dal dibattito pubblico quanto lo sono i detenuti dal resto della società. Sono passati dieci anni dalla condanna della Corte europea dei Diritti dell’Uomo all’Italia del 2013 per il sovraffollamento carcerario; da allora qualcosa è stato fatto, sono state attuate riforme per diminuire il numero di detenuti e per ampliare l’accesso alle misure alternative alla detenzione, eppure, “il sistema si è riadagiato sui propri errori”. Ciò che non funziona nelle carceri italiane è un tema molto lungo e complesso; ne abbiamo parlato con Susanna Marietti, coordinatrice nazionale di Antigone. Ci ha spiegato come si valuta un carcere, qual è lo stato attuale del sistema carcerario, e cosa è possibile fare se si affronta il tema lasciando da parte gli “scontri elettorali”. Coordinatrice nazionale di Antigone, Susanna Marietti ha svolto per anni ricerca in filosofia, conduce una trasmissione radiofonica settimanale con storie di musica e di carcere, Jailhouse Rock, ed è autrice di diversi articoli e libri sul carcere e la pena, tra cui “Il carcere spiegato ai ragazzi”. Il punto da cui la nostra conversazione è partita è stato il processo con cui Antigone valuta le condizioni delle carceri. Abbiamo chiesto alla dottoressa Marietti quali sono gli strumenti a disposizione della sua associazione per compiere tali valutazioni e quali sono i parametri che gli istituti penitenziari italiani devono rispettare secondo le norme italiane e internazionali. “Dal 1998 siamo autorizzati a visitare tutte le carceri per adulti e da dieci anni dopo, ovvero dal 2008, anche quelle per minori. Le carceri devono rispettare norme italiane ed europee, in particolare del Consiglio d’Europa, ma anche le Mandela rules del 2015, ossia norme internazionali delle Nazioni Unite. Quando andiamo in visita portiamo con noi una griglia di raccolta di dati quantitativi e qualitativi. Sul sito del nostro osservatorio sulle condizioni di detenzione in Italia trovate schede relative a ogni istituto penitenziario italiano. Tutte queste schede seguono la stessa struttura, e sono divise in varie sezioni”. Come spiega Marietti, ogni scheda presenta diverse sezioni, ognuna delle quali fa riferimento ad un diverso aspetto del carcere. Una di queste riguarda la struttura fisica dell’edificio, e prende in considerazione parametri come lo stato della manutenzione, l’ampiezza degli spazi e la qualità igienica. “Un’altra sezione riguarda la presenza dei detenuti: posti letto, quante persone lavorano lì, etc. Poi c’è la sanità: presenza di un medico 24 ore, possibilità di fare visite specialistiche, etc. Fondamentali sono quelle relative alle attività che i detenuti possono svolgere, ai fini di una serie di reintegrazione sociale, che non sono le attività a volte inutili organizzate in carcere, ma il lavoro, la scuola, la possibilità di un’istruzione superiore, il teatro”. Gli strumenti usati da Antigone per raccogliere dati sono molteplici. Tra questi troviamo l’osservazione diretta e il dialogo con gli operatori che vivono in carcere (direttori, educatori, poliziotti penitenziari, medici, etc.). Questione carceri minorili - La nostra seconda domanda ha riguardato le carceri minorili; abbiamo chiesto in che misura questi criteri di valutazione variano se si analizza un carcere minorile, quali sono le principali differenze tra gli istituti penitenziari per adulti e quelli per minori, e con quale frequenza ci si rivolge a misure alternative al carcere minorile come le comunità. “Intanto sono differenziati dai codici penali. Nel 1988 sono entrati in vigore due codici penali distinti per minori e per adulti. Il codice di procedura penale minorile è riuscito a residualizzare la detenzione. Oggi abbiamo più di 14mila ragazzi e ragazze in carico alla giustizia minorile, e di questi poco più di 400 sono in carcere. La prima grande differenza la fanno i numeri. Un conto è un sistema che deve farsi carico di quasi 60mila persone come quello degli adulti, e un conto e un sistema che deve farsi carico di 400 persone. Quando noi andiamo in visita in carcere minorile troviamo una conoscenza più o meno personalizzata degli operatori verso i ragazzi. Li chiamano per nome, ne conoscono le singole storie e sono in grado di preparare per loro un piano trattamentale di tipo individualizzato calato nelle esigenze di ogni singolo ragazzo o ragazza, cosa che nel sistema degli adulti si è più o meno persa. Gli adulti sono come corpi ammassati, poco più che numeri diciamo”. In Italia, come sottolinea Marinetti, negli istituti penitenziari per minori troviamo poche decine di ragazzi. Quello che ne ospita di più è il carcere minorile di Nisida (Na), dove sono presenti 55 minori. I parametri di valutazione cambiano perché “per i minori deve esserci una attenzione specifica per la personalità e i bisogni di un ragazzo in evoluzione, primi tra tutti quello scolastico ed educativo”. Tutto sommato, la giustizia minorile in Italia ha funzionato - non è un caso che la direttiva europea sui minori autori di reato l’abbia scritta l’Italia codificando il proprio modello - anche per il ruolo svolto dalle comunità. “È un modello in cui il ruolo delle comunità è abbastanza cruciale perché già dal codice di procedura penale è previsto il collocamento in comunità come misura precauzionale. Quindi non c’è bisogno di dare la custodia cautelare e finire in carcere - nel sistema per adulti tante volte sentiamo che anche se si potrebbe finire agli arresti domiciliari, si finisce in carcere in mancanza di un domicilio adeguato, mentre nel sistema per minori ciò non può accadere perché ci sono le comunità. In Italia le comunità sono oltre 600, mentre le carceri minorili sono 17. Esse ospitano sia ragazzi dell’area penale che dell’area civile, e questo è un bene perché non abbiamo creato il “ghetto” dei ragazzi criminali. Sono mischiati con chi è lì per una adozione o per altri motivi”. Bene le carceri minorili, meno quelli per adulti - Nella nostra conversazione con Susanna Marietti abbiamo anche cercato di delineare un quadro delle cause delle carenze del sistema penale per adulti. Se la giustizia minorile ha fatto riscontrare risultati positivi, diverso è il bilancio per quella degli adulti. “Questo è un discorso molto lungo che non si ferma né al carcere né al sistema penale, ma investe anche il ruolo che il sistema penale gioca nella società. Da troppo tempo il sistema penale è stato terreno di scontri elettorali, da troppo tempo c’è questa abitudine di creare nella cittadinanza delle paure in modo irrispettosa rispetto ai dati di fatto - per esempio riguardo la presunta emergenza della criminalità minorile alla quale si è risposto col decreto Caivano - perché c’è stato un fatto di cronaca drammatico. Certamente a Caivano un caso del genere c’è stato, ma se andiamo a vedere le statistiche sulla criminalità minorile degli ultimi 10 anni vediamo che non c’è una emergenza. Questa abitudine di creare una emergenza, di creare un nemico e di offrire ai cittadini soluzioni per combattere queste presunte emergenze - immigrati, baby gang - ha fatto sì che il sistema diventasse un terreno di scontro e ha creato un aumento a dismisura dell’uso dello strumento penale. Tutto viene risolto minacciando la galera, aumentando le pene e le fattispecie di reato. Ciò porta all’esplosione numerica alla quale abbiamo assistito negli ultimi 30 anni”. La soluzione sarebbe dunque quella di incarcerare meno. Per farlo, spiega Marietti, dovrebbero essere messe in campo “politiche preventive, politiche sociali intese in senso ampio, politiche del lavoro, per fare in modo che la gente abbia un lavoro e non debba delinquere, politiche sanitarie. Si pensi all’ambito delle tossicodipendenze, ha senso gestirle con politiche penali?”. “Nella costituzione si parla di pene rieducative, non di carcere; quindi, si potrebbe pensare a pene alternative in modo da lasciare nel carcere veramente un ristretto nucleo. A quel punto, quel nucleo ristretto riusciresti a gestirlo come gestisci i minori, con percorsi individuali e offrendo strumenti di reintegrazione sociale”. La “War on drugs” e il ruolo della politica - Da troppi anni si parla di mettere in atto soluzioni come le misure alternative alla detenzione o di modificare la legislazione sulle droghe; perché allora non vengono adottate? È solo colpa della politica che utilizza la questione delle droghe come strumento di propaganda o ci sono delle difficoltà oggettive nel mettere in atto tali soluzioni? “La war on drugs ha investito tutto il mondo ed è durata 30 anni. Dopo di che essa ha fallito, ne hanno preso atto le stesse Nazioni Unite e molti Stati come alcuni degli Stati Uniti e altri. Noi arriviamo come al solito in ritardo; c’è da dire che questa non è la fase storica giusta per andare a guardare a possibilità alternative di gestione delle droghe perché culturalmente non c’è questa possibilità, col Governo attuale che è molto rigido sul tema. Le misure alternative non sono poco usate, fuori dal carcere in misure alternative c’è il doppio delle persone che sono in carcere. Se consideriamo anche la messa alla prova arriviamo a circa 120mila, e se consideriamo anche i liberi sospesi abbiamo numeri enormi. Negli anni l’area penale esterna è cresciuta, ma non a scapito del carcere; non è andata a togliere numeri al carcere, ma si è sommata ad esso, sono cresciuti insieme perché è cresciuta l’area di uso del penale in modo immotivato. Le misure alternative se si usassero in un penale ristretto potrebbero andare a svuotare il carcere”. Il carcere tra media e discorso politico - Spesso il carcere viene affrontato dalla stampa in maniera marginale e in particolar modo arriva sulle prime pagine in corrispondenza di particolari eventi di cronaca. Qual è il modo in cui i media e la politica trattano questo argomento, e come viene percepita la questione dall’opinione pubblica? “Il carcere è un tema di cui si parla poco e male perché è scomodo ed è un grande rimosso della società. Se ne parla in corrispondenza di casi di cronaca eclatanti senza però spiegare esattamente cosa è il carcere; cerchiamo di farlo noi con i nostri rapporti, e non è un caso che Antigone ha sempre cercato linguaggi variegati per parlarne all’opinione pubblica, in quanto siamo consapevoli che è necessario parlarne a tanti livelli. La politica il carcere lo tratta in modo semplificato e semplicistica, ma ciò non avviene solo carcere, ma con tutto il sistema penale. Dobbiamo interrogarci sul ruolo che il sistema penale gioca nello Stato italiano. Beccaria ci insegna quale deve essere il ruolo del carcere nelle società democratiche, ovvero un ruolo minimo, cioè nessuno di noi è disposto a mettere più del minimo necessario della nostra libertà nel paniere comune per garantire l’ordine e la sicurezza. Non deve espandersi a punire qualsiasi comportamento, ma solo quelli più gravi. Ci sono altri strumenti per garantire la convivenza. La politica usa in maniera distorta il sistema penale, e di conseguenza il carcere; speriamo però che con una buona comunicazione sia possibile sensibilizzare l’opinione pubblica”. Il diritto alla salute nelle carceri italiane di Rodolfo Carmenati diritto.net, 27 ottobre 2023 Le carceri italiane rappresentano un ambiente complesso e delicato, in cui si concentrano numerosi problemi sociali e umanitari. Tra questi, uno dei temi più rilevanti è quello della sanità penitenziaria e dei diritti dei detenuti. La tutela della salute all’interno delle carceri è un diritto fondamentale che deve essere garantito a tutti i detenuti, in conformità con le norme nazionali e internazionali. La sanità penitenziaria è una branca della medicina che si occupa della salute dei detenuti. Essa ha il compito di garantire l’accesso alle cure mediche e di prevenire e curare le malattie all’interno delle carceri. La legge italiana prevede che i detenuti abbiano diritto a ricevere cure mediche adeguate, in modo da garantire il loro benessere fisico e psicologico. Il diritto alla salute dei detenuti è sancito da numerose norme nazionali e internazionali. In particolare, la Costituzione italiana riconosce il diritto alla salute come un diritto fondamentale di ogni individuo, senza distinzione alcuna. Inoltre, l’articolo 32 della Costituzione stabilisce che “la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”. Questo significa che lo Stato ha il dovere di garantire l’accesso alle cure mediche a tutti i cittadini, compresi i detenuti. Oltre alla Costituzione, esistono anche altre norme che regolamentano la sanità penitenziaria. Ad esempio, la legge 26 luglio 1975, n. 354, istituisce il Servizio sanitario penitenziario, che ha il compito di garantire l’assistenza sanitaria all’interno delle carceri. Questa legge prevede che i detenuti abbiano diritto a ricevere cure mediche adeguate, in conformità con le norme di legge e con i principi etici e deontologici della professione medica. Tuttavia, nonostante l’esistenza di queste norme, la realtà all’interno delle carceri italiane è spesso molto diversa. Numerosi sono i casi di detenuti che non ricevono cure mediche adeguate o che subiscono trattamenti inumani e degradanti. Questo è dovuto a diversi fattori, tra cui la sovraffollamento delle carceri, la carenza di personale medico e la mancanza di risorse finanziarie. Il sovraffollamento delle carceri è uno dei principali problemi che affliggono il sistema penitenziario italiano. Le carceri italiane sono spesso sovraffollate, con un numero di detenuti superiore alla capacità delle strutture. Questo comporta una serie di conseguenze negative, tra cui la mancanza di spazi adeguati per la cura e la prevenzione delle malattie, nonché la diffusione di malattie infettive all’interno delle carceri. La carenza di personale medico è un altro problema che ostacola la tutela della salute all’interno delle carceri italiane. Spesso, infatti, le strutture penitenziarie sono sottodotate di personale medico, con un numero di medici e infermieri insufficiente a garantire un’assistenza sanitaria adeguata a tutti i detenuti. Questo comporta ritardi nelle visite mediche, mancate diagnosi e cure inadeguate. La mancanza di risorse finanziarie è un ulteriore ostacolo alla tutela della salute nelle carceri italiane. Spesso, infatti, le strutture penitenziarie non dispongono dei fondi necessari per garantire l’acquisto di farmaci e materiali sanitari, nonché per l’organizzazione di programmi di prevenzione e cura delle malattie. Questo comporta una serie di conseguenze negative per la salute dei detenuti, che spesso non ricevono le cure di cui hanno bisogno. Per affrontare questi problemi, è necessario adottare una serie di misure. In primo luogo, è fondamentale ridurre il sovraffollamento delle carceri, attraverso l’adozione di politiche di prevenzione del crimine e di alternative alla detenzione. In secondo luogo, è necessario aumentare il numero di personale medico all’interno delle carceri, in modo da garantire un’assistenza sanitaria adeguata a tutti i detenuti. Infine, è importante destinare maggiori risorse finanziarie alla sanità penitenziaria, al fine di garantire l’acquisto di farmaci e materiali sanitari e l’organizzazione di programmi di prevenzione e cura delle malattie. In conclusione, il diritto alla salute nelle carceri italiane è un tema di grande rilevanza e complessità. La tutela della salute dei detenuti è un diritto fondamentale che deve essere garantito a tutti, in conformità con le norme nazionali e internazionali. Tuttavia, la realtà all’interno delle carceri italiane è spesso molto diversa, con numerosi casi di detenuti che non ricevono cure mediche adeguate. Per affrontare questi problemi, è necessario adottare una serie di misure, tra cui la riduzione del sovraffollamento delle carceri, l’aumento del personale medico e l’incremento delle risorse finanziarie destinate alla sanità penitenziaria. Solo così sarà possibile garantire il diritto alla salute dei detenuti e migliorare le condizioni di vita all’interno delle carceri italiane. 