Tanti detenuti, pochi agenti, educatori, direttori e magistrati di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 26 ottobre 2023 Mentre il ministro della Giustizia Nordio continua a considerare l’ormai datata e difficile realizzazione del riutilizzo delle caserme militari dismesse per risolvere il problema carcerario, Rita Bernardini di Nessuno Tocchi Caino ha divulgato i dati rielaborati attraverso gli aggiornamenti del Dap, evidenziando uno scenario caotico nel sistema penitenziario italiano. Al 30 settembre del 2023, i dati rivelano un sistema sovraffollato con una capienza regolamentare di 51.285 posti e un sovraffollamento effettivo del 124%. Questo significa che ci sono 58.987 detenuti presenti, superando la capacità regolamentare di 7.702 posti. Non solo. Nonostante la crescente popolazione carceraria, il personale è insufficiente. Gli educatori, essenziali per la riabilitazione, erano ben al di sotto del necessario. Con soli 785 educatori assegnati per un totale di 58.987 detenuti, risultano 75 detenuti per ogni educatore. Problemi anche per quanto riguarda gli agenti penitenziari. Sulla carta risultano assegnati agli istituti 36.970, ma effettivi sono 31.704 A questo si aggiunge la carenza di direttori e personale amministrativo. Sempre dai dati rielaborati da Rita Bernardini di Nessuno Tocchi Caino, a fronte di 98 istituti sovraffollati su 189, ci sono 57 istituti che non hanno un direttore titolare e 15 carceri sono anche privi di direttore anche reggente. Altro dato è che 43 direttori gestiscono più di una struttura. Questa mancanza di supervisione e guida ha, di fatto, conseguenze gravi sulla sicurezza e sulla gestione delle carceri. Anche il personale amministrativo è sottodimensionato, con solo 3.196 membri assegnati su una pianta organica di 4.045. Non va bene nemmeno per quanto riguarda il numero dei magistrati di sorveglianza, fondamentali per le istanze dei detenuti. I dati elaborati attraverso il Consiglio superiore della magistratura, parlano chiaro. La pianta organica magistrati di sorveglianza è composta da 246 unità. I magistrati di sorveglianza effettivi sono 212. Pe quanto riguarda la pianta organica dei presidenti dei Tribunali di Sorveglianza sono 29. Quelli effettivi 28. Questi dati sottolineano una crisi umanitaria all’interno delle carceri italiane. Sovraffollamento, il deficit degli organici dei direttori, degli educatori, degli agenti di polizia penitenziaria, del personale amministrativo. Come evidenzia Nessuno Tocchi Caino il “sistema penitenziario” italiano non regge, soprattutto se si considerano le finalità costituzionali che sono quelle di una privazione della libertà che non degeneri in trattamenti contrari al senso di umanità e che persegua la finalità rieducativa e risocializzante del condannato. Inevitabile ricordare quando, nel corso della sua ultima presentazione annuale al Parlamento, il Garante Nazionale delle Persone Private della Libertà ha fornito un’analisi dettagliata della situazione carceraria in Italia. Ha sottolineato un aumento costante nel numero di individui detenuti per pene estremamente brevi: a giugno scorso, ma ora i dati sono aumentanti, risultano 1551 persone detenute per pene inferiori a un anno, mentre altre 2785 scontano pene tra uno e due anni. Questo fenomeno, ha evidenziato il Garante, mette in luce le gravi lacune del sistema carcerario italiano. Una delle principali criticità risiede nella mancanza di progetti di rieducazione per queste persone, in quanto il tempo necessario per valutarle supera spesso la durata effettiva della loro detenzione. Inoltre, queste brevi e frequenti esperienze di reclusione contribuiscono a una sorta di “serialità” che oscilla tra periodi di libertà e periodi di detenzione, aggravando ulteriormente la marginalità sociale degli individui coinvolti. Il Garante ha rilevato che la mancanza di accesso a misure alternative alla detenzione per queste pene così brevi è indicativa di una povertà sistemica. Questa povertà si manifesta non solo a livello sociale e legale ma anche in termini materiali, con la mancanza di alloggi adeguati che spesso impedisce l’assegnazione di tali misure a individui che ne hanno bisogno. L’analisi del Garante ha evidenziato che la presenza di queste persone in carcere solleva interrogativi profondi sul tessuto sociale italiano. Queste vite sono caratterizzate da una marginalità che avrebbe dovuto ricevere risposte diverse dalla società, al fine di ridurre il rischio di commettere reati. Ha sottolineato che il diritto penale e, in particolare, la privazione della libertà dovrebbero essere considerati come misure estreme, attuabili solo quando altre forme di supporto e riduzione dei conflitti nella collettività hanno fallito. Il Garante ha proposto l’adozione di strutture alternative al carcere, con un forte legame con il territorio, per le persone coinvolte in reati di minore rilevanza determinati da fragilità e vulnerabilità. Ha richiamato l’attenzione sul concetto di “detenzione sociale” proposto in passato da Alessandro Margara, suggerendo che tali strutture potrebbero offrire non solo un supporto ma anche un controllo più attento, prevenendo così la sensazione di abbandono che spesso porta a tragici esiti come il suicidio, fenomeno sempre più diffuso tra le persone detenute. Il Garante ha concluso esortando il Parlamento a prendere provvedimenti in merito, sottolineando l’importanza di agire per rimuovere dal carcere ciò che non può essere correttamente affrontato al suo interno. Ha invitato a un cambio di approccio, affinché il sistema penale italiano diventi veramente sussidiario, intervenendo solo quando necessario e offrendo supporto significativo alle persone vulnerabili per evitare la spirale della marginalità e della criminalità. Ha invitato il Parlamento a cogliere l’opportunità di segnare un cambiamento significativo rispetto alle sfide attuali e alle fragilità vissute all’interno del sistema carcerario. Ma nulla da fare, si pensa ancora al riutilizzo delle caserme dismesse. Vecchia ricetta che era stata riesumata anche dall’ex ministro grillino Bonafede. Ovviamente, finì nel nulla. Intervista a Emilia Rossi: “Nordio legga i report sulle prigioni” di Angela Stella L’Unità, 26 ottobre 2023 Grazie all’azione del Garante finalmente c’è un regolamento nazionale nei centri di rimpatrio. Quest’anno la consueta Relazione al Parlamento del Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale è stata quella conclusiva del mandato del primo Collegio (Presidente Mauro Palma, membri Daniela De Robert, Emilia Rossi). Cosa è accaduto in questi sette anni. Ne parliamo proprio con l’avvocata Emilia Rossi. Che bilancio fa di questi sette anni? Abbiamo costruito l’Autorità di Garanzia sia nei suoi statuti, sia selezionando e formando il personale, sia nella creazione dei suoi valori fondanti. Ma la cosa principale che abbiamo fatto è stata quella di aver costruito il metodo di azione di una Autorità di garanzia, che necessita di una assoluta indipendenza e autonomia dal potere politico. In cosa consiste questo metodo? Parte dall’osservazione concreta delle situazioni e finisce con l’interlocuzione con le autorità responsabili, in stretta cooperazione. Il Garante nazionale è innanzitutto un organismo di prevenzione delle possibili violazioni dei diritti delle persone private della libertà e a questo si è orientato il nostro lavoro, anche nell’interesse del Paese rispetto a possibili censure del nostro Paese da parte degli organi sovranazionali. Queste le fondamenta che abbiamo costruito e tutto questo lavoro ha fatto acquisire al Garante una autorevolezza tale da dare concretezza all’interlocuzione con le Istituzioni, che ci ascoltano, e di vedere recepite le nostre linee-guida, i nostri pareri, nelle pronunce delle più alte Corti di giustizia, la Corte costituzionale e la Cedu. Però c’è un periodo in cui la Lega voleva sopprimere la figura del Garante... Si è trattato di un dibattito politico, a cui una Autorità di garanzia rimane esterna. Noi non abbiamo avuto alcun tipo di ricadute nelle nostre interlocuzioni neanche con esponenti di questa o di altre forze politiche. Non ha percepito negativamente neanche che quest’anno alla presentazione della Relazione annuale mancassero i vertici delle Camere o i loro vice? La scomparsa di Silvio Berlusconi ha riscritto l’agenda parlamentare. Noi abbiamo potuto mantenere la data scelta dall’inizio ma lo slittamento di impegni parlamentari e di governo ha determinato alcune assenze. In ogni caso erano presenti parlamentari delle varie forze politiche, rappresentati dei ministeri e, soprattutto, c’era la Presidente della Corte Costituzionale, Silvana Sciarra: un segno di riconoscimento di altissimo rilievo. In questi sette anni cosa è cambiato in merito alle nostre carceri? Noi abbiamo mantenuta viva l’attenzione su un mondo che altrimenti poteva rimanere ai margini. Lo abbiamo portato all’attenzione della politica e di tutta la società civile, guardandolo dall’interno, con modalità e ampiezza di poteri di cui non dispone nessun’altra Istituzione dello Stato. Credo sia per questo che il magistrato Riccardo De Vito in un suo articolo pubblicato su Questione Giustizia, ha scritto che il Collegio “ha costruito un patrimonio indiscusso della Repubblica”. Sicuramente il nostro sguardo e l’ordine dei valori che abbiamo costruito hanno contribuito al cambiamento, anche a quello che ha determinato alcune riforme del sistema delle pene e della sua esecuzione, come le pene sostitutive, l’ampliamento delle misure alternative, i percorsi di giustizia riparativa. Però sono accaduti fatti come quelli di Santa Maria Capua Vetere. Il vostro sguardo ha mai dato fastidio alla polizia penitenziaria? No, mai. La polizia penitenziaria che abbiamo incontrato durante le nostre visite è stata collaborativa e partecipativa. E ci siamo dati il compito di costruire insieme una cultura pienamente rispettosa dei diritti delle persone private della libertà, anche partecipando alla formazione dei diversi corpi delle Forze di polizia. È chiaro che non si può immaginare che espressioni di una incultura antica scompaiano di colpo. La differenza, oggi, è che emergono subito, come è successo a Santa Maria, e che le Istituzioni, nel loro complesso, reagiscono. E che nei Tribunali si giudichino fatti come quelli di Santa Maria, di San Gimignano, di Torino, per citarne alcuni, nella loro effettiva dimensione, contestando il reato di tortura. Fratelli d’Italia vorrebbe modificarlo o addirittura cancellarlo... Io non ho ancora letto una proposta normativa, preferisco esprimermi quando c’è un testo. Certo è che il reato di tortura va mantenuto: è un caposaldo della civiltà dello stato di diritto perché riguarda i confini legittimi del potere più forte dello Stato nel rapporto con i cittadini e ne previene l’abuso nel momento nevralgico in cui lo Stato ha la persona nelle proprie mani. A proposito di persone di cui lo Stato ha responsabilità: i suicidi continuano. Dove si sbaglia? Gli 85 morti dello scorso anno e i 30 di quest’anno interrogano tutti. Premettendo che su una scelta così drammatica il giudizio di chi osserva da fuori deve essere molto cauto, la questione che interroga più di tutti sono quei suicidi che avvengono a poche ore o giorni dall’inizio della detenzione o a pochi giorni dalla fine della pena, magari lunga. Non dipendono dalle condizioni materiali del carcere: magari esse possono avere qualche incidenza su chi è entrato da poco ma non su chi vi ha vissuto a lungo, che ha toccato con mano il degrado anche per decenni. Queste morti ci danno la sensazione precisa dello sgomento di chi entra in carcere, di colui che ha la sensazione di essere finito in un buco nero e di essere lì abbandonato. E di chi sta per terminare di scontare la pena senza prospettive fuori da quelle mura, nell’assenza di riferimenti e sostegno. Rispetto a questi due momenti nessuno di noi è assolto. In sette anni avete costruito molto. La scelta del nuovo Collegio dovrà ricadere su persone all’altezza della vostra eredità... È importante, ma noi siamo convinti che accadrà, che il nuovo Collegio mantenga l’ordine dello sguardo sulle cose che raccontavo all’inizio e mantenga quella indipendenza e autonomia di azione cooperativa vigile e attenta che abbiamo costruito noi. Palma nell’illustrare la sua ultima Relazione al Parlamento ha detto: “è avviata la procedura per indicare un nuovo Collegio che prenderà il nostro posto e che garantirà la continuità, pur nelle differenze che il carattere e le culture di ognuno di noi può porre, del cammino avviato; proprio perché non si tratta di esprimere una posizione politica, bensì di adempiere a una funzione di garanzia. La politica aiuta, coopera, ma non detta regole alle Istituzioni di garanzia”. Lei teme che ci possano essere interferenze politiche comunque nella scelta? La politica nel nostro Paese interviene sempre, da qui la raccomandazione del Presidente Palma. Lei cosa consiglierebbe al Ministro della Giustizia in tema di esecuzione penale? Non amo dare consigli, in genere. Suggerirei, caso mai, di leggere le nostre Relazioni al Parlamento. Qualche settimana fa Riccardo Magi di +Europa ha convocato una conferenza stampa per denunciare l’abuso di psicofarmaci nel Cpr. Anche voi ne avete visitati molti... Grazie all’azione del Garante finalmente c’è un regolamento nazionale nei centri di rimpatrio. Detto questo, la società civile viene molto poco investita della situazione, anche perché il dibattito pubblico e politico sui migranti è molto tormentato. Quello che abbiamo messo in evidenza è che lì il tempo è assolutamente e inutilmente vuoto. Non perdonano a Cospito di avere utilizzato lo sciopero della fame per affermare i sui diritti di Ezio Menzione Il Dubbio, 26 ottobre 2023 Questa volta sembrava fatta, che Alfredo Cospito dovesse essere tolto dal regime di 41 bis e reimmesso in un regime di detenzione normale, sia pure ad alta sorveglianza: ripristinati cioè i suoi diritti più elementari per ciò che concerne l’isolamento, la socialità, la lettura e l’informazione, fino alla limitazione delle modalità di alimentazione, sia pur mantenendo il controllo (censura) molto stretto sulla corrispondenza e sui colloqui consentiti. Invece, niente. Resta al 41 bis, nonostante che la DDA locale e nazionale avessero dato parere favorevole per il ripristino del regime normale per il detenuto. Chi più titolate di loro per giudicare della pericolosità di un soggetto? Damiano Aliprandi ha già dato conto su questo giornale (24/ 10) in maniera esaustiva dell’ordinanza del Tribunale di Sorveglianza di Roma che nega l’alleggerimento. Ma vale la pena tornarci sopra perché essa è molto grave nei presupposti e in alcuni passaggi. L’ordinanza sembra riconoscere che i contatti fra Cospito e la FAI (Federazione Anarchica Informale, agglomerato anarco-insurrezionalista non strutturato) non sono esistiti negli ultimi tempi, anzi, sono completamente cessati. Ma Cospito ha rivendicato in una sua presa di posizione che nemmeno il 41 bis avrebbe potuto costringerlo al silenzio. Affermazione che ci sembra oltreché perfettamente legittima, anche ovvia. Il 41 bis non è volto a cambiare la testa al detenuto, né a farlo parlare diversamente. È - sia pure collocandosi ai limiti della legittimità - volto ad interrompere i rapporti fra il detenuto e l’organizzazione di appartenenza, così che non possa continuare a organizzare azioni criminose, contribuirvi o istigarle. Ma si deve basare su prove ed evidenze che ciò sia avvenuto e, in questo