Carceri piene, Nordio pensa alle ex caserme di Liana Milella La Repubblica, 25 ottobre 2023 “Ma non serve, 9.000 detenuti posso scontare pene sostitutive”. Il Guardasigilli pensa al riutilizzo degli edifici militari dismessi. Il professor Gatta replica: “Già 1.200 carcerati pagano il loro debito con la giustizia fuori dalla prigione con pene sostitutive. Va applicata meglio la riforma Cartabia”. Le carceri scoppiano. E questa non è affatto una novità. Lo si sa, lo si dice e lo si denuncia da sempre. Oggi sono 58.987 i detenuti distribuiti in 189 penitenziari a fronte di una capienza di 51.285 posti effettivi. Sovraffollamento. Rivolte. Suicidi, 39 finora nel 2023, 85 l’anno scorso. Eppure, in via Arenula c’è un’importante novità. Perché ci sono anche 1.200 persone, a oggi, che stanno scontando la pena fuori dal carcere grazie alle nuove pene che possono sostituire quelle detentive brevi introdotte con la riforma di Marta Cartabia, che andava sempre dicendo, da ministra della Giustizia, che la Costituzione parla di pene al plurale, e non solo di carcere. I due partiti “carcerocentrici” - Un dato, quello delle già 1.200 nuove pene sostitutive, che vale molto. E che, fatti i conti, dovrebbe convincere il Guardasigilli Carlo Nordio che è inutile andare alla ricerca di caserme dismesse perché invece la via “breve” per ridurre il numero dei detenuti può essere proprio quella di far scontare la pena, per chi è stato condannato fino a 4 anni, senza essere reclusi in cella. Sempre che due partiti della maggioranza, Fratelli d’Italia e Lega, da sempre carcerocentrici, lo permettano. La riforma penale di Cartabia già lo prevede. E chi materialmente ci lavorò e la scrisse presiedendo una commissione al ministero - Gian Luigi Gatta che insegna diritto penale alla Statale di Milano - è convinto, e fornisce anche un dato numerico, che seguendo questa strada “si possa risolvere il problema del sovraffollamento”. La pena alternativa - Partendo non da una teoria, ma da un numero che gli stessi uffici di Nordio hanno reso pubblico proprio adesso. Perché in meno di un anno sono già 1.200 le persone che stanno scontando la pena fuori dal carcere grazie alle nuove pene sostitutive, che rappresentano una rilevantissima novità. Vediamo come, perché, e che conseguenze ciò potrebbe comportare. In mille al lavoro per la pubblica utilità - I dati ufficiali - che Repubblica è in grado di anticipare - arrivano dallo stesso ministero della Giustizia. Ad averli elaborati per la prima volta dopo la riforma Cartabia è il “Dipartimento di giustizia di comunità” e in particolare l’Uepe, l’Ufficio per l’esecuzione penale esterna. Delle 1.200 persone che al 15 ottobre scontano la pena fuori dal carcere sfruttando la legge Cartabia, applicate già dal giudice di primo grado, 999 lo stanno facendo con lavori di pubblica utilità, 198 stanno a casa o in un luogo di cura in detenzione domiciliare, tre sono in semilibertà. Per altre 626 persone l’Uepe sta valutando se applicare una pena sostitutiva e di che tipo. Ma è la cifra, cioè 1.200 persone, su cui riflettere, perché in meno di un anno è stato superato di ben dieci volte il numero di pene sostitutive del carcere breve. Pene che esistevano già dal 1981, ma che erano cadute in disuso e che la riforma Cartabia ha rivitalizzato e ampliato, portando a ben quattro anni, da due, il limite precedente. La proiezione dei numeri attuali - Alla luce di questi dati eccoci alle possibili proiezioni. Ricordando che proprio oggi, per ragionare su come evitare il sovraffollamento, la Scuola superiore della magistratura nella sede di Napoli tiene un corso di tre giorni per i giudici sull’esecuzione penale esterna. Gatta, che ha materialmente scritto le nuove regole della riforma penale di Cartabia su come scontare le pene brevi, parte dai dati. Il 31% dei detenuti, 18.572, è composto da stranieri. Il 4% sono donne. I reati al top della classifica sono quelli contro il patrimonio (rapine, furti, truffe), contro la persona, e cioè omicidi, lesioni, violenze sessuali, e infine quelli in materia di droga. Mentre 15.645 detenuti, cioè il 26%, si trovano in custodia cautelare perché sono ancora sotto processo. “Prigioni piene di condannati a pene brevi” - Attualmente i detenuti condannati a pene brevi sono complessivamente 8.807, un numero che comprende i 1.553 condannati fino a un anno; i 2.820 che devono scontare tra uno e due anni; i 4.434 con pene comprese tra 2 e 3 anni. Secondo Gatta “le nostre carceri scoppiano proprio perché sono piene di condannati a pene di breve durata. Se agli 8.807 condannati fino a tre anni si sommano i 9.310 detenuti che devono scontare tra 3 e 5 anni si arriva allo strabiliante numero di 18.117 detenuti, pari al 42% dei condannati definitivi”. La soluzione? Potrebbe stare proprio nel fare fuori dal carcere le pene brevi, per cui non sarebbe affatto necessario “costruire nuove carceri nelle caserme dismesse, con tempi sicuramente lunghi e inutile dispendio di risorse”. Sotto i 4 anni di pena - Proprio per questo la riforma Cartabia del 2022 aveva previsto la possibilità per il giudice, al momento della condanna, di sostituire le pene fino a 4 anni con una sostitutiva, a patto che vi fosse il consenso dell’imputato. Chi coglie questa opportunità sa di certo che eviterà il carcere, senza dover attendere e sperare in una misura alternativa da parte del giudice di sorveglianza, dopo il passaggio in giudicato della sentenza. Con una gradualità accettabile: la pena pecuniaria sostituisce quella fino a un anno; il lavoro di pubblica utilità quella fino a tre anni e la condanna è inappellabile; la detenzione domiciliare e la semilibertà sostituiscono quelle fino a 4 anni. Secondo Gatta “i primi dati disponibili dimostrano il successo delle nuove pene sostitutive, che iniziano a prendere piede più o meno in tutta Italia anche grazie a protocolli promossi dagli uffici giudiziari, dagli Ordini degli avvocati e dalle Camere penali. La pluralità delle pene che oggi possono essere decise dal giudice spezza la cultura dell’equivalenza tra pena e carcere”. I “liberi sospesi” - E proprio le pene sostitutive possono risolvere anche il problema dei cosiddetti “liberi sospesi”, cioè coloro che sono stati condannati fino a 4 anni, ma sono “sospesi” perché per loro scatta la sospensione automatica dell’esecuzione della pena, in attesa che il giudice di sorveglianza decida una misura alternativa, come l’affidamento in prova ai servizi sociali o la detenzione domiciliare o la semilibertà. Ma purtroppo l’organico insufficiente di questi uffici produce attese lunghissime al punto che lo stesso Nordio, rispondendo a un’interrogazione del renziano Roberto Giachetti, ha parlato addirittura di oltre 90mila condannati in attesa di esecuzione. “Più assunzioni non più prigioni” - “I nuovi dati incoraggianti - conclude Gatta - richiedono però una scelta di campo come quella di investire di più sugli uffici che si occupano dell’esecuzione penale esterna, che gestiscono già oggi un numero di persone di gran lunga superiore a quello dei detenuti. Cartabia ne raddoppiò l’organico passando da mille a duemila persone. Ma evidentemente non bastano ancora”. Il consiglio a Nordio? “Assumermene molti di più anziché pensare alle caserme”. “Carceri, l’impellente urgenza”. Così, dieci anni fa, Giorgio Napolitano di Valter Vecellio huffingtonpost.it, 25 ottobre 2023 Il presidente della Repubblica inviava alle Camere un messaggio sulle condizioni di vita in cui sono costretti detenuti, agenti di custodia e l’intera comunità penitenziaria, cercando di far uscire il Parlamento dalla sua pervicace e oziosa indolenza. Invano. Dolce e beato Paese, l’Italia che ogni giorno celebra e ricorda ogni