32 anni prigioniero: la vita di Beniamino, vittima di un errore giudiziario di Ilaria Sacchettoni Corriere della Sera, 27 ottobre 2023 Un testimone mentì e lo accusò dell’eccidio di Sinnai, un paese in provincia di Cagliari, solo nel 2017 la verità ha cominciato a emergere grazie a un avvocato incrollabile. Lui, ex pastore, è sempre stato un detenuto modello. C’è la richiesta di grazia, ma il nemico ora è la burocrazia. Ambiguità che nessuno vuole sciogliere: ma Luigi Pinna, superstite del massacro di Sinnai, davvero ha visto il suo assassino? In questa storia del 1991, riemersa come il fantasma di una Sardegna arretrata eppure garantista, rurale ma solidale, c’è in ballo l’innocenza di una comunità. E soprattutto quella di un uomo. E infatti per Beniamino Zuncheddu, 59 anni, trentadue dei quali trascorsi in carcere per omicidio plurimo, si stanno muovendo i Radicali e la Camera penale di Roma, Gaia Tortora e pezzi di istituzioni sarde, chiedendo ai giudici della Corte d’Appello di Roma di superare la loro stessa inerzia. Era il 2020 quando il procuratore generale di Cagliari, Francesca Nanni, inoltrò la richiesta di revisione del processo per via di nuove prove raggiunte. Da allora Beniamino Zuncheddu, detenuto nel penitenziario di Uta (Cagliari), s’è fatto più stanco e più fragile come racconta oggi sua sorella Augusta: “Mio fratello ha sempre avuto un’ossessione per la propria dignità, lavava da solo la propria biancheria ma ora non ci arriva più. Sono triste e preoccupata”. Nel Tribunale dall’arretrato endemico la decisione è rinviata, la prossima udienza sarà il 31 ottobre con l’ascolto di alcuni testimoni. Poi si vedrà. Torniamo allora al buio di quella sera: l’8 gennaio 1991, in un ovile di Su Enazzu Mannu (Sinnai), un fucile fa fuoco su Gesuino Fadda di 57 anni, suo figlio Giuseppe di 25 e il loro pastore Ignazio Pusceddu, 57 anni anche lui. Il quarto uomo, Luigi Pinna (genero di Gesuino: è sposato con la figlia Daniela), colpito alla gamba e alla spalla, respira in silenzio senza darsi per vinto: la mattina dopo lo troveranno ferito ma vivo le forze dell’ordine, unico sopravvissuto al massacro. L’eccidio di Sinnai ha un testimone ma subito appare incerto. Chi ha fatto fuoco, spiega, aveva il volto coperto da una calza di nylon. Siamo nell’Italia del pentapartito che si prepara alla rivoluzione felpata del pool milanese e alle Mani pulite dell’anticorruzione. A chi interessano gli allevatori del Cagliaritano? Ne parlano per un po’ le cronache nazionali ma poi il caso scivola giù sulle pagine locali e i tormenti del supertestimone Pinna finiscono nel cono d’ombra mediatico. Il pubblico ministero dell’epoca si indirizza verso un movente “agropastorale”, mucche trucidate con vecchi fucili al confine fra ovili, gli allevatori hanno la loro ferocia e punto. Si fa avanti però un ambizioso dirigente di polizia, Mario Uda, che vuol chiudere la faccenda, archiviare il faldone della procura trovando un colpevole. Fa sapere, allora, ai magistrati dell’epoca di aver ricevuto una confidenza speciale, una dritta. L’autore del triplice omicidio, denuncia, è un servo pastore con la seconda media: si chiama Beniamino Zuncheddu. Il sopravvissuto Pinna, tornando sui suoi passi, lo indica come responsabile della mattanza. Il servo pastore finisce dentro a ventisei anni, cinque mesi prima sua madre è morta in un incidente stradale, lui è già provato e quasi incapace di combattere contro quella che appare una circostanza più grande di lui. Il tempo trascorre lento quando si sta in una cella finché nel 2017 accade qualcosa. Il nuovo difensore, Mauro Trogu, un avvocato che, all’epoca, non ha ancora quarant’anni porta avanti indagini difensive. Studia di buona lena il caso del rapimento coevo di Giovanni Murgia che si era concluso positivamente dietro il pagamento di un riscatto di 600 milioni di lire e rintraccia dei punti in comune. Il massacro di Sinnai cambia tonalità e da truce vicenda pastorale diventa sanguinoso indotto di un antico business sardo, quello dei rapimenti. Il fascicolo Zuncheddu viene riaperto dalla Procura di Cagliari che dispone nuove intercettazioni. Si controllano i cellulari e, sorpresa, emergono nuovi elementi che tradotti dal perito della Procura (il dialetto sardo si conferma complesso) rivelano un’altra storia. Pinna, spossato, confida a sua moglie l’inganno. Affiora in particolare che il sopravvissuto, trentadue anni prima, era stato sottoposto a pressione, la foto del giovane Beniamino Zuncheddu gli era stata prima mostrata da Uda quindi era stato invitato a riconoscerlo come il killer dell’ovile. Lei, Daniela Fadda, sottolinea come sia importante mantenere sempre la stessa versione dei fatti. Qualunque reato un magistrato possa ravvisare in questa presunta manipolazione delle prove da parte dell’ambizioso Uda oggi sarebbe prescritto. Però. C’è un però. Anche una giustizia lenta e lacunosa, stavolta, non può voltarsi dall’altra parte, deve fare i conti con l’enormità della scoperta. Ricorda l’avvocato Trogu: “Ho bussato a varie porte per cercare di far capire la necessità di porre rimedio a quella ingiustizia e ogni volta che quelle porte restavano chiuse perdevo sempre più fiducia nel sistema della giustizia. Poi, però, alcune porte si sono aperte, persone di spessore straordinario hanno iniziato a voler ascoltare quella storia e con il loro lavoro hanno messo in moto una macchina che è arrivata fin qui”. Ricapitoliamo allora: ci sono le nuove intercettazioni nelle quali Pinna confida in modo inequivocabile il peccato originale di quel riconoscimento che ha aperto le porte dell’ergastolo a Zuncheddu. E c’è un nuovo movente che i magistrati rintracciano all’interno del rapimento Murgia. Le vittime di Sinnai, i Fadda, avrebbero avuto qualche legittimo appetito verso il riscatto pagato per liberare Murgia. Dunque sarebbero diventate rivendicative e ingombranti. È un radicale cambio di prospettiva. La pg Nanni indirizza alla Corte d’Appello di Roma, competente a decidere, una corposa istanza di revisione (firmandola con Beniamino). “La dinamica dell’assalto all’ovile ricostruita nei punti precedenti consente di sostenere che gli omicidi furono commessi da un professionista del crimine per causali molto più rilevanti di qualche pallino sparato contro delle bestie” scrive. Tutto procede velocemente allora? Macché. La richiesta di revisione affonda nella palude delle pendenze processuali romane, circa 50mila fascicoli di arretrato (censite nel 2016 dall’allora presidente della Corte d’Appello Luciano Panzani, forse al momento sono di più). Beniamino ora deve guardarsi anche dalla burocrazia. Un’istanza di scarcerazione al tribunale di sorveglianza di Cagliari, intanto, viene respinta. Scatta il ricorso di Trogu. La Cassazione riconosce che non vi è un motivo valido per tenerlo ancora dentro ma nulla si smuove se non che anche dalla Procura generale presso la Corte d’Appello di Roma viene chiesta la revisione del processo. L’avvocato, con tutti i suoi dubbi, porta avanti la propria battaglia. “Quando ho letto” confida “per la prima volta la sentenza della Corte d’Assise d’appello di Cagliari che nel 1992 aveva confermato la condanna all’ergastolo di Beniamino ho avuto paura. Ho pensato che se un giudice può valutare le prove in quel modo nessun cittadino può sentirsi al sicuro”. Don Giuseppe Pisano, intanto, il parroco del paese da cui viene Beniamino lo ricorda nelle sue omelie e tiene i rapporti con Augusta. La garante dei diritti dei detenuti di Cagliari, Irene Testa, chiede un nuovo processo. C’è chi come il fotografo Alessandro Spiga realizza un servizio per lui, gli scatti lo mostrano compito nella sua rassegnazione. Un piccolo movimento d’opinione inizia a farsi strada. Oggi Zuncheddu usufruisce di un permesso per lavorare al mattino all’esterno delle mura carcerarie. Di giorno si può incontrare in un bar al centro di Cagliari, Le Bon Bec Cafè, una pasticceria specializzata in delicatessen alla cioccolata e cappuccini spumosi. All’ora di pranzo, però, la sua vita di lavoratore si conclude e l’ex servo pastore riprende il pullman che lo porta in carcere. Sua sorella, che tiene dentro di sé la sofferenza per questa vita trascorsa alla luce di accuse infamanti, lo vede la domenica. “Ha il permesso” dice “di mangiare con noi. Cucino io, mangia tutto con gusto, fosse anche un tozzo di pane e pecorino. Che in carcere il cibo è una tortura...” Una richiesta di grazia inviata al Quirinale per competenza è ferma ma esplicita. Tutto, il rispetto degli orari e delle norme penitenziali, la capacità di sopportazione e la dignità del detenuto, fanno di Beniamino Zuncheddu un “modello”. Remissivo e collaborativo si è sempre sforzato di convivere con l’inaccettabile realtà. Tra il 10 e il 13 ottobre si è svolto un doppio sit in in segno di solidarietà per il detenuto modello. L’assurdo resta, dice il presidente della Camera Penale di Roma, Gaetano Scalise: “Beniamino ha diritto di veder definito in tempi ragionevoli un processo di revisione in cui sono emersi fatti che fanno pensare al suo coinvolgimento in un drammatico errore giudiziario”. Il “miracolo” (poco credibile) della giustizia penale di Ermes Antonucci Il Foglio, 27 ottobre 2023 Secondo i dati forniti dal ministero, la durata media dei processi penali in Italia sarebbe diminuita di un terzo rispetto al 2019, raggiungendo e superando con tre anni di anticipo l’obiettivo del Pnrr. Un trionfo difficile da credere. La notizia è di quelle che fanno saltare sulla sedia: l’Italia ha risolto il problema della lentezza della giustizia penale. Secondo l’ultimo monitoraggio svolto dal ministero della Giustizia, infatti, il nostro paese ha (avrebbe, il condizionale come vedremo è d’obbligo) ridotto addirittura di un terzo la durata media dei processi penali rispetto al 2019, raggiungendo e superando con tre anni di anticipo l’obiettivo fissato dal Pnrr: la riduzione del 25 per cento dei tempi dei processi entro il 2026. Un trionfo senza precedenti. Un sollievo per tutti gli italiani, abituati a vivere lunghi calvari giudiziari. Ma sono tanti gli elementi che spingono a dubitare del “miracolo” italiano. I dati riferiti da Via Arenula nel suo ultimo rapporto risultano statisticamente poco credibili. Se nel 2020 e nel 2021, soprattutto a causa della pandemia, si è registrato un aumento significativo della durata media dei processi penali rispetto al 2019 (rispettivamente +38,9 per cento e +7,5 per cento), la situazione sarebbe poi improvvisamente cambiata: nel 2022 la durata dei processi si sarebbe ridotta del 10,4 per cento, mentre nel primo semestre del 2023 sarebbe addirittura crollata del 29,3 per cento (sempre rispetto al 2019). Insomma, nel giro di un anno e mezzo la giustizia italiana non solo avrebbe recuperato i ritardi dovuti alla pandemia, ma avrebbe migliorato le sue performance a un tasso mai registrato prima, tanto da raggiungere con tre anni di anticipo l’obiettivo fissato dal Pnrr: la durata media dei processi penali sarebbe scesa da 1.393 a 989 giorni (contro l’obiettivo di 1.045 giorni fissato per il 2026). Il dato appare ben poco credibile soprattutto se si considera che nel frattempo non è intervenuta alcuna modifica strutturale del sistema giudiziario. Dal 2019 a oggi nessun nuovo magistrato è entrato in servizio, tanto che l’organico della magistratura risulta carente di 1.652 unità, per una scopertura nazionale pari al 15 per cento. Le novità introdotte dalla riforma Cartabia (su indagini preliminari, processo in assenza, procedibilità a querela), per quanto importanti, non appaiono in grado di determinare svolte dirompenti, mentre la riforma dell’improcedibilità non ha ancora avuto tempo di attuarsi. Interpellata dal Foglio, la Direzione generale di statistica del ministero della Giustizia ha confermato la bontà dei dati pubblicati, legandoli alla spinta fornita dall’introduzione dell’ufficio per il processo e dalla fissazione di obiettivi a livello comunitario (che avrebbe indotto i dirigenti degli uffici giudiziari a definire nuovi modelli organizzativi). A saperlo che sarebbe bastato così poco per risolvere i problemi della giustizia italiana… Ma a meno di non voler considerare tutti quanti dei creduloni, i dati forniti da Via Arenula restano un mistero. Anche per la stessa Commissione europea. Italia in adorazione di un messia chiamato “reato” di Francesco Petrelli* Il Riformista, 27 ottobre 2023 Come strumento di repressione esercita un grande fascino sulla nostra società: vorremmo che tutto ciò che non ci piace fosse reso “reato penale”. Coniarne di nuovi quindi è un merito, guai invece se si prova a eliminarne qualcuno. Vedi il caso dell’abuso d’ufficio. L’illecito penale, quello che noi chiamiamo “reato”, esercita un fascino indiscutibile nella nostra società. Non la condotta criminale che lo contraddistingue, ovviamente, ma il reato come prodotto ideologico, come strumento di intimidazione e di repressione. Non riusciamo più a farne a meno nella discussione pubblica. È divenuto l’unico discrimine fra il bene e il male, fra il buono e il cattivo, fra l’etico e l’immorale. E come tale il reato è divenuto l’unico strumento di conoscenza e di costruzione della realtà. Tanto l’idea stessa di reato ci seduce, che ne abbiamo tratto una iperbole linguistica che è quella del “reato penale”, tecnicamente impropria ma straordinariamente efficace, a plastica testimonianza di questa nostra fascinazione. Vorremmo che ogni cosa che non ci piace venisse trasformata in un “reato penale”, che tutto lo spazio a disposizione delle cose spiacevoli venisse colmato dalla previsione di altrettanti “reati penali”, fiduciosi della esclusiva capacità di questo strumento di combattere il male attorno a noi. Appartiene dunque alla virtù politica coniare nuovi reati mentre è divenuta oggetto di vituperio l’iniziativa di chi volesse eliminarne qualcuno. È ciò che sta accadendo con il reato di abuso di ufficio, la cui proposta di abrogazione, all’attenzione della Commissione Giustizia del Senato, è stata fatta di recente oggetto di un ulteriore poderoso attacco da parte del dott. Scarpinato. Occorre rilevare come il dato statistico delle condanne per abuso d’ufficio da lui evocato in un arco di tempo ultraventennale appare davvero risibile se rapportato all’intero territorio nazionale ed al numero di atti posti in essere quotidianamente dalle amministrazioni pubbliche, ed in particolare rappresentativo della radicale inefficienza dello strumento penale costituito dal reato di abuso d’ufficio, se solo si tenga conto del numero dei procedimenti attivati che si risolvono in archiviazioni ed assoluzioni con uno spreco straordinario di risorse pubbliche, da un lato, e di sacrificio dell’immagine pubblica e della carriera di innumerevoli amministratori, spesso travolti da presunti scandali, costretti alle dimissioni dall’onda mediatico-giudiziaria provocata magari da esposti presentati dall’avversario politico di turno. Se questo è il Paese che ci piace, l’abuso d’ufficio è lo strumento ideale per incrementare processi inutili, per insufflare il fenomeno strumentale della giustizia mediatica, per alimentare una visone eticizzante dello strumento penale, ed il progressivo abbandono di una visione liberale, laica e pragmatica del diritto penale. Il nostro ordinamento possiede già tutti gli strumenti per colpire le più gravi condotte abusive, ma si resta feticisticamente arroccati sulla difesa di questo reato residuale e di difficile perimetrazione. Vi sono paesi, non propriamente del terzo mondo, come la Germania, il cui ordinamento non conosce affatto il reato di abuso d’ufficio, cui suppliscono strumenti ordinari quali un efficiente sistema disciplinare nei confronti dei funzionari infedeli, ovvero una efficiente giustizia amministrativa capace di neutralizzare rapidamente l’atto illegittimo, ponendo con sollecitudine la società al riparo dai suoi effetti dannosi. A noi piace perpetrare invece questa visione persecutoria nella quale la repressione penale appare l’unico strumento palingenetico capace di operare un ruolo salvifico, additando alla pubblica opinione i reprobi, smascherandoli in auto da fé di inquisitoria memoria. Ostinatamente recalcitranti ad ogni modernizzazione e razionalizzazione dei nostri apparati amministrativi, restiamo innamorati di un sistema retorico e simbolico che idealizzi ipertroficamente lo strumento penale, sotto la cui azione ovviamente in concreto nulla cambia. Piace consegnare la cultura del Paese alla egemonia di pubblici ministeri, gelosi di questa visione manichea della società. Piace l’idealizzazione del reato e del processo come unici rimedi al male, mentre sotto questa velleitaria illusione fatta di moltiplicazione compulsiva delle pene e degli illeciti, il disordine sociale si perpetua, la disorganizzazione prolifera, gli effetti del malaffare si stratificano, la stessa società civile, ipocritamente