caso, possa continuare ad avvenire. Non basta che il detenuto abbia rivendicato la propria libertà di pensiero e di parola: purché la sua parola non abbia contribuito non ad “ispirare”, concetto vago e inafferrabile, ma ad organizzare altre azioni criminali. E di ciò, non è richiamata alcuna prova nell’ordinanza. Anzi essa non può non notare che il Tribunale di Sorveglianza di Perugia ha rimesso in libertà sia Cospito che altri 4 sodali revocando la loro custodia cautelare per altri fatti; né ha potuto ignorare che la Corte d’Assise di Roma in primo grado lo ha mandato assolto nel processo Bialystock, che lo vedeva imputato di associazione con finalità di terrorismo, proprio per avere istigato altri ad agire delittuosamente. Per la seconda vicenda si è limitata a osservare che è solo una assoluzione di primo grado, e quindi può essere ribaltata: con buona pace del principio di non colpevolezza (rafforzato in questo caso da una pronuncia di primo grado). Insomma, dall’ordinanza traspare una visione del 41 bis non come modalità asprissima di detenzione, ma come misura illegittima di prevenzione che non si fonderebbe su dati ed elementi riscontrabili, ma sulla mera supposizione che dei fatti ulteriori possano accadere. Peggio ancora vanno le cose se analizziamo la parte dell’ordinanza che vorrebbe ancorare la perdurante pericolosità di Cospito ad alcuni attentati (peraltro essi stessi, per fortuna, di scarsa pericolosità) avvenuti nei mesi in cui egli era in sciopero della fame e terminati subito dopo. Significa che egli ha ordinato, organizzato o quanto meno ispirato tali fatti? Se vi fosse la prova di un collegamento fra l’interno e l’esterno della detenzione, se ne potrebbe anche discutere; ma qui i fatti parlano da soli: la galassia del FAI pensa ed agisce da sola poiché in quel periodo Cospito non era in grado di contattare nessuno, meno anche del solito, visto le sue condizioni vicine alla morte. Semmai ciò proverebbe giustappunto l’autonomia con cui la FAI pensa, valuta e agisce. Indipendentemente da Cospito. Forse è proprio qui che si annida il pensiero più forte (se così si può dire) dei giudici romani che hanno preso la decisione. Essi sembrano non perdonare a Cospito di avere utilizzato lo sciopero della fame, per affermare il diritto ad essere sottratto alla violenza del 41 bis, col rischio della propria vita e non avendo più altri mezzi per farlo valere. Oggi Cospito potrebbe pensare di riprendere quella forma di legittima protesta e così, seguendo la logica della ordinanza, altri potrebbero in piena autonomia riprendere ad utilizzare forme di mini-attentati, però col rischio che, anche non volendolo, essi attingano non solo alle cose, ma anche alle persone e si contino le vittime. Evidentemente gli estensori dell’ordinanza non si lasciano influenzare dalla tragica cronaca di queste settimane: fatte (fortunatamente) le debite differenze, non persegue giustizia chi ingiustificatamente tiene in ostaggio qualcuno, il rischio di reazioni spropositate è pericolosamente vicino. Giustizia, si torna alla prescrizione sostanziale di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 26 ottobre 2023 “Pronta la riforma della prescrizione, si torna a quella sostanziale: il testo è stato già trasmesso alla Commissione giustizia della Camera”. Così in una nota il ministero della Giustizia. “L’aspetto principale della riforma -spiega via Arenula - è la previsione di una sospensione della prescrizione per 24 mesi dopo la sentenza di condanna in primo grado e per 12 mesi dopo la conferma della condanna in appello. Se la sentenza di impugnazione non interviene in questi tempi, la prescrizione riprende il suo corso e si calcola anche il precedente periodo di sospensione”. “Anche in caso di successivo proscioglimento o di annullamento della sentenza di condanna in Appello o in Cassazione, il periodo in cui il processo è stato sospeso si calcola ai fini della prescrizione”, precisa ancora la nota del ministero della Giustizia. Intnato slitta l’avvio dell’esame dell’Aula della Camera della riforma sulla prescrizione, previsto per venerdì 27 ottobre. Lo ha deciso la conferenza dei capigruppo. La discussione generale sul progetto di legge dovrebbe approdare in aula alla Camera il 6 novembre. Questi i tempi secondo le previsioni del presidente della commissione Giustizia di Montecitorio, Ciro Maschio. “Andare in Aula il 27 ottobre sarebbe stata una forzatura eccessiva - spiega - e abbiamo optato per uno slittamento nell’ottica di garantire tempo per i subemendamenti dell’opposizione. Si tratta di un breve rinvio in commissione - aggiunge Maschio - con la scadenza del termine fissata per il 30 e 31 ottobre per i subemendamenti e il mandato al relatore. Il 6 novembre il provvedimento andrà in aula”. Prescrizione, chiuso l’accordo Lega-FdI. Tempi più lunghi del doppio per i delitti contro le donne di Liana Milella La Repubblica, 26 ottobre 2023 Scompare il lodo Sisto, vince l’alleanza tra Bongiorno e Delmastro. Ok anche da FI. Stop per 24 mesi in primo grado e in Appello per i condannati. Il relatore Costa di Azione ottiene che l’imputato assolto in secondo grado recuperi il tempo della sospensione. Prescrizione sospesa del doppio per i delitti contro le donne. E stop al processo per 24 mesi, sia in Appello che in Cassazione per i condannati. La maggioranza ha chiuso l’accordo sulla prescrizione. Con un nuovo testo, che, come precisano le fonti di governo, ha veste autonoma rispetto sia alla versione dell’ex Guardasigilli Orlando del 2017, sia della proposta Lattanzi del 2021. L’emendamento da via Arenula ha appena preso la strada della commissione Giustizia della Camera, dove ad attenderlo c’è non solo il presidente della commissione Giustizia, il meloniano Ciro Maschio, ma anche il relatore Enrico Costa di Azione. Che condivide la nuova proposta e ottiene anche un’ulteriore deroga per chi viene assolto in Appello, per lui sarà possibile recuperare ai fini della prescrizione anche il tempo in cui è stata sospesa in primo grado. Politicamente vince l’asse tra Fratelli d’Italia e la Lega, l’intesa tra la responsabile Giustizia del Carroccio Giulia Bongiorno e il sottosegretario Andrea Delmastro Delle Vedove di FdI, contro il vice ministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto il cui lodo - prescrizione sospesa solo in Cassazione - finisce nel cestino, nonostante un forte battage mediatico. Ma anche Forza Italia condivide il nuovo testo. Per la prima volta - nella querelle sulla prescrizione - c’è un trattamento speciale per i reati contro le donne. Perché - su proposta di Bongiorno - la novità consiste nel prevedere un allungamento del tempo di prescrizione per i reati di particolare allarme sociale, quelli della violenza domestica. Per queste ipotesi il tempo della prescrizione viene raddoppiato rispetto a quello ordinario. La violenza di genere viene pertanto equiparata, sotto questo punto di vista, ai reati di corruzione e ad altri reati gravi contro la pubblica amministrazione. Il risultato, quindi, è quello di raddoppiare la sospensione - da 24 a 48 mesi - che incide direttamente sul tempo complessivo. In tre pagine è contenuto l’accordo che prevede innanzitutto la nascita di un nuovo articolo del codice penale che segue al 159, che attualmente regola la prescrizione, e che si chiamerà 159 bis. La sospensione in Appello e in Cassazione passa a 24 mesi, che vengono calcolati a partire dal deposito delle motivazioni della sentenza di primo grado. E qui c’è la deroga per chi viene condannato in primo grado ma poi assolto, perché, come ha chiesto il relatore Costa, in questo caso l’ex condannato ormai assolto recupera complessivamente il tempo della prescrizione, acquistando quindi una sorta di bonus visto l’andamento processuale che risulta a suo favore. A firmare il testo dell’accordo, che è stato stipulato in via Arenula, sarà il Guardasigilli Carlo Nordio, che in questo modo mette una sorta di cappello su un’iniziativa tutta parlamentare, partita dalle quattro proposte sulla prescrizione depositate in commissione Giustizia alla Camera, a partire da quelle di Costa e del vice presidente della commissione Giustizia Pietro Pittalis di Forza Italia. Prescrizione, passa la mediazione. “È la prima riforma garantista” di Valentina Stella Il Dubbio, 26 ottobre 2023 Stop di 24 mesi in primo grado e in Appello per i condannati. Vittoria di Enrico Costa (Azione): l’imputato assolto in secondo grado recupera il tempo della sospensione. Sul tema della prescrizione la maggioranza e il governo “hanno trovato una buona soluzione”. Lo ha detto il guardasigilli Carlo Nordio all’Agi ieri entrando alla Camera. Ed infatti ieri è stato presentato un emendamento dai relatori Enrico Costa (Azione) e Andrea Pellicini (FdI) alla proposta di legge di riforma della prescrizione che inserisce nel codice penale l’articolo 159 bis. Si tratta in sostanza della riformulazione dell’emendamento Carolina Varchi (FdI), Ingrid Bisa (Lega) e Pietro Pittalis (FI) che era stato presentato dalla maggioranza la scorsa settimana. Il nuovo testo ha incassato anche il placet delle altre forze di maggioranza, Forza Italia e Lega, dopo le mediazioni intercorse nelle ultime ore anche con il governo. Ora però bisognerà dare tempo per la presentazione dei subemendamenti e questo ritarderà l’arrivo in Aula del provvedimento previsto inizialmente per il 27 ottobre. Ma cosa prevede? “Il corso della prescrizione rimane sospeso, in seguito alla sentenza di condanna di primo grado, per un tempo non superiore a due anni e, in seguito alla sentenza di appello che conferma la condanna di primo grado, per un tempo non superiore a un anno”. I periodi di sospensione previsti “decorrono dalla scadenza del termine previsto dall’articolo 544 cpp (massimo 90 giorni dalla pronuncia delle sentenze, eccetto per i casi previsti dal comma 3 bis, ndr)”, viene specificato. “Se durante i periodi di sospensione sopravviene una causa di sospensione prevista dall’articolo 159 (Notificazioni all’imputato in caso di irreperibilità, ndr), i termini di sospensione previsti dal primo comma sono prolungati per il tempo relativo a tale causa”. Inoltre, come voluto da Forza Italia, quando la “pubblicazione della sentenza di appello o della sentenza della Corte di Cassazione interviene dopo la scadenza del rispettivo termine di sospensione, la prescrizione riprende il suo corso e il periodo di sospensione è computato ai fini della determinazione del tempo necessario a prescrivere”, si legge ancora nel testo presentato da Costa e Pellicini. Nel testo leggiamo anche che, in base a quanto richiesto dal responsabile giustizia di Azione, “i periodi di sospensione sono computati ai fini della determinazione del tempo necessario a prescrivere altresì quando, nel grado in cui ha operato la sospensione o nel grado successivo, l’imputato è prosciolto o la sentenza di condanna è annullata nella parte relativa all’accertamento della responsabilità”. In pratica l’orologio della prescrizione non si ferma mai per gli assolti. “Le disposizioni del presente articolo si applicano anche nel giudizio conseguente all’annullamento della sentenza con rinvio al giudice competente per l’appello”. Viene ribadita l’abrogazione dell’articolo 161 bis del codice penale, ossia dell’improcedibilità. E viene creato, su precisa richiesta della responsabile giustizia del Carroccio, Giulio Bongiorno un doppio binario per i reati contro le donne: si prevede infatti un allungamento del tempo di prescrizione per i reati di particolare allarme sociale, quelli della violenza domestica. “Una pura operazione di facciata - ci dicono fonti interne ad una parte della maggioranza - perché è davvero difficile che non si arrivi ad una sentenza di appello per questo tipo di reati in quattro anni”. Come leggere politicamente quanto avvenuto? Il primo a parlare è il vice ministro alla Giustizia Francesco Paolo Sisto. “Si tratta di un ritorno alla riforma Orlando modificata?”, gli chiedono i cronisti a margine del suo intervento al Salone della Giustizia. “No - risponde. Torniamo a una ipotesi che nasce dalla commissione Lattanzi migliorata, a mio avviso, perché innanzitutto ha dei tempi più certi, ma soprattutto evita qualsiasi problema di proroghe rimesse alla discrezionalità del giudice. Oggi si sa esattamente quando un reato si dovrà estinguere a seconda della pena che è prevista. E soprattutto c’è il meccanismo della sospensione soltanto per le sentenze di condanna e non per quelle di assoluzione. Quando si è assolti la prescrizione prosegue regolarmente, quindi la ragionevole durata del processo del 111 della Costituzione è assolutamente, finalmente, nuovamente garantita, anche grazie a Fi”. Soddisfazione anche da Enrico Costa: “L’emendamento che abbiamo presentato come relatori rappresenta un punto di equilibrio che garantisce il ritorno nel nostro ordinamento della prescrizione sostanziale per tutti i gradi di giudizio. Questo era l’obiettivo scritto nel nostro programma elettorale, restituire al nostro sistema un istituto fondamentale per la ragionevole durata del processo, per la presunzione d’innocenza, per il diritto di difendersi presentando prove”. Per il forzista Pietro Pittalis, che ha presentato il testo da cui tutto l’iter è partito, “si tratta della prima vera riforma garantista della coalizione. Rappresenta un buon punto di sintesi, a cui non era facile e scontato arrivare, e che raccoglie anche proposte dell’opposizione come quella di Azione. Ci lasciamo così alle spalle la rovinosa riforma Bonafede e cancelliamo l’improcedibilità con la sua inammissibile discrezionalità di quali fascicoli trattare e quelli da far prescrivere da parte del Capo dell’Ufficio”. Ok anche dal capogruppo di Avs in commissione Giustizia della Camera Devis Dori: “L’emendamento della maggioranza sulla prescrizione è un positivo punto di approdo del dibattito, soprattutto perché archivia la ex Cirielli poi perché sostanzialmente adotta la riforma Orlando. Per noi è una buona notizia”. Decreto Caivano, il Csm contesta: “Criticità nel provvedimento” di Liana Milella La Repubblica, 26 ottobre 2023 Ma il vicepresidente Pinelli si astiene. Secondo l’avvocato leghista di Padova la decisione del Consiglio superiore di magistratura “esonda dalle valutazioni che gli sono consentite”. Come lui votano i laici di FI Aimi e di Iv Carbone, a favore tutti gli altri. Il vice presidente del Csm Fabio Pinelli, l’avvocato di Padova eletto dal Parlamento in quota Lega tra i dieci laici di palazzo dei Marescialli, fa ancora notizia per un suo voto durante una seduta del plenum. Il 6 luglio, proprio grazie al suo stesso voto che vale doppio in caso di parità, fece prevalere Filippo Spiezia come procuratore di Firenze. Stasera invece la sua astensione sul parere al decreto Caivano fa di nuovo notizia perché lo stesso Pinelli dice ai colleghi che in questo modo il Csm “esonda dalle valutazioni che gli sono consentite sull’organizzazione degli uffici giudiziari”. Sollevando inevitabilmente una serie di critiche, anche se il parere passa con il voto di tutti, e la sola astensione di Pinelli e dei laici di Forza Italia Enrico Aimi, lo stesso che per primo ha criticato il comportamento della giudice Iolanda Apostolico, e di Ernesto Carbone, a sua volta laico di Italia Viva. Sono le 19, alle spalle c’è una giornata difficile perché il sistema elettronico di voto è andato in tilt per molte ore, e anche perché lo stesso Pinelli, a più di un collega, ha annunciato la sua intenzione di prendere le distanze dal parere della