tipo di anniversario, una “giornata”, una settimana, una ricorrenza. Tanti, fatalmente di qualcuno se ne smarrisce memoria. Si è vittima di malizia se si osserva che se ne è dimenticato uno, giusto dieci anni fa? Il presidente della Repubblica in carica è Giorgio Napolitano. Decide di avvalersi di una sua prerogativa, prevista nel secondo comma dell’articolo 87 della Costituzione: la facoltà di inviare messaggi, nella forma più solenne, al Parlamento. Quello che Napolitano invia a senatori e deputati riguarda le carceri: le condizioni di vita in cui sono costretti detenuti, agenti di custodia e l’intera comunità penitenziaria. Napolitano interviene per cercare di far uscire dalla sua pervicace e dolosa inerzia il Parlamento; perché la Corte europea dei Diritti dell’Uomo pesantemente e ripetutamente sanziona l’Italia; ed è, non ultimo, sollecitato dalle iniziative e dai digiuni di Marco Pannella e di altri dirigenti e militanti del Partito Radicale. L’Italia si trova in quella che viene definita “una mortificante conferma della perdurante incapacità del nostro Stato a garantire i diritti elementari dei reclusi in attesa di giudizio e in esecuzione di pena e nello stesso tempo una sollecitazione pressante da parte della Corte a imboccare una strada efficace per il superamento di tale ingiustificabile stato di cose”. Un accigliato e accorato Napolitano individua e indica “la stringente necessità di cambiare profondamente la condizione delle carceri in Italia costituisce non solo un imperativo giuridico e politico, bensì in pari tempo un imperativo morale”. Denuncia una realtà carceraria che “rappresenta un’emergenza assillante, dalle imprevedibili e al limite ingovernabili ricadute, che va affrontata senza trascurare i rimedi già prospettati e in parte messi in atto, ma esaminando ancora con la massima attenzione ogni altro possibile intervento e non escludendo pregiudizialmente nessuna ipotesi che possa rendersi necessaria”. Non si limita, il presidente, alla “denuncia”. Responsabilmente si fa carico di suggerire anche una possibile strada da percorrere: ritiene che si debba far ricorso a quelli che definisce “rimedi straordinari”, come l’indulto e l’amnistia, per adempiere “a precisi obblighi di natura costituzionale e all’imperativo morale e giuridico di assicurare un civile stato di governo della realtà carceraria”. “Questioni e ragioni”, conclude Napolitano, “che attengono a quei livelli di civiltà e dignità che il nostro paese non può lasciar compromettere da ingiustificabili distorsioni e omissioni della politica carceraria e della politica per la giustizia”. Già nel luglio 2011 sempre Napolitano, aveva detto che quella delle carceri era “un tema di prepotente urgenza”. Cambiano gli esecutivi, i senatori e i deputati, l’indifferenza, l’apatia, l’inerzia, l’ignavia restano. Continuano imperterriti a sgovernare come sempre, maggioranze e opposizioni affratellate. È letteralmente fuori controllo, ha abbondantemente superato ogni possibile e tollerabile livello di guardia, il sovraffollamento carcerario (compreso quello minorile). Si prenda l’ultimo, allarmante rapporto Antigone: i penitenziari italiani sulla carta prevedono una capienza di 51.249 posti (ben 3.646 per vari motivi non sono disponibili). Per contro, al 30 aprile risultavano detenute 56.674 persone: il 26,6 per cento in attesa di sentenza definitiva. Il rapporto 2023 Caritas-Migrantes certifica che si registra un consistente aumento degli ingressi di minori in carcere: erano 1.016 nel 2022 (520 gli stranieri). L’ufficio del Garante dei detenuti avverte che la popolazione negli istituti minorili è destinata ad aumentare del 20 per cento, in strutture già ora sature. Crisi anche per quello che riguarda il corpo della polizia penitenziaria. Sempre “Antigone” sulla base di dati ufficiali raccolti al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, fa sapere che l’organico è di 37.181 unità; gli operativi tuttavia scendono a 32.545, una carenza di organico del 12,5 per cento. Per quanto riguarda questo tipo di carenze, i picchi maggiori si registrano in Sardegna e Calabria: il 20 per cento. Nel 2022 si sono censiti ben 84 detenuti suicidi ufficiali; altri 87 sono morti per “altre cause”: malattia, overdose, omicidio, non meglio specificate “cause da accertare”. In media ogni giorno tre detenuti cercano di uccidersi e vengono bloccati dagli agenti. Lo si dice con il rispetto che la carica e la persona meritano: forse il presidente della Repubblica Sergio Mattarella dovrebbe rinnovare il messaggio inviato dal suo predecessore. Quella delle carceri continua a essere un “tema di prepotente urgenza”, dolosamente ignorato. Suicidi in carcere. Il tempo vuoto di senso della pena di Grazia Zuffa Il Manifesto, 25 ottobre 2023 Nel 2022, 85 persone detenute in carcere si sono tolte la vita, 80 uomini e 5 donne, su una popolazione di circa 55.000 detenuti: il dato più elevato degli ultimi dieci anni. Nel 2010, il Comitato Nazionale per la Bioetica rivolse l’attenzione al fenomeno dei suicidi in carcere, considerando i dati allarmati allora a disposizione del Comitato per il 2009: 72 suicidi su una popolazione di 60.000 detenuti. Dunque, a distanza di oltre un decennio, la questione è ancora lì, in tutta la sua drammaticità. Nell’aprile scorso, Il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, Mauro Palma, poco prima della scadenza del suo mandato ha pubblicato uno studio di grande importanza sui casi di suicidio del 2022 (aggiornati al 2023), più la sequenza temporale dal 2012 al 20. Se ne ricava un quadro non molto diverso dal 2009, con al centro la più alta prevalenza i suicidi fra le persone appartenenti alla cosiddetta “detenzione sociale”. Basti il dato del 23% delle morti volontarie di persone senza fissa dimora). All’interno della detenzione sociale, gli stranieri costituiscono una sottofascia importante (il 42% dei casi). Volendo approfondire le ragioni della loro specifica vulnerabilità, vengono in evidenza la lontananza dei cari e in conseguenza le maggiori difficoltà di comunicazione telefonica; in più, per la precarietà di domicilio e di lavoro, se non per la loro assenza, hanno maggiore difficoltà a ottenere i permessi di uscita dal carcere e le misure alternative. I suicidi si concentrano nell’area di “media sicurezza”, a fronte di assenza di casi nel 2022 nel circuito di “alta sicurezza”, dove sono ristrette le persone con reati più gravi e per pene più lunghe. Anche questo dato sembra riconfermare in controluce la maggiore esposizione dei detenuti e detenute di una fascia ben definita: in condizioni di minorità sociale, di limitato spessore criminale con pene più brevi. E infatti, sempre guardando ai dati del 2022, ben trentotto persone che hanno rinunciato a vivere avevano una pena residua inferiore a tre anni, e cinque avrebbero terminato la pena entro l’anno in corso. Un dato tanto più scioccante guardando alla situazione generale del carcere: nel gennaio 2023, 1451 persone erano ristrette per scontare una pena inferiore a un anno, mentre altre 2598 scontavano una pena compresa fra uno e due anni. Per questi, è evidente l’impossibilità di qualsiasi programma di reinserimento/integrazione sociale. Perciò, annota Il Garante, “il tempo della permanenza in carcere sarà soltanto tempo vuoto, interruzione di una vita a cui tornare forse in situazione soggettiva peggiore, certamente con maggiore difficoltà”. Un tempo vuoto per persone che hanno scarsi, se non nulli, riferimenti esterni, una scarsa assistenza legale, “molte volte neppure strumenti di comprensione del senso del loro essere in carcere e delle possibilità che l’ordinamento prevede”. È un tempo svuotato di significato anche per