si deresponsabilizza da ogni forma di autonomo controllo sociale, incantata dal ruolo messianico dei suoi promessi salvatori. Non se ne abbia a male il dott. Scarpinato, che ha strenuamente difeso in Commissione il reato di abuso d’ufficio, ma credo che sia invero il perpetrarsi di questa condizione l’unico “colpo devastante alla credibilità di uno Stato e ai diritti dei cittadini”. *Presidente dell’Unione camere penali italiane Contrasto alla violenza sulle donne: nuovo giro di vite di Nicoletta Cottone Il Sole 24 Ore, 27 ottobre 2023 Dall’arresto in flagranza differita al carcere per manomissione del braccialetto elettronico. Unanimità in aula alla Camera per il primo via libera della Camera al disegno di legge contro la violenza sulle donne. Il semaforo verde si è acceso con 190 voti favorevoli, tanto che la ministra per la Famiglia e le pari opportunità Eugenia Roccella si è detta “emozionata” da tanto partecipato impegno: “la legge sarà efficace, salvavita e darà la possibilità alle donne di non sentirsi più sole”. Il provvedimento, che passa ora all’esame del Senato, è frutto del testo governativo proposto dalla ministra nel solco normativo tracciato dal ‘Codice rosso’. Inasprisce la normativa contro gli stalker e i violenti per evitare il verificarsi di “reati spia”, rafforza gli strumenti di prevenzione per contrastare quelle dinamiche che purtroppo precedono i casi di femminicidi. Maschio (Fdi): una buona proposta con misure forti ed efficaci - Troppo importante il tema del contrasto alla violenza di genere, ribadisce a più riprese il presidente della commissione e relatore del provvedimento, Ciro Maschio (FdI), che fin dall’inizio ha considerato una priorità arrivare a un testo condiviso. Il parlamentare è soddisfatto per “un’unanimità che, fino a ieri, non era affatto scontata”: “É una buona proposta di legge con misure forti e efficaci anche per la fase preventiva e cautelare”. Roccella, lavorare su prevenzione culturale e formazione degli operatori - Il provvedimento, spiega Roccella, “non esaurisce lo sforzo del governo e del Parlamento contro la violenza. C’è da lavorare sulla prevenzione culturale, c’è da lavorare sulla formazione degli operatori, sulla raccolta dati, sull’accoglienza delle vittime, sulla diffusione del numero verde 1522, sull’educazione al rispetto, sul concetto di consenso. Tutto questo lo stiamo facendo, tutto questo lo faremo insieme”. Fermare la scia di dolore riguarda tutti - “La violenza contro le donne è antica, ma oggi ha preso forme nuove, adeguate al tempo in cui viviamo, alla nuova libertà femminile che tanti uomini ancora non riescono ad accettare. Davvero i numeri sono impressionanti, cadenzati come una triste litania: in media una donna ogni tre giorni viene uccisa. Nonostante l’Italia sia fra i Paesi con i dati migliori a livello europeo, l’impressione che si ha leggendo le cronache, e soprattutto ascoltando gli operatori sul campo, è quella di una scia di dolore e sopraffazione che sembra inarrestabile. Noi invece vogliamo fermarla. E oggi stiamo compiendo tutti insieme un passo importante in questa direzione”, ha detto detto la ministra Roccella, intervenendo durante il dibattito sul ddl anti-violenza. L’arresto in flagranza differita - Il testo prevede il rafforzamento degli strumenti di prevenzione - ammonimento, braccialetto elettronico, distanza minima di avvicinamento, vigilanza dinamica - con la loro applicazione ai cosiddetti “reati spia”. Per esempio, utilizzo del braccialetto elettronico, con il carcere in caso di manomissione. Distanza non inferiore a 500 metri dai luoghi frequentati dalla vittima. Obiettivo evitare che la violenza venga perpetrata. Tempi stringenti, il più possibile rapidi e certi, per la valutazione del rischio da parte della magistratura e per la conseguente eventuale applicazione delle misure preventive e cautelari nei confronti dei potenziali violenti. Arriva l’arresto in flagranza differita, ci sono nuove regole per favorire la specializzazione sul campo dei magistrati e la formazione degli operatori che, a diverso titolo, sono chiamati per ragioni professionali ad entrare in contatto con le vittime. Il ristoro anticipato in favore delle vittime - Il testo approvato a Montecitorio contempla una provvisionale a titolo di ristoro anticipato a favore delle vittime, ma anche l’allontanamento d’urgenza dalla casa familiare anche fuori dei casi di flagranza e il rafforzamento degli obblighi di comunicazione alla persona offesa. Opposizione soddisfatta per le nuove norme che introducono una stretta basata anche sulle indicazioni dei centri anti violenza. Bagarre sull’educazione sessuale a scuola - Nonostante il clima di intesa raggiunto in commissione Giustizia, bagarre in aula quando il leghista Rossano Sasso ha affermato che chiedere di insegnare “l’educazione sessuale e affettiva” nelle scuole “è una nefandezza”, “una porcheria”, un “qualcosa che fino a quando la Lega sarà al Governo non accadrà mai”. La presa di posizione del deputato leghista Rossano Sasso ha fatto parlare l’opposizione di “oscurantismo”, “preistoria” e di “ritorno al Medioevo”. Dopo un’ora di toni aspri l’emendamento firmato da Stefania Ascari (M5S) viene bocciato. Il leader Verde Angelo Bonelli ha protestato con forza: “Definire un emendamento una nefandezza è inaccettabile. Non siamo a Kabul ma nella Repubblica italiana, Sasso non ci riporterà all’ oscurantismo”. Anna Laura Orrico (M5S) ha detto che la vera cosa degradante è che in Italia “l’89% dei ragazzi impara cosa sia il sesso da YouPorn”. Lo scontro si sposta anche sulle “regole della democrazia” che Gianni Cuperlo (Pd) rammenta citando la Costituzione. Ma sono Carolina Varchi (FdI) e il presidente della Commissione Ciro Maschio, che definisce quello di Sasso “un intervento fuori luogo” dal quale si “dissocia”, a placare gli animi appellandosi al clima che si era creato in Commissione. Fdi si è impegnata a trattare il tema in un altro progetto di legge. Tutti contro il Gip garantista che ha osato dire no agli arresti di Simona Musco Il Dubbio, 27 ottobre 2023 Stampa e magistrati attaccano il giudice che ha negato la misura cautelare per 142 accusati di associazione mafiosa. Muta l’Anm, lo difende solo Roia. L’accusa è singolare: il giudice ha fatto copia e incolla. A dirlo sono stati i pm di Milano “bocciati” dal gip Tommaso Perna, che ha “osato” rigettare la richiesta di arresto avanzata dalla Dda per 140 persone. Normale dialettica processuale, verrebbe da dire. E invece no, perché Perna, giovane giudice in forza al Tribunale di Milano, è finito nel ciclone, accusato, addirittura, di spargere “veleni”. La colpa di Perna, stando agli accurati resoconti della stampa che già poche ore dopo il blitz - scattato per “sole” 11 persone alle tre di notte - pubblicava numerosissimi dettagli dell’inchiesta, sarebbe stata quella di copiare dal blog di un avvocato, Salvatore Del Giudice, parti della sua corposa ordinanza di custodia cautelare. Ordinanza scritta analizzando 5mila pagine di richiesta, consegnate al giudice ad aprile, nelle quali il magistrato non ha trovato indizi sufficienti dell’esistenza di un “triumvirato” mafioso. In effetti, incollando le poche righe incriminate sul web è possibile arrivare al blog al quale Perna avrebbe attinto. Si tratta - questa la seconda critica - di un penalista “senza alcuna competenza sulla criminalità organizzata”. Ma sarebbe bastato andare in fondo alla pagina per scoprire un piccolo dettaglio: l’autore di quello scritto non è Del Giudice (che infatti non firma nulla), bensì - la fonte è citata - “Tribunale Bari sez. uff. indagini prel., 22/05/2019, (ud. 22/05/2019, dep. 22/05/2019)”. Insomma, la colpa di Perna è aver cercato riferimenti in altre pronunce giudiziarie (su un blog dove vengono pubblicate sentenze) per argomentare la sua decisione, che, evidentemente, avrebbe dovuto avere i caratteri dell’originalità, come se si trattasse di un’opera letteraria. Un’accusa incredibile, se si considera che, normalmente, il copia e incolla è proprio la tecnica più elogiata, quando si concretizza con la fedele adesione del gip alla richiesta cautelare. Non solo. Il tono di Perna sarebbe stato ironico, ironia che trapelerebbe, secondo i critici, dall’aver definito l’ipotesi di un “sistema lombardo” una “assoluta novità nel panorama geografico italiano, ma invero anche mondiale e storico”. Che poi era proprio la tesi che avrebbe voluto dimostrare la procura, a quanto pare, stando al giudice, senza portare sufficienti prove. Perna - questa l’idea - avrebbe agito in una sorta di guerra con la procura che in realtà, fanno sapere fonti interne ben informate, è molto blanda rispetto a quella tutta interna alla Dda di Milano, dove l’inchiesta avrebbe provocato più di un mugugno, per usare un eufemismo. Forse complice anche - ma non solo - la richiesta avanzata mesi fa dal capo della Dna Giovanni Melillo di attivare un raccordo con le altre procure. C’è poi un altro dato: sui giornali sono finiti ampi stralci della richiesta di misura cautelare, tecnicamente non pubblicabili - in quanto segreti -, che hanno consentito di scandagliare i rapporti tra gli indagati e i partiti politici. Una violazione che, probabilmente, non verrà valutata dal alcun giudice per le indagini preliminari. L’eccessiva “attenzione mediatica” riservata a Perna ha spinto il presidente del Tribunale di Milano, Fabio Roia, ad intervenire per difendere il collega. “Il controllo del gip - ha scritto in una nota - lungi dal dover essere classificato come una patologia evidenzia il fondamentale principio dell’autonomia della valutazione giurisdizionale in un sistema organizzativo e tabellare che impone il rispetto del principio del giudice naturale e che, quindi, è indicato secondo criteri oggettivo e predeterminati e non è scelto secondo criteri preferenziali. Un controllo che, in altro provvedimento richiamato come connesso a quello in esame, ha già trovato una iniziale conferma in sede di giudizio di merito con l’assoluzione in esito a giudizio abbreviato o il proscioglimento al termine dell’udienza preliminare degli imputati da analogo associativo (416 bis c.p.). Su queste coordinate di intervento e di rispetto della distinzione dei ruoli, la sezione gip-gup del tribunale di Milano ha inteso operare anche in questa vicenda che ha registrato l’assoluto rispetto delle regole codicistiche e di organizzazione del lavoro giudiziario”. Il riferimento di Roia è ad alcune inesattezze riportate dalla stampa, che hanno utilizzato il precedente dell’indagine “Medoro” del Ros: il gip Lidia Castellucci aveva smontato l’accusa di associazione, ma poi - scriveva ieri Repubblica - l’inchiesta sarebbe “approdata a condanne robuste in assise”. Un falso storico, dal momento che stando alla sentenza del giudice dell’udienza preliminare Guido Salvini (dunque non della Corte d’Assise) l’esistenza di una locale di ‘ndrangheta non sarebbe sufficientemente dimostrata, mentre le posizioni dei generi del boss Mancuso sono state stralciate e inviate a Catanzaro. L’unica cosa riconosciuta, per due estorsioni, è stata l’aggravante del metodo mafioso. Che è una cosa ben diversa. La polemica sembra destinata a proseguire e moltissimo peserà la decisione del Riesame, al quale l’accusa ha già fatto ricorso. Il tutto mentre l’Anm, intanto, rimane muta. L’inchiesta bocciata sulla super-mafia a Milano. I pm: “Così la lotta ai clan fa un passo indietro di 30 anni” di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 27 ottobre 2023 Le polemiche per il blitz antimafia con 11 misure cautelari su 154 richieste. Il Tribunale: il nostro ruolo? Non è una patologia, è la legge. Ci vorranno non giorni, e nemmeno settimane, ma almeno due o tre mesi, perché il Tribunale del Riesame fissi le udienze in cui dirimere le opposte valutazioni giuridiche della pm Alessandra Cerreti (153 richieste cautelari per una ritenuta associazione mafiosa consorziata a Milano tra mafia, ‘ndrangheta e camorra) e del gip Tommaso Perna (che non l’ha riconosciuta, e ha disposto 11 arresti su 120). La ragione è che il Riesame (di tutti gli arresti e sequestri di tutto il distretto) ha solo un presidente e 6 giudici, che tra poco rimarranno 4 visto che 2 hanno avuto dal Csm altri ruoli. La Procura di Marcello Viola prospetta che il gip abbia “incredibilmente parcellizzato e banalizzato innumerevoli elementi investigativi”, “mortificato il racconto di una coraggiosa parte offesa”, “ingiustificatamente derubricato” gravi fatti, “ignorato il processo evolutivo” dei clan, e anzi prodotto “una retrocessione trentennale nell’evoluzione giudiziaria”. Grande importanza (maiuscolo e neretto) la pm Cerreti annette al fatto che il gip “ha del tutto inopinatamente ed ingiustificatamente omesso di valutare l’ultima integrazione probatoria trasmessa il 26 settembre 2023”. Il pomeriggio del 26, nella cui mattina la cancelleria gip aveva già registrato il deposito dell’ordinanza del gip sugli arresti chiestigli il 3 aprile 2023, dopo che 70 fermi già stampati e firmati dai pm erano stati non eseguiti in extremis a fronte del gelo dell’Ufficio Gip e della richiesta della Procura Nazionale Antimafia di un collegamento investigativo con le altre perplesse Procure del Sud. Per la pm, “anche se l’ordinanza era stata già depositata, il gip sarebbe stato tenuto a valutare il sopravvenuto materiale indiziario” cosi cruciale. Che materiale? Due sentenze del 1997 e 2001, e interrogatori resi nel 2015 da 5 collaboratori confluiti nella sentenza Gotha del 2021, sull’”esistenza a Milano dagli anni ‘90 di un “consorzio” tra Cosa nostra, ‘ndrangheta, camorra e Sacra corona”. Secondo il gip la Procura chiedeva di affermare l’esistenza di un’associazione del tutto “nuova”, dunque bisognosa delle prove (dal gip non ravvisate) di un’autonoma esteriorizzazione del metodo mafioso. La Procura afferma invece al Riesame di aver voluto contestare “mai una super associazione mafiosa composta dalle 3 mafie italiane”, ma “mere “componenti” delle tre tradizionali che sul territorio milanese si alleano strutturalmente tra loro per aumentare possibilità di profitto”. E in due righe contesta al gip “una premessa in diritto tra l’altro priva di originalità, v. il sito www.avvocatodelgiudice.com”. Che vi pubblica sentenze: come una del 2019 del Tribunale di Bari, di cui il gip ha tratto dal sito un riassunto della motivazione con le note massime di Cassazione in tema di 416 bis. In questo clima il presidente reggente del Tribunale, Fabio Roia - in una nota in cui corregge confusi resoconti sulla sentenza di un’altra indagine al cui inizio un’altra gip respinse 27 arresti - ricorda che “il controllo del gip, lungi dal dover essere classificato come una patologia, evidenzia il fondamentale principio dell’autonomia della valutazione giurisdizionale” e del “rispetto del principio del giudice naturale, indicato secondo criteri oggettivi e predeterminati, e non scelto secondo criteri preferenziali”. Ma quale scandalo? Quel giudice ha fatto solo il suo lavoro di Tiziana Maiolo Il Dubbio, 27 ottobre 2023 Ha creato scompiglio il fatto che a Milano un giudice si sia permesso di non accogliere le richieste del pubblico ministero. Non ha ricevuto molti applausi, ma ha conquistato in gran parte la prima pagina della critica il gip Tommaso Perna il quale, concedendo “solo” 11 misure cautelari in carcere su 153 richieste, ha osato violare niente meno che il sacrario dell’Antimafia milanese, quella che fu il regno di Ilda Boccassini e oggi è diretto da Alessandria Dolci. Sconcerto, delusione, persino lo sberleffo di Marco Travaglio che accusa il giudice di aver “copiato” dagli studi giuridici di un avvocato. Ah, la parolaccia! Avvocati! Quelli con la toga sbagliata, che hanno il coraggio di rappresentare la difesa nel processo. Se tutti coloro che sostengono la necessità di separare le carriere dei pm da quelle dei giudici aspettavano la prova concreta di quanto quella riforma sia urgente, ecco il piatto servito. La dialettica processuale tra le parti è considerata normale se tra i due magistrati colleghi c’è sintonia di pensiero, se quel che il pm chiede, il gip concede. Ma diventa anomalia, se non incidente, nella storia del processo in Italia, se accade il contrario. Il giudice Perna, a quanto rivela l’informatissimo Luigi Ferrarella del Corriere, ha studiato per mesi le carte dell’inchiesta e l’ipotesi che a Milano e Varese, con le rispettive province, sia nato e