sesta commissione che arriva proprio mentre al Senato, tra molte difficoltà, la commissione Giustizia sta votando il decreto Caivano. Approvato dal Consiglio dei ministri il 7 settembre, il corposo decreto è ancora in prima lettura in commissione e rischia problemi di conversione. Ed è proprio questa la ragione che, alla fine, spinge Pinelli, che lo dichiara espressamente, a votare comunque, anche se astenendosi, e questo lascia intendere che probabilmente, se ci fosse stato più tempo, avrebbe tentato con un rinvio di convincere i colleghi a riflettere sul contenuto del parere che, appunto, nella versione votata, a suo dire “esonda” dai poteri dello stesso Consiglio. Proprio quest’idea, in modo esplicito, fa dire al togato Roberto Fontana, il pm di Milano che non appartiene a nessuna corrente, che “l’attuale presa di posizione del Csm trascende la vicenda specifica e si proietta nel futuro, sui ddl che potrebbero riguardare tutta l’attività giudiziaria ben più del decreto Caivano che ha una portata circoscritta”. Secondo Fontana “il Csm deve difendere le sue prerogative e leggere le norme per garantire se stesso”. Invece non la pensa affatto così Fabio Pinelli, convinto che il parere sul decreto vada ben oltre i poteri assegnati al Csm dalla legge del 1958. Ed eccolo dire che il parere è certo “complesso e approfondito” - stiamo parlando di ben 68 pagine - ma “a mio sommesso giudizio non si limita a valutare l’impatto sul lavoro dei giudici”. Ma contiene “plurime perplessità e critiche sull’articolato normativo che nulla hanno a che vedere con l’organizzazione giudiziaria”. Ma ecco la frase chiave del suo discorso: “La struttura del parere esonda dal terreno proprio delle valutazioni che sono consentite al Csm e che riguardano il tema dell’organizzazione degli uffici giudiziari”. Pinelli chiama in causa la Costituzione: “L’intervento del Csm non può estendersi oltre le funzioni proprie costituzionali che non possono trasmodare in un’impropria compartecipazione alle politiche di contrasto alla criminalità”. Pinelli avrebbe potuto chiedere il ritorno in commissione. Cita anche questo suo “potere”, ma non lo esercita. “Non lo chiedo perché il parere contiene una larga parte di osservazioni pertinenti e perché i tempi di conversione di fatto priverebbero il Csm di una funzione fondamentale, ma nei limiti della legge che anche il Csm deve rispettare”. La riflessione sui “poteri” del Csm è solo rinviata. Il punto di partenza è la legge del 1958, la 195 del 24 marzo, che all’articolo 10 dice espressamente: “Il Csm dà pareri al ministro sui disegni di legge concernenti l’ordinamento giudiziario, l’amministrazione della giustizia e su ogni altro oggetto comunque attinente alle predette materie. Delibera su ogni altra materia ad esso attribuita dalla legge”. Una formulazione generica su cui negli anni si sono esercitate dozzine di giuristi. Ed è proprio sul suo significato che intervengono i consiglieri del Csm che poi votano il parere favorevole al decreto illustrato dal relatore di Area Marcello Basilico. Ecco Antonello Cosentino, anche lui di Area, e poi Marco Bisogni e Roberto D’Auria di Unicost, Mimma Miele di Magistratura democratica, l’indipendente Andrea Mirenda, che votano tutti a favore del perdere, concordi nel dire, pur con varie sfumature, che il Csm può esercitare questo “potere”. Anche il laico di FdI Felice Giuffrè vota sì pur se consiglia ai colleghi un “self restraint” per evitare che “ampliando la propria competenza il Csm intercetti quella di un altro potere dello Stato”. Il tema è sul tavolo, e di certo l’uscita di Pinelli, che al Csm in quanto vice rappresenta il capo dello Stato e presidente dello stesso Consiglio Sergio Mattarella, pone un problema per il futuro. Un passo, il suo, che appare proprio in linea con quanto gli chiede la maggioranza che lo ha eletto, una vigilanza stretta sulle toghe. Un banco di prova su cui il Csm è chiamato a esprimersi già domani quando la prima commissione dovrà affrontare la pratica a tutela di Iolanda Apostolico chiesta da 13 colleghi togati, ma non dai 7 di Magistratura indipendente, la stessa corrente che, all’Anm, sabato scorso non ha votato per il sostegno a lei contro gli attacchi durissimi della Lega. Proprio l’Anm, il 26 novembre, terrà a Roma un’assemblea generale per discutere questo caso e le aspre critiche ai magistrati che si occupano di immigrazione, vittime tutti quanti degli strali della maggioranza per aver disapplicato il decreto Cutro. “Buio sull’informazione, no al bavaglio contro la stampa” di Liana Milella La Repubblica, 26 ottobre 2023 L’allarme di Fnsi e Ordine dei giornalisti per la nuova legge sulla diffamazione. Al Senato dall’otto novembre gli emendamenti alla nuova norma pensata dal centrodestra: multe fino a 50 mila euro e rettifica automatica le minacce più pesanti. La Consulta voleva liberare la stampa italiana dalla minaccia del carcere. Lo ha fatto nel 2022. Ma adesso un bavaglio peggiore, pene capestro da 50mila euro, rischia di ammutolire ugualmente i giornalisti. Alla cella si sostituisce la supermulta che in tempi di crisi economica per gli editori, e di stipendi miserabili per tutti noi, è assai peggio che finire in galera. Tutto è nelle mani della commissione Giustizia del Senato e della sua presidente, l’avvocata Giulia Bongiorno. Ma la minaccia è già scritta nel testo base del senatore meloniano Alberto Balboni su cui, dall’8 novembre, pioveranno gli emendamenti. Una manciata di giorni, nei quali si può giocare un futuro che, seguendo il faro della Costituzione e del suo articolo 21, dovrebbe garantire la libera informazione. Ma nei quali può anche prevalere una parola - ed è bavaglio - che si risolverebbe nella negazione del diritto di informare e di essere informati. Diciamo la verità, sarebbe assai peggio della prigione. Che ognuno di noi che vive per scrivere è disposto anche a subire pur di tutelare un suo diritto. Se il panorama è questo - e per tabulas è proprio questo - ciò spiega il vivissimo allarme che ha spinto l’Ordine dei giornalisti e la Federazione della stampa, i presidenti Carlo Bartoli e Vittorio Di Trapani, con la segretaria della Fnsi Alessandra Costante, a rendere pubbliche le preoccupazioni e ad annunciare, con considerazioni molto dure ed estremamente tranchant, l’apertura di una campagna per tutelare il diritto di informare. Saranno proprio Ordine e Fnsi a mettere sul tavolo della Bongiorno - che ancora ieri garantiva i diritti delle donne sottoposte a violenza anche nell’ambito della prescrizione - gli emendamenti che i giornalisti stessi propongono. Un modo per dimostrare che nessuno chiede l’impunità preconcetta, ma pretende regole giuste, proprio nel momento in cui si fa garante di un’informazione trasparente, verificata, obiettiva. Non basta un teorema a sostituire le prove. La bella lezione di un giudice di Sergio Soave Il Foglio, 26 ottobre 2023 La teoria della procura di Milano sulla “confederazione” mafiosa non ha convinto il gip Tommaso Perna. È importante che si affermi il metodo corretto che prevede che alla base della privazione della libertà personale ci siano fatti e prove e non solo un’ipotesi, per quanto suggestiva. La procura milanese, partendo dalle rivelazioni di un indagato, ha elaborato una teoria su un nuovo tipo di associazione mafiosa, una specie di “confederazione” tra gruppi criminali attesi nel territorio lombardo che pur mantenendo la propria autonomia, avrebbero stretto un accordo per riciclare in comune i proventi dello spaccio, allo scopo di costruire strutture finanziarie in grado di far fruttare i proventi illeciti. In base a questa ricostruzione la procura ha chiesto la custodia cautelare per 153 indagati. Si tratta di una teoria interessante, che però non ha convinto il giudice delle indagini preliminari, Tommaso Perna, che ha accattato l’arresto solo di 11 indagati, motivando la sua decisione con una critica al teorema della procura molto netta. “Non è stato possibile ricavare l’esistenza di un’associazione di tipo confederativo - ha scritto - che raggruppa al suo interno le diverse componenti criminali. Quello che è del tutto assente nella presente indagine, da una parte è la prova dell’esistenza del vincolo associativo tra tutti i sodali rispetto al sodalizio consortile, dall’altra, dell’esternazione del metodo mafioso … tale da assurgere al rango di un fatto penalmente rilevante”. Le osservazioni di Perna mettono in discussione un metodo, quello degli arresti “a strascico” in base all’estensione del reato di associazione di tipo mafioso, mettono in chiaro che il rapporto associativo deve essere provato e che deve avere i caratteri specifici della fattispecie mafiosa. Spesso in passato si è utilizzata la custodia cautelare per cercare di indurre al “pentimento” i reclusi, per poi usare come prove nel processo le loro esternazioni. Perna ricorda alla procura che prima si devono avere gli indizi rilevanti e concordanti dell’associazione mafiosa, che non basta un teorema, per quanto suggestivo, a sostituire le prove. Naturalmente si vedrà nelle successive fasi del giudizio se gli indagati sono o no colpevoli, ma intanto è importante che si affermi il metodo corretto che prevede che alla base della privazione della libertà personale ci siano fatti e prove e non solo un teorema. Sardegna. Madri detenute senza un Icam di Alessandra Carta L’Unione Sarda, 26 ottobre 2023 “L’unica struttura inaugurata nove anni fa e mai aperta”. Maria Grazia Caligaris, socia-fondatrice dell’associazione Socialismo Diritti Riforme: “Nei penitenziari dell’Isola ancora troppa discriminazione verso le donne. Serve assistenza personalizzata, e i malati non devono stare in cella”. Un taglio del nastro in pompa magna. Il 18 luglio del 2014. Poi più nulla. A Senorbì, nove anni fa, venne inutilmente inaugurato l’Icam, un istituto a custodia attenuata per madri detenute, uno dei cinque che si contavano in Italia. Sulla carta un faro di civiltà: permettere alle donne di scontare la pena senza separarsi dai figli piccoli e senza obbligarli all’orrore di una vita in cella. Eppure quell’appartamento concesso dall’amministrazione municipale al ministero della Giustizia - quattro camere con bagno più ludoteca, cucina e cortile - è rimasto lungamente inutilizzato. A inizio anno, come certificato dal Rapporto Antigone sulla situazione carceraria nazionale, il Comune di Senorbì l’ha voluto chiedere indietro per strapparlo all’insipienza dello Stato e restituirlo alla comunità locale. Di Icam parla Maria Grazia Caligaris, ex consigliera regionale del Psi e socia-fondatrice di “Socialismo Diritti Riforme”, l’associazione che dal 2009 lavora nel penitenziario di Cagliari per sostenere i reclusi nei percorsi di recupero. Con lei, docente di Italiano e Storia in pensione, prosegue l’approfondimento di Unionesarda.it sulle carceri nell’Isola, un focus cominciato con l’intervista alla Garante regionale per i detenuti, Irene Testa. Professoressa, una storia all’italiana, quella dell’Icam a Senorbì... “Uno scandalo. Un investimento consistente per una struttura aperta giusto il giorno dell’inaugurazione. Che io, peraltro, ricordo molto bene. Non mancarono l’enfasi e le autocelebrazioni. Ma dei buoni propositi fatti si è perduta ogni traccia”. Oggi nelle strutture penitenziarie della Sardegna ci sono madri con figli? “Al momento, che ci risulti, nessuna detenuta ha con sé figli minori. Da questo punto di vista c’è stata una grande maturazione da parte delle donne: pur nel dolore della separazione, preferiscono che i figli non vengano coinvolti nella vita detentiva. Per questo, nel 2014, l’apertura dell’Icam a Senorbì sembrò una giusta compensazione nella tutela delle madri private della libertà ed escluse, come tutte le altre donne, dalle colonie penali agricole. Ma a quell’inaugurazione del 2014 non è stato dato seguito”. Conosce i motivi? “No. Ma se l’assenza di agenti penitenziari può essere prevedibilmente una causa della mancata apertura, resta da capire perché siano stati spesi soldi pubblici”. Donne in cella: qual è la situazione attuale? “La condizione femminile nelle carceri, tanto in Sardegna quanto nel resto d’Italia, è fondata sulla discriminazione. Nel nostro Paese ci sono appena quattro penitenziari destinati esclusivamente alle donne: tutte le altre detenute sono costrette in piccole sezioni di carceri pensate e costruite a misura di uomini. Vero che la presenza femminile è residuale: in Sardegna le donne sono una quarantina su duemila e passa reclusi. Viaggiamo intorno al due per cento, percentuale che sale al 4 su base nazionale. Ma ciò non deve autorizzare a far venir meno le tutele sui diritti”. Carceri femminili e maschili in cosa differiscono? “Intanto c’è un problema legato alla cultura. Le donne che finiscono in carcere sono, nella maggior parte dei casi, persone fragili sotto il profilo sociale e psicologico. Hanno figli, spesso in tenera età: vuol dire che vivono con grande sofferenza il distacco da loro e questo le rende ancora più insicure e meno capaci di reagire. Siamo davanti a una situazione di oggettiva difficoltà. Si aggiunga che in linea di massima le donne recluse non hanno commesso reati di grande pericolosità sociale: infatti restano in carcere per poco tempo. Ma questo condiziona l’accesso alle attività di formazione, visto che per raggiungere un buon livello di professionalizzazione i corsi sono pluriennali”. Qual è la conseguenza sotto il profilo della rieducazione? “Per le donne diventa ancora più difficile emanciparsi, una volta che sono all’esterno. C’è poi il fatto che i lavori offerti all’interno del carcere, e questo vale anche per gli uomini, sono di scarsa qualità, nel senso che non richiedono particolari competenze. Le detenute e i detenuti vengono impiegati in cucina o nella consegna del cibo o a loro è affidata la pulizia degli spazi comuni. Tutti lavori che fanno parte della routine e non offrono chissà quali stimoli sotto il profilo dell’apprendimento. Solo di recente anche per le donne si è aperta la possibilità di un’occupazione grazie all’articolo 21 del Codice penitenziario, sia all’interno che all’esterno delle strutture penitenziarie. Ma sino a poco tempo fa questo sbocco professionale, dedicato proprio a sostenere il lavoro, era pressoché precluso”. I rapporti tra le detenute e le poliziotte come sono? “Tesi, di norma. Proprio per la grande sofferenza interiore che le donne si portano dietro. Nelle sezioni femminili manca la serenità. Anche con educatrici ed educatori i rapporti sono spesso agitati. C’è una difficoltà nella comunicazione e nell’assunzione di responsabilità”. Tra le recluse ci sono episodi di violenza fisica? “Violenza fisica no. Però tra loro manifestano una certa difficoltà a socializzare. Tendenzialmente, alla grande capacità di analisi personale le detenute affiancano uno spirito critico verso le altre. Tuttavia non ci sono aggressioni, non mi risulta. Capitano spesso schermaglie verbali che il più delle volte vengono rapidamente sanate”. Violenza psicologica? “Quando capitano litigi, una detenuta può chiedere il divieto di incontro con l’altra compagna di sezione. Le attività vengono quindi organizzate in modo tale che le due non si vedano né si incrocino”. Come si sopravvive al carcere? “La società esterna non ha idea di cosa significhi una vita in cella. Anzi: più spesso si pensa che la misura detentiva sia la soluzione. Invece rinchiudere le persone ha un solo risultato: allontanare il problema dallo sguardo dei cittadini. Con questo non voglio dire che i reati debbano restare