l’istituzione, rispetto alla (mancata) finalità costituzionale di rieducazione del condannato/a. Un’ultima informazione inquietante: 32 persone decedute sono state classificate nel 2022 come “morti da accertare”. Torna alla mente Susan, la donna nigeriana morta nell’agosto scorso nel repartino psichiatrico del carcere di Torino in seguito al digiuno prolungato. Un caso indecifrabile per certi versi (volontà di morire? sciopero di protesta?), che proprio per questo testimonia la “invisibilità” di Susan allo sguardo impersonale dell’istituzione. In ultima analisi, i suicidi in carcere parlano di una crisi profonda di sistema, non solo penale. Parlano di noi, in una società che sempre più invoca la funzione di messa al bando simbolica del carcere. Prendiamo sul serio l’indicazione del Garante, per un diverso discorso pubblico sulla pena. Per i detenuti 2 milioni di euro in psicofarmaci: “Sedati i disturbi o... i disturbanti?” di Angela Stella L’Unità, 25 ottobre 2023 Antipsicotici utilizzati 5 volte di più che all’esterno, ma i detenuti con diagnosi psichiatrica grave sono meno del 10%. Consumo elevato anche negli istituti per minori. “Nordio che dice?”. È pari a due milioni di euro la spesa in psicofarmaci somministrati nelle strutture detentive italiane nel 2022. Soprattutto antipsicotici, il 60% del totale, prescrivibili per gravi patologie come il disturbo bipolare e la schizofrenia e utilizzati cinque volte di più rispetto all’esterno. È quanto è emerso dall’inchiesta di Altreconomia “Fine pillola mai”, a firma di Luca Rondi, presentata ieri in una conferenza stampa alla Camera dei deputati, ospitata da Riccardo Magi, segretario e parlamentare di +Europa. Questa inchiesta segue a quella presentata ad aprile “Rinchiusi e sedati” sull’uso di psicofarmaci nei Centri di permanenza per il rimpatrio italiani. “I dati sulla somministrazione di antipsicotici nelle carceri italiane ottenuti da Altreconomia e pubblicati sulla copertina di ottobre interrogano il Parlamento e il governo. Che cosa ne pensa il ministro della Giustizia, Carlo Nordio?”. Per Fabrizio Starace, direttore del Dipartimento di salute mentale dell’Azienda unità sanitaria locale di Modena e presidente della Società italiana di epidemiologia psichiatrica “anche se i due insiemi della popolazione non sono comparabili, si tratta di una differenza preoccupante”. Paliperidone, Apipipraziolo, Trazodone, Olanzapina e Quietapina. Sono alcuni dei nomi ricorrenti nelle forniture di farmaci tra il 2018 e la fine del 2022 destinati a 15 carceri di cui Altreconomia ha ottenuto i dati: un campione che copre 12.400 detenuti su un totale di 56mila, analizzato con il supporto di Antigone, dal quale emerge un elevato utilizzo di antipsicotici. “Sono farmaci che servono per ridurre sintomi come i deliri e le allucinazioni - dichiara Starace alla rivista - e sono appropriati per chi ha una diagnosi per psicosi e schizofrenia. Ma a seconda dei dosaggi hanno effetti sedativi importanti: questa spesa così elevata potrebbe essere in parte determinata dal tentativo di evitare una somministrazione più ampia di ansiolitici, come le benzodiazepine, che danno luogo più frequentemente ad abuso e dipendenza”. Secondo Antigone, però, i detenuti con “diagnosi psichiatrica grave” sono meno del 10% del totale. “Stiamo sedando dei disturbi o dei disturbanti? - si è chiesto Starace. Nel primo caso siamo all’interno dell’agire clinico. Nel secondo invece no, e si persegue in modo inappropriato un obiettivo di controllo”. Anche negli Istituti penali per minorenni il consumo di psicofarmaci è elevato. Soprattutto antipsicotici, farmaci prescrivibili per gravi patologie come il disturbo bipolare e la schizofrenia, per cui la spesa pro-capite è aumentata mediamente del 30% tra il 2021 e il 2022, rileva la ricerca. “Negli Ipm c’è un clima da pronto soccorso e gli operatori non riescono a dare risposte adeguate. Abbiamo trascurato queste strutture negli ultimi anni e ne paghiamo le conseguenze”, ha spiegato nel report Alessio Scandurra, coordinatore dell’osservatorio sulle condizioni di detenzione di Antigone. Luca Rondi ha evidenziato come “i detenuti prima o poi usciranno dal carcere e una cura farmacologica errata avrà delle conseguenze durante il loro reinserimento sociale”. In conclusione è intervenuto l’onorevole Magi: “Questi dati mostrano che il carcere è patogeno. Mi verrebbe da fare una brutta battuta: arrestiamo le persone per droga e poi è lo stesso Stato a drogarle”. Il parlamentare ha annunciato due iniziative: “domani (oggi, ndr) presenterò una interpellanza urgente al Ministro della giustizia Nordio e al Ministro della salute Schillaci. Siamo ancora in attesa in attesa che Piantedosi ci risponda sulla questione dei Cpr. Se non otterremo risposte andremo in question time”. L’altra iniziativa verrà presentata il 7 novembre, insieme alla Società della Ragione e diversi garanti regionali: “si tratta di una proposta di legge per istituire delle case di reinserimento sociale, luoghi nei quali possano terminare di scontare la pena coloro che hanno una pena residua inferiore ad un anno”. I detenuti psichiatrici e il rischio di una visione “remscentrica” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 25 ottobre 2023 Nel suo rapporto sulla nuova Rems “Santa Maria” a Calice al Cornoviglio, in Liguria, il Garante evidenzia la necessità di un approccio sistemico nella gestione dei ristretti “sine titulo”. Nel contesto delle misure di sicurezza psichiatriche in Italia, l’apertura della Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) “Santa Maria” a Calice al Cornoviglio, Liguria, solleva importanti questioni riguardo all’approccio alla detenzione e alla presa in carico dei pazienti affetti da disturbi mentali. Il rapporto del Garante nazionale delle persone private della libertà fornisce un’analisi critica di questa nuova struttura e sottolinea le sfide legate all’illegittima detenzione e alla necessità di un approccio sistemico nella gestione delle persone ristrette “sine titulo”. Parliamo delle visite effettuate nei giorni dal 27 al 29 aprile 2023 dalla delegazione - purtroppo uscente - del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale composta da Mauro Palma, presidente, Daniela de Robert ed Emilia Rossi, componenti del Collegio, Federico Cilia, componente dell’Ufficio. La Rems “Santa Maria”, operativa dal luglio 2022, è una struttura unica nel panorama italiano. Si trova isolata in una zona boschiva a ventiquattro chilometri dalla città di La Spezia e offre 20 posti letto esclusivamente per pazienti maschi. Questa Rems ha una funzione peculiare: accogliere temporaneamente le persone ristrette illegittimamente nei penitenziari in attesa di un posto nelle strutture adatte al loro trattamento. Il rapporto del Garante nazionale sottolinea che sebbene la Rems “Santa Maria” rappresenti una risposta emergenziale all’illegittima detenzione, essa solleva domande significative sulla sua efficacia nel sistema complessivo. La struttura, essendo una soluzione temporanea, non affronta completamente la questione delle lunghe liste d’attesa per l’ingresso nelle Rems. Inoltre, la struttura solleva preoccupazioni sulla mancanza di un approccio sistemico nella gestione delle persone con disturbi mentali. Il rapporto critica la mancanza di una strategia terapeutica globale e il rischio di riaffermare logiche di internamento anziché promuovere un approccio basato sulla comunità. Il Garante nazionale raccomanda un maggiore coordinamento tra i Dipartimenti di Salute Mentale e la magistratura, soprattutto considerando l’alto numero di persone in lista d’attesa. Inoltre, suggerisce l’importanza di un adeguato finanziamento per i servizi