operante un nuovo soggetto politico- mafioso, detto Consorzio, frutto dell’unione tra Cosa Nostra, ‘ ndrangheta e camorra. Una novità assoluta, descritta in migliaia di pagine, che hanno indotto, quando il fascicolo milanese ha lasciato il quarto piano del palazzo di giustizia dove ha sede la procura per salire al settimo dove lavorano i giudici delle indagini preliminari, il capo di questi ultimi, Augusto Barazzetta, a distaccare un giudice a occuparsi solo di questo. Il sorteggio, sistema usuale tranne ai tempi di Mani Pulite quando con un “trucco” denunciato sul Dubbio dal giudice Guido Salvini i pm erano riusciti a concentrare ogni inchiesta nelle mani dell’ unico giudice Italo Ghitti, ha indicato il nome di Tommaso Perna. Il quale, dai primi di aprile, fino a questi giorni, ha studiato il caso. C’è una stranezza, nell’articolo di Ferrarella, uno storico cronista giudiziario che sulla precisione delle notizie non sbaglia un colpo, la citazione proprio del giudice Salvini. “Almeno da gennaio 2023 - scrive - ai piani alti dell’arma alti ufficiali accreditano pubblicamente l’approdo di un importante lavoro antimafia al gip Guido Salvini…”. Non è chiaro se si intenda affermare che non solo i pubblici ministeri, ma addirittura organi di polizia giudiziaria, desiderano potersi scegliere il giudice più gradito. Il che in questo caso è veramente singolare, dal momento che proprio questo magistrato ha usato parole molto chiare su questo quotidiano in un intervento di due giorni fa. Discutendo sul Dubbio del 25 ottobre sulla separazione delle carriere, cui il magistrato come tutti gli altri suoi colleghi è contrario, il dottor Salvini ha però operato un distinguo, non solo proponendo di separare la logistica, cioè i palazzi, ma soprattutto creando due diversi Csm. Una frase che lo mette al riparo da qualunque tentazione, di pm o di carabinieri, di considerarlo “avvicinabile”, cioè gradito. “Concordo certamente - ha scritto - sulla necessità di distanziare i pm dai giudici per rendere effettiva l’indipendenza di questi ultimi da tutte le parti del processo e prevenire condizionamenti”. Chi vuol prevenire condizionamenti in genere non è “avvicinabile”, dunque. Posizione limpida. Quello che non ci è chiaro però è come un magistrato di esperienza, sempre lontano da correnti e pastette, uno che vuole addirittura cacciare i pm in un altro palazzo (ottima idea) per evitare condizionamenti anche con la condivisione del famoso caffè, ancora creda alla mitica “cultura della giurisdizione” del pubblico ministero. Ci dica, il giudice Salvini, se conosce qualche procuratore che abbia seriamente mai cercato le prove favorevoli all’indagato. Usciamo dall’ipocrisia, allora, e collochiamo il pm al posto suo, a quello in cui lo hanno messo gli ordinamenti di tutto il mondo occidentale, da quello anglosassone fino a quello dei Paesi dell’Europa democratica. Del resto, qualunque cosa significhi quella frase sull’ “approdo a un importante lavoro antimafia”, difficilmente Guido Salvini avrebbe potuto scrivere qualcosa di diverso da Tommaso Perna. Il quale, lo spieghiamo a Marco Travaglio senza l’illusione di poterlo “rieducare”, se ha copiato, lo ha fatto semplicemente riproducendo quel che dice la norma sull’associazione mafiosa e sulla sua esistenza. Ma anche sul concetto di prova, che è cosa diversa dalle “suggestioni” di certe ipotesi investigative. Fondamentale perché un certo sodalizio possa essere considerato associazione mafiosa e ricadere nell’ipotesi dell’articolo 416- bis del codice penale, è che gli indagati nei loro comportamenti “si siano avvalsi della forza intimidatrice che promana dall’esistenza stessa dell’associazione”. E il secondo requisito è la conseguenza del primo, cioè “l’assoggettamento diffuso della popolazione a una condizione di omertà generalizzata”. Tutto questo, scrive il gip, nelle carte non c’è. Non perché non esistano ipotesi di qualche reato, per esempio l’estorsione, ma manca proprio la prova dell’esistenza del vincolo associativo fra le tre cupole storiche. C’è solo qualche relazione personale tra soggetti provenienti dalle tre Regioni storiche degli insediamenti di mafia ‘ ndrangheta e camorra. Ma è soprattutto assente del tutto, conclude il giudice, la consapevolezza e l’assoggettamento della popolazione lombarda. Non c’è omertà del popolo, perché il popolo non si è minimamente accorto di questa presenza. Perché in sostanza non c’è. Come del resto non esiste la famosa “zona grigia” molto amata dal procuratore Gratteri, ma sempre esclusa da Giovanni Falcone. Pure la responsabile della Dda milanese Alessandra Dolci e la pm Alessandra Cerreti (già pm e gip in Calabria) riempiono pagine a pagine di nomi e cognomi di esponenti politici di Fratelli d’Italia neppure sfiorati dall’inchiesta. Che bisogno c’era? Nessuno. Pure Repubblica vi dedica un intero articolo addirittura a quattro firme. Così come era inutile, anzi vietato dalla legge, battezzare l’ennesima inchiesta fallimentare sulla mafia con il nome di “Operazione Hydra”. Il giudice ha sbattuto la porta in faccia a questi magistrati che “da tanti anni mangiano solo pane e antimafia”, e che non hanno neanche potuto fare la solita conferenza- stampa, lamenta il solito Travaglio. Credeva forse di essere nella vecchia Catanzaro a braccetto del procuratore Nicola Gratteri? La Cedu: “L’Italia spieghi!”. Accolto il ricorso dell’ex braccio destro di Paolo Borsellino di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 27 ottobre 2023 La Cedu, la Corte europea di Strasburgo, chiede conto e ragione allo Stato italiano in merito alla evidente violazione della presunzione di innocenza nei confronti dell’ex colonnello dei carabinieri Carmelo Canale, ex braccio destro di Paolo Borsellino. I giudici della Corte dei diritti umani hanno accolto il ricorso presentato nel 2019 dall’avvocato Stefano Giordano del Foro di Palermo. I fatti si riferiscono a un fascicolo d’indagine, aperto dall’allora procura di Palermo nel 2012, nei confronti di Canale per un presunto reato, sebbene ormai prescritto. Inevitabilmente chiede archiviazione. Tuttavia, l’ex carabiniere, professandosi innocente, si oppone alla richiesta di archiviazione producendo prove a confutazione della tesi. Il gip decide dapprima di svolgere ulteriori indagini, ma alla fine archivia. Nell’ordinanza, accogliendo le argomentazioni del Pm, si dava quasi per certo che il reato fosse stato commesso. Questa vicenda sembra ricalcare un destino comune a coloro che erano vicini a Borsellino o che conducevano indagini per suo conto. Dopo l’arresto di Totò Riina, gli ex membri dei Ros, dal capitano Ultimo a Mario Mori, subirono numerosi processi che si conclusero con la loro completa assoluzione. L’allora maresciallo Antonino Lombardo, in assoluto uno dei migliori dell’Arma e vicinissimo a Borsellino, fondamentale per la cattura del capo dei capi grazie alle sue fonti, si suicidò dopo che lo avevano infangato pubblicamente in una trasmissione televisiva di grande audience. Stesso travaglio giudiziario ha dovuto subire Carmelo Canale, all’epoca maresciallo. Fu accusato prima di concorso esterno in associazione mafiosa. Poi, fra il primo e il secondo grado, di essere direttamente affiliato alla mafia, curandone gli interessi. Il 15 novembre 2004, otto anni dopo le prime accuse, Canale è stato assolto in primo grado, perché il fatto non sussiste. Tra le accuse, quelle di aver dato addirittura il dossier mafia- appalti ai mafiosi. Parliamo dell’informativa dei Ros voluta da Giovanni Falcone. Quella della quale si interesso lo stesso Borsellino. Con le sentenze sulle stragi oggi sappiamo che quella di Via D’Amelio ha a che fare con questo interessamento. Questione che è riemersa fuori grazie alle audizioni in commissione Antimafia dell’avvocato Fabio Trizzino e di sua moglie Lucia Borsellino. Il 17 luglio 2008, dodici anni dopo, Canale è assolto in secondo grado. La Corte fissa in novanta giorni (come prevede la legge) i termini per il deposito delle motivazioni, che, però, arrivano solo ad agosto 2009. La procura generale fece ricorso in Cassazione. Il 12 luglio del 2012 arriva il sigillo definitivo della sua innocenza. Ma finisce qui? Nello stesso anno della sua assoluzione definitiva, la Procura della Repubblica apre un fascicolo contro di lui per il reato di falso ideologico in atto pubblico, in tesi commesso nell’ambito dell’attività di indagine condotta (quale componente del Ros di Palermo dei Carabinieri, all’epoca dei fatti diretto dal maggiore Antonio Subranni) in relazione alla morte del giornalista Giuseppe Impastato, deceduto il 9 maggio 1978 a seguito di un attentato dinamitardo poi risultato di matrice mafiosa. Come ha ben descritto l’avvocato Stefano Giordano nel ricorso alla Cedu, in particolare, secondo la prospettazione accusatoria, Canale - nel redigere e sottoscrivere, unitamente ad altri due colleghi, il verbale di perquisizione e sequestro eseguiti il 9 maggio 1978 presso l’abitazione di Fara Bartalotta, zia dell’Impastato - avrebbe falsamente dato atto di avere rinvenuto unicamente sei missive e un manoscritto in cui l’Impastato preannunciava la sua volontà suicida; mentre avrebbe sottaciuto di avere informalmente asportato altra copiosa documentazione, non inserita nel fascicolo processuale (asporto che sarebbe emerso, viceversa, dalle dichiarazioni rese da Giovanni Impastato, fratello della vittima). Nel novembre 2012, il Pm ha formulato una prima richiesta di archiviazione del procedimento, per essere il reato configurato a carico di Canale “estinto per intervenuta prescrizione”. In detta richiesta, peraltro, si sono formulati pesanti apprezzamenti circa la responsabilità dell’indagato. Lo stesso Canale si oppose alla prescrizione. Il Gip ha rigettato la richiesta di archiviazione e restituito gli atti al Pm, affinché procedesse a indagini suppletive. A marzo 2016 il Pm chiede di nuovo l’archiviazione. Nel 2018 il Gip ne ha disposto l’archiviazione, ma esprimendo nell’ordinanza delle considerazioni e censure a carico di Canale che - come sottolinea l’avvocato Giordano - “tratteggiavano inequivocabilmente una sua responsabilità penale, sebbene non giudizialmente accertata”. L’attenzione ora si è spostata sulla Cedu, dove Canale ha presentato un ricorso sostenendo che le azioni delle autorità italiane hanno violato i suoi diritti costituzionali e convenzionali. La Corte Europea ha accolto il ricorso e ha posto alcune domande al governo italiano. Queste domande rivelano profonde preoccupazioni riguardo al rispetto dei diritti umani nel sistema giudiziario italiano. In primo luogo, il caso solleva dubbi sulla trasparenza dei procedimenti giudiziari. Canale, attraverso l’avvocato Giordano, ha contestato se la descrizione dettagliata delle indagini fosse veramente necessaria per dichiarare estinto il reato per prescrizione. La mancanza di chiarezza in questo ambito può portare a interpretazioni ambigue e a decisioni giudiziarie discutibili, mettendo a rischio la fiducia nel sistema legale. In secondo luogo, la Corte di Strasburgo ha sollevato la questione della rinuncia alla prescrizione. Il fatto che questa possibilità non sia stata considerata dai giudici nazionali solleva interrogativi sulla parità di trattamento tra l’indagato e l’imputato. Tale disparità rappresenta una violazione del principio fondamentale che ogni individuo ha il diritto di difendersi adeguatamente dalle accuse mosse nei suoi confronti. Il terzo punto riguarda il diritto di difesa di Canale. Se non gli è stato concesso di difendersi pienamente e adeguatamente contro le accuse, la Cedu solleva un interrogativo significativo sulla correttezza e l’equità del procedimento giudiziario. La presunzione di innocenza, uno dei pilastri del sistema legale, sembra essere stata compromessa in questo caso. Infine, la questione di un ricorso interno efficace è di vitale importanza. La Corte chiede allo Stato italiano se Canale non abbia avuto un mezzo adeguato per contestare la presunta violazione della presunzione di innocenza, sancita nelle motivazioni del decreto di archiviazione. Nel caso contrario, si profila una potenziale violazione dei suoi diritti umani. Il caso di Canale alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo rappresenta un banco di prova cruciale per il sistema giudiziario italiano. La decisione della Cedu non solo avrà un impatto significativo sulla vita di Canale, ma potrebbe anche gettare luce su presunte disfunzioni sistemiche, mettendo in discussione l’integrità del sistema giudiziario italiano. Consulta sul caso Regeni: non c’è immunità per i delitti di tortura di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 27 ottobre 2023 La Corte costituzionale ha depositato ieri la sentenza, la n. 192 scritta da Stefano Petitti, anticipata il 27 settembre con comunicato stampa, sul caso Regeni Lo statuto universale del crimine di tortura, delineato dalle dichiarazioni sovranazionali e dai trattati, “è connaturato alla radicale incidenza di tale crimine sulla dignità della persona umana”. Pertanto, il dovere dello Stato di accertare giudizialmente la commissione di questo delitto si presenta come “il volto processuale del dovere di salvaguardia della dignità”. Lo ha affermato la Corte costituzionale con la sentenza n. 192 (redattore Stefano Petitti), depositata oggi , che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 420-bis, comma 3, del codice di procedura penale , nella parte in cui non prevede che il giudice procede in assenza per i delitti commessi mediante gli atti di tortura definiti dall’art. 1, comma 1, della Convenzione di New York contro la tortura, quando, a causa della mancata assistenza dello Stato di appartenenza dell’imputato, è impossibile avere la prova che quest’ultimo, pur consapevole del procedimento, sia stato messo a conoscenza della pendenza del processo, fatto salvo il diritto dell’imputato stesso a un nuovo processo in presenza per il riesame del merito della causa. La Corte ha osservato che la paralisi sine die del processo per i delitti di tortura commessi da agenti pubblici, quale deriverebbe dall’impossibilità di notificare personalmente all’imputato gli atti di avvio del processo medesimo a causa della mancata cooperazione dello Stato di appartenenza, “non è accettabile, per diritto costituzionale interno, europeo e internazionale”. Essa infatti “si risolve nella creazione di un’immunità de facto”, che offende i diritti inviolabili della vittima (articolo 2 Cost.), il principio di ragionevolezza (articolo 3 Cost.) e gli standard di tutela dei diritti umani, recepiti e promossi dalla Convenzione di New York (art. 117, primo comma, Cost.). La necessità costituzionale di evitare la stasi del processo può essere d’altronde soddisfatta senza alcuna riduzione delle facoltà partecipative dell’imputato, ma imprimendo ad esse una diversa scansione temporale, che si riassume nel diritto dell’imputato a ottenere in ogni fase e grado la riapertura del processo. Rimettendo al giudice comune l’attuazione di questo diritto nella concretezza del singolo caso, la Corte ha sottolineato che esso, proprio perché conserva all’imputato ogni facoltà processuale, garantisce che la procedibilità in assenza per i delitti di tortura statale sia “rispettosa del principio del giusto processo”. “Lo stop al processo su Regeni avrebbe consentito l’impunità” di Valentina Stella Il Dubbio, 27 ottobre 2023 Perché si potrà celebrare il processo per il sequestro e l’omicidio di Giulio Regeni, nonostante non ci sia prova che gli 007 egiziani sappiano di esserne imputati a Roma? In sintesi: per le imputazioni di tortura statale, la disciplina dell’assenza non può tradursi in una immunità “de facto”. Il dettaglio lo spiegano le 23 pagine di motivazioni della sentenza numero 192 (relatore Petitti) depositata ieri dalla Corte costituzionale, che ha dichiarato illegittimo l’articolo 420- bis, comma 3, del codice di procedura penale nella parte in cui non prevede che il giudice procede in assenza per i delitti commessi mediante gli atti di tortura definiti dall’art. 1, comma 1, della Convenzione di New York contro la tortura, quando, a causa della mancata assistenza dello Stato di appartenenza dell’imputato, è impossibile avere la prova che quest’ultimo, pur consapevole del procedimento, sia stato messo a conoscenza della pendenza del processo, fatto salvo il diritto dell’imputato stesso a un nuovo processo in presenza per il riesame del merito