impuniti, ma non ha senso relegare il disagio sociale dentro quattro mura. Le istituzioni, a tutti i livelli, a partire da quello locale, dovrebbero prestare più attenzione alla situazione carceraria. Anche il Governo sardo, attraverso la Conferenza Stato-Regioni, dovrebbe interessarsi maggiormente al problema: per esempio non viene mai affrontato il tema delle servitù penitenziarie”. In che senso? “Le colonie penali agricole occupano in Sardegna più di seimila ettari. Una porzione ampia di territorio sulla quale non si avrebbe nulla da dire se ci fossero positive ricadute nel recupero dei detenuti. Invece il loro utilizzo è sempre più limitato e queste strutture di campagna stanno andando in malora. Si sta facendo poco o nulla per assicurare un futuro a colonie penali che sono uno strumento efficace per garantire una ricostruzione personale e professionale a chi ha sbagliato”. Lei in carcere quante volte a settimana va? “Nella nostra associazione “Socialismo Diritti Riforme” ci alterniamo in sei. Garantiamo la nostra presenza sia nella sezione maschile che in quella femminile. Quando facciamo attività di mattina, ci siamo dalle 9 alle 12, ora in cui servono il pranzo. I pomeriggi iniziamo alle 15 e finiamo alle 17”. Su che progetti state lavorando? “Abbiamo attivato un corso di scrittura creativa: prevede la pubblicazione di un volume in cui le detenute sono protagoniste. Loro scrivono e noi rivediamo i testi. In più verrà realizzato un murale, sempre legato alla creatività. Le detenute sono impegnate anche nella produzione di piccoli oggetti, destinati poi alla vendita, così potranno avere qualche euro da utilizzare all’interno del carcere. Inoltre attraverso la maestra Alma Piscedda, tutti i sabati mattina abbiamo attivato un corso di ricamo, sempre nella sezione femminile. Sarà poi nostra cura promuovere all’esterno i manufatti realizzati”. Già, i soldi del vitto e dell’alloggio. In carcere non si mangia e beve gratis... “Decisamente no. Ciascun detenuto deve pagare una quota di quattro euro al giorno. E se una persona non ha i soldi, si porta il debito fuori, una volta che lascia il carcere”. Ovviamente trattandosi quasi sempre di nullatenenti e nullafacenti, lo Stato non li porta in tribunale. “In ogni caso, quel debito, almeno sulla carta, va rifondato. Non solo: noi chiediamo in continuazione all’Amministrazione penitenziaria di garantire un cibo il più possibile adeguato, perché ci sono detenuti che non hanno un euro e mangiano solo quello che passa l’amministrazione. Anche perché il sopravvitto costa parecchio”. Per chiarezza: il sopravvitto sono gli acquisti che i detenuti possono fare nello spaccio del penitenziario. C’è un addetto che raccoglie gli ordini. “Il sopravvitto andrebbe abolito, per quel che mi riguarda”. Perché? “Crea discriminazione. Chi non ha soldi, non può comprarsi nulla. Incide anche nei rapporti di forza all’interno delle celle, perché la persona a cui vengono comprate cose da un altro detenuto, magari si sente in debito. Io sono per garantire a tutti una qualità di cibo migliore, in questo modo si assicura lo stesso trattamento a tutti i detenuti e a tutte le detenute”. A Uta il cibo non è di qualità? “Non mi permetto di dire questo. Anche perché il controllo sui pasti passa da una commissione di cui fanno parte pure i reclusi. Tuttavia, considerando che lo Stato taglia di continuo la spesa e i prezzi aumentano, anche gli acquisti delle carceri ne risentono. Succede a ogni famiglia. Ci sono comunque misure dignitose: per esempio, durante il Ramadan i detenuti di fede musulmana possono mangiare dopo il tramonto. Anche in un orario diverso rispetto agli altri”. Chi cucina per i detenuti? “Loro stessi”. Per i malati? “Per i ricoverati nel Servizio di assistenza intensiva, ai pasti provvede la Asl”. Come associazione di volontariato avete modo di raccogliere eventuali proteste da parte dei detenuti? “Certo. Facciamo da tramite anche con gli avvocati. Lavoriamo insieme agli educatori, coi quali ci confrontiamo sulle attività da svolgere. Lo stesso facciamo con i medici, quando ci sono problematiche di carattere sanitario. Continuamente ci rapportiamo con il direttore. Il nostro obiettivo è dare un contributo a chi già lavora nel carcere, incluse gli agenti e i mediatori culturali”. Sull’assistenza sanitaria in carcere quante lamentele vi arrivano? “Parecchie. La sanità è in crisi fuori dai penitenziari, ovvio che all’interno le carenze si fanno sentire in maniera molto più forte. Per fare una visita, i detenuti devono passare dal Cup (Centro unico di prenotazione) e avere l’autorizzazione dal Tribunale di sorveglianza. Poi devono essere accompagnati dagli agenti. L’approccio alle cure è molto complesso. Nelle carceri ci sono medici interni come gli psichiatri. Ma a Uta, per dire, manca il dermatologo”. Un caso limite? “Da oltre un anno un detenuto con un grave problema odontoiatrico che deve subire un intervento ricostruttivo ma l’attesa sta durando a lungo. Significa che questa persona da più di dodici mesi deve limitarsi fortemente nel mangiare. Le sue condizioni fisiche non sono buone. A Uta ci sono anche gravi problematiche legate alla dermatologia”. Quanti anni ha questo detenuto? “È sulla quarantina. Purtroppo non è l’unico caso. Torniamo sempre lì: la nostra società ha una visione carcerocentrica, si pensa che i penitenziari siano la panacea della delinquenza. Invece servirebbe un’assistenza carceraria personalizzata: non mi stancherò mai di dire che i detenuti non possono essere trattati per grandi categorie. Le persone in sofferenza psichiatrica e i tossicodipendenti in una cella non ci dovrebbero stare. Ma le strutture a loro destinate mancano e sono del tutto insufficienti. Sul carcere vengono scaricati troppi problemi, non è da lì che passa la costruzione di una società migliore”. Suicidi: a che numero siamo? “Paradossalmente, la maggior parte dei detenuti che si tolgono la vita sono persone vicine all’uscita dal carcere. Toccare questo tasto è difficile. Troppo spesso si pensa che la fine dell’espiazione sia il traguardo agognato, invece è l’inizio di un nuovo incubo. Per l’assenza di una prospettiva”. Quando non anche l’assenza di una famiglia a cui appoggiarsi. “Uscire fa paura. Sapere di non trovare nessuno fuori, è pesante. A volte si fa l’estremo gesto quando si viene lasciati da una fidanzata, sulla quale si erano riposte tutte le speranze. In altri casi c’è dietro una condizione depressiva. Lo Stato è chiamato a intervenire di più nei luoghi di perdita della libertà: li dovrebbe riempire maggiormente di scuola e di formazione. Dovrebbe dare uno scopo”. Le carceri si svuotano depenalizzando i reati? “Anche. Sulle droghe leggere bisognerebbe fare una riflessione organizzando spazi controllati di consumo”. Modello Olanda? “Perché no. Ovviamente serve un controllo. Ma dobbiamo smetterla di lasciare le droghe leggere nelle mani della criminalità organizzata. Lo Stato italiano si è fatto carico dell’alcol, che genera ugualmente dipendente, e ha autorizzato le slot machine, da cui si generano preoccupanti fenomeni di ludopatia. È necessario che su hashish e marijuana si faccia qualcosa”. Paradossi della giustizia? “Ci sono cittadini che hanno commesso il reato tredici anni fa e vengono arrestati per scontare adesso una pena residua. Quasi sempre di pochi mesi. Questa non è giustizia. Magari si tratta di persone che nel frattempo si sono riabilitate, hanno una famiglia e un lavoro. Che senso ha distruggere una vita ricostruita solo perché i processi sono stati troppo lunghi e la Cassazione ha fatto tardi? Per non so quale strano meccanismo, complici anche i social, pensiamo che l’impunità sia un qualcosa legato ai reati comuni: se ci rubano l’auto, vogliamo che la persona che ha commesso il furto, vada in carcere e che ci resti. Su questi piccoli reati costruiamo l’allarme sociale e la richiesta di maggiore sicurezza. Ma questa è proprio la strada per riempire le carceri ancora di più”. Sassari. A Bancali un solo medico per 92 detenuti al 41 bis: “Assistenza sanitaria a rischio” sassarioggi.it, 26 ottobre 2023 Nel carcere di Bancali il diritto all’assistenza sanitaria è a rischio: dove sono reclusi 92 detenuti con il regime 41 bis c’è solo un medico. Lo denuncia il consigliere regionale Daniele Cocco (Rossoverdi) con un’interrogazione sottoscritta anche dai capigruppo Gianfranco Ganau (Pd) e Francesco Agus (Progressisti) e dai consiglieri Rosella Pinna (Pd) e Michele Ciusa (M5s). Cocco ha sollecitato il presidente della commissione, Nico Mundula, perché organizzi una visita del parlamentino al carcere. Il consigliere regionale chiede a Solinas e Doria se siano “a conoscenza delle gravi criticità nel servizio di assistenza sanitaria presso gli istituti penitenziari della Sardegna”. E “quali azioni intendano adottare al fine di garantire i servizi essenziali”. Tra le carenze anche “la mancanza della medicina specialistica penitenziaria che comporta l’invio del detenuto negli ospedali, con rischio per l’incolumità degli operatori penitenziari e con altissimi costi”. “Gli stipendi dei medici e degli operatori sanitari che lavorano negli Istituti penitenziari sono assolutamente inadeguati alla mole di lavoro che viene svolta. E ai rischi legati alla pericolosità di alcuni detenuti. Tra loro ci sono tossicodipendenti, violenti, con scompensi psichici o autolesionisti, detenuti in alta e altissima sicurezza quali terroristi e in regime del 41 bis”. “Ritengo assolutamente necessario aggiornare le Linee Guida dell’assistenza penitenziaria regionale del 2017 - denuncia Cocco -. In funzione della recente riforma del Sistema sanitario regionale e della valorizzazione del personale sanitario che lavora all’interno delle carceri” Reggio Calabria. Il Garante denuncia: “I padri detenuti non possono riconoscere i figli neonati” ilreggino.it, 26 ottobre 2023 “Il tribunale di sorveglianza emetta un provvedimento così come accaduto a Milano. Desidero segnalare all’opinione pubblica una situazione incomprensibile che viola i diritti fondamentali di due minori, in questo caso neonati”. Così in una nota il Garante metropolitano dei detenuti Paolo Praticò. “I padri dei bambini sono detenuti e non possono riconoscere i figli se non a costo di elaborate misure di sicurezza o a costi notarili eccessivi per le condizioni delle famiglie, mentre basterebbe che l’ufficiale di stato civile si recasse in carcere con i registri per ricevere la dichiarazione di paternità - ha evidenziato Praticò - L’ufficio che rappresento si è interessato presso le istituzioni competenti perché venisse risolto il caso, dallo stato civile ci è stato risposto che l’Ufficiale può recarsi in carcere per celebrare i matrimoni ma non ricevere dichiarazioni di paternità, allora abbiamo inoltrato la richiesta in prefettura, si sono gentilmente interessati ed hanno trovato un provvedimento del Magistrato di Sorveglianza di Palermo che impone all’Ufficiale di stato civile di recarsi in carcere con i registri, soprattutto nel superiore interesse dei minori”. “Abbiamo chiesto al TDS di Reggio di voler emettere analogo provvedimento ma pare che non sia possibile. Nella prima richiesta inviata al Sindaco f. f. abbiamo fatto presente che a Milano, adottando una misura di buon senso, è stato autorizzato l’Ufficiale di stato civile a portare i registri in carcere per raccogliere la dichiarazione di paternità, forse perché Milano è vicina all’Europa?” ha concluso il garante. Forlì. Il Garante regionale dei detenuti in visita al carcere insieme ai volontari forlitoday.it, 26 ottobre 2023 Roberto Cavalieri: “Servono ascolto e nuove reti. Le visite organizzate negli istituti penitenziari, e aperte al volontariato carcerario, sono finalizzate a cogliere le peculiarità dei progetti educativi per condividerli sul territorio”. Il progetto “Conoscere il carcere per progettare il volontariato”, promosso dal garante dei detenuti dell’Emilia-Romagna Roberto Cavalieri, ha fatto tappa al carcere di Forlì. Una giornata che ha visto la partecipazione di oltre 30 membri delle associazioni di volontariato attive nei penitenziari della regione, da Piacenza a Rimini. “Il progetto delle visite negli istituti penitenziari aperte a esponenti del volontariato carcerario - ha spiegato il garante Cavalieri -, iniziato lo scorso anno con la visita alla casa di reclusione di Castelfranco Emilia, è finalizzato a toccare con mano la realtà di ogni istituto grazie all’ascolto diretto dei vertici della Direzione penitenziaria. Questo per consentire confronto, scambio di idee e creazione di nuove reti fra realtà territoriali molto diverse”. Con una presenza di 160 detenuti, di cui 20 nella sezione femminile, l’istituto di Forlì si trova al centro della città, all’interno della Rocca di Ravaldino, e risale alla fine dell’Ottocento. L’istituto ospita quattro sezioni detentive: ordinaria maschile e ordinaria femminile, sezione protetti e promiscui, sezione per detenuti dimittendi, semiliberi e detenuti che fruiscono dell’articolo 21 O.P. lavoranti esterni. “L’impegno ad ampliare il numero delle attività è necessario sia per tenere le persone impegnate sia per venire incontro alle esigenze di organizzazione della ‘media sicurezza’”, ha sottolineato Carmela De Lorenzo, direttrice della struttura, evidenziando come siano mantenute attive, anche grazie al contributo del volontariato, le possibilità di lavoro e formazione offerte ai detenuti. “La logica - ha spiegato la direttrice - è che a tutti deve essere data una seconda possibilità, creando, tramite il supporto di operatori esperti, percorsi di consapevolezza a partire dal proprio passato”. Una presenza che caratterizza il “modello Forlì” è la società consortile Techne che opera nella formazione professionale, per il reinserimento sociale dei detenuti. All’interno della struttura, infatti, sono presenti spazi destinati a diverse attività, a partire dal laboratorio di cartiera Manolibera, realizzato nel 2011, che produce pregiata carta artigianale fatta a mano; il laboratorio di assemblaggio Altremani e il laboratorio di apparecchiature elettriche ed elettroniche (esterno al carcere) con detenuti in art. 21 che escono quotidianamente per raggiungere la sede. Sono presenti, inoltre, i laboratori formativi di teatro a cura del coordinamento Teatro Carcere che coinvolge una trentina di detenuti in tutte e le sezioni dell’istituto. Diverse sono le attività formative proposte dalla società San Vincenzo de’ Paoli, che oltre al servizio distribuzione del vestiario e dei materiali di prima necessità e ai colloqui personali, si adopera per la realizzazione di un orto a cura delle persone detenute, per il laboratorio di cucito e per il corso di cucina. Sono in cantiere anche un corso sulla Costituzione italiana, uno sulla custodia ambientale. In preparazione un corso di fotografia. Sulle attività di lavoro che si stanno portando avanti a Forlì è intervenuta la direttrice generale di Techne, Lia Benvenuti: “L’obiettivo che ci si era posti fin dall’inizio, vent’anni fa, era la sequenzialità, ovvero fornire competenze lavorative creando al tempo stesso produttività dentro al carcere per permettere di lavorare durante la pena”. “I laboratori in carcere avviati da Techne - ha concluso Lia Benvenuti - hanno permesso alle persone di trovare un lavoro fuori”. Luigi Dall’Ara della San Vincenzo de’ Paoli, che segue le attività in carcere da oltre vent’anni, ha fatto il punto sul ruolo dell’associazionismo nell’istituto forlivese: “La realtà del carcere è un luogo di prima emergenza e