territoriali per la salute mentale come alternativa all’internamento. Il Garante osserva che l’istituzione della Rems di Calice al Cornoviglio rischia di configurare, pertanto, un duplice pregiudizio all’intero sistema della presa in carico dei pazienti psichiatrici: da un lato, rafforza ulteriormente quel vulnus, già riscontrato in altre regioni, dell’effettiva applicazione del principio della territorialità della cura, dall’altro si palesa quale strumento di intervento esclusivamente deflattivo. Per tale ragione, il Garante nazionale raccomanda alle Istituzioni nel loro complesso - nazionali e regionali - di affrontare il problema dell’illegittima detenzione delle persone in attesa di posto nella Rems secondo un approccio “sistemico”, tramite il potenziamento dell’attuale offerta dei servizi territoriali per la tutela della salute mentale afferenti ai Dipartimenti singoli territori - servizi di prossimità e di comunità, reale fulcro della riforma sul superamento degli ex ospedali psichiatrici (Opg) - e il loro adeguato finanziamento, al fine di rendere effettivo il riconosciuto principio della Residenza quale misura di extrema ratio e di permanenza transitoria della persona. La Rems “Santa Maria” di Calice al Cornoviglio, sebbene rappresenti un tentativo di affrontare il problema dell’illegittima detenzione, solleva preoccupazioni fondamentali. L’approccio emergenziale non può sostituire una strategia a lungo termine basata sulla comunità e sulla presa in carico terapeutica. Il rapporto del Garante nazionale sottolinea la necessità urgente di un cambiamento sistematico nella gestione delle persone con disturbi mentali, promuovendo un approccio basato sui servizi territoriali, sulla comunità e sul rispetto dei diritti fondamentali di ogni individuo. Il Garante nazionale, nel suo rapporto, critica aspramente l’approccio prevalentemente Remscentrico adottato nel contesto nazionale. L’istituzione della Rems “Santa Maria” di Calice al Cornoviglio, come diretta emanazione di questo approccio, è vista come una continuazione delle logiche di internamento delle persone con patologie psichiatriche. L’orientamento verso una visione centrata esclusivamente sulle Rems rischia di creare una mentalità che privilegia l’internamento temporaneo piuttosto che una vera e propria presa in carico terapeutica e comunitaria. Una delle raccomandazioni chiave del Garante nazionale è il necessario coordinamento tra i Dipartimenti di Salute Mentale (Dsm) e la Magistratura, in particolare quella giudicante. Questa raccomandazione si basa sul numero elevato di persone in lista d’attesa per l’ammissione provvisoria nelle Rems, una vera emergenza nel sistema attuale. La collaborazione stretta tra i professionisti della salute mentale e i giudici è essenziale per garantire una valutazione accurata e tempestiva delle esigenze dei pazienti, garantendo un accesso equo ai servizi di cura. Attualmente, la Rems “Santa Maria” di Calice al Cornoviglio è regolamentata solo dalla legge che ne ha autorizzato l’attivazione, senza specifiche prescrizioni in merito ai criteri di assegnazione e presa in carico dei pazienti. La prossima firma dell’Accordo di collaborazione interistituzionale tra il governo, le Regioni, le Province autonome di Trento e Bolzano e il Dap mira a colmare queste lacune. Il Garante nazionale esprime quindi preoccupazione per la mancanza di criteri chiari nell’assegnazione dei pazienti alla Rems “Santa Maria”. In particolare, solleva dubbi sulla priorità data alle persone detenute che hanno presentato un ricorso alla Corte Edu, ritenendo che ciò possa violare il principio fondamentale dell’uguaglianza. Inoltre, il Garante sottolinea l’importanza di considerare le condizioni di salute dei pazienti come una discriminante significativa nella valutazione dell’urgenza del ricovero in Rems. Altro aspetto è il rispetto della territorialità. Diversi pazienti nella Rems di Calice al Cornoviglio giungono da altre regioni. Ed è un problema generale. Il garante si riferisce soprattutto ai vigenti accordi derogatori di natura interregionale, secondo i quali la persona residente nella regione del Molise, dell’Umbria e della Valle d’Aosta, è assegnata a una Rems fuori regione, e, rispettivamente, in Abruzzo, Toscana e Lombardia. Pur comprendendosi la motivazione di tale deroga nel caso della regione della Valle d’Aosta, legata all’esiguo numero dei suoi residenti, appaiono, invece, meno giustificate le ragioni sottese per le restanti due regioni. Per questo motivo, il Garante nazionale ha raccomandato con urgenza alla Regione, all’assessorato alla Sanità e ai Comuni del Molise e dell’Umbria di identificare le Rms nel loro territorio. Devono anche procedere con i lavori necessari per adeguare le strutture, considerando che la riforma per il superamento degli Opg è stata avviata nel 2012. Cambia il 41 bis. Il carcere duro sarà più “umano” di Federica Olivo huffingtonpost.it, 25 ottobre 2023 ?La svolta annunciata dal capo del Dap. Resta il divieto di contatti con l’esterno, ma saranno cancellati i divieti inutilmente vessatori, come quelli sui libri o sul cibo. Un nuovo 41 bis in arrivo. La notizia è che (finalmente) sarà cambiato in meglio. Tradotto: resta l’isolamento dei detenuti, resta un numero ridotto di colloqui. Resta la ragione per cui la norma è stata inventata: spezzare le catene tra il boss e la sua organizzazione criminale, tra il terrorista e la sua cellula. Saranno eliminati, però, almeno in gran parte, quei corollari che rendono odioso il carcere duro. Attualmente il detenuto al 41 bis può avere massimo 3 libri in cella, non può fare sport (a meno che non lo faccia nella minuscola cella in cui è escluso), non può comprare alcuni alimenti. La lista è lunga - basti pensare che all’anarchico Alfredo Cospito, al quale il 41 bis è stato per l’ennesima volta confermato - è stato vietato di tenere in cella la foto dei genitori. Bene: questa lista sarà cancellata, o assottigliata il più possibile. L’annuncio è stato dato, un po’ a sorpresa, dal capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Giovanni Russo: “Sicurezza, ordine e impermeabilità di questo regime - ha dichiarato al Salone della Giustizia - Per il resto, trattamento uguale a tutti gli altri detenuti”. Ed è qui la chiave del discorso: perché se la rieducazione è oggettivamente più difficile per un detenuto al 41 bis, una punizione eccessiva, inutile, è contraria al senso di umanità che dovrebbe animare la pena. Si provvederà a breve a cambiare la circolare che regola l’istituto. “Sarà un 41 bis costituzionalmente ineccepibile, eliminando qualunque ipotesi di trattamento in qualche modo vessatorio”, ha spiegato. “Non ci sarà differenza con gli altri detenuti se non tutte quelle differenze che impediscono nella maniera più assoluta che questi criminali speciali possano continuare a svolgere attività dannosa per la società intera”. Fermezza nei confronti dei ristretti al 41 bis - al momento i detenuti sottoposti a questo regime sono 730 in Italia - ma anche umanità. Rigore, ma anche norme razionali. Le norme saranno scritte con l’aiuto di costituzionalisti, esperti e magistrati di sorveglianza. Una svolta inattesa, ma gradita a chi si occupa di carceri e diritti dei detenuti. Garante dei detenuti, si vota senza audizioni. Il niet alla Camera come al Senato di Eleonora Martini Il Manifesto, 25 ottobre 2023 Entro il 2 novembre la commissione Giustizia dovrà esprimere il parere sulla terna proposta dal governo. Il M5S conferma il suo appoggio al centrodestra, come a Palazzo Madama. Garante dei detenuti, si vota senza audizioni. Il niet alla Camera come al Senato. Un voto a scatola chiusa. Per il rinnovo del collegio del Garante