della causa. Come spiega una nota della Consulta, lo statuto universale del crimine di tortura, delineato dalle dichiarazioni sovranazionali e dai trattati, “è connaturato alla radicale incidenza di tale crimine sulla dignità della persona umana”. Pertanto, il dovere dello Stato di accertare giudizialmente la commissione di questo delitto si presenta come “il volto processuale del dovere di salvaguardia della dignità”. La Corte ha osservato che la paralisi sine die del processo per i delitti di tortura commessi da agenti pubblici, quale deriverebbe dall’impossibilità di notificare personalmente all’imputato gli atti di avvio del processo medesimo a causa della mancata cooperazione dello Stato di appartenenza, “non è accettabile, per diritto costituzionale interno, europeo e internazionale”. Essa infatti “si risolve nella creazione di un’immunità de facto”, che offende i diritti inviolabili della vittima (articolo 2 Cost.), il principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.) e gli standard di tutela dei diritti umani, recepiti e promossi dalla Convenzione di New York (art. 117, primo comma, Cost.). La necessità costituzionale di evitare la stasi del processo può essere d’altronde soddisfatta senza alcuna riduzione delle facoltà partecipative dell’imputato, ma imprimendo ad esse una diversa scansione temporale, che si riassume nel diritto dell’imputato a ottenere in ogni fase e grado la riapertura del processo. Rimettendo al giudice comune l’attuazione di questo diritto nella concretezza del singolo caso, la Corte ha sottolineato che esso, proprio perché conserva all’imputato ogni facoltà processuale, garantisce che la procedibilità in assenza per i delitti di tortura statale sia “rispettosa del principio del giusto processo”. A sollevare la questione di legittimità costituzionale era stato il gup del Tribunale di Roma su richiesta della Procura. Secondo i giudici costituzionali, “ferma la presunzione di non colpevolezza che assiste i quattro funzionari egiziani, non può negarsi che si siano determinate obiettivamente le condizioni di una fattuale immunità extra ordinem, incompatibile con il diritto all’accertamento processuale, quale primaria espressione del divieto sovranazionale di tortura e dell’obbligo per gli Stati di perseguirla”. E aggiungono: “A prescindere dalle ragioni che l’hanno ispirata, la mancata comunicazione da parte dello Stato egiziano degli indirizzi dei propri dipendenti ha impedito finora, ed è destinata a impedire sine die, la celebrazione di un processo viceversa imposto dalla Convenzione di New York contro la tortura, in linea col diritto internazionale generale”. In ultimo, una precisazione per chi aveva criticato la decisione della Consulta come lesiva delle garanzie capace di legittimare ulteriori “letture al ribasso” sul divieto di procedere in assenza dell’imputato: “L’illegittimità costituzionale della denunciata lacuna normativa, e la necessità di emendarla tramite la richiesta pronuncia additiva, non concerne quindi ogni ipotetica fattispecie nella quale la notifica personale della all’imputato sia resa impossibile dalla mancata assistenza dello Stato di appartenenza, ma inerisce esclusivamente alle imputazioni di tortura, rispetto alle quali soltanto l’improcedibilità, nelle riferite condizioni, si traduce nella violazione degli artt. 2, 3 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione alla Convenzione di New York contro la tortura”. Lombardia. Allarme sanità in carcere: “Un infermiere per 200 detenuti, uno ogni 600 di notte” di Giulia Bonezzi Il Giorno, 27 ottobre 2023 “Un infermiere ogni 200 detenuti per turno di giorno, uno ogni 600 di notte, con il supporto di un unico Oss (operatore socio-sanitario)”. Numeri estrapolati con fatica dai sindacati per provare a far luce sul buco nero della sanità penitenziaria, allargato dalla fuga di personale da tutta la sanità pubblica dopo la pandemia e illuminato solo fugacemente, all’inizio di quest’anno, dal caso mediatico di Alfredo Cospito. Ci hanno provato, martedì scorso, anche le commissioni Sanità e Carceri del Pirellone, ascoltando la Rsu dell’Asst Santi Paolo e Carlo sulla situazione di infermieri, Oss, fisioterapisti, tecnici, assistenti sociali, educatori che lavorano nelle prigioni milanesi dove l’assistenza sanitaria è affidata interamente all’Azienda socio-sanitaria territoriale cui appartengono anche gli ospedali San Carlo e San Paolo, che ha pure un “repartino” di Medicina protetta. E nel cui pronto soccorso, cinque settimane fa, un agente della penitenziaria di San Vittore è precipitato per due piani in un’intercapedine mentre inseguiva un detenuto scappato dal bagno di una stanza per infettivi: “Abbiamo chiesto un protocollo per gestire i pazienti reclusi che transitano in pronto soccorso e uno spazio dedicato a loro e agli agenti”, ha spiegato ai consiglieri Andrea Pinna della Fp Cgil, referente della maggioranza della Rsu dell’Asst dei Santi, ricostruendo un quadro che s’è dovuto basare su numeri pubblici ministeriali per la popolazione di 3.726 detenuti, “pari a quella di un piccolo comune, in carico esclusivo alla nostra Asst”: dal “modello” Bollate a San Vittore, dagli ergastolani di Opera ai ragazzini del Beccaria, un mix di “potenziali pazienti” ma il numero e i livelli di complessità degli effettivi l’Asst alla Rsu non l’ha fornito, limitandosi a rispondere di “dettagliare meglio la richiesta” alla vigilia dell’audizione in Commissione. Alla quale invece Andrea De Santo, coordinatore della Fp Cgil Lombardia Dap, ha raccontato il punto di vista degli educatori su “situazioni che possiamo solo definire complesse, rendendoci conto che potremmo fare molto meglio se ci fosse una programmazione fondata sui bisogni della popolazione carceraria, che sono cambiati, e sulle risorse di oggi” mentre il sistema “è fermo ad anni fa”. Nemmeno sul personale sanitario “assegnato ai singoli istituti” del Milanese “per categoria” i sindacati dell’Asst dei Santi hanno ottenuto numeri ufficiali, ma hanno ricostruito uno scenario drasticamente “mutato dopo la pandemia, in primis a causa della carenza ormai drammatica, in particolare di infermieri - ha spiegato Pinna -. La dirigente delle professioni sanitarie enunciava alla Rsu gli sforzi per reclutare il personale pur “non essendo vigenti né a livello nazionale né regionale requisiti di accreditamento”, dimenticando i metodi coi quali viene costretto, in maniera punitiva, a garantire l’assistenza nelle carceri. Recentemente l’assistenza alla palazzina Sai (l’ex centro clinico, ndr) di Opera, con circa 98 pazienti più complessi, è stata esternalizzata a una cooperativa. Abbiamo personale ingaggiato con contratti atipici che lavora insieme a dipendenti della Asst con forte turnover e senza continuità. Varrebbe poi la pena verificare la presenza e il numero di medici, per la quasi totalità libero professionisti: ci è stato segnalato che parrebbero esserci “fogli terapia” di taluni reclusi non aggiornati da anni”. Del resto, si domanda il referente della Rsu, con un infermiere ogni duecento detenuti “come può essere rispettato il protocollo di prevenzione del rischio suicidiario aggiornato dalla Regione l’anno scorso?”. E terapie come gli antipsicotici, che in base a un’inchiesta di Altreconomia su 15 carceri italiane tra cui San Vittore ed Opera vedrebbero dietro le sbarre un consumo cinque volte superiore a quello della popolazione generale, “vengono somministrate o semplicemente distribuite?”. “Non è inusuale”, spiega l’altro sindacalista De Santo, che i consigli di disciplina affrontino casi di detenuti scoperti ad accumulare farmaci. “Con un infermiere ogni 200 persone, come si fa a controllare? - attacca la consigliera regionale del Pd Carmela Rozza -. E se succede qualcosa sarà lui o lei a risponderne, non chi l’ha mandato lì, magari per punizione, e magari è un neolaureato. Gli infermieri li dobbiamo trattenere, non farli scappare”. Alla Regione, i sindacati dell’Asst dei Santi chiedono “standard di accreditamento appropriati”, con “contingenti minimi sotto i quali non è possibile garantire la reale somministrazione delle terapie”; “chiarezza sulle modalità di reclutamento” e un “finanziamento ad hoc” per garantire “una specifica indennità” ai colleghi che lavorano in carcere, oltre a “formazione, supporto psicologico, nuove modalità di coinvolgimento che superino i diktat”. Umbria. Scuola nelle carceri: lezioni seguite dal 40% dei detenuti di Remo Gasperini Il Messaggero, 27 ottobre 2023 Nei 4 istituti penitenziari funzionano corsi gestiti da Cpia di Perugia e Terni. A Spoleto operano Alberghiero De Carolis e Artistico Leonardi, nel Ternano coinvolto anche l’Ipsia Pertini. Il quarantatré per cento dei detenuti delle carceri umbre frequenta i corsi scolastici attivi nelle quattro strutture di Perugia, Spoleto, Terni e Orvieto. Secondo i dati pubblicati da Antigone, l’associazione che redige un rapporto annuale sulle condizioni di detenzione in Italia, sono 619 i sui 1.430 totali i detenuti che frequentano la scuola che funziona negli istituti di pena come sezione carceraria di scuole esterne. In carcere insegnano docenti nominati come tutti gli altri dagli organi periferici del Ministero dell’Istruzione e i titoli di studio rilasciati sono legalmente validi. I dirigenti delle sezioni carcerarie sono infatti i presidi di Cpia (Centro provinciale istruzione adulti) o istituti superiori delle città dove ha sede il carcere. “Il Cpia 1 Perugia, Centro Provinciale Istruzione Adulti - spiega la dirigente scolastica Lucia Mastropierro, anche titolare al liceo Alessi di Perugia - svolge corsi presso la Casa Circondariale di Perugia Capanne (62 iscritti su 346 carcerati ndr) e la Casa di Reclusione di Spoleto ai corsi di scuola media inferiore (132 iscritti; altri 81 sono iscritti all’Alberghiero De Carolis e 70 all’Artistico Leonardi ndr) perché gli studenti possano raggiungere l’obiettivo dell’esame conclusivo del primo ciclo di istruzione. Inoltre eroga corsi per l’alfabetizzazione e l’apprendimento della lingua italiana e per il recupero delle competenze di scuola primaria, grazie al lavoro di maestri carcerari o, in caso di eventuale mancanza, di docenti in organico presso il Cpia. Il nostro Centro organizza percorsi di garanzia delle competenze, corsi di alfabetizzazione informatica, di storia dell’arte, di educazione finanziaria, se ci sono richieste e se è disponibile personale in organico. La richiesta di partecipazione ai corsi è significativa, per l’interesse che suscita l’offerta didattica, ma a causa delle condizioni particolari in cui si trovano i detenuti - che possono, ad esempio, essere trasferiti - alcuni non completano i percorsi. I docenti che insegnano nelle case circondariali operano con particolari motivazioni, come la professoressa Laura Bucciarelli, che ha sempre lavorato in un contesto carcerario. Credo che l’istruzione nelle carceri rappresenti un fondamentale aspetto nella vita dei detenuto; amplia la loro consapevolezza, crea un ponte con la società, restituisce senso profondo alla propria esistenza e ai rapporto con il mondo”.Più nel dettaglio entra Fabrizio Canolla, dirigente dell’Istituto Omnicomprensivo Ipsia Pertini - Cpia Terni: “Nel carcere di Vocabolo Sabbione a Terni abbiamo circa 200 iscritti alla sezione dell’Ipisa con indirizzo “Manutenzione impianti elettrici civili e industriali”, nello stesso carcere abbiamo un centinaio iscritti al Cpia che seguono il corso d’Italiano per stranieri ed altri il corso per acquisire il diploma di terza media. Addirittura Ci sono italiani che seguono corsi delle Primarie perché non ha nemmeno la quinta elementare. Per il carcere di Orvieto abbiamo una quarantina di studenti tutti iscritti al Cpia. L’anno scorso abbiamo avuto una trentina di diplomati alle superiori, mentre per la terza media ci sono 70-80 diplomati l’anno”. Il preside Canolla ha progettato anche ad un allargamento dell’offerta formativa: “Abbiamo chiesto all’Usr e alla Regione l’attivazione da settembre 2024 del corso Servizi culturali dello spettacolo”. L’anno scolastico in carcere ha la durata di quello normale: l’orario delle lezioni è invece diverso e va dalle 13 alle 17 dal lunedì al venerdì. “I docenti incaricati espressamente per la sezione carceraria ricorda Canolla - sono venti, nove le pluriclassi divise e separate tra studenti carcerati di alta e media sicurezza. L’insegnamento per chi frequenta la scuola ma è sottoposto al 41 bis e non può usciere dalla cella avviene con carteggio tramite gli agenti carcerari. Non ci sono libri ma dispense fornite gratuitamente dalla scuola. “I docenti- spiega Canolla - entrano in servizio un quarto d’ora prima (12,45) ed escono un quarto d’ora dopo (17,15) perché c’è una procedura dettata dalla sicurezza da seguire prima di arrivare in aula e in uscita con passaggi al metal detector e vari cancelli. Un percorso, appunto, di circa 10-15 minuti. “I detenuti hanno un gran rispetto degli insegnanti e c’è un grande impegno da parte loro. Aggiungo che gli insegnanti che lavorano in carcere preferiscono questo incarico rispetto a quello nella scuola normale del mattino. Ma andiamo anche oltre il diploma - aggiunge Canolla - perché ho un docente che fa da trait-d’union con l’università; in questo caso gli esami svolti in video conferenza o talvolta la commissione va in carcere per la prova di esame. Il tasso di promozione è altissimo e viene fermato solo chi smette di frequentare. Curiosità: gli studenti promossi ricevono 150 euro provenienti alla dotazione economica del carcere”. Piacenza. Studenti e docenti in carcere per raccogliere le richieste dei detenuti ilpiacenza.it, 27 ottobre 2023 Presentato in Cattolica lo Sportello Giuridico, esperienza di clinica legale per gli studenti della laurea magistrale in Giurisprudenza, in collaborazione con il carcere. Si concretizza in questo passare “dal diritto dei libri alla vita reale, ai problemi delle persone” lo sportello giuridico che sarà attivato nella Casa Circondariale di Piacenza, grazie alla collaborazione con la facoltà di Giurisprudenza ed Economia del campus di Piacenza e il Centro di ricerca interuniversitario su carcere, devianza, marginalità e governo delle migrazioni. Presentato durante la tavola rotonda che ha visto, dopo i saluti della preside della facoltà di Economia e Giurisprudenza Anna Maria Fellegara, di Marco Allena, presidente del Consiglio di corso di laurea magistrale in Giurisprudenza, Doppia Laurea Diritto ed Economia, gli interventi della direttrice della Casa Circondariale di Piacenza Maria Gabriella Lusi, di Emilio Santoro, Direttore de L’altro diritto. Centro di ricerca interuniversitario su carcere, devianza, marginalità e governo delle migrazioni, del Comandante di Reparto presso la Casa Circondariale di Piacenza Maria Teresa Filippone e di Mariarosa Ponginebbi, Garante dei Detenuti presso la Casa Circondariale di Piacenza, oltre che dei docenti sostenitori del progetto Roberta Casiraghi e Francesco Centonze. “Lo sportello consta di due fasi strettamente collegate. In prima battuta, dopo un periodo di formazione in aula, in cui interverranno anche professionisti esterni e magistrati, gli studenti, sempre accompagnati dai docenti, si recheranno nell’istituto penitenziario per raccogliere le richieste dei detenuti” ha spiegato la Docente di Procedura penale professoressa Roberta Casiraghi. “Successivamente ci si confronterà sulle questioni sollevate, per discutere le buone pratiche che possono essere adottate. Ovviamente in questa seconda fase è necessario fare delle ricerche normative e giurisprudenziali, per arrivare a preparare le istanze e per rispondere nel modo più appropriato possibile alle richieste dei detenuti”. “A trarne vantaggio saranno i detenuti, che potranno usufruire dei consigli e dei suggerimenti dei nostri studenti, guidati ovviamente dai loro professori. Però, forse, l’utilità maggiore sarà proprio per noi, per i nostri studenti” ha sottolineato il professor Marco Allena, convinto che “l’esperienza dell’ingresso in carcere e della relazione con chi vive quella realtà, il prendersi cura concretamente e l’agire per migliorare le condizioni di vita degli altri sarà un valore aggiunto per i nostri studenti che siamo davvero orgogliosi di poter offrire”.” “È importante - ha precisato il professor Francesco Centonze - che l’Università Cattolica dia un messaggio di natura culturale e sociale: la realtà carceraria, che