disperazione, per questo offriamo attività che mirano alla relazione con la persona detenuta, nella consapevolezza che dietro la pena c’è sempre l’uomo con i suoi bisogni”. Non meno importante il ruolo di attività come il teatro, di cui Sabrina Spazzoli del Coordinamento teatro carcere ha fatto una panoramica generale: “Siamo presenti a Forlì dal 2010 grazie al lavoro di rete che ha saputo fare il Coordinamento teatro-carcere, che è presente in tutte le carceri emiliano-romagnole. Il punto di forza che può offrire un’attività come il teatro è sicuramente il fatto di favorire il senso di rispetto delle regole e la crescita in questi anni del valore artistico di ciò che abbiamo portato in scena”. Roma. Nuova aula digitalizzata per detenuti di Rebibbia Nuovo Complesso Adnkronos, 26 ottobre 2023 È pronta la nuova aula digitalizzata per i detenuti di Rebibbia Nuovo Complesso frutto anche di un percorso di lavoro e ricerca che lega l’Università di Roma Tor Vergata al carcere di Rebibbia dal 2006. Il sopralluogo alla Casa circondariale Rebibbia nuovo complesso “Raffaele Cinotti”, nell’aula ‘Tor Vergata’, si è svolto oggi per constatare la realizzazione del progetto Digitalizzazione in carcere finanziato con un contributo regionale di 40 mila euro e approvato con la dgr 794/2021. Il progetto è stato portato a termine grazie alla sinergia tra l’assessore regionale al Personale, polizia locale, sicurezza urbana ed enti locali, Luisa Regimenti, il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio, professor Stefano Anastasìa, la professoressa Marina Formica, Delegata per la formazione universitaria negli istituti penitenziari dell’Università degli Studi di Roma Tor Vergata, e il direttore regionale Ferdinando Luigi Nazzaro. Presenti al sopralluogo anche il Magnifico Rettore dell’Università di Roma Tor Vergata prof Nathan Levialdi Ghiron, il prorettore vicario prof Carlo Nucci, la direttrice della Casa circondariale Rebibbia nuovo complesso “Raffaele Cinotti”, Rosella Santoro. Il Rettore Levialdi Ghiron ha spiegato che “sbocco di un impegno ultradecennale che il mio Ateneo sta portando avanti con caparbietà e passione, il nuovo progetto “Digitalizzazione in carcere” consentirà ai detenuti iscritti a “Tor Vergata” di migliorare la loro preparazione agli esami seguendo le lezioni a distanza, colloquiando con i docenti che non possono recarsi a Rebibbia, ricorrendo a banche dati e a strumenti telematici preventivamente individuati per migliorare la preparazione delle loro tesi di laurea. La tecnologia a servizio degli studenti dunque, e non viceversa”. I professori e le professoresse e i tutor e le tutor impegnati nel progetto più ampio “Università in carcere” nato a Roma Tor Vergata nel 2006 continuano comunque a frequentare il carcere per meglio coltivare i rapporti personali con gli studenti. “Digitalizzazione in carcere” è un progetto finanziato dalla Regione Lazio nell’ambito del piano di rieducazione dei detenuti nel rispetto di quello che prevede l’art 27 della Costituzione, ovvero che la pena debba tendere alla rieducazione del detenuto con lo scopo di favorire il reinserimento nella società. E che avviene, come in questo caso, con il concorso di altre istituzioni come l’Università. Per il Garante Anastasìa, la digitalizzazione dell’aula dell’Università di Roma Tor Vergata nella casa circondariale di Rebibbia è “una tappa dell’ultradecennale impegno di questa Università in carcere e della collaborazione con l’ufficio del Garante regionale dei detenuti, ma è anche il modo più intelligente di fare tesoro della terribile esperienza della pandemia: non rimuovere, ma impararne la lezione, mettendo a frutto tutte le sperimentazioni di necessità che sono state seguite”. “La digitalizzazione dà grandi possibilità nello studio, non solo universitario, in carcere. Per questo, anni fa, d’intesa con il Consiglio regionale abbiamo voluto indirizzare in questo settore parte delle risorse messe a disposizione dalla legge regionale per i diritti dei detenuti. Oggi ne vediamo i frutti” ha sottolineato. “Digitalizzazione in Carcere” contribuisce infatti a rendere concreto il diritto allo studio, ponendo i detenuti nelle condizioni di seguire con maggiore facilità le attività didattiche a distanza, favorendone lo studio, l’incontro telematico con i propri docenti e la preparazione delle tesi di laurea, usufruendo, con tutte le cautele e le autorizzazioni del caso, di una serie di strumenti telematici, come banche dati o archivi. L’approccio telematico nasce dall’esperienza messa in atto durante la pandemia del COVID che ha dato il via alla digitalizzazione. Gli studenti detenuti iscritti a Roma Tor Vergata possono seguire corsi di laurea afferenti alle facoltà di Lettere e Filosofia, di Giurisprudenza e di Economia. La professoressa Marina Formica lo definisce un grande traguardo. “Con gli strumenti da oggi a disposizione, - ha osservato - docenti e tutor potranno accedere alla piattaforma Microsoft TEAMS e utilizzarla per seminari, incontri, ricevimento on line. Nulla si sarebbe realizzato però senza il sostegno dell’Amministrazione penitenziaria e della sua Direttrice, nonché dell’ufficio IT del carcere. In stretta relazione con il nostro Ufficio tecnico sono state allestite ben nove nuove postazioni”. “Questa realizzazione - ha aggiunto Formica - rappresenta l’ultimo importante traguardo raggiunto nel percorso di lavoro e ricerca che lega l’Università di Roma Tor Vergata al carcere di Rebibbia dal 2006 per la formazione dei detenuti e delle detenute e permetterà anche la realizzazione di ulteriori innovativi risultati come la produzione di podcast”. “Di fatti, con il suo team di ricerca, la prof.ssa Cristina Pace, docente di Drammaturgia antica a Tor Vergata, ha già realizzato con i reclusi un podcast intitolato ‘L’Iliade: anche gli eroi piangono’ e presentato a giugno 2023 nel teatro del carcere” ha ricordato infine Formica. Al progetto partecipano inoltre Cristina Gobbi di “Tor Vergata” e le funzionarie giuridiche pedagogiche del carcere, Rossana Scotucci e Pina Boi, oltre a Serena Cataldo, assegnista di ricerca del progetto Technopole PNRR. Importante infine l’accordo tra Garante dei Detenuti e l’università di Roma Tor Vergata per l’apertura di sportelli per i diritti delle persone detenute nelle carceri di Velletri e di Rebibbia, a cui i detenuti potranno far riferimento per esporre difficoltà e disagi agli operatori dell’Ateneo. Inoltre, a giorni verrà ultimato il primo numero di una nuova rivista, in collaborazione con l’editore Castelvecchi, dove studenti e studentesse esterni e studenti detenuti rifletteranno su alcuni problemi del nostro tempo. Roma. A Regina Coeli un concorso di scrittura per andare oltre “Il muro” di Antonella Barone gnewsonline.it, 26 ottobre 2023 Premiazione del concorso letterario “Liberi di scrivere 2023” a Regina Coeli. È Domenico L. il vincitore della seconda edizione di “Liberi di scrivere”, concorso letterario destinato ai detenuti della Casa circondariale di Roma Regina Coeli. Secondo classificato un componimento di Luca T., mentre condividono il terzo posto, con due poesie, Giuseppe C. e Gianluca S. Menzione speciale della giuria, infine, a una poesia in romanesco di Carlo Alberto C. La cerimonia di premiazione, si è tenuta questa mattina all’interno dell’istituto penitenziario romano. Nato nel 2022 come “Scriviamone a Regina Coeli” per iniziativa del magistrato di sorveglianza Alessandro Giordano e realizzato in collaborazione con l’associazione Vo.Re.Co. presieduta da padre Vittorio Trani, al concorso è stato dato quest’anno un nuovo titolo: “Liberi di scrivere”. “Un concorso letterario con il titolo Liberi di scrivere è già qualcosa di molto emozionante”, ha detto in un video messaggio di saluto Gigi Marzullo. “Scrivere - ha aggiunto il conduttore - significa raccontare, emozionare se stessi e gli altri, scrivere può cambiare la vita di una persona. Scrivere è libertà, è essere in sintonia con se stessi e anche con gli altri”. “Questo tipo di attività dovrebbero rappresentare una continuità: dobbiamo riuscire a rendere il periodo della detenzione un continuum di una comunità, perché solo la continuità rende il senso di comunità”, ha commentato Giovanni Russo, Capo Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria intervenuto alla cerimonia. “Entro tre anni saranno 21mila i detenuti che arriveranno a fine pena - ha ricordato il responsabile del DAP - Il nostro compito è quello di formarli e di offrire loro occasioni di rientro alla comunità”. “La scrittura è una attività di proiezione di se stessi senza freni, né remore - ha concluso Russo - Ai detenuti che oggi vengono premiati per le loro opere chiedo di fare tesoro di questa esperienza e di testimoniarla all’esterno, anche oltre il vostro ambito familiare”. Sono stati 35 lo scorso anno e 50 in questa edizione i detenuti della casa circondariale romana che hanno partecipato al concorso con poesie, testi brevi e racconti ispirati al tema scelto per l’edizione di quest’anno, “Il muro”, barriera concreta e simbolica alla libera espressione di sé, che tuttavia è possibile superare con la creatività e grazie a iniziative che, come evidenziato dalla presidente del Tribunale di Sorveglianza di Roma, Vittoria Stefanelli, sono “sintomo di uno Stato che non abbandona e che riempie la pena di contenuti”. “Il carcere è di per sé un luogo di deprivazione, che prevede tanti segni meno”, ha aggiunto Alessandro Giordano, magistrato di sorveglianza di Roma e ideatore del concorso. “Io credo che l’arte e la cultura possano costituire un grande segno più, per innalzare il livello culturale e accompagnare chi ha sbagliato verso un futuro migliore”. Tema e obiettivi del concorso sono stati commentati da Claudia Chiarolanza, docente di psicologia clinica all’Università “La Sapienza” di Roma. I versi dei componimenti premiati sono stati letti dall’attrice Gaia Insenga e allietati dall’esecuzione di tre brani musicali della flautista Miriam Borelli e della pianista Sara Shirvani. Busto Arsizio. “Io ero il milanese”: il podcast diventa spettacolo teatrale in carcere varesenews.it, 26 ottobre 2023 “Non è la storia di un eroe” è la messa in scena del podcast di grande successo, che racconta una storia di errori e redenzione. Si potrà assistere in un contesto particolare: una platea mista dentro al carcere. Al carcere di Busto Arsizio va in scena lo spettacolo tratto dal famoso podcast “Io ero il milanese”, storia di errori e riscatto. Uno spettacolo dentro alla casa circondariale, ma non solo per chi la vive: la direzione e le diverse organizzazioni hanno infatti pensato una serata “aperta” alla cittadinanza, una platea composta in parte da detenuti, in parte da visitatori che vengono dall’esterno. Con due repliche al 10 novembre e un ulteriore spettacolo aggiuntivo (sempre sul tema del carcere) il giorno successivo al quartiere Sant’Anna. “Io ero il milanese”, prodotto da raiplaysound, è diventato un vero e proprio caso nel 2022. Partito in sordina, grazie al passaparola il podcast di Mauro Pescio (foto di apertura: Allegra Primavera) ha conquistato il pubblico toccando i 2 milioni di ascolti, e all’edizione 2023 de Il Pod (Italian Podcast Awards), ha ricevuto il primo premio nella categoria “Documentario”. ““Io ero il milanese” è il racconto di un uomo che nella vita ha fatto tante scelte sbagliate, un uomo con cui la sfortuna si è accanita, un uomo che ha toccato il fondo, ma che da quel fondo si è rialzato. È la storia di come non debba mai venire meno la speranza, la fiducia e soprattutto di come si debba sempre offrire un’altra possibilità. La storia raccontata nel podcast nel gennaio del 2023 è diventata anche un libro edito da Mondadori ed anche uno spettacolo teatrale che ha debuttato a Bari in occasione del Prix Italia, il 4 ottobre 2022”. E lo spettacolo intitolato “Non è la storia di un eroe” andrà in scena nel carcere di Busto con due repliche, ore 17 e 20, per un pubblico misto di detenuti e liberi cittadini. “Ho conosciuto Lorenzo nell’estate del 2017” racconta Pescio, l’autore del podcast che sarà in scena a Busto. “Era uscito dal carcere da una decina di giorni. Durante il nostro primo incontro, durato qualche ora, mi ha raccontato in sintesi tutta la sua vita, da quando era entrato in carcere la prima volta a pochi mesi, a trovare suo padre, a quando dal carcere era uscito lui stesso come un uomo nuovo di 40 anni, in quel luglio 2017, trasformato in una risorsa per la società”. È significativo mettere in scena questa storia in carcere, davanti ad un pubblico di detenuti e cittadini - raccontano gli organizzatori - perché lo spazio teatrale è, per antonomasia, la spazio della rivoluzione, adatto quindi a dare voce alla rivoluzione personale del protagonista e alla sua storia difficile, dura, ma anche piena di speranza. Questa storia può essere uno stimolo anche per tanti che in carcere devono ancora trascorrere il tempo della loro condanna, e uno stimolo per i cittadini, a cogliere le potenzialità e le risorse che le persone recluse costituiscono anche per chi sta fuori. La serata sarà seguita da un altro evento teatrale, sempre sul tema carcere e sempre legato alla produzione di un podcast: l’11 novembre, alle ore 21, andrà in scena presso al Teatro S.Anna di Busto la nuova produzione della Compagina teatrale L’Oblò Liberi dentro, che lavora con gli attori detenuti di Busto: “Viaggio libero dietro le sbarre - podcast live” 13 luglio 2019. “Due esistenze si sfiorano: un uomo e una donna sono sullo stesso autobus. Sono le 13.45, l’autobus viene fermato dalla Polizia stradale e l’uomo viene arrestato. La donna sull’autobus non riesce a dimenticare l’evento di cui è stata testimone. In un continuo dialogo tra due voci, lo spettacolo conduce lo spettatore in un viaggio dentro e fuori dal carcere. Libero è il dialogo da cui questo spettacolo è nato: un gruppo di volontarie del l’Oblò e uno degli attori ex ristretti del gruppo che termina il proprio periodo di carcerazione che scrivono e discutono di detenzione e di pena. Questo gruppo arriva alla creazione di alcuni podcast. E da quel prezioso materiale nasce lo spettacolo. E il podcast che verrà presentato la serata dell’11 novembre”. Il progetto e le info sui biglietti - Il progetto è promosso da Cooperativa Intrecci, Ass. L’Oblò liberi dentro, Associazione 100Venti, Enaip Lombardia, Coop. Lotta contro l’emarginazione, Teatro S. Anna di Busto, con il contributo di Fondazione Comunitaria del Varesotto, FSE/ Regione Lombardia, Progetto Quindici Regione Lombardia. L’appuntamento è per il 10 e 11 novembre. Per informazioni: obloteatro@gmail.com, 340 3336318 - 347 5736139. Per le prenotazioni obbligatorie, vista la necessità di accedere al carcere, si deve procedere per tempo usando questo form https://forms.gle/HBbHQVemMtk4RWVw6 Torino. Teatro e carcere nell’ambito del progetto nazionale Per Aspera ad Astra a cura di Rita Longo dors.it, 26 ottobre 2023 “Per Aspera ad Astra - Come riconfigurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza” è un progetto in corso in 14 carceri italiane, giunto alla IV edizione, con capofila l’associazione toscana Carte Blanche (ente responsabile della progettazione e delle attività formative della rete di Teatri Nazionali) e il coinvolgimento di importanti realtà teatrali che svolgono attività di ricerca artistica nelle carceri. L’iniziativa è partita dall’esperienza della Compagnia della Fortezza di Volterra, è promossa da ACRI-Associazione di Fondazioni e Casse di Risparmio Spa con Fondazione Cassa di