delle persone private di libertà la maggioranza di centrodestra non accetta altra soluzione. Dopo il Senato, anche alla Camera i parlamentari della commissione Giustizia, gli unici a cui viene chiesto di esprimere un parere sulla nuova terna di nomi proposta il 25 settembre dal Consiglio dei ministri prima che la nomina diventi effettiva con un decreto del Presidente della Repubblica, non potranno audire i candidati. Ossia non potranno porre loro domande né ascoltare le loro posizioni prima di esprimere il proprio voto su un’Autorità così importante e in un ambito nel quale l’Italia è da anni sottoposta a richiami e condanne da parte della Corte europea dei diritti umani. La decisione di replicare il metodo di designazione applicato il 18 ottobre scorso in Seconda commissione di Palazzo Madama (definito “inaccettabile e intollerabile” da Pd, Avs e Azione-Iv, che perciò per protesta quel giorno non hanno partecipato al voto, espresso dunque solo dal centrodestra e dal M5S) è stato annunciato ieri ai deputati della commissione Giustizia di Montecitorio dal presidente Ciro Maschio. Eppure l’esponente di Fd’I una settimana fa aveva chiesto e ottenuto dal presidente della Camera di rinviare di dieci giorni la seduta della commissione, in modo da poter valutare più attentamente la possibilità di audire i tre candidati. Ieri però ha confermato il suo no, in linea con quanto accaduto al Senato. Così, il professore Felice Maurizio D’Ettore, proposto come presidente, la giurista romana Irma Conti e il civilista palermitano Mario Serio (rispettivamente in quota Fd’I, Lega e M5S) otterranno con ogni probabilità il secondo via libera a Montecitorio nei primi giorni della settimana prossima, in ogni caso non oltre la deadline del 2 novembre. La settimana scorsa una quindicina di associazioni che si occupano di diritti umani avevano manifestato la stessa preoccupazione delle opposizioni politiche, considerando i tre candidati non del tutto adatti: per una questione di indipendenza, in quanto espressione diretta dei partiti, e per mancanza di esperienza diretta sul campo. I deputati Pd, Avs e di Azione-Iv stanno valutando se replicare la protesta messa in scena al Senato, con la rinuncia al voto. “La maggioranza non ha avuto il coraggio di affrontare le audizioni da noi proposte - spiegano i capigruppo della sinistra Devis Dori e dei dem Federico Gianassi - Prima si sono trincerati dietro il no del Senato, ora hanno ribadito la loro chiusura. Non possiamo che esprimere la nostra protesta per questa assurda scelta di blindarsi nei loro circuiti, palesando una debolezza del ministero della Giustizia rispetto alle decisioni prese”. Quanto al Movimento 5 Stelle, cosa farà? “La linea è unica”, risponde la capogruppo in commissione: “Ritenevamo utili le audizioni, senz’altro - chiarisce la deputata Valentina D’Orso - Ma voteremo insieme al centrodestra, come abbiamo fatto al Senato. Per coerenza”. Tradotto: per accordi già presi. 41bis a Cospito, per il tribunale di Roma il parere dell’antimafia è incoerente e contraddittorio di Frank Cimini L’Unità, 25 ottobre 2023 L’iniziativa dello sciopero della fame avrebbe “infuocato gli animi delle formazioni anarchiche” e avrebbe dato maggiore carisma a Alfredo Cospito all’interno del sodalizio che viene ritenuto tuttora operativo. Non è servito nemmeno il parere positivo della direzione nazionale antimafia e antiterrorismo per liberare l’anarchico Alfredo Cospito dall’applicazione del carcere duro previsto dall’articolo 41bis del regolamento penitenziario. Il Tribunale di Sorveglianza di Roma, l’unico competente a decidere in materia in tutto il paese, ha rigettato il reclamo presentato dall’avvocato Flavio Rossi Albertini. Secondo i giudici “Cospito è estremamente pericoloso” e lo è ancora di più in ragione dello sciopero della fame protratto per sei mesi e che viene definito “clamoroso”. L’aumento degli attentati e di azioni violente (in questa categoria anche le manifestazioni di solidarietà) viene considerato coincidente non con l’applicazione del 41bis ma con l’avvio del digiuno. L’iniziativa dello sciopero della fame avrebbe “infuocato gli animi delle formazioni anarchiche” e avrebbe dato maggiore carisma a Alfredo Cospito all’interno del sodalizio che viene ritenuto tuttora operativo. Secondo i giudici sarebbe contraddittorio e non coerente il parere della direzione nazionale antiterrorismo perché dall’attività di questo organismo in realtà emergerebbero plurimi elementi di segno contrario attestanti la pericolosità dell’anarchico figura di vertice del movimento. Non emergono elementi concreti per giustificare una attenuazione del regime carcerario, è la posizione del Tribunale che vede il rischio di collegamenti “con i sodali esterni”. I giudici poi ribadiscono che da parte dì Cospito non c’è stato nessun segnale di dissociazione e ravvedimento. Anzi intervenendo nelle udienze l’anarchico avrebbe continuato a propugnare il metodo della lotta armata e delle azioni violente. Insomma i giudici non demordono e lo fanno anche con una prosa che sta a metà strada tra l’Ottocento e gli anni 70 quando c’erano i morti per le strade e prese avvio quell’infinita emergenza italiana. I reclusi al 41bis sono circa 750 molti di più rispetto ai tempi delle stragi mafiose. I “politici” sono quattro. Con Cospito, tre ex delle Brigate Rosse organizzazione che non esiste da oltre 20 anni. Prescrizione, la prima vittoria di Nordio di Errico Novi Il Dubbio, 25 ottobre 2023 Ultimi ritocchi alla legge che era tra gli obiettivi del ministro: lunedì sera la “benedizione” di Meloni nel vertice sulla giustizia a Palazzo Chigi. Dal punto di vista dell’opposizione, per esempio di Debora Serracchiani, l’interesse di Giorgia Meloni per la giustizia è “strumentale”, è un “aggrapparsi a provvedimenti bandiera per mascherare i passi falsi”. Letta da dentro, con la lente dei parlamentari di centrodestra intervenuti lunedì all’inedito briefing sulla giustizia con la premier, è esattamente il contrario: “Meloni”, spiegano, “tiene a rendere produttivo questo particolare settore dell’azione di governo e maggioranza”. Ci tiene proprio perché si tratta di un terreno sul quale, come ha detto la presidente del Consiglio nel summit di due giorni fa a Palazzo Chigi, “le soluzioni tecniche si possono trovare, l’importante è che vi impegniate tutti a superare le divergenze, con lo sguardo all’obiettivo di una giustizia più efficiente”. Sarebbe insomma un peccato sprecare l’occasione: il senso del discorso di Meloni sembra questo. E, sempre in chiave rovesciata rispetto alla “strumentalità” di cui parla il Pd, la riforma della prescrizione rappresenta al meglio questa logica: il traguardo, nella sostanza, è a un passo, e anzi la modifica delle norme sull’estinzione dei reati ha tutti i numeri per diventare la prima legge garantista di questa maggioranza a entrare in Gazzetta ufficiale. Ieri le riunioni sono andate avanti, stavolta senza Meloni ma con una consultazione tecnica a via Arenula tra il ministro Carlo Nordio, il suo vice Francesco Paolo Sisto e i due sottosegretari Andrea Delmastro e Andrea Ostellari. Oggi il presidente della commissione Giustizia Ciro Maschio, di FdI, dovrebbe riconvocare, sulla prescrizione, la seduta sospesa ieri, e avviare l’esame degli emendamenti. Difficile che già venerdì si possa approdare in Aula, com’era inizialmente previsto, ma a questo punto lo slittamento dovrebbe essere minimo. Nel merito, la riforma resta ancorata alla “soluzione Lattanzi”, cioè al testo integrato dall’emendamento di Pietro Pittalis (FI), Ingrid Bisa (Lega) e Carolina Varchi (FdI): sulla scia della proposta avanzata nella primavera del 2021 dai “saggi” di Marta Cartabia (guidati dal presidente emerito della Consulta Giorgio Lattanzi, appunto), vengono spazzati via il blocca-prescrizione di Bonafede e l’improcedibilità di Cartabia. Formalmente viene rimossa anche la legge Orlando del 2017, il cui principio ispiratore era però in parte trasmigrato nel modello Lattanzi ed è quindi sopravvissuto in qualche modo anche nell’emendamento del centrodestra. Ci saranno dunque 18 mesi di sospensione dopo l’eventuale condanna in primo grado e 12 mesi di sospensione dopo l’eventuale condanna in appello. Il tutto secondo la logica per cui, se una condanna viene impugnata, va concesso un margine in più affinché il grado successivo possa celebrarsi, senza che la ghigliottina della prescrizione si abbatta prima ancora che il giudizio d’impugnazione abbia inizio. Tra le modifiche dell’ultim’ora sulle quali ieri Nordio, Sisto e i due sottosegretari hanno continuato a confrontarsi, è escluso, secondo fonti di maggioranza, che possa trovare spazio il blocco della prescrizione dopo la condanna in appello (che avrebbe lasciato indefinito il termine per il giudizio in Cassazione ma che sarebbe svanito, con conseguente riavvio del timer, qualora la Suprema corte avesse optato per l’annullamento con rinvio). È rimasto in ballo fino all’ultimo un allineamento completo alla “Lattanzi” della durata della sospensione in appello, che diventerebbe di 24 anziché 18 mesi. E si sono affinati alcuni dettagli tecnici, che dovrebbero avvicinare l’emendamento di maggioranza alla proposta di legge firmata da Enrico Costa, il deputato di Azione al quale il centrodestra ha ben volentieri affidato il ruolo di relatore. Giovedì scorso, quando tutto sembrava pronto perché in questa settimana si esaurisse l’esame della prescrizione in commissione Giustizia e si avviasse la discussione in Aula, Nordio aveva convocato la riunione, che poi ieri si è effettivamente tenuta, con Sisto e i due sottosegretari. La mossa del guardasigilli ha confermato soprattutto la sua attenzione scrupolosissima per il dossier prescrizione. Che fa parte, fin dalle linee programmatiche, della sua road map, e che può senz’altro rafforzare la sua immagine di ministro garantista. A maggior ragione dopo il vertice preliminare tenuto lunedì con Meloni: a Palazzo Chigi non ci si era inoltrati, com’è avvenuto ieri a via Arenula, nei dettagli tecnici sulla prescrizione, ma si era aperta la strada perché Nordio potesse portare a casa il primo risultato concreto del proprio mandato. A uno sguardo frettoloso, il testo di questa riforma sembra un limitatissimo intervento “di regolazione”. Ma non è così: intanto la base delle norme sulla prescrizione viene riportata alla ex Cirielli, che definisce il tempo di estinzione dei reati a partire dal massimo edittale aumentato di un quarto anziché della metà, come ha poi fatto la legge Orlando. Ma più di tutto, l’intesa trovata su questa materia nella maggioranza certifica, considerata anche la convergenza di Azione e Italia viva, che il fronte garantista, nell’attuale Parlamento, è forte. E che sull’idea di un diritto penale liberale, Lega e Fratelli d’Italia sono assai meno refrattarie alle sollecitazioni forziste di quanto si potesse credere all’inizio. Giustizia, schiaffo a Forza Italia sulla prescrizione di Francesco Grignetti La Stampa, 25 ottobre 2023 Regge l’alleanza FdI-Lega e resta isolata Forza Italia nella persona del viceministro Francesco Paolo Sisto. Due vertici sulla giustizia in 48 ore per trovare una concordia che non c’è. Lunedì i responsabili Giustizia dei partiti di maggioranza sono stati accolti da Giorgia Meloni a palazzo Chigi, con il ministro Carlo Nordio nella veste di osservatore. Ieri nuovo round, sulla prescrizione. Ma è stata fumata nera perché non si è arrivati a una sintesi dentro la maggioranza. E però le cose camminano lo stesso. Sulla prescrizione regge l’alleanza FdI-Lega e resta isolata Forza Italia nella persona del viceministro Francesco Paolo Sisto. Se però non interverranno improbabili novità da parte del ministero della Giustizia, sarà vincente l’ipotesi FdI-Lega che è farina del sottosegretario Andrea Delmastro e di Giulia Bongiorno. Nel merito, la proposta in discussione è un testo già depositato alla commissione Giustizia della Camera. Andrà in votazione tra due giorni, il 27 ottobre, come ha confermato il presidente della commissione Ciro Maschio, FdI: “Per ora la tabella di marcia è quella prevista”. E dice Carolina Varchi, capogruppo FdI in commissione: “Si parte da quell’emendamento e con grande serenità si sta ragionando per capire quali correttivi potrebbero servire”. E Delmastro sente la vittoria in tasca: “In un clima di massima concordia stiamo prescegliendo le misure migliori”. In estrema sintesi, la riforma supera la formulazione della Cartabia (che lasciava tutto il tempo possibile al primo grado, e poi metteva dei tempi draconiani al secondo e al terzo grado di giudizio, pena la morte del procedimento) per tornare a una prescrizione sostanziale, ricalcando con poche modifiche quella che era una riforma scritta da Andrea Orlando nel 2017 e mai applicata. Nel testo depositato si prevede una sospensione nei conteggi di 18 mesi dopo il primo grado e di 12 mesi dopo l’appello. Tutto sembra quasi scritto, insomma. Forza Italia non ha la forza né la voglia di ingaggiare una battaglia. “La base del confronto - lasciano intendere fonti del partito - è l’accordo raggiunto la settimana scorsa, contenuto nell’emendamento di maggioranza. Sono possibili aggiustamenti tecnici, ma l’impostazione non va cambiata”. Se questo sarà l’esito finale, non dispiace troppo neanche all’opposizione. Enrico Costa di Azione è sostanzialmente d’accordo. E quasi lo è anche Devis Dori, Verdi-Sinistra, che dice: “Dopo aver proposto con un emendamento in Commissione un sostanziale ritorno alla riforma Orlando, la destra tentenna. Ma un nuovo accordo di maggioranza non potrà che essere peggiorativo”. Accordo però che non ci sarà. Polemizza invece Debora Serracchiani, Pd: “Perché ricominciare dalla prescrizione che non era il problema della giustizia? Noi siamo per mantenere i risultati ottenuti e per farlo non dobbiamo di nuovo cambiare le carte in tavola”. Eppure il viceministro Sisto fino all’ultimo ha frenato e ancora ieri mattina diceva: “Tra Forza Italia e Fratelli d’Italia c’è una dialettica, ma alla fine la quadra la troviamo sempre”. Ma è vero, gli chiedono a “Un giorno da pecora”, che il vertice di lunedì era stato richiesto da lei? “No, è stato fissato da Nordio e dalla premier Meloni”. Nei fatti, lunedì si erano visti tutti a palazzo Chigi per un giro di orizzonte sulle tante riforme della giustizia, sia quelle in marcia, sia quelle annunciate. E già dalla convocazione era evidente il ruolo minore che è stato riservato al ministro Guardasigilli. La materia, così incandescente, e ad altissima valenza politica, evidentemente è stata avocata dalla premier. Nordio, comunque, nel corso di un dibattito al Salone della Giustizia ha ribadito ieri i suoi cavalli di battaglia. Ha minimizzato i ritardi e soprattutto che palazzo Chigi sta spostando a tempi migliori quella che lui stesso aveva annunciato come la riforma delle riforme, ovvero separazione delle carriere e discrezionalità dell’azione penale: “Sono polemiche sterili quelle sulla separazione delle carriere, quando sono accusato di volerla per portare il pm sotto l’ala dell’esecutivo. La riforma - insiste Nordio - “è nel programma di governo, ma richiede una revisione costituzionale e questo richiede tempi lunghi e una riflessione profondissima, quindi non è una cosa che si farà domani”. Nordio alle toghe: “Applicate le leggi o cambiate mestiere” di Valentina Stella Il Dubbio, 25 ottobre 