sembra così lontana e per taluno anche ‘fastidiosa’, deve essere vista e conosciuta. Costituiremo un ‘pontè rispetto a esigenze che saranno manifestate da alcuni detenuti, in particolare da coloro che non hanno la possibilità di avere frequenti incontri con gli avvocati”. Il progetto nasce nella cornice di quanto promosso dal Centro di ricerca interuniversitario su carcere, devianza, marginalità e governo delle migrazioni che, come ha ricordato il suo direttore Emilio Santoro, sostiene le cliniche legali come strumento per passare dal diritto dei libri al diritto in azione. “In carcere ci sono i socialmente abbandonati. Questa era l’etichetta che usava Sandro Margara, uno dei grandi magistrati di sorveglianza di questo Paese. Beh, se prendete questa etichetta la differenza tra doing e caring è evidente. Learning by caring vuol dire imparare dai bisogni delle persone - ha detto Santoro ai ragazzi -. E allora scoprirete che il diritto è un modo di fare le cose con le parole. Scoprirete che la vostra abilità giuridica serve per rendere reali le possibilità di essere persone in carcere e per rendere reali i diritti dei detenuti”. La centralità della persona è un tema su cui si è soffermata anche la direttrice del carcere di Piacenza “attiviamo tutti gli sforzi possibili affinché la persona riscopra in sé delle risorse su cui investire nel dopo pena” ha detto Maria Gabriella Lusi. E se è vero che “il carcere, come diciamo in gergo, lo fanno i detenuti, è vero anche che il carcere lo fa il territorio su cui ricade. Io credo che con questo progetto si dia un esempio importante di collaborazione interistituzionale, concretamente orientata al benessere del nostro territorio e della nostra società, attraverso un fil rouge che è l’attenzione alla persona”. Avellino. Resta chiuso il reparto per i detenuti dell’ospedale Moscati di Antonello Plati Il Mattino, 27 ottobre 2023 Il reparto c’è ma resta chiuso. Il segretario regionale e il consigliere nazionale dell’Osapp (Organizzazione sindacale autonoma polizia penitenziaria), Vincenzo Palmieri ed Emilio Fattorello, scrivono al governatore della Campania Vincenzo De Luca per chiedere l’apertura della struttura detentiva presso l’Azienda ospedaliera Moscati di Avellino. Il reparto c’è, è stato istituito nel 2017, ma resta chiuso con tutti i rischi connessi ai ricoveri (che sono pure frequenti) dei detenuti presso la città ospedaliera di Avellino. Di qui, la richiesta dei sindacalisti, che per la seconda volta in pochi mesi hanno sollecitato un intervento da parte delle istituzioni. “Corre l’obbligo - scrivono nella missiva indirizzata a Palazzo Santa Lucia - di segnalare la necessità non più procrastinabile, di aprire in maniera funzionale il Repartino detentivo, di Medicina Protetta, già esistente dal 2017 presso l’Azienda ospedaliera Moscati di Avellino, come già richiesto dalla nostra organizzazione lo scorso 8 gennaio”. Per completezza d’informazione questa nota fu indirizzata al prefetto di Avellino Paola Spena, e al direttore generale dell’Asl di Avellino Mario Nicola Ferrante, oltre che al direttore generale dell’Azienda ospedaliera Moscati Renato Pizzuti e al provveditore dell’amministrazione penitenziaria Lucia Castellano. “Adesso - proseguono Palmieri e Fattorello - senza voler tralasciare gli ingenti costi sostenuti per la progettualità e la realizzazione del reparto detentivo ospedaliero, fino ad oggi, risulta ancora non utilizzato quindi non operativo. La mancata apertura di questa struttura detentiva, che si trova al quarto piano (nel cosiddetto lato blu) della struttura di Contrada Amoretta, obbliga ancora il personale della polizia penitenziaria, già in carenza di organico, ad operare con livelli minimi di sicurezza nei delicati servizi di piantonamento che avvengono nelle diverse corsie ospedaliere”. Basti pensare alle numerose evasioni che statisticamente sono avvenute in maniera esponenziale proprio dai reparti ospedalieri in campo nazionale: “Si ricorda uno per tutti il recente drammatico episodio avvenuto presso l’Ospedale San Paolo di Milano il 21 settembre scorso che ha visto precipitare dal secondo piano un assistente capo di polizia penitenziaria nel tentativo di impedire un’evasione di un detenuto che era ricoverato lì”. L’Osapp, nel ribadire quanto riportato nella precedente nota circa la necessità di tutelare e garantire l’ordine e sicurezza all’interno delle strutture ospedaliere e nei luoghi di accesso pubblico nonché di degenza dei cittadini, “diffida le autorità in indirizzo ad un doveroso e legittimo intervento. Il 17 luglio del 2017 - ricordano i sindacalisti - con la delibera numero 602 del direttore generale dell’Azienda ospedaliera Moscati, veniva emessa l’ordinanza di istituzione del Repartino detentivo, richiamando la giusta applicazione dell’articolo 7 della legge numero 296 del 1993. La presente vale come diffida ad adempiere per ripristinare un dovuto pubblico ed essenziale servizio interrotto ormai da troppi anni a discapito della collettività anche sotto l’aspetto dell’ordine pubblico”. In considerazione della mancanza di risposte da parte delle autorità competenti, l’Osapp “si riserva di adire alle autorità giudiziarie competenti per il territorio”. Pavia. Rivolta in carcere durante la pandemia, 97 detenuti davanti al giudice di Maria Fiore La Provincia Pavese, 27 ottobre 2023 Per devastazione e saccheggio gli imputati rischiano fino a 15 anni. La difesa: “Accusa ingiusta”. “Mi sono fatto 18 ore in auto, dalla Romania, per partecipare al processo. Se mi sarà permesso di parlare vorrò dire la mia: ho pagato in passato per i miei errori, ma questa accusa non è giusta e non voglio pagare anche per quello che è successo quella sera”. La sera a cui fa riferimento Peter David Dimitru, ex detenuto di Torre del Gallo, è quella del 20 marzo 2020, quando scoppiò in carcere una rivolta dei reclusi. Protestavano contro le condizioni di sovraffollamento, che avevano aggravato la diffusione della pandemia Covid, e la limitazione dei colloqui con i familiari decisa come misura preventiva. Ieri mattina per 97 di loro si è aperta l’udienza preliminare in cui sono imputati per devastazione e saccheggio, un reato che prevede da 8 a 15 anni di carcere. Per contenere tutti, l’udienza, davanti al giudice Guglielmo Leo, si è svolta alla sala dell’Annunciata, in una piazza Petrarca blindata, chiusa al transito e alla sosta delle automobili. Le transenne sono state posizionate all’ingresso della piazza da viale Matteotti ma anche davanti all’Annunciata, dove alcune bancarelle non hanno potuto posizionarsi come al solito nella giornata di mercato e sono state collocate in un’altra zona della piazza. Disagi anche per i furgoni del carico e scarico dei negozi, che hanno dovuto trovare percorsi alternativi. Diversi agenti di polizia e carabinieri hanno svolto il servizio di ordine, controllando l’accesso alla sala, dove l’udienza si è svolta a porte chiuse. Nell’aula si sono raccolte, a partire delle 10, circa 200 persone, tra imputati, avvocati e agenti di polizia penitenziaria. Una trentina i detenuti che hanno voluto partecipare: arrivavano da Pavia ma anche da altre carceri (Monza e Alessandria in particolare) dove erano stati trasferiti dopo la rivolta. Una decina di imputati invece hanno partecipato in stato di libertà, perché nel frattempo hanno scontato le loro pene. Tre imputati sono risultati irreperibili: per loro, da tempo scarcerati, non è stato possibile risalire all’attuale domicilio. Detenuti e familiari - Fuori dall’aula, in attesa, anche alcuni familiari di detenuti ed ex reclusi. Come Antonietta, che parlando del fratello non ha dubbi: “Un pezzo di pane, lo hanno messo in mezzo e ora che ha finito di scontare la sua pena rischia una condanna. Non è giusto. Non mi fanno entrare in aula, ma resto qui fino alla fine”. Fuori dalla sala, in attesa che cominci l’udienza, ci sono diversi imputati. “A momenti quella sera moriamo e qui ci vogliono processare”, dice un giovane. Ha i jeans strappati e sulla testa un tatuaggio con la scritta “Viva la libertà”. “Quella sera ho fatto da paciere, il magistrato che era sul posto mi chiese di intervenire con i miei compagni, per convincerli a scendere dal tetto - racconta -. Ma sul tetto eravamo andati perché c’era tanto fumo, non si respirava. Ho aiutato anche un agente che stava male. Noi volevamo solo parlare delle difficoltà che si vivevano in carcere e che si erano aggravate con il Covid, la situazione era difficile. Vogliono condannarci per questo”? “Cambiate l’accusa” - L’udienza è durata alcune ore, ma c’è stato di fatto solo il tempo di fare l’appello degli imputati e raccogliere le eccezioni degli avvocati sulle notifiche degli atti. C’erano, in aula, una sessantina di legali (tra loro gli avvocati Francesco e Pierluigi Vittadini, che difendono una trentina di detenuti, gli avvocati Luca Angeleri, Francesca Timi, Francesca Quarto, Fabio Bruni, Maria Teresa Vitali, Fabrizio Aronica, Elena Callegari, Antonio Savio, Antonio Mariotti e Francesco Catania). Alcuni di loro hanno depositato memorie in cui chiedono la modifica del capo di accusa contestato dalla pm Chiara Giuiusa, da devastazione a saccheggio in danneggiamento. Se l’istanza sarà accolta molti imputati potrebbero decidere di ricorrere a riti alternativi. Il processo è stato rinviato al 23 novembre. “Da vittima passo a imputato: quella sera ci furono abusi” - “Quella sera abbiamo visto la morte con gli occhi: siamo rimasti chiusi nelle celle mentre la struttura era piena di fumo per gli incendi. Le guardie quella sera hanno perso il controllo della situazione perché erano poche. Si è scatenato il panico”. Enzo Finizio si trovava a Torre del Gallo a marzo del 2020. “Ero lì da settembre - racconta -. Quella sera la situazione è sfuggita di mano. Si protestava perché c’erano diversi problemi in carcere. Qualcuno avrà anche sbagliato ma non si può trattare quella rivolta come una devastazione da parte di quasi cento detenuti”. Finizio, peraltro, si trova imputato ma anche parte offesa nell’altro filone di inchiesta, ancora in corso per alcune posizioni, che riguarda i presunti pestaggi da parte degli agenti di polizia penitenziaria. Per sette di loro il magistrato Valeria Biscottini ha chiesto l’archiviazione, ma un altro filone è ancora in corso. “Ho subito un’aggressione in prima persona - denuncia Finizio -. Andrò avanti finché potrò, per denunciare quello che è accaduto. Bisogna capire che nel carcere ci sono persone, che anche se hanno fatto degli errori non possono pagare anche per altro. Sono vite umane”. Sull’accusa di devastazione e saccheggio Finizio aggiunge: “Esagerata, c’è stato qualche danneggiamento ma la struttura presentava già parecchi problemi, che erano sotto gli occhi di tutti”. Verona. Tolta la divisa a dodici agenti: “Coprirono le torture dei colleghi” di Laura Tedesco Corriere del Veneto, 27 ottobre 2023 Sospesi dal servizio per un anno. Il giudice: “Rischio di reiterazione di altri reati”. Niente stop invece per 5 colleghi. Il sindacato: “Sono tutti presunti innocenti”. Insulti, pestaggi. Botte, umiliazioni. E poi tante, troppe “coperture”. Illegalità viste ma taciute. Silenzi, teste voltate dall’altra parte. Verbali “aggiustati”, “soffiate” ai colleghi. Diventando così complici dei poliziotti violenti: li avrebbero visti “tradire la funzione e la divisa”, eppure non avrebbero alzato un dito per fermarli. Il 6 giugno scorso, cinque agenti delle Volanti di Verona vennero posti ai domiciliari dai colleghi della Squadra Mobile scaligera con accuse gravissime, compresa quella di tortura. Adesso, a 4 mesi e mezzo dalla retata-choc che travolse e sconvolse la Questura veronese gettandola nella bufera mediatica e politica, lo stesso giudice delle indagini preliminari Livia Magri sospende dal servizio altri dodici poliziotti. Per un anno non potranno indossare la divisa: provvedimento interdittivo che i pm Carlo Boranga e Chiara Bisso della Procura di Verona avevano in realtà chiesto per 17 agenti della Questura scaligera. Il giudice: tradita la divisa - “È innegabile che tutti gli indagati, come già osservato anche nell’ambito dell’ordinanza cautelare coercitiva emessa lo scorso mese di giugno nei confronti di Alessandro Migliore, Loris Colpini, Filippo Failla Rifici, Federico Tomaselli, Roberto Da Rold (i 5 arrestati a giugno, ndr) abbiano tradito la propria funzione - scrive il gip nella mega ordinanza emessa nelle scorse ore -, comprimendo i diritti e le libertà di soggetti sottoposti alla loro autorità offendendone la stessa dignità di persone, creando essi stessi disordine e compromettendo la pubblica sicurezza, commettendo reati piuttosto che prevenirli, in ciò evidentemente approfittando della qualifica ricoperta, anche compiendo falsi ideologici in atti pubblici fidefacenti con preoccupante disinvoltura”. Toni pesantissimi quelli usati dalla gip Magri a sostegno delle nuove misure cautelari appena scattate: “È evidente - sostiene il magistrato - come l’abuso dei poteri connessi alla funzione o al servizio non soltanto abbia consentito agli indagati di cogliere più facilmente le opportunità di commissione di illeciti, ma abbia altresì costituito una sorta di “paravento” al riparo del quale schermare le proprie responsabilità”. Potrebbero ripetere i reati - Secondo il gip, la sospensione dei 12 agenti dal servizio è necessaria: “È assolutamente indispensabile un intervento cautelare al fine di contenere il pericolo di reiterazione criminosa, potendosi confidare nell’astensione dalla commissione di ulteriori reati una volta precluso lo svolgimento del servizio in seno alla Polizia di Stato”. A parere del giudice, se non fossero sospesi, i 12 agenti potrebbero violare nuovamente il codice penale: “Purtroppo - spiega - si deve prendere atto che, in linea con la valutazione operata dal pm, la pluralità e la gravità dei reati contestati, anche offensivi di beni giuridici diversi, che non rappresentano certamente episodi isolati di violenza od occasionali illeciti, sono sintomatici dell’esplicazione di un vero e proprio modus operandi consolidato e condiviso da numerosi operanti all’interno dell’Ufficio Volanti della Questura”. Coperture e impunità - Nei dialoghi intercettati, “si fa esplicito riferimento alla prassi ampiamente diffusa tra gli operanti delle Volanti - sottolinea ulteriormente il gip - di percuotere i soggetti trattenuti presso gli uffici della Questura nei corridoi o nel cosiddetto “tunnel” in quanto luoghi privi di impianti di videosorveglianza”: il tutto, “potendo gli indagati giovarsi dell’adesione mostrata dai colleghi nel corso delle azioni delittuose, condizione che ha finora garantito loro assoluta impunità a fronte degli innumerevoli illeciti commessi”. Un “insano spirito di corpo emerso durante gli interrogatori, caratterizzati dal comune intento degli indagati di negare le proprie responsabilità anche in contrasto con palesi evidenze probatorie, e di coprire responsabilità altrui”. Accanimento sui deboli - Altra “amara considerazione è che i soprusi risultano aver coinvolto in misura pressoché esclusiva soggetti stranieri, senza fissa dimora, con gravi dipendenze da alcol e stupefacenti, soggetti particolarmente deboli”. Toni e motivazioni perentorie quelle addotte dal gip nella maxi ordinanza su cui già divampano le polemiche di legali e Sap, il cui segretario nazionale Stefano Paoloni dichiara: “Condividiamo la nota inviata dall’avvocato Rachele Selvaggia De Stefanis al Procuratore Capo di Verona Raffaele Tito e al Presidente del Tribunale Penale di Verona Raffaele Ferraro, poiché - protesta il Sindacato autonomo di Polizia - il diritto di non colpevolezza sino all’ultimo grado di giudizio deve essere garantito anche agli operatori delle forze dell’ordine e la divulgazione di notizie tra l’altro non ancora notificate agli interessati significa scrivere già nell’opinione pubblica una sentenza definitiva”. Livorno. Pianosa e Gorgona, un convegno sul lavoro dei detenuti di Roberto Ridi elbapress.it, 27 ottobre 2023 Con un convegno si concludono i 4 anni di attività di Milia, progetto della Regione Toscana nato per sperimentare modelli di inclusione lavorativa dei detenuti ristretti nel carcere di Gorgona e di quelli beneficiari del lavoro all’esterno (ex art. 21 OP) a Pianosa provenienti dalla Casa di reclusione di Porto Azzurro. Il convegno si terrà a Livorno presso la Camera di Commercio in piazza del Municipio venerdì 27 