Risparmio di Volterra (capofila), ed è sostenuta da 12 Fondazioni di origine bancaria, coinvolgendo circa 400 detenuti, che partecipano a percorsi di formazione professionale nel settore del teatro (attori e drammaturghi, scenografi, costumisti, truccatori, fonici, addetti alle luci) e a laboratori teatrali. Le compagnie e le carceri coinvolte: Associazione Baccanica/carcere di Palermo, Teatro e Società/carcere di Torino, Opera Liquida/carcere di Milano Opera, Associazione Gli Scarti/carcere di La Spezia, Teatro Stabile dell’Umbria/carcere di Perugia, Teatro dell’Argine/carcere di Bologna, Cada Die Teatro/carcere di Cagliari, Voci Erranti Onlus/carcere Saluzzo Cuneo, Teatro Necessario/carcere di Genova, FormAttArt/carcere di Vigevano Pavia, il Teatro Stabile del Veneto/ carcere di Padova o Rovigo, Teatro Nazionale di Napoli / Manovalanza / Puteca Celidonia/ carcere minorile di Nisida, ACS Abbruzzo/ carcere di Teramo. A Torino è attualmente in scena lo spettacolo “Finestre” (24 - 27 ottobre) presso il Teatro della casa Circondariale “Lorusso e Cutugno”. Lo spettacolo è frutto di laboratori a cui hanno partecipato 51 detenuti, che hanno collaborato alla realizzazione delle scenografie e al testo, scrivendo frasi e battute caratterizzate dal bisogno/desiderio di alimentare la Speranza come contraltare alla disperazione del “nulla” dopo l’uscita dal carcere. Un contributo significativo allo spettacolo è arrivato anche dal Primo Liceo Artistico e dall’IIS Giulio di Torino. Torino. Inaugurata la mostra fotografica “70 anni di scuola in carcere” cr.piemonte.it, 26 ottobre 2023 “Una straordinaria opportunità colta dal Consiglio regionale del Piemonte per far conoscere all’opinione pubblica e alle istituzioni del territorio una pagina della nostra migliore storia di impegno civile e sociale”. Così il Garante regionale dei detenuti Bruno Mellano ha definito la mostra fotografica 70 anni di scuola in carcere, inaugurata questa mattina all’Ufficio relazioni con il pubblico dell’Assemblea legislativa regionale, in via Arsenale 14/G, a Torino. I settant’anni, raccontati attraverso fotografie, manifesti e manufatti, sono quelli vissuti dai detenuti grazie alla presenza dell’Istituto professionale Plana all’interno delle carceri torinesi. “Un impegno iniziato nel 1953 alle carceri Nuove e proseguito alla Casa circondariale Lorusso e Cutugno - ha ricordato il dirigente dell’Istituto, Enrico Baccaglini - che ha visto nascere nel corso del tempo numerose collaborazioni, come quella con il Museo ferroviario piemontese, e regalato ai detenuti un’esperienza di normalità e di arricchimento professionale. Una possibilità che coinvolge ogni anno un’ottantina di detenuti e permette a una quindicina di loro di affrontare l’esame per la qualifica professionale”. “Un’esperienza - ha aggiunto la responsabile dei corsi scolastici in carcere Sara Brugo - capace di riorientare l’esistenza dei detenuti, che attraverso lo studio e la condivisione del lavoro acquisiscono consapevolezza del proprio valore, vedono aprirsi davanti agli occhi nuove opportunità e imparano le regole della convivenza. Tra i prossimi obiettivi, la possibilità di permettere agli allievi di conseguire il diploma al termine del terzo anno”. Anche la direttrice della Casa circondariale Elena Lombardi Vallauri ha evidenziato che “i sette decenni d’impegno dell’Istituto Plana e del personale carcerario sono una dimostrazione che in carcere è possibile creare spazi di libertà, offrendo ai detenuti l’opportunità di conseguire un titolo di studio e una maggior consapevolezza di sé e del proprio valore”. Il presidente del Museo ferroviario piemontese Marco Pochettino ha illustrato il progetto, nato cinque anni fa e condiviso con il Garante regionale e la Garante comunale dei detenuti di Torino “per far costruire all’interno del carcere le parti in legno di una carrozza d’epoca del 1926, destinata prossimamente a viaggiare sulla linea Torino-Ceres”. “L’impegno dell’Istituto Plana all’interno del carcere - ha concluso Mellano - è la testimonianza di una scuola che fa vivere concretamente il dettato costituzionale secondo cui le pene devono essere rivolte all’obiettivo della rieducazione, restituendo una cornice di profonda umanità e di grande speranza”. Tra i numerosi partecipanti all’evento era presente la consigliera Silvana Accossato. La mostra, allestita sulle vetrine esterne dell’Urp del Consiglio regionale del Piemonte, è visibile fino al 19 novembre. Milano. “Rinascita”, la mostra con le opere dei detenuti delle quattro carceri cittadine di Roberta Rampini Il Giorno, 26 ottobre 2023 Dal 26 ottobre al 5 novembre all’auditorium San Fedele di Milano. Sono i detenuti delle quattro carceri milanesi, Beccaria, Bollate, Opera e San Vittore, gli autori delle opere pittoriche e scultoree in mostra dal 26 ottobre al 5 novembre nell’auditorium san Fedele di Milano. L’esposizione ‘Rinascita’ raccoglie infatti, nel foyer dell’auditorium di via Hoepli 3/b, i lavori realizzati dai carcerati durante una serie di laboratori coordinati dai responsabili e professori Renato Galbusera, Chiara Mantovani, Valentina Marzani e Mariuccia Roccotelli. L’evento è organizzato dal Touring Club Italiano e l’associazione dEntrofUoriars e fa parte di un nuovo progetto di inclusione e accoglienza, nato per raccontare il carcere in luoghi d’arte e cultura, nella profonda convinzione che la bellezza generi bellezza. “L’iniziativa vuole evidenziare come da una condizione di sofferenza esistenziale della popolazione dei privati della libertà può rivelarsi un messaggio di rinascita, ritorno alla speranza che si manifesta con gli strumenti dell’arte visiva”, spiega l’associazione dEntrofUoriars fondata nel 2017 per promuovere il reinserimento sociale dei detenuti nell’ambito del Grande Patrimonio Artistico Culturale Italiano. Partner il Touring Club Italiano, da sempre attento ai temi di inclusione sociale e dell’importanza della condivisione della bellezza accoglie i visitatori all’auditorium San Fedele con i propri volontari di Aperti per Voi. ‘Rinascita’ è aperta a al pubblico dal 26 ottobre al 5 novembre, dal mercoledì alla domenica dalle 14 alle 18 presso il foyer dell’auditorium San Fedele L’inaugurazione di giovedì 26 ottobre, aperta a tutti, è dalle 18.30. Milano. “Dall’ergastolo il mio dono al Papa: un quadro che ho dipinto pregando” di Giorgio Paolucci Avvenire, 26 ottobre 2023 Marcello D’Agata, recluso nel carcere di Opera, un passato da mafioso di primo piano, ha raffigurato la “Madonna che scioglie i nodi” e oggi l’ha consegnata a Francesco. Un cammino di conversione. “Conosciamo la devozione di papa Francesco per l’immagine della Madonna che scioglie i nodi, per questo abbiamo deciso di donargli un quadro che la raffigura. E dipingerlo è stato un altro passo nel mio percorso di fede” Il “pittore” si chiama Marcello D’Agata, recluso nel carcere di Opera, alle porte di Milano, condannato all’ergastolo e con trent’anni di “branda” (come si dice in gergo carcerario) già scontati. Oggi al termine dell’udienza del mercoledì in piazza San Pietro consegna il quadro al Papa, accompagnato da altri due detenuti, dal responsabile del Gruppo Filatelia nelle carceri, Danilo Bogoni, dal direttore di Opera, Silvio Di Gregorio, e da due educatrici. Il passato remoto di D’Agata parla di una carriera mafiosa di primo piano, di stretti legami con la famiglia catanese di Nitto Santapaola, di otto anni trascorsi in regime di 41 bis. Il passato prossimo e il presente raccontano invece un’esistenza trasformata in profondità dalla riscoperta della fede e dalla passione per la pittura. Sette fratelli, un’infanzia serena, la scuola dei salesiani a Catania, la Messa ogni mattina accompagnata dalla preghiera davanti all’immagine del Sacro Cuore di Gesù. Poi la vita sbanda, si moltiplicano le amicizie sbagliate fino a quando, “convinto da un falso maestro ho lasciato che il male si impadronisse di me e sono finito in galera. Ma Dio non si è dimenticato del figlio che si era perduto, e ora che ho trovato il vero maestro non lo mollo più”. C’è un episodio decisivo nel suo percorso: mentre si trova recluso in regime di carcere duro, un giorno riceve una lettera da un altro detenuto e dentro la busta trova un’immagine del Sacro Cuore, esattamente la stessa davanti alla quale da piccolo aveva pregato ogni mattina. “Non poteva essere un caso, nessuno era a conoscenza di quella devozione che coltivavo quando frequentavo le scuole elementari. Ho capito che proprio nel momento più buio si accendeva una luce: Gesù era venuto a cercarmi”. Il suo dialogo con Dio segue le strade di un percorso artistico accompagnato dalla professoressa Chiara Mantovani che a Opera gestisce laboratori per le persone detenute in alta sicurezza (AS1). “A sessant’anni suonati ho scoperto un mondo che mi affascinava ma dove mi sentivo inadeguato. Chiara diceva: “Non preoccuparti delle difficoltà, mentre dipingi prega”. E dopo tredici anni di attività continuo a farlo”. Per consentirgli di coltivare la sua passione, la direzione del carcere ha concesso a D’Agata un piccolo locale che trabocca di quadri, alcuni a sfondo religioso, altri che rappresentano personaggi significativi (Mattarella, Borsellino). Alla finestra una piantina di basilico, “è il mio giardino, mi accontento di poco”. L’opera più recente è un ritratto di don Luigi Giussani, che ha “conosciuto” visitando una mostra dedicata al fondatore di Comunione e Liberazione allestita nel penitenziario. Carcere, la scuola come ritorno alla vita di Alberto Riccadonna vocetempo.it, 26 ottobre 2023 Quante volte la scuola ha fallito proprio con i ragazzi che avevano più bisogno? L’interrogativo incombe sull’importante libro “E-mail a una professoressa” (ed. Effatà) che il frate francescano Beppe Giunti e la giornalista Marina Lomunno, coordinatrice redazionale del nostro settimanale “La Voce e Il Tempo”, stanno portando in questi giorni nelle librerie. Immenso è il potere che la scuola esercita, nel bene e nel male, sui ragazzi più fragili e indifesi, su quelli che non hanno famiglie alle spalle oppure hanno famiglie difficili e incapaci di accompagnarli nello studio. Nel bene, la scuola può compiere il miracolo di far sbocciare questi ragazzi e portarli oltre ai loro limiti, perché diventino adulti. Nel male, può decidere di rassegnarsi alla loro incapacità e lasciarli indietro, arrendersi, condannarli a un destino di emarginazione che sarà sempre più grave. L’Italia ha schiere di insegnanti appassionati, ma non sono tutti. Ha eccellenti programmi didattici, ma la piena inclusione non esiste. L’esperienza di una cattiva scuola - incapace di accompagnare i ragazzi “difficili” - torna purtroppo spesso nelle parole dei carcerati, quando raccontano il giorno in cui decisero di diventare “fuorilegge”. Quasi tutti imboccarono la via della illegalità quando erano ancora giovani, giovanissimi. Scelsero il male perché avevano cattive amicizie o addirittura perché seguivano l’esempio di genitori delinquenti, mamma e papà che entravano e uscivano dal carcere. Frequentavano la scuola dell’obbligo - 8 anni di interminabili lezioni - ma nessuno riuscì nell’impresa di salvarli. Nessuno li convinse a scommettere sulle proprie capacità. Quante volte la scuola ha fallito proprio con i ragazzi che avevano più bisogno? L’interrogativo incombe sull’importante libro “E-mail a una professoressa” (ed. Effatà) che il frate francescano Beppe Giunti, impegnato con i detenuti del carcere di Alessandria, e la giornalista Marina Lomunno, coordinatrice redazionale del nostro settimanale “La Voce e Il Tempo”, stanno portando in questi giorni nelle librerie. È un libro molto bello, breve, ma fulminante: un centinaio di pagine con la raccolta delle lettere di carcerati che hanno scoperto l’importanza della scuola soltanto in età adulta, nella sofferenza del carcere; oggi questi detenuti rimpiangono di aver mancato l’appuntamento con la “buona scuola” quando erano più giovani e la loro esistenza avrebbe potuto prendere una piega diversa. Lomunno e Giunti hanno raccolto le lettere dei “collaboratori di giustizia”, i cosiddetti “pentiti”, che dietro le sbarre hanno scelto di cambiare vita e collaborano con la magistratura per smascherare le organizzazioni criminali. Il sottotitolo del libro dichiara la convinzione di fondo: che “la scuola può battere le mafie”. Se la criminalità si alimenta nell’ignoranza, la scuola serve proprio a sconfiggere l’ignoranza. Se la camorra vive nel silenzio, a scuola si imparano le parole. “Cara scuola - scrive Peppino, detenuto in uno dei 189 penitenziari italiani - tanto tempo fa, quando mi hai conosciuto, tu hai fatto ben poco perché io continuassi a frequentarti; potevi lottare perché io non ti lasciassi; invece mi hai abbandonato al mio destino, senza fare ciò che dovevi”. È l’esperienza di tanti ragazzi “difficili”, che gli insegnanti faticano a gestire: prendono brutti voti, finiscono ai margini della classe e quasi naturalmente diventano indisciplinati, finché la scuola li lascia indietro. Non succede a tutti e non tutti diventano delinquenti, ma è certo che tutti quelli che vengono tagliati fuori in qualche modo si perdono. “Cara professoressa - scrive Giuseppe, un altro collaboratore di giustizia - degli alunni non si deve vedere solo il male, ma anche il bene. Io avevo dodici anni quando a scuola ho portato il primo coltello, e l’ho adoperato. Era la scuola della malavita che mi stava insegnando, tu invece mi sgridavi per i compiti non finiti o perché guardavo fuori dalla finestra mentre tu insegnavi. Cara la mia professoressa, a scuola non si deve abbandonare il più debole al suo destino di sospensioni e bocciature. Gli alunni si vanno a prendere a uno a uno, specialmente si vanno a cercare quelli che non vogliono studiare…”. “E-mail a una professoressa”. Il titolo richiama la celebre “Lettera a una professoressa” di don Lorenzo Milani, il prete della scuola di Barbiana. Lo slogan di don Milani, “I care” (mi importa della tua vita, ti voglio bene), è un manifesto che non ha mai perso di attualità. Nel mondo del carcere la scuola che viene offerta di nuovo agli adulti durante il periodo di detenzione (perché arrivino alla Terza Media o al Diploma Superiore, o alla Laurea addirittura) può essere la chiave di volta. Questa intuizione, l’accostamento fra il recupero dei carcerati e l’educazione dei ragazzi di don Milani, è la bella ispirazione del libro di Lomunno e Giunti: mi importa della tua vita - dovrebbero gridare tutte le scuole - anche quando sembri perduto e dimenticato da tutti; mi importa anche quando la tua vita è stata rovinata dalle tue stesse colpe; mi importa di te e spenderò ogni mia forza per aiutarti a ripartire, cominciando proprio dall’insegnamento, dalla cultura. Da anni Marina Lomunno scrive di questi temi sul nostro giornale, che dedica al mondo del carcere una rubrica quasi tutte le settimane. Il lavoro di Marina alle cronache ed anche questo suo nuovo libro (dopo il primo dedicato ai ragazzi del carcere minorile Ferrante Aporti, con il cappellano don Domenico Ricca) nasce dall’esperienza di volontariato nel penitenziario torinese delle Vallette e in quello minorile, dove san Giovanni Bosco, nell’Ottocento, ebbe l’idea di inventare l’oratorio proprio perché non si dava pace di fronte ai ragazzi incarcerati. Quelli di don Bosco erano i giovani più poveri ed emarginati: avevano l’unica colpa di non aver mai incontrato un adulto significativo, un educatore, un vero insegnante. Torino è una città pilota a livello nazionale sul fronte dell’istruzione offerta ai carcerati nei luoghi di detenzione. Come spiega nella prefazione del libro Maria Teresa Pichetto, fondatrice del Polo universitario presso il penitenziario della Vallette, dal 1998 l’Università degli Studi tiene in carcere corsi regolari di Giurisprudenza e Scienze politiche, accompagnando alla laurea un numero crescente di “ristretti”, come vengono anche definite le persone private della libertà personale. Fra i risultati di questa straordinaria operazione culturale, al di là del conferimento delle lauree, c’è la completa riabilitazione dei carcerati: secondo le statistiche, al termine della pena i detenuti laureati tornano a vivere nella società civile senza più ricadere nel crimine. Fra questi “privilegiati” non si registrano casi di recidiva ed è un risultato eccezionale, se si considera che la popolazione carceraria, normalmente, entra ed esce dai penitenziari molte volte con tassi di recidiva molto elevati. L’art. 27 della Costituzione chiede che la pena carceraria venga eseguita puntando “alla rieducazione del condannato”. La riflessione sulla funzione rieducativa del carcere e sul ruolo della scuola nella prevenzione dell’illegalità è condotta nel libro anche attraverso un intervento di Elena Lombardi Vallauri, direttrice del carcere di Torino, e attraverso una intervista al magistrato Ennio Tomaselli, che in vari saggi e romanzi si è occupato di tematiche giovanili. Anche secondo Tomaselli, già procuratore presso il Tribunale dei minori, la scuola è un decisivo antidoto al disagio e all’emarginazione dei giovani segnati da famiglie diseducative e da abbandoni scolastici. Tomaselli sottolinea l’importanza del fattore umano, perché la cultura non deve essere solo sapere scolastico e impartire nozioni, ma, attraverso insegnanti empatici che lascino un segno, deve essere “educazione alla legalità e alla cittadinanza attiva”. L’esperienza della scuola in carcere è documentata dalla bella testimonianza di Roberto Gramola, ex detenuto che oggi collabora con la Caritas di Torino e scrive sul nostro giornale. Gramola proviene da una lunga detenzione, nella quale si è diplomato alle scuole superiori e si è poi laureato. È stata la sua salvezza. Sempre più poveri, sempre meno tutele di Linda Laura Sabbadini La Repubblica, 26 ottobre 2023 Per i dati Istat sono 5,6 milioni nel 2022: 357mila in più rispetto all’anno precedente. E le politiche del governo per aiutarli sono inefficaci. I poveri assoluti, i più poveri tra i poveri, aumentano ancora, 357mila in più nel 2022, per un totale di 5 milioni 674mila. Uomini e donne, italiani e stranieri, al Sud e al Nord crescono. Ma le politiche contro la povertà arretrano. C’è da preoccuparsi seriamente. Primo, perché l’incremento dei poveri avviene dopo il raddoppio del 2012, l’ulteriore aumento di 1 milione nel 2020, mai recuperati, e con un aggravamento del Sud che già stava peggio. Secondo. Perché si ampliano le tipologie di soggetti colpiti. Non più solo bambini che mantengono il triste primato (e ci dovremmo vergognare) di incidenza di povertà al 13.4%, 1 milione 270 mila. Non più solo i giovani, che seguono i minori al 12%, in crescita. Aumenta anche la povertà tra gli anziani, specialmente italiani. È vero, hanno una incidenza più bassa della media, 6,3%, ma, attenzione, con le loro pensioni, negli ultimi 15 anni hanno rappresentato spesso un pilastro per le famiglie più giovani a fronte delle crisi, in seguito alla disoccupazione o alla crescita dei lavori precari dei loro figli. Scricchiola il pilastro di aiuto dagli anziani, proprio nel momento in cui cede anche quello pubblico ai poveri. Terzo. Perché non viene scalfita la povertà minorile, triplicata nel 2012 e da allora mai diminuita. Un bambino che rimane in condizione di povertà a lungo ha un rischio elevato di rimanerci tutta la vita. Non può sfruttare le stesse opportunità degli altri bambini, e cumulerà svantaggi, anno dopo anno, che mineranno le stesse sue capacità di resilienza. Stiamo parlando, soprattutto, dei bambini del Sud, di quelli stranieri specie del Centro Nord, dei bambini figli di operai. Quarto. Perché cresce la povertà dei giovani, 1 milione 157 mila, che, ricordiamocelo, non hanno ancora recuperato il tasso di occupazione del 2008 e pagano una forte svalorizzazione del loro capitale umano. Quinto. Perché il lavoro non basta a garantire l’uscita dalla povertà, le famiglie operaie permangono a un livello alto, il 14,7%. Sesto. Perché è alta la povertà delle famiglie di tutti stranieri (33,2%) e a rischio, conseguentemente, la loro integrazione. C’era da aspettarselo. Con l’aumento dell’inflazione, che ha colpito le fasce con minore capacità di spesa più delle altre, non poteva che essere così. Il tasso di inflazione per le famiglie del primo quinto della distribuzione della spesa per consumi, le più disagiate, ha toccato punte del 18,6% a ottobre e novembre e in media nel 2022 del 12,1%. La differenza nell’impatto dell’inflazione sulle famiglie a maggiore e minore capacità di spesa è arrivata anche a 9 punti percentuali. E ciò non poteva non trasformarsi in aumento della povertà. I bonus energetici hanno potuto solo contenerne l’incremento di 0.7 punti percentuali, ma non eliminarlo. I dati sono preoccupanti, perché la povertà aumenta, proprio nel momento in cui diminuisce il sostegno pubblico ai poveri, con la cancellazione del reddito di cittadinanza e la sua sostituzione con misure più inefficaci e che raggiungono una platea più ristretta. Il quadro è complesso e avrebbe bisogno di una strategia di ampio respiro di prevenzione e contrasto della povertà. Quando il governo se ne doterà? Quando il governo riuscirà ad agire con giustizia? Quella vera, quella sociale. Quella economica. Quando finirà di considerare le misure contro la povertà pura elemosina e non strumenti per garantire la dignità delle persone, favorirne il riscatto sociale, contribuendo a un vero sviluppo sostenibile? Nelson Mandela affermava: “Sconfiggere la povertà non è un atto di carità, è un atto di giustizia”. Dovremmo ricordarcelo tutti. I nostri bambini mai così poveri di Chiara Saraceno La Stampa, 26 ottobre 2023 All’interno di quel 63 per cento di famiglie che fatica a arrivare a fine mese, secondo i dati Eurostat pubblicati qualche giorno fa, ci sono quelle che proprio non ce la fanno. La povertà assoluta si sta rivelando nel nostro paese un fenomeno difficile da scalfire nonostante la ripresa dell’occupazione dopo gli anni bui della lunga crisi finanziaria e poi del Covid. Anzi, a fronte di una stabilità della povertà relativa, nel 2022 è ulteriormente aumentata di mezzo punto percentuale rispetto al 2021, passando rispettivamente dal 7,7 all’8,3 per cento delle famiglie e dal 9,1 al 9,7 per cento degli individui. Il peggioramento ha riguardato tutte le ripartizioni territoriali, ma è stato particolarmente accentuato nel Mezzogiorno, a conferma della maggiore difficoltà che incontra la ripresa in quelle regioni. Secondo l’analisi dell’Istat, questo peggioramento è dovuto in grande parte all’inflazione, che ha colpito più duramente le famiglie economicamente più modeste. Il peggioramento sarebbe stato ancora maggiore se non fossero intervenute le misure prese dal governo Draghi, poi confermate da quello Meloni. Istat stima che i bonus sociali per l’energia e il gas - fortemente potenziati nel 2022, sia nell’importo sia nella platea dei beneficiari - abbiano contribuito a contenere la crescita della povertà assoluta di sette decimi di punto. Vale la pena di segnalare che per tutto il 2022 era ancora in vigore il Reddito di Cittadinanza, che ha avuto un ruolo importante nel contenere sia l’incidenza sia l’intensità della povertà assoluta. Questo ammortizzatore è stato indebolito ed eliminato per alcune fasce della popolazione povera già nel 2023 e, dal 2024, rimarrà in vigore solo per alcune categorie, in primis le famiglie con figli minorenni. Reddito di cittadinanza (e l’assegno unico), tuttavia, non sono sufficienti a proteggere neppure i minorenni dalla povertà. Con un 13,4 per cento di incidenza, pari a un milione e 269 mila persone, i bambini e ragazzi continuano a essere esposti alla povertà assoluta in misura sproporzionatamente maggiore rispetto agli adulti ultra 34enni e agli anziani ultra 64enni, che hanno un’incidenza rispettivamente del 9,4 e 6,3 per cento. Ma ciò vale anche per i giovani fino a 34 anni, in povertà assoluta nel 12 per cento dei casi. È un fenomeno ormai consolidato da decenni, che pone un’ipoteca preoccupante sul futuro di una parte rilevante delle giovani generazioni in una società in cui queste sono in dimensioni sempre più ridotte e perciò il loro benessere, le loro opportunità dovrebbero essere percepiti e praticati come interesse collettivo, non solo come una questione di equità. Le intenzioni, e le politiche, pro-nataliste devono confrontarsi con il fenomeno della povertà minorile e giovanile e con la sua concentrazione non solo nelle famiglie con tre o più figli minorenni, dove riguarda oltre un quinto (21 per cento), ma anche quelle con due figli, dove è in povertà assoluta il 10,6 per cento, a fronte del 6,5 delle famiglie con un solo figlio minorenne. Si aggiunga che le famiglie con minorenni povere lo sono anche più gravemente delle altre, pure povere. Ciò significa che sperimentano deprivazioni più gravi, che possono, nel caso dei minorenni, inficiare le possibilità di un pieno sviluppo delle capacità e di sfruttamento delle opportunità. Non a caso il fenomeno dei Neet, pur con tutte le sue interne diversificazioni, è particolarmente concentrato tra i giovani che hanno un background familiare di povertà. Anche avere un adulto occupato in famiglia protegge solo in parte dalla povertà assoluta. È vero che questa riguarda circa un quarto delle famiglie con minorenni con persona di riferimento non occupata o in cerca di occupazione. Ma si trova in povertà assoluta anche il 9,4 per cento di quelle in cui la persona di riferimento è occupata, percentuale che sale al 15,6 se si tratta di lavoratore manuale o assimilato. Sono le famiglie di lavoratori povere. È una questione di salari troppo bassi rispetto alle necessità di una famiglia, di contratti talvolta precari, ma anche della forte prevalenza, in Italia, delle famiglie mono-percettore di reddito tra quelle che hanno figli, specie se i genitori sono a bassa istruzione e/o se vivono nel Mezzogiorno, dove la domanda di lavoro è bassa e i servizi scarsi. Serve poco introdurre una decontribuzione per le lavoratrici (a tempo indeterminato) madri per il secondo o terzo figlio, se la nascita di un figlio rende impossibile conciliare lavoro e famiglia o se le opportunità di lavoro sono solo precarie. La situazione della povertà assoluta minorile e delle famiglie con minorenni è particolarmente grave nelle famiglie, regolarmente residenti, di stranieri, non solo perché sono più spesso numerose, ma perché i lavoratori e lavoratrici stranieri sono fortemente concentrati nelle occupazioni meno qualificate, a più basso salario e precarie. A fronte di un’incidenza del 7,8 per cento per le famiglie con minorenni di cittadinanza italiana, è del 36,1 per cento per quelle composte unicamente da stranieri e del 30,7 per cento nel caso più generale in cui nella famiglia con minorenni ci sia almeno uno straniero. Solo un miope etnocentrismo potrebbe far considerare rassicurante o consolatorio questo enorme squilibrio. Senza gli stranieri e i minorenni stranieri, lo squilibro demografico che tanto preoccupa per la sostenibilità del nostro paese nel medio e lungo periodo sarebbe ancora maggiore e più irreversibile. Ignorare le difficoltà e deprivazioni che caratterizzano oltre un terzo dei minorenni che crescono, e spesso anche nascono, in Italia significa non solo sprecare una risorsa preziosa, ma innescare potenziali processi di disgregazione, ribellione, marginalizzazione sociale. Migranti. Inferno Cpr di Via Corelli a Milano, lo studio dell’associazione Naga di Andrea Cegna Il Manifesto, 26 ottobre 2023 Gravi mancanze sanitarie, ma anche percosse, deportazioni in paesi in cui non si è mai vissuto, assenza di cibo e indisponibilità di coperte e biancheria intima. Il report denuncia la violazione dei diritti di chi viene rinchiuso nel centro milanese. “Quel che accade dentro il Cpr di Milano, purtroppo, non ci racconta di un caso di mala gestione ma di un qualcosa di strutturale che ritroviamo in tutti questi luoghi in Italia” dice Nadia dell’associazione Naga e della rete Mai Più Lager - No ai Cpr. L’occasione è quella della conferenza stampa di presentazione del report-denuncia curato dalle due realtà è intitolato Al di là di quella porta - Un anno di osservazione dal buco della serratura del Centro di Permanenza per il Rimpatrio di Milano. Lo studio di quanto accade in via Corelli è stato difficile, situazione resa “complicata da opacità e ostracismo” tanto che il report per essere composto ha necessitato di “un metodo flessibile e di fonti e interventi diversissimi. La classica raccolta dati da analizzare si è rivelata impossibile a fronte della sostanziale inesistenza di dati ufficiali disponibili, e del rifiuto delle autorità a fornire quanto richiesto”. Non solo, cercare di analizzare e capire quanto accadeva dentro al Cpr del capoluogo lombardo ha permesso di sapere che in Italia, tra il 2018 e il 2022, sono 14 le morti di persone “ospiti” dei Centri di permanenza e rimpatrio. Cinque di queste non hanno un nome. Per quattro di loro non si conoscono neppure le cause e le circostanze del decesso. Dei cinque nessuno è morto a Milano, ma il Naga si è adoperato per capire di più e i riscontri dalle prefetture di riferimento stanno arrivando solo ora. Il dossier di 220 pagine è diviso in 11 capitoli. Il più corposo è quello che denuncia le gravi mancanze sanitarie e l’assenza di cura per chi viene rinchiuso in via Corelli. “Abbiamo raccolto testimonianze che attestano una sistematica violazione del diritto alle cure” ribadiscono e aggiungono “la visita di idoneità al trattenimento o non è svolta o è svolta senza strumenti diagnostici adeguati; la ‘visita medica’ di formale presa in carico da parte dell’Ente gestore comprende umiliazioni e abusi quali, per esempio, la denudazione delle persone appena arrivate alla presenza del personale medico e di agenti di polizia e l’obbligo di fare flessioni per espellere eventuali oggetti nascosti nell’ano; abbiamo verificato il trattenimento di persone con malattie gravi e croniche, come un tumore cerebrale e gravi problemi di salute mentale; frequente è la mancanza di personale medico e la sommarietà della gestione delle cartelle cliniche costituisce la regola, come pure costante è una sovrabbondante elargizione di psicofarmaci senza alcuna prescrizione specialistica”. Le violenze che colpiscono chi subisce la detenzione amministrativa sono diverse: percosse, deportazioni in paesi in cui non si è mai vissuto, assenza di cibo e indisponibilità di coperte e biancheria intima. “Abbiamo ricevuto video che attestano la presenza di vermi nel cibo. Inoltre, evanescenti sono le figure che si occupano di mediazione linguistica, interpretariato e assistenza psicologica, che pure dovrebbero essere presenti, per contro, è debordante la presenza di agenti delle forze di polizia. Numerosissime sono le testimonianze di diffusi episodi di autolesionismo, labbra cucite, lamette ingoiate, tentativi di suicidio - soprattutto per impiccagione” ricordano. Dal palco della Casa delle Cultura di Milano, Teresa dice “purtroppo la nostra ricerca non