2023 Il guardasigilli al Salone della Giustizia: “Non esiste il diritto creativo”. Un messaggio all’Anm dopo la delibera a tutela dei magistrati che disapplicano il dl Cutro? Forse non è stato un caso che a due giorni dalla delibera dell’Associazione nazionale magistrati di convocazione di un’assemblea generale con all’ordine del giorno “gli attacchi alla giurisdizione e la pesante denigrazione dei singoli magistrati che hanno adottato provvedimenti in materia di protezione internazionale”, sconfessando il decreto Cutro, il ministro della Giustizia Carlo Nordio, intervenendo questa mattina dal Salone della Giustizia, abbia usato parole niente affatto pacificatrici. “La funzione del magistrato non deve essere quella di chi deve affermare un’etica ma il diritto positivo, che non sempre coincide con l’etica. Nonostante la Costituzione repubblicana, la concezione dello Stato etico è rimasta nel codice penale, che porta la firma di Benito Bussolino e di Vittorio Emanuele III, e purtroppo anche nella mente di molti magistrati. E questo è pernicioso. Il magistrato deve solo applicare la legge, gli piaccia o non gli piaccia. Se è difforme dai suoi principi minimi di etica cambi mestiere. Non esiste la possibilità di un diritto creativo”. Il guardasigilli ha cercato poi di aggiustare il tiro: “Nel mio mondo ideale, fermo restando che la separazione dei poteri è il fondamento minimo di una democrazia liberale, i politici non dovrebbero criticare le sentenze e i magistrati non dovrebbero criticare le leggi. Calandomi nella realtà, questo non è possibile, ma deve essere fatto in modo contenuto. La contrapposizione tra politica e magistratura c’è stata dagli anni ‘90, io cerco di attenuarla il più possibile”, ha assicurato. Ma sembrerebbe che non sia riuscito nell’intento con quelle sue iniziali dichiarazioni perché già nelle chat dei magistrati si parla “di ragionamento grossolano” in quanto “nessuno pensa di non applicare la legge e di fare di testa sua”. Intanto ci sarebbe la data dell’Assemblea dell’Anm: il 26 novembre nell’Aula Magna della Cassazione, la stessa sede in cui si tenne quella per il caso Uss. Alcuni avrebbero voluto tenerla a Catania ma fonti interne all’Anm ci hanno detto che l’iniziativa non sarebbe piaciuta al Quirinale, perché sarebbe stato un evento troppo d’impatto. L’importanza di interpretare una legge. Il diritto vivente ha un ruolo attivo di Mariano Croce* Il Domani, 25 ottobre 2023 Sarebbe ora di uscire dalle secche di una tripartizione dei poteri da manuale di primo Novecento e riconoscere l’attività di un corpo, quello della magistratura, che, nel bene e nel male, opera da supplente di un Parlamento che da decenni aggira bellamente le urgenze segnalate dalle Corti. Da decenni il dibattito italiano sulla riforma della Costituzione s’incarognisce sul tema dei poteri dell’esecutivo, ritenuto troppo esposto alla volubilità delle maggioranze parlamentari. Nei quartieri della destra (ma non solo) si auspica quindi un premierato forte o persino il presidenzialismo. A questa devozione per la stabilità, come per un istinto pavloviano, si associa il richiamo al ruolo della magistratura quale “bocca della legge”. Il giudice, si dice, ha da applicare la legge seguendo la sua lettera al dettaglio e, nel caso di incertezze, deve indovinare, o meglio divinare, l’intenzione del legislatore nel momento in cui l’ha emanata. All’opposto, come evidenziano le recenti battaglie sulle trascrizioni degli atti di nascita delle coppie omogenitoriali o nell’ancor più recente caso della giudice Apostolico, la magistratura troppo spesso esonda: le/i giudici, si dice, contaminano l’applicazione della legge con concezioni politiche personali, minando così alla radice la credibilità del loro operato. Quest’idea antidiluviana del diritto si lega, non a torto, alla tradizione dei sistemi giuridici degli Stati dell’Europa continentale, secondo cui l’attività della magistratura non rientra tra le fonti del diritto. Produttore della legge è solo il Parlamento, quale unico rappresentante legittimo della volontà popolare. D’altro canto - ci si domanda - come potrebbe fare le leggi, o anche solo incidere sulla loro formulazione, qualcun? che non fosse legittimamente elett? con votazione popolare? Contro le ingiustizie - Sarebbe un’azione illegittima, che sfrangerebbe gli equilibri dell’ordinata ripartizione dei poteri. Eppure, una tale concezione oggi sa di mitologia antiquata, quella nata con lo Stato di fine Settecento e irrancidita già verso la metà del Novecento. Con sempre maggiore frequenza, cittadine e cittadini si rivolgono alla magistratura per lenire le ingiustizie ingenerate proprio dalla vaghezza o dai vuoti della legge. Non solo coppie omogenitoriali o migranti sottopost? a misure di restrizione ingiustificate, ma anche i riders che vogliono vedersi riconosciuta la natura subordinata del loro impiego oppure chi invoca misure più chiare e rigide sui molti abusi perpetrati in carcere. Quest? cittadin? chiedono di fatto al potere giudiziario di porre rimedio alle omissioni del potere legislativo. Già nella risalente sentenza n. 276 del 1974, la Corte Costituzionale parlava di “diritto vivente” per denotare quelle condizioni in cui l’interpretazione di una legge contribuisce a stabilirne il significato. Come ogni testo scritto, inevitabilmente più povero di tutte le circostanze concrete che intende normare, la legge è irta di ambiguità e incertezze. In quei casi, chi giudica di fatto si fa parte di un processo assai più ampio di legislazione, perché contribuisce a specificare cosa una legge dice davvero e quindi come dev’essere intesa. Insomma, si restituiva già decenni or sono l’idea che interpretare e applicare una legge implica, almeno in parte, stabilirne il significato. E quando questo accade - e accade molto più spesso di quanto lascino intendere le polemiche - come si può pretendere che le idee, le convinzioni, le credenze e persino i pregiudizi di chi giudica vengano messi da parte? Il diritto vivente - E, d’altro canto, non costituiscono forse parte cruciale dell’agone politico quelle azioni con cui, mediante ricorso ai tribunali, una cittadinanza vigile e operosa fa leva sulle ambiguità delle leggi proprio per rivederle, emendarle, dimostrarne l’irragionevolezza e l’ingiustizia? Ma oggi il “diritto vivente” è diventato qualcosa di assai più incisivo. Specie nell’operato della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, esso è un vero e proprio dispositivo che autorizza la Corte a incentivare la produzione di leggi nazionali, ribaltare sentenze, comminare sanzioni agli Stati. Di più: la Corte ascolta le parti e convoca espert? per capire se e in che misura una certa legge “riflette” le mutate idee e convinzioni della cittadinanza e quindi chiede ai Parlamenti di adeguarsi a una società che va mutando. Su questa scia, oggi le Corti nazionali, specie quelle alte, contribuiscono di fatto alla produzione del diritto. Per questa ragione, sarebbe ora di uscire dalle secche di una tripartizione dei poteri da manuale di primo Novecento e riconoscere l’attività di un corpo, quello della magistratura, che, nel bene e nel male, opera da supplente di un Parlamento che da decenni aggira bellamente le urgenze segnalate dalle Corti. Questo proprio perché si metta mano a un problema che - su questo non ha torto chi invoca cautela - sta e rimane: la magistratura è un organo che si autoregola e che non gode del suffragio popolare. Anziché incavillarsi su come rendere il o la Presidente un reuccio o una reginetta, sarebbe opportuno ragionare sui modi di regolare, legittimare e rendere sempre più funzionale il ruolo attivo del diritto vivente. *Filosofo Un approccio concreto