ottobre. Sarà non solo l’occasione per illustrare i risultati del progetto finanziato nell’ambito del Pon Inclusione con il contributo del Fondo Sociale Europeo 2014-2020, ma costituirà momento di confronto sullo sviluppo economico e l’attrattività turistico-naturalistica delle due isole dell’Arcipelago toscano, anche con il coinvolgimento delle persone detenute nelle strutture detentive. L’appuntamento, dal titolo “Pianosa e Gorgona: prospettive future tra inclusione socio-lavorativa, sviluppo economico e rurale e vocazione turistica e naturalistica”, è in programma dalle 9 del mattino. È suddiviso in alcune sessioni che vedranno la partecipazione della vicepresidente della Regione e assessora all’agricoltura Stefania Saccardi e dell’assessora a istruzione, formazione e lavoro Alessandra Nardini, della dirigente del Ministero della Giustizia Paola Giannarelli, del Provveditore regionale Amministrazione Penitenziaria Pierpaolo D’Andria, del Presidente dell’Ente Parco Nazionale Arcipelago Toscano Giampiero Sammuri, del Garante regionale dei diritti delle persone private della libertà Giuseppe Fanfani, del sindaco di Campo nell’Elba Davide Montauti, dell’assessore al lavoro del Comune di Livorno Gianfranco Simoncini, del direttore di Anci Toscana Simone Gheri. In apertura i saluti istituzionali dell’assessora Nardini a cui seguirà alle 10.30 la tavola rotonda “Il progetto MILIA in Toscana Politiche attive e formazione: un modello per l’inclusione socio-lavorativa di detenuti ed ex detenuti”. Contemporaneamente prenderà il via un altro incontro, “Sistema Isole: esperienze e progetti a confronto”. Stefania Aru della Regione Sardegna porterà l’esperienza fatta nelle colonie penali agricole in Sardegna, dove l’inserimento socio-lavorativo ha conosciuto anche dimensione aziendale. Alle 12, tavola rotonda di chiusura sulle “Prospettive e governance per lo sviluppo futuro delle due isole” a cui prenderà parte, tra gli altri, la vicepresidente Saccardi. Palermo. Nel carcere Pagliarelli inaugurata la prima stanza della meditazione di Ennio Battista Il Fatto Quotidiano, 27 ottobre 2023 “È il primo passo per approccio innovativo nell’ambito della giustizia”. Ci vuole molta creatività nell’immaginare dentro un carcere - luogo per antonomasia sinonimo di spazi angusti, superaffollati e di sofferenze di vario tipo - una “stanza della meditazione”. Portare in cella il valore del silenzio, dell’introspezione, della liberazione della mente dai pensieri come rabbia e rancore. Utopia? Scherzo? Non per l’organizzazione di volontariato My Life Design, fondata da Daniel Lumera, biologo naturalista, esperto di scienze del benessere. Perché una vera stanza per meditare è stata inaugurata nella Casa Circondariale Pagliarelli “Antonio Lorusso” di Palermo. Dal 25 ottobre scorso, polizia penitenziaria, personale civile e detenuti possono meditare insieme in uno spazio specificatamente dedicato alla cura del sé, del proprio ambiente interiore, dalla sfera emozionale alle proprie relazioni. L’associazione My Life Design ODV, tra le varie attività statutarie, porta progetti di giustizia consapevole nelle carceri del nostro Paese fin dal 2017. Insieme a Lumera, hanno partecipato all’inaugurazione la Direttrice dell’Istituto Maria Luisa Malato, le funzionarie giuridico-pedagogiche Rosalba Petruso e Simona Patelmo, la capo area trattamentale Rosaria Puleo, la responsabile dell’area Giustizia della My Life Design ODV Cristina Franchini, la referente regionale dell’associazione Francesca Macaddino e alcune delle detenute che parteciperanno all’intero percorso intensivo, per apprendere e poi trasmettere a loro volta pratiche e tecniche che mettono insieme antichi saperi e moderni riscontri scientifici. Fine di un tabù - Non è la prima volta che la meditazione entra in un carcere. Da alcuni anni viene esercitata in diverse strutture in Italia, ma la Casa Circondariale Pagliarelli è la prima ad aver dato vita a una vera e propria stanza dedicata, con tanto di cartello accanto alla porta che la riconosce come tale. La “Stanza della Meditazione” è un progetto che nasce dall’impegno dell’area Giustizia dell’associazione My Life Design ODV nel portare percorsi di educazione alla consapevolezza, alla responsabilità e alla libertà interiore rivolti alle persone detenute in vista del reintegro in società. Finora, nella sua attività l’associazione ha incontrato, solo in Italia, oltre un migliaio di persone recluse, in una quindicina di istituti penali. Un’occasione di trasformazione - L’esperienza della “Stanza della Meditazione” è un luogo dedicato nel quale sia le persone recluse sia il personale civile e di polizia penitenziaria possano concedersi uno spazio di silenzio. Inoltre, in questo luogo le persone detenute, che hanno scelto di intraprendere un percorso finalizzato alla pratica della meditazione, con il tempo avranno la possibilità di trasmettere questa pratica di benessere ai propri compagni. “Per me questo è stato un giorno speciale, nel quale ho realizzato un grande desiderio”, ha dichiarato Rosalba Petruso: “portare nel luogo di lavoro, fatto di grande sofferenza, una prospettiva nuova, un modo diverso di vivere la condizione detentiva, restituendo il suo significato più profondo di opportunità trasformativa ed evolutiva della persona. È una grande opportunità, di questo sono profondamente grata a Daniel Lumera, Cristina Franchini, Francesca Macaddino e tutta la My Life Design ODV”. La “terapia” del perdono - “Si tratta di un primo passo importante verso la diffusione di un approccio innovativo nell’ambito della giustizia”, ha commentato Lumera, “a beneficio di tutti coloro che abitano a vario titolo il carcere e della comunità intera. Il nostro intento è dimostrare, dati alla mano, l’efficacia di istituire spazi come la Stanza della Meditazione e percorsi di educazione a consapevolezza, responsabilità e libertà. Per questo collaboriamo con università e realtà che possano rilevarne scientificamente gli effetti”. Nei prossimi giorni, a supporto dell’avvio della “Stanza”, Lumera condurrà dialoghi quotidiani con i detenuti, il personale civile e di polizia penitenziaria della casa circondariale di Palermo. Questi incontri sono chiamati i “Dialoghi del Perdono”. L’obiettivo? Esplorare il valore del perdono come processo che migliora la qualità della vita sotto l’aspetto personale, relazionale e sociale. E che può essere applicato in ogni ambito. Il perdono, inteso proprio “per-dono”, spiega Lumera, appartiene alle abilità e virtù basilari di un nuovo modo di essere umani, è un allenamento neuronale del cervello che sviluppa capacità fondamentali nella sfera personale, relazionale e sociale, come trasformare i problemi in risorse, gestire i conflitti, sviluppare l’empatia matura e la cultura integrata della pace. Per chi pensa si stia parlando di concetti astratti, vale la pena ricordare che le più recenti ricerche scientifiche nell’ambito delle neuroscienze hanno rivelato le ricadute positive del perdono sul sistema circolatorio, immunitario e nervoso, consacrandolo come strumento fondamentale per la salute e la qualità della vita, oltre ai soli ambiti psicologico e spirituale; da qui è derivata una vera e propria “scienza del perdono” che sta avendo un impatto sociale ed educativo sempre maggiore in vari campi di attuazione. Milano. “InGalera”: la storia del ristorante nel carcere di Bollate diventa una serie podcast di Gaia Carluccio legnanonews.com, 27 ottobre 2023 Esce oggi il primo episodio della serie InGalera, realizzata da Officina del Podcast in collaborazione con la cooperativa ABC La Sapienza in tavola. Officina del Podcast ha ideato, scritto e prodotto la serie “InGalera”, 5 episodi che raccontano la storia di un esperimento unico al mondo: un ristorante gourmet, aperto alla società esterna, realizzato all’interno della seconda casa di reclusione di Bollate, alle porte di Milano. Il progetto “Ristorante InGalera” è nato nel 2015 da un’idea di ABC La Sapienza in tavola, cooperativa che, fin dal 2003, si è specializzata in servizi di catering gestiti con lavoratori detenuti ammessi alle misure alternative alla carcerazione. La cooperativa ad oggi ha dato lavoro a oltre 100 persone detenute, realizzato 1250 eventi di catering in esterna e dal 2015 ha accolto nel ristorante circa 100.000 clienti: InGalera è considerato a livello internazionale un ristorante unico nel suo genere. Tra i soci, oggi figura anche l’attuale chef, un detenuto che sta terminando di scontare la sua pena. La serie vede la collaborazione di Officina del Podcast con la cooperativa ABC La Sapienza in tavola, che gestisce il ristorante, e il sostegno di PwC Italia, uno dei partner che 8 anni fa hanno contribuito all’apertura di InGalera, proprio il 26 ottobre. “Vent’anni fa accettai la proposta ‘indecentè della direzione del carcere che mi portò a fondare la cooperativa ABC La Sapienza in tavola Catering- ha raccontato la presidente Silvia Polleri - così che nel 2015 fui io a formulare la mia proposta ‘indecentè alla direzione: “Mi permettereste di aprire un vero ristorante dentro il carcere, gestito da detenuti e aperto al pubblico? Il denominatore comune è sempre stato provare a guardare avanti, da pionieri e non da pirati. Parafrasando il titolo di un famosissimo film “Dove osano le aquile”: continueremo a volare”. A dare forza alla narrazione della serie, le voci di 5 detenuti, assunti regolarmente dalla cooperativa e impiegati al ristorante, il racconto dell’ideatrice e fondatrice del progetto, Silvia Polleri, e la presenza del personale dirigenziale ed educativo del penitenziario: tutto è a conferma del fatto che il modello Bollate (senza sbarre, finalizzato al pieno recupero delle persone condannate, come prevede la Costituzione) è possibile solo se un’intera comunità partecipa e corre nella stessa direzione. La voce narrante è della giornalista Tiziana Ferrario, che sostiene il progetto InGalera e ha prestato la sua voce. La serie audio, disponibile su tutte le piattaforme, prevede una calendarizzazione di uscite: In principio era un sogno (ep. 1, giovedì 26 ottobre); Al ristorante: lo Chef (ep. 2, giovedì 2 novembre); Brigata galeotta/1 (ep. 3, giovedì 2 novembre); Brigata galeotta/2 (ep. 4, giovedì 9 novembre); Oltre il muro (ep. 5, giovedì 9 novembre). È possibile ascoltare la serie InGalera collegandosi al link: https://spotify.link/qJgx9CSUcEb Link all’episodio 1: Spotify (https://shorturl.at/QT029); Spreaker (https://www.spreaker.com/show/ingalera) Tutte le serie di Officina del Podcast si trovano qui: linktr.ee/officinapodcas Lessico e genealogia del disprezzo di Enrica Morlicchio Il Manifesto, 27 ottobre 2023 A proposito del volume “L’odio dei poveri”, di Roberto Ciccarelli, da oggi in libreria per Ponte alle Grazie. Definiti “parassiti sociali”, “scrocconi” e “furbetti”, questa fobia è stata sostenuta anche mediaticamente. Citate due esperienze: a New York nel 1995 contro l’introduzione dell’obbligo di accettare lavori non dignitosi. Nel 1998 in Francia, contro la soppressione dei trasferimenti sociali “L’odio dei poveri” di Roberto Ciccarelli, appena pubblicato dalla casa editrice Ponte alle Grazie (pp. 320, euro 18), prende spunto dall’analisi delle ragioni profonde che hanno riattualizzato i sentimenti negativi verso i poveri, se non apertamente violenti, e sviluppa una vera e propria riflessione filosofica sulla povertà della quale si avvertiva molto la mancanza. Il libro è organizzato grosso modo in tre blocchi. Nel primo l’autore parte da un “lavoro genealogico” relativo alle parole entrate nel lessico corrente, ne smaschera l’uso “opportunistico e cinico” che si nasconde dietro ai tecnicismi e infine ricostruisce in maniera puntuale i momenti attraverso i quali è stata elaborata l’equazione “povero=criminale”. Ad esempio, l’autore spiega come “Prima si crea la fobia contro i “parassiti sociali”, gli “scrocconi” (scrounger phobia); poi si inventa il caso negativo di un personaggio (le welfare queens negli Stati Uniti; i “furbetti”, i “divanisti”, il “metadone di Stato” e altri nomignoli dell’odio adottati in Italia); in seguito si prepara il campo ideologico delle “riforme che riformano le riforme” e hanno l’obiettivo di perseguire le frodi e gli abusi; allo stesso tempo, crescono le campagne mediatiche pervasive attraverso le quali si impone la gestione dei problemi sociali dal punto di vista giustizialista; infine si legittima la morale dell’imprenditore: ce la fa chi si dà da fare, chi non lo fa è responsabile del proprio fallimento”. Per Ciccarelli questa discesa all’inferno del povero è affiancata da campagne di stampa che hanno agito da “definitori secondari” nella rappresentazione “regressiva e reazionaria” dei poveri e dalla complicità del mondo delle “discipline accademiche in cui fanno carriera gli “esperti”“ che considerano i poveri alla stregua di “pacchetti di voti” da spostare da un partito all’altro, consumatori incapaci di compiere scelte razionali o lavoratori con scarse capacità di adattamento: in ogni caso comunque soggetti mancanti di qualcosa. Una critica che ha un suo fondamento se si pensa alle ignobili campagne di stampa che hanno sbattuto in prima pagina titoli del tipo “un esercito di accattoni si avventa sul sussidio”. A metà del libro, e questo è il secondo blocco di cui si accennava, Ciccarelli sposta il suo centro di interesse dal governo dei poveri a quello della formazione e dell’occupazione sviluppando una critica serrata e originale alle politiche di Workfare. Affrontando il tema della riattualizzazione della categoria del “povero abile al lavoro” (in quanto tale “non meritevole” di alcun sostegno pubblico e, anzi, oggetto di condanna morale), l’autore ricorda giustamente come la parola “occupabile” con la quale oggi lo si definisce deriva dall’inglese employability (occupabilità), termine che è stato utilizzato dall’Ocse negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso per indicare il tempo di attesa in vista del conseguimento di una possibile occupazione. L’occupabilità dunque non era considerata come un attributo del soggetto ma semmai della fluidità del mercato del lavoro al cui interno, nota Ciccarelli, il lavoratore doveva “nel vero senso della parola allenarsi”. Nel clima di odio verso i poveri che Ciccarelli ha ricostruito in modo puntuale nella prima parte del libro, la nozione di occupabilità diventa lo strumento per valutare l’adattabilità del povero in età da lavoro a una domanda che non offre occasioni reali di uscita dalla sua condizione spingendolo a scambiare “la propria libertà con una disciplina reputata necessaria per raggiungere un lavoro che non c’è”. Ma, e qui è un punto importante, in questo scambio il povero non è del tutto un soggetto passivo. Ciccarelli ricorda due esperienze di resistenza molto simili a quelle analizzate da Cloward e Piven nell’ormai classico Poor Peoplès Movements nell’ambito delle quali i poveri hanno preso la parola smentendo la previsione di Ruth Lister secondo la quale “proud to be poor” (“orgogliosi di essere poveri”) non è esattamente lo striscione dietro al quale molti marcerebbero. La prima riguarda la protesta dei beneficiari di un sussidio di povertà avvenuta a New York nel 1995 contro l’introduzione dell’obbligo di accettare lavori non dignitosi. “Quello americano - scrive Ciccarelli - è stato un caso importante di auto-organizzazione e di sindacalizzazione realizzato non più su base professionale, né di classe, ma sociale. Ciò ha permesso di acquisire nuovi strumenti: la lotta contro la povertà si è saldata con quella contro la stigmatizzazione, mentre la critica al Workfare spietato è stata congiunta con quella per l’affermazione dei diritti fondamentali della persona”. L’altra esperienza citata nel libro è la mobilitazione avvenuta in Francia nel 1998 contro la soppressione dei trasferimenti sociali in alcuni dei dipartimenti più svantaggiati sulla base di criteri di valutazione puramente di ordine morale. Entrambi questi esempi ci conducono direttamente alla domanda che attraversa la terza parte del volume: come contrastare la “tragica rassegnazione” che pervade i nostri tempi? Per rispondere a questa domanda Ciccarelli lancia il cuore oltre l’ostacolo e passa in rassegna diverse proposte innovative ma dotate di praticabilità, molto vicine all’idea di “utopie reali” di Erik Olin Wright, che un tempo si sarebbero dette riformiste e che oggi vengono considerate radicali: dal reddito di base, del quale l’autore è da tempo sostenitore, alla riduzione dell’orario di lavoro; dalla riduzione della polarizzazione tra famiglie povere di lavoro e famiglie ricche di lavoro (e per questo anche povere e ricche in senso più ampio) alla educazione alla solidarietà e alla cura degli altri contro l’ideologia individualista e del merito neo-liberista; fino a giungere ad una politica dei beni comuni e di coordinamento delle politiche sociali con le politiche macroeconomiche. Nessuna di queste proposte presa singolarmente sarebbe sufficiente per risolvere il problema della povertà e contenere l’odio verso i poveri che ne è al contempo causa ed effetto, ma nel loro insieme esse contribuiscono a disegnare un programma politico volto a contrastare i processi di immunizzazione, condanna morale e reificazione di cui i poveri sono oggetto e a rafforzare le condizioni affinché possano esercitare il loro diritto di “voce” ad esempio attraverso la sperimentazione di forme inedite di rappresentanza e autorganizzazione. E con ciò siamo giunti alla conclusione del libro che è un richiamo all’urgenza dell’azione politica e sociale in luogo del ripiegamento individualista e della lotta di fazioni di poveri contro altre fazioni: “La domanda di giustizia sociale e di riconoscimento della umanità dell’altro è collettiva, il problema è storico. Non c’è un’ora X per iniziare a praticare un progetto di vita, non una vita a progetto”. I poveri non possono più attendere. “Sei milioni di poveri? Uno scandalo”. Il grido del cardinale Zuppi di Paolo Viana Avvenire, 27 ottobre 2023 Le parole del presidente della Cei alla quarantesima assemblea dei Comuni italiani: “C’è tanta sofferenza”. L’appello alla politica perché dia risposte “di sistema”. Il cardinale si presenta a Genova con gli arnesi del sarto. Impegnato a rammendare la pace, ma anche un’emergenza sociale che scandalizza. “C’è tanta sofferenza - dice - e i sei milioni di italiani che vivono in povertà sono una cosa che ci deve scandalizzare. Spessissimo chi vive la sofferenza più diretta sono i Comuni e la Chiesa”. L’intervento dell’arcivescovo di Bologna alla quarantesima assemblea dei Comuni italiani è il riconoscimento di un ruolo alle autonomie e di un’alleanza con la Chiesa. Danilo Moriero, che lo intervista sul palco per l’Anci, insiste più volte su cosa si possa “fare insieme” e il porporato gli risponde valorizzando l’assistenza quotidiana che amministrazioni e parrocchie prestano alle categorie più deboli, dai migranti ai disabili. Il ragionamento di Zuppi muove da una constatazione politica: nei Comuni si respira “aria civica e aria civile”, mentre “la polarizzazione fa sempre dimenticare l’insieme: spesso dimentica anche la storia, o ne prende solo un pezzetto, o la ideologizza e questo diventa ancora più complicato”. Non pare una critica al governo, che in effetti si presenta a Genova con l’annuncio che nella legge di bilancio “non ci sono tagli sulla disabilità. C’è semplicemente uno slittamento delle risorse per permettere di averne di più nel momento in cui la legge entrerà davvero in vigore, cioè a partire dal primo gennaio del 2025 e poi progressivamente implementata tra il 2026 e il 2027” come assicura il ministro Alessandra Locatelli. La quale promette anche una drastica semplificazione per le invalidità con i decreti attuativi della legge delega sulla disabilità e sul “Progetto di vita”. Già dal 2024. Anche questi sono rammendi, dopo un anno che il Governo e i Comuni hanno trascorso a duellare su tagli e revisioni del Pnrr. “Come insegna il Papa - ricorda Zuppi ai sindaci -, la priorità è rammendare, proprio perché la guerra non è solo quando scoppia”. Il cardinale riconosce agli enti locali un ruolo importante - “l’incontro di oggi serve anche a ringraziarli per il loro senso civico che mette al centro la persona” - e spezza una bella lancia per loro - “se avessero un po’ di contributi e aiuti da parte dello Stato potrebbero fare un po’ di più nel sostegno alle fragilità. Altrimenti sono lasciati soli” - ma sembra altrettanto preoccupato di propiziare un nuovo clima nel mondo politico, sulla spinta delle emergenze. Infatti, esorta i sindaci, pur nelle differenze di partito, a “gareggiare nel bene” e ad evitare, appunto, quella “polarizzazione che ci fa dimenticare i problemi reali e ci rende surreali”. Si sofferma sui meccanismi dell’accoglienza, sulle “comprensibili paure” e sulla capacità di molte comunità di “adottare gli stranieri, perché spesso sono ragazzi che non aspettano altro”. Avverte che “il problema immigrazione non può più essere governato come un’emergenza” e che sui minori non accompagnati “c’è bisogno di sistema”. Si spinge a dire che “noi Chiesa facciamo ancora troppo poco”. Tuttavia, il sarto non sa capacitarsi dello squarcio aperto dalla povertà. Non a caso usa la parola “scandalo” e cambia tono, ogni volta che affronta l’argomento. Lo squarcio diventa più profondo se si sommano povertà e solitudine. Il cardinale chiede risposte “di sistema” alla politica, se davvero si vuole portare il Paese fuori dal buio: “Bisogna esser consapevoli che la solitudine fa male. L’io ha bisogno del noi. Al di là delle proprie convinzioni e fede una dimensione verticale ce l’abbiamo tutti. I sindaci sono quelli che lo capiscono di più perché ci si confrontano continuamente; ora, il problema è come costruire una rete nelle grandi città e come difenderla nelle aree interne, evitando lo spopolamento”. Ma che siano grandi città o piccoli paesi, le risposte, sottolinea più volte, debbono essere “di sistema”. Ed allora ecco che per malati e anziani il porporato difende l’assistenza domiciliare, con la quale “cambia tutto. Io preferisco starmene a casa negli ultimi giorni, preferisco che ci sia qualcuno che mi aiuti, e paradossalmente, con questa forma di assistenza, faccio anche risparmiare la struttura pubblica che evita che i pronti soccorsi siano pieni. Questo è un problema di sistema”. Zamagni: la Legge di Bilancio? Non basta tagliare le tasse, serve una Borsa per il sociale di Paolo Foschini Corriere della Sera, 27 ottobre 2023 L’economista invoca tre interventi strutturali per il Terzo settore, prima di tutto la co-programmazione: “Ripristinare esenzioni e giustizia fiscale è necessario, ma conta di più il lungo termine”. “Certo che il fisco è importante, che discorsi. Anche per il Terzo settore, figuriamoci. Ma non è tutto. E non è la cosa più importante”. Naturalmente anche il professor Stefano Zamagni, padre internazionale dell’economia sociale, sta seguendo il dibattito in corso sulla Legge di Bilancio. “Che essendo fatta un anno per l’altro - spiega il prof - è pensata sul breve periodo. Ma è sul medio e lungo termine che il Terzo settore deve invocare le cose importanti. Con leggi ordinarie, non con quella di Bilancio. E sono tre: co-programmazione, rivoluzione culturale, Borsa sociale”. Scusi, ripartiamo: il fisco... “Ci mancherebbe, lo so che per una bella fetta del non profit è un tema caldo. La cessazione della qualifica di onlus prevista con la riforma del 2017 ha lasciato in un limbo tante organizzazioni che poi non si sono iscritte al Runts, il Registro unico del Terzo settore, facendo perdere loro le agevolazioni fiscali di prima. Va detto che per chi invece si è iscritto i vantaggi attuali sono superiori a quelli precedenti. E va detto anche, per carità, che la non iscrizione di molti è dovuta alla oggettiva difficoltà della burocrazia necessaria: una semplificazione delle procedure sarebbe già un formidabile passo avanti”. Tutto qui? “Ma no, ovviamente c’è il nodo con l’Europa che in sostanza dice da tempo: se voi italiani tagliate le tasse al non profit aprite la porta a una possibile concorrenza sleale verso il profit. Teoria con un pezzo di verità, sulla carta, ma non tiene conto della realtà italiana. Mi risulta però che il paziente lavoro di “spiegazione” da parte dei nostri sherpa nei confronti dei funzionari di Bruxelles stia andando avanti da molto tempo e potremmo essere vicini a una comprensione. Lo spero. Detto questo - e ripeto: tutto molto importante - c’è il resto. Che ha una importanza maggiore. Perché è sul medio-lungo termine che si giocano le partite vere”. Qual è la prima? “L’ho già detto altre volte, lo ridico: la traduzione in legge, da parte di Governo e Parlamento, dell’ormai famosa sentenza 131/2020 della Corte Costituzionale sul coinvolgimento del Terzo settore nella co-progettazione e co-programmazione delle politiche sociali in Italia. Perché le tasse sono importanti, ma sono spiccioli rispetto al fatto che il Terzo settore deve - ripeto: non ho detto può, ho detto deve, in osservanza ai principi della Costituzione richiamati anche di recente dal presidente Mattarella - potersi sedere ai tavoli con regioni, amministrazioni, governi, non semplicemente come “prestatore di servizi” ma per “partecipare alla decisione” sulle cose da fare e sul come farle”. Parentesi: ma perché questa cosa si continua a dire e non si fa? Per inettitudine? “Ma va là. È perché lo Stato e il mercato non vogliono accettare il passaggio dal modello bipolare in cui ci sono solo loro, Stato e mercato, a quello tripolare con dentro la società civile. Il Terzo settore però deve pretenderlo”. Ok. Poi la cultura, diceva... “Sì. Quello è uno scandalo tutto italiano. Possibile che un Paese col Terzo settore più imponente d’Europa in rapporto alla popolazione abbia un sistema universitario in cui il non profit è ignorato dalle facoltà di Economia? Bologna fa eccezione perché lì, quando ero preside, il corso di laurea in Economia sociale ce l’ho messo io 23 anni fa. Ma serve una legge per attivarlo in ogni Università con facoltà di Economia. Altrimenti quella sociale continuerà a essere considerata economia di serie B”. E invece la Borsa sociale? “Eh, altra cosa che invoco da undici anni. L’istituzione, in pratica, di una Piazza Affari del sociale. In cui chi vuole mettere dei soldi su un progetto possa farlo, acquisendo quote, con la libertà di rivenderle. Vorrei che qualcuno mi dicesse se esiste anche solo un motivo per non farla, questa cosa. Ma non c’è. Semplicemente son cose che a qualcuno dan fastidio. Ma prima o poi si faranno, perché come diceva Sant’Agostino la verità è come il leone: sa difendersi da sola”. No alla logica della guerra e della vendetta di Walter Massa* Il Manifesto, 27 ottobre 2023 Venerdì 27 ottobre in piazza. Dopo il dolore per le vittime israeliane di Hamas, non possiamo tacere l’angoscia e la solidarietà verso più di 2 milioni di uomini, donne e bambini asserragliati e affamati nella Striscia. L’adesione dell’Arci alla manifestazione indetta per oggi da Amnesty International Italia e dall’AOI (Ass. di cooperazione e solidarietà internazionale), di cui facciamo parte con la nostra Ong Arcs, è coerente con la nostra storia. E con i nostri valori e segue il lavoro internazionale che abbiamo portato avanti in questi anni. È inoltre una risposta ferma e decisa all’escalation di violenza in Israele e nei Territori palestinesi occupati. Dal primo giorno di questa immane ulteriore tragedia, completamente e colpevolmente dimenticata fino a qualche settimana fa, l’Arci si è mobilitata in tutta Italia. Senza infingimenti. Oggi, di fronte a migliaia di vittime civili e ad una situazione umanitaria drammatica torniamo in piazza per ribadire ancora una volta il rifiuto della logica della violenza e il rifiuto della logica della guerra come unica modalità per risolvere le controversie internazionali e le questioni territoriali. Questo valeva, e vale, per l’Ucraina, per il popolo curdo, per il Nagorno Karabakh e per tutte i conflitti che in questo momento stanno segnando il nostro mondo, nella logica della guerra a pezzetti come ricorda spesso Papa Francesco. E quella coerenza storica e quella coerenza valoriale che ci porta a dire che occorre fermare il massacro di civili inermi e innocenti, la prime vittime di ogni guerra. Il sentimento che abbiamo provato di solidarietà nei confronti di Israele, all’indomani dell’attacco del 7 ottobre da parte di Hamas, è un sentimento vero, un sentimento in cui ci siamo riconosciuti e ci riconosciamo. Ma oggi non possiamo tacere l’angoscia, il dolore e la solidarietà verso di quei quasi 2 milioni di cittadine e cittadini, uomini donne e bambini, chiusi, asserragliati e affamati nella Striscia di Gaza, che non possono diventare l’oggetto della vendetta di nessun paese, tanto meno se questo paese si richiama alle democrazie occidentali. Non è altrettanto pensabile che, come avvenuto per l’Ucraina, qualunque posizione che in questo paese, in Europa e nel mondo, mette in risalto gli errori o i tentativi di bypassare il diritto internazionale vengano strumentalmente relegati ad una solidarietà con il terrorismo. È una mistificazione impudente della realtà. L’idea che ancora oggi interi paesi nel mondo, a cominciare dalla Palestina per arrivare a Cuba, siano sotto embargo, iscritti in liste di proscrizione come paesi terroristi e che questo possa giustificare affamare, impoverire e distruggere comunità intere di uomini, donne e bambini è una cosa intollerabile. Ed è intollerabile sempre. La nostra Costituzione, nata proprio sulla base e sull’esperienza della seconda guerra mondiale, e il diritto internazionale non possono oggi diventare carta straccia in questo paese completamente fuori controllo dal punto di vista culturale, politico e sociale. Le reti pacifiste italiane ed europee stanno facendo appello al Consiglio di Sicurezza dell’ONU perché abbia il coraggio di assumersi la responsabilità che gli confidano centinaia di stati e dia seguito ai propri obblighi di garanzia del diritto internazionale chiedendo che cessino i combattimenti, l’assedio, le rappresaglie, lo spargimento di sangue e si affermi una tregua umanitaria, imponendo il rilascio dei prigionieri e degli ostaggi. Così come facciamo appello al governo, all’Unione europea e alla comunità internazionale di porre al centro dell’azione politica la vita delle popolazioni civili e di affrontare con urgenza la crisi umanitaria a Gaza e le violazioni dei diritti umani. Non abbiamo nessuna intenzione di schierarci da una parte o dall’altra, non è questo il tema oggi, o essere incasellati nelle liste dei tifosi di una parte o dell’altra. Noi pretendiamo che tutti i cittadini di questo mondo possano vivere in pace, in una loro terra, senza essere per questo catalogati in qualche organizzazione terroristica. E per questo continueremo a batterci, senza se e senza ma, ma soprattutto senza paura. *Presidente nazionale Arci Medio Oriente. L’Ue chiede “pause per esigenze umanitarie” e sostiene la conferenza per la pace di Emanuele Bonini La Stampa, 27 ottobre 2023 I leader riuniti a Bruxelles approvano le conclusioni sul conflitto arabo-israeliane. L’Unione europea chiede per Gaza “accesso umanitario senza ostacoli” alla popolazione civile di Gaza, “attraverso corridoi umanitari e pause per esigenze umanitarie” quali fornitura di viveri, acqua, cure mediche, riparo e carburante. È questa la formula su cui i capi di Stato e di governo dei Paesi dell’Ue, riuniti a Bruxelles, hanno convenuto per tentare di alleviare gli effetti del conflitto arabo-israeliano in Medio Oriente. I Ventisette leader si rivolgono anche a Israele e al suo esercito, per chiedere di “assicurare la protezione di tutti i civili, in ogni momento e nel rispetto dei diritto internazionale”. Questo perché l’Ue esprime “preoccupazione per il deterioramento della situazione umanitaria a Gaza” e nella striscia. Le conclusioni sul Medio Oriente come approvate e concordate dai leader dell’Ue confermano la condanna “nei termini più forti possibili” dell’attacco di Hamas contro Israele, riconoscono una volta di più il diritto dello Stato ebraico di difendersi ed esortano il rilascio immediato di tutti gli ostaggi senza precondizioni nelle mani di Hamas. Ma soprattutto si mette nero su bianco la disponibilità per rilanciare il processo di pace. L’Unione europea si dice “pronta a contribuire al rilancio di un processo politico sulla base della soluzione a due Stati”, recitano le conclusioni. In tal senso si dice favorevole e disponibile a sostenere “l’imminente svolgimento di una conferenza internazionale di pace”. In questo processo si pone l’accento sull’Autorità nazionale palestinese (Anp), citata come interlocutore da privilegiare per tentare una normalizzazione della situazione tra le parti e nella regione.