ha portato alla luce alcuna novità, era quello che ci aspettavamo a partire dalla limitazione della libertà personale perché si viene rinchiusi senza aver commesso alcun reato se non un illecito amministrativo”. Migranti. Suicidio nel Cpr di Torino, chiesti due rinvii a giudizio per omicidio colposo di Giansandro Merli Il Manifesto, 26 ottobre 2023 A maggio 2021 Moussa Balde si era tolto la vita nella struttura detentiva torinese. Era recluso nel reparto d’isolamento dell’Ospedaletto. Omicidio colposo. È l’accusa che la procura di Torino muove a direttrice e medico del Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di Corso Brunelleschi dove il 23 maggio 2021 si è tolto la vita Moussa Balde. Il ragazzo aveva appena 23 anni, era originario della Guinea ed era stato portato nella struttura detentiva dopo aver subito un’aggressione, ripresa da un video diventato virale, a Ventimiglia. La sua unica colpa: non avere i documenti in regola. La terza richiesta di rinvio a giudizio avanzata dai pm riguarda un ispettore di polizia a cui sono contestati i reati di falso ideologico e favoreggiamento. Per il direttore dell’ufficio immigrazione e altri due agenti, invece, i magistrati chiedono l’archiviazione. L’ipotesi di reato era sequestro di persona. L’inchiesta è stata coordinata dal procuratore aggiunto Vincenzo Pacileo, dalla procuratrice reggente Enrica Gabetta, dal pubblico ministero Rossella Salvati e dal pubblico ministero Giovanni Caspani e ha messo al centro la gestione “impropria” della struttura. In particolare per quanto riguarda il reparto dell’Ospedaletto, criticato in diverse occasioni anche dal Garante nazionale dei detenuti Mario Palma. Il settore era inizialmente destinato alle persone che necessitavano cure mediche ma secondo l’accusa sarebbe stato utilizzato anche per isolare chi protestava contro le condizioni di vita nel centro (chiuso da marzo per le rivolte interne). Questa funzione punitiva non era regolata da alcuna norma. È in quel reparto che Balde si è suicidato. Per “far superare a mura e sbarre il suo grido di dolore”, come dichiarato dal suo avvocato Gianluca Vitale, un mese dopo la tragedia l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) ha redatto Il libro nero del Cpr di Torino puntando il dito proprio contro l’Ospedaletto. I minori stranieri sono senza accoglienza ma i posti ci sono e non vengono assegnati di Gaetano De Monte Il Domani, 26 ottobre 2023 Secondo i dati più aggiornati del ministero dell’interno che risalgono alla fine di luglio, negli ultimi 9 anni più di 111mila bambini stranieri non accompagnati da nessun adulto di riferimento, familiare o genitore, hanno raggiunto l’Italia intraprendendo viaggi pericolosi via mare. Secondo i dati più aggiornati del ministero dell’Interno che risalgono alla fine di luglio, negli ultimi 9 anni più di 111mila bambini stranieri non accompagnati da nessun adulto di riferimento, familiare o genitore, hanno raggiunto l’Italia intraprendendo viaggi pericolosi via mare. A questi si aggiungono migliaia di minorenni arrivati attraverso le vie di terra, come la rotta balcanica, oppure che sono giunti senza essere intercettati dalle autorità di polizia. Per legge dovrebbero essere accolti all’interno di una pluralità di strutture: dai centri Fami finanziati dal Fondo Asilo, migrazione e integrazione a quelli della rete Sai (ex Sprar) fino alle case famiglia e ai centri di accoglienza straordinaria, Cas, gestiti dalle prefetture. I conti non tornano - Eppure, a leggere i dati elaborati da Save the Children e disponibili nell’ultimo Dossier statistico immigrazione redatto ogni anno dal centro studi Idos, i conti non tornano. Perché alla fine del 2021 risulta che sono stati attivati poco più di 8000 posti, considerando tutte le tipologie di strutture, a fronte delle 12.000 presenze di minori che sono state rilevate in quell’anno. È un trend di arrivi che è in continua crescita, se pensiamo che nel luglio 2023, mese a cui risalgono gli ultimi dati disponibili del Viminale, sono stati segnalati sul territorio italiano 21.710 minori stranieri non accompagnati, di cui circa il 20 per cento è composto dai minori ucraini che vengono ospitati, però, generalmente, nelle famiglie di connazionali. È una forbice, dunque, quella tra posti in accoglienza e arrivi di minori, che di continuo tende ad allargarsi. Per questo, fa notare la giurista Antonella Inverno, responsabile dati, ricerca e politiche di Save the Children: “Il rischio maggiore è che dovendo rispondere alla necessità impellente di accoglienza dei nuovi arrivati, dato che solo tra il 19 e il 20 agosto 2023 sono arrivati attraverso il mare 1.902 minorenni soli, siano approntati in urgenza luoghi di accoglienza non adeguati, dove gli standard nazionali e regionali per l’ospitalità dei minorenni non riescono ad essere soddisfatti”. E ancora, è mistero fitto sui dati che non sono pubblicati in forma aggregata dal Viminale. Perché, sempre secondo Save the Children, “al fine di poter delineare un quadro completo circa i percorsi di crescita dei minori stranieri non accompagnati (Msna) in Italia, sarebbe utile poter consultare il numero delle tutele aperte nei confronti dei minori stranieri non accompagnati, il numero di permessi di soggiorno rilasciati e i decreti disposti dai tribunali per i minorenni competenti”. E, in effetti, questi dati non sono resi pubblici in forma aggregata, provocando così un buco nero nella produzione statistica. Di più. Ad aggravare il quadro della mancanza di tutele per gli Msna, ci sono le cifre sugli allontanamenti volontari dai centri di accoglienza riferite dallo stesso ministero dell’interno: bambini e bambine che rischiano di finire nelle maglie dello sfruttamento sessuale e lavorativo. Tra questi destano particolare preoccupazione nelle organizzazioni umanitarie le sorti di 12 bambine tra i 7 e i 14 anni di età sparite nel nulla nel luglio scorso, le quali si aggiungono alle centinaia di minori fantasmi vittime di tratta in Italia censiti negli ultimi due anni. Trasparenza addio - Più in generale, l’assenza di pianificazione e la gestione irrazionale delle risorse, insieme alla mancata trasparenza, sembrano essere delle costanti nel governo del sistema di accoglienza italiano. Come hanno spiegato Fabrizio Coresi e Cristiano Maugeri, due ricercatori della ong Action Aid: “Solo grazie alle vittorie al Tar del Lazio nel 2020 e al Consiglio di Stato nel 2022 abbiamo colmato un vuoto informativo con dati imprescindibili, resi disponibili solo sporadicamente. È il caso della relazione annuale sul sistema di accoglienza, la cui pubblicazione è prevista per legge entro il 30 giugno di ogni anno, scadenza regolarmente disattesa dal Viminale”. Riferiscono ancora da Action Aid: “Nonostante la sentenza del Consiglio di Stato che ha imposto al ministero il rilascio dei dati, continuiamo a confrontarci con il diniego o il rilascio di dati parziali, frammentari e nella quasi totalità inservibili”. Quello che si comprende attraverso il lavoro delle organizzazioni della società civile, invece, è che la narrazione istituzionale sul sistema di accoglienza che sarebbe al collasso, cioè senza posti, è fuorviante. Al contrario - secondo i dati resi disponibili da Action Aid e Openpolis - quasi un quarto dei posti finanziati risultano non utilizzati. Questo accade soprattutto nelle regioni che hanno la concentrazione più alta di presenze di minori stranieri non accompagnati. Per esempio la Sicilia e la Calabria, che sono le regioni maggiormente interessate dagli sbarchi, sono anche quelle in cui vi è il maggior numero dei posti liberi nel sistema di accoglienza, circa il 35 per cento di quelli già finanziati. “Siamo diventati astigmatici”, dice il presidente del centro studi Idos, Luca di Sciullo. “Abbiamo una visione sdoppiata, dai contorni sfumati, per cui non distinguiamo più la realtà dalla rappresentazione che di volta in volta vi sovrapponiamo e scambiamo la parte per il tutto, in una sorta di sindrome da sineddoche. Un astigmatismo, questo, che genera ancora una volta paradossi”. Come quello per cui i migranti che arrivano in Italia sono il carico residuale, diventano oggetti di sbarco selettivo, merce di scambio per fantomatici memorandum d’intesa. Droghe. Blitz di Fdi per togliere la lieve entità. Poi il governo frena: solo un aumento di pena di Viola Giannoli e Liana Milella La Repubblica, 26 ottobre 2023 Battaglia in Senato sul decreto Caivano. Il Csm chiamato a dare un parere: il vicepresidente Pinelli si astiene. Via la lieve entità dalla legge sugli stupefacenti se c’è spaccio, anzi no. Sul blitz di Fratelli d’Italia per cancellare dal Testo unico sugli stupefacenti l’attenuante alla cessione di droga in alcune circostanze il governo dà prima parere favorevole e poi fa dietrofront. Tutto avviene ieri durante la seduta delle commissioni Affari costituzionali e Giustizia al Senato. Fdi, primo firmatario Marco Lisei, presenta un emendamento al dl Caivano che stabilisce, di fatto, che lo spaccio diventi motivo ostativo al riconoscimento della lieve entità. Ovvero a quella norma prevista dalla legge sulle droghe che consente al giudice, rispetto alle pene inflitte per lo spaccio di sostanze stupefacenti, di riconoscere uno sconto per la quantità di droga ceduta, i soldi in tasca ricavo dello spaccio, la presenza o meno di bustine per l’imballaggio della droga o di bilancini per pesarla. Per Lisei però “la giurisprudenza tende a considerare troppe cose di lieve entità. Se io ho tre piantine in balcone - sostiene - e ne consumo il prodotto è un conto, ma se lo vendo, è chiaramente un altro caso”. “Una follia giuridica” - Davanti all’ipotesi di abolizione tout court della norma l’opposizione dem però s’infuria. Secondo il capogruppo del Pd in commissione Giustizia, Alfredo Bazoli, significa “mettere sullo stesso piano Pablo Escobar e lo studente che si rivende una canna al compagno” facendo saltare “qualsiasi principio di proporzionalità”. Una modifica palesemente incostituzionale”, aggiunge, che “finisce per riempire le carceri italiane di studenti un pò incauti”. Carceri già sovraffollate per un terzo, racconta il Libro bianco sulle droghe, da detenuti reclusi per possesso o spaccio di sostanze stupefacenti. Anche Riccardo Magi, segretario di Più Europa, va all’attacco: “Una follia giuridica in cui c’è tutta l’ideologia di questa destra che non limiterà il consumo di sostanze e non diminuirà la loro circolazione, né intaccherà gli interessi delle grandi organizzazioni che ne controllano il traffico”. Qualche ora di bufera e il governo frena. Chiede una riformulazione dell’emendamento in cui la lieve entità resta ma si aumenta la pena minima a 18 mesi. Un nuovo inasprimento che arriva un mese e mezzo dopo quello di settembre: il decreto Caivano già nella sua formulazione iniziale aveva inasprito le pene passando da un massimo di 4 a un massimo di 5 anni. Il senatore Lisei è costretto ad accettare la riformulazione. Che resta, però, un pessimo segnale per Magi: “Già oggi in 7 casi su 10, pur con l’applicazione della lieve entità, si finisce in carcere - dice - Servirebbe un intervento di depenalizzazione che distingua tra le diverse sostanze come chiede la nostra proposta depositata alla Camera”. Intanto sul parere del Csm al decreto Caivano è il vice presidente del Csm Fabio Pinelli, l’avvocato di Padova eletto dal Parlamento in quota Lega tra i dieci laici di Palazzo dei Marescialli, a fare ancora notizia. Astenuto perché a suo dire il Csm “esonda dalle valutazioni che ci sono consentite”, sollevando così una catena di critiche. Le opinioni pubbliche non vincono le guerre. Ma possono farle perdere di Gianfranco Pasquino* Il Domani, 26 ottobre 2023 Agli israeliani non manca l’intelligenza politica per capire che questo ennesimo conflitto è di tipo superiore ai precedenti e che la vittoria sul campo non sarà sufficiente. Le opinioni pubbliche da sole non vincono le guerre. Possono, però, farle perdere. Senza il sostegno dell’opinione pubblica ucraina e delle opinioni pubbliche europee e degli Usa, il presidente Zelensky avrebbe già dovuto cedere all’aggressione russa. Se in Russia fosse possibile la formazione di un’opinione pubblica, Putin avrebbe incontrato fin dall’inizio molte difficoltà a lanciare la sua “operazione militare speciale”; ancora più numerose difficoltà avrebbero fatto la loro comparsa nel mantenerla di fronte agli evidenti insuccessi. Da parte sua impedire e bloccare le informazioni su quel che (non) succede sul territorio ucraino è la logica conseguenza del timore di reazioni dell’opinione pubblica che ricevesse quelle informazioni. L’opinione pubblica - L’opinione pubblica in Israele, prima dell’assalto di Hamas, era profondamente divisa tra sostegno e critiche al governo di Netanyahu e allo stesso primo ministro. La guerra ha prodotto un riallineamento immediato a sostegno delle attività militari con le quali punire Hamas e garantire la sicurezza dello stato di Israele e la vita dei suoi cittadini. Rimane o, meglio, è emerso anche un dissenso su fino a che punto debba arrivare la rappresaglia israeliana, parte dell’opinione pubblica obiettando a misure contro i civili ritenute eccessive e molto criticate non solo da intellettuali di prestigio. Non sono esclusivamente quelle misure, che continuano e non è possibile prevedere quando finiranno, e a quale prezzo per la popolazione civile di Gaza, ad avere spinto larga parte delle opinioni pubbliche non europee, ma pure occidentali, ad esempio, in America latina, a schierarsi fondamentalmente a favore dei palestinesi, spesso ricomprendendovi, non a torto, e maggioritariamente contro Israele. Al proposito, la distinzione che, pure, bisogna sapere e voler fare fra antisionismo e antisemitismo viene sostanzialmente meno. Da buona parte delle opinioni pubbliche, più o meno non-democratiche, ma, ad esempio, Brasile, India, Sudafrica sono regimi democratici, hanno preso le parti dei palestinesi e di chi lotta per loro anche con le armi. La vittoria non basta - Militarmente è molto probabile che Israele consegua i suoi obiettivi in tempi che forse avrebbe preferito più brevi. Tuttavia, ristabilire la situazione, tutt’altro che ottimale, che esisteva prima del 7 ottobre non garantisce affatto la sicurezza e la vita degli israeliani e del loro Stato. Quelle opinioni pubbliche internazionali, nelle quali, è opportuno ricordarlo e sottolinearlo, serpeggia sempre una notevole dose di antiamericanismo, non dismetteranno la loro valutazioni negative su Israele, se non addirittura le rafforzeranno. In vista di qualcosa che sia più, molto più delle tregue e degli armistizi spesso serviti e seguiti da conflitti più sanguinosi, il governo di Israele dovrebbe, forse, procedere a una de-escalation accompagnata da una offensiva diplomatica estesa e di grandi dimensioni. L’autocontrollo sul campo nell’attacco a Gaza e quindi il favorire tutte le operazioni umanitarie necessarie debbono essere rivendicati molto più che come semplici segnali, ma come azioni concrete per aprire la strada ad un dopoguerra di accordi. Agli israeliani non manca l’intelligenza politica per capire che questo ennesimo conflitto è di tipo superiore ai precedenti e che la vittoria sul campo non sarà sufficiente. L’obiettivo deve essere, con l’aiuto degli europei e, in misura reale, ma meno visibile, degli Usa mirare a influenzare profondamente, in maniera decisiva le opinioni pubbliche occidentali e soprattutto fuori occidente. Sarebbe/sarà positivo anche in un’ottica globale. *Accademico dei Lincei