alla separazione delle carriere: due Csm e pm non nei Tribunali di Guido Salvini* Il Dubbio, 25 ottobre 2023 Con l’imminente entrata nel vivo della discussione sulla separazione delle carriere sarà inevitabile il riaccendersi della più che trentennale guerra tra politica e magistratura, non esclusi “scioperi” indetti dall’Anm. Non vi è da stupirsi perché la Anm funziona come un partito e, anche, dopo la vicenda Palamara, le sue correnti “producono” quasi tutti i consiglieri del Csm, che a sua volta funziona come una “terza camera”. Uno stato di conflitto permanente quindi tra poteri dello Stato in cui il contendente non previsto, la Anm, con i suoi esponenti di spicco e i suoi organi di informazione, si muove praticamente alla pari con il potere politico. Sulla separazione delle carriere è forse il momento di un approccio più empirico. Un modo di guardare che da un lato superi le pregiudiziali ideologiche di alcune forze politiche, che finiscono a diventare impuntature verbali, e dall’altro lato valichi il quadrato, anch’esso ideologico e pregiudiziale, in cui è arroccato il partito dei magistrati. Che questo intenda muovere tutte le proprie forze, anche i riservisti, è del resto testimoniato da un episodio singolare. Oltre 300 magistrati in pensione hanno diffuso un appello pubblico contro la separazione delle carriere. È sufficiente scorrere i nomi e i volti dei promotori per capire che il cuore di tale appello è formato da ex pm, alcuni di loro molto noti e ancora influenti, potremmo chiamarli gli ultra- magistrati. Anche a servizio da tempo cessato non rinunziano, non come singoli ma proprio in gruppo, a orientare la magistratura come se in qualche modo la rappresentassero ancora. Concordo certamente sulla necessità di distanziare i pm dai giudici per rendere effettiva l’indipendenza di questi ultimi da tutte le parti del processo e prevenire condizionamenti. Non mi convince però l’idea che siano inevitabili due concorsi distinti, sradicando tout court sin dall’inizio una cultura comune. Il concorso e il tirocinio dei neo magistrati che lo segue devono rimanere unici perché chi farà il pm deve impadronirsi bene del senso della giurisdizione, di quali siano le regole di giudizio e di cosa serva per portare a buon esito un’indagine mentre chi farà il giudice deve conoscere le metodiche delle indagini per comprendere se siano state svolte correttamente. Inoltre separare immediatamente i giovani pm dagli altri magistrati rischierebbe di subordinare i primi alla Polizia giudiziaria senza disporre ancora di una preparazione sufficiente per avere una autonomia di giudizio rispetto alla stessa. Non si può nemmeno impedire che dopo la prima scelta di funzione non sia possibile almeno per una volta cambiarla. In una fase iniziale, penso ai primi 4 anni di servizio, il percorso professionale è ancora un work in progress, molti giovani magistrati non sono ancora nella condizione di decidere quale sarà la loro funzione definitiva e spesso la scelta iniziale è determinata da fattori esterni quali, soprattutto per chi non è tra i primi nella graduatoria, la disponibilità o meno di una sede prossima alla zona di origine. Comunque i cambiamenti di funzione da giudice a pm e ancor più viceversa sono già ormai ridotti al minimo, in particolare da quando è stato reso obbligatorio lo spostamento in un’altra regione. Ed è esperienza comune che i pm più noti, quelli con la vocazione per l’investigazione, non sono certo ansiosi di trasformarsi in giudici e nemmeno avviene il contrario. Sarebbe utile piuttosto prevedere che all’ingresso in carriera l’aspirante pm debba prestare servizio per i primi 2 anni in un collegio penale. Un passaggio che serva ad avere una concreta conoscenza del giudizio e del confronto in previsione delle delicate scelte e delle loro conseguenze che la sua funzione gli porrà. Anche il ruolo di gip del resto, e cioè quello che incide direttamente sulla libertà personale e comporta quindi una forte dose di equilibrio, può essere assunto solo da chi è in servizio da almeno 2 anni. Un aspetto sempre trascurato è piuttosto quello del reclutamento. Basta frequentare, qualche debole tirocinio, ma ora non è più nemmeno obbligatorio, e aver “centrato” l’argomento di tre temi, addirittura solo due nel periodo post Covid, per acquisire, e per tutta la vita, un potere immenso, quello di giudicare persone, famiglie, aziende e amministrazioni in qualsiasi angolo della loro vita personale, economica e sociale. E che il livello medio dei concorrenti non sia così elevato lo testimonia la correzione dei temi negli ultimi concorsi durante la quale è emerso che molti aspiranti magistrati scrivono in un italiano zoppicante. Non credo affatto che un semplice concorso, con l’alea insita in tale tipo di selezione, sia oggi una forma di reclutamento adeguata al ruolo. “Produce” magistrati di 27 - 28 anni, che spesso sino a quel momento hanno solo vissuto in famiglia, hanno scarse o nulle esperienze di vita e dei problemi della società. Sono convinto, anche se è un’opinione che può sembrare provocatoria, che siano necessari alcuni anni di immersione nella realtà, in particolare nel mondo del lavoro pubblico o privato, prima di essere abbastanza formati per giudicare gli altri. Tanto più che, dopo il concorso, cessa, probabilmente tra gli incarichi di alta responsabilità avviene solo in magistratura, qualsiasi selezione. Infatti il 99 per cento dei magistrati transita senza difficoltà e senza una seria valutazione di capacità e di merito, dal grado più basso al grado più elevato della carriera. Comunque i possibili condizionamenti che si vogliono contenere non nascono nel concorso unico ma nel Csm e nelle correnti. Come molti credo, ho perso di vista quasi tutti i colleghi che con me hanno vinto quel lontano concorso: c’è chi è andato in Procura, chi in Corte d’appello chi in Sorveglianza e chi in lontane sedi giudiziarie. Non sento l’influenza di alcuno di loro. Quello invece di cui si sente la presenza è il “collega” capocorrente, soprattutto se pm perché, per concorrere ad un incarico o in un procedimento disciplinare, puoi essere giudicato se non proprio da lui dagli uomini della sua corrente che siedono al Csm. E tanto nell’Anm quanto al Csm i pm, anche se inferiori per numero rispetto ai giudici, da sempre dominano esprimendo i capi e i consiglieri di maggior peso. Alcuni di loro sono dei veri e propri influencer, in grado di condizionare, anche tramite i mass media, l’intera categoria. Non è un caso che, come ci racconta la vicenda Palamara, che quasi solo le assegnazioni ai posti di procuratore capo o aggiunto siano l’obiettivo dei traffici clientelari nei corridoi e negli alberghi, mentre poco o nulla interessano i concorsi per le presidenze dei Tribunali perché chi le ricopre ha un ben scarso potere. La soluzione è quindi essenzialmente separare il Consiglio superiore della magistratura in due organi, uno per i pm e uno per i magistrati e che ciascuno delle due categorie intervenga sulla vita professionale, promozioni, concorsi, sanzioni disciplinari solo di coloro che vi appartengono. Senza escludere quando necessario, un contributo in forma di parere, alla luce del sole e motivato, da parte della componente dei giudici e anche dagli organi degli avvocati quando, ad esempio, si decida la nomina del procuratore capo di una Procura strategica, quelle, che, come si dice, hanno il potere di due Ministeri. In questo modo rimarrebbe comunque esclusa ogni forma anche indiretta di condizionamento sui giudici che non dovrebbero preoccuparsi di essere “graditi” ai pm più potenti. Poi, se si volesse usare un escamotage, non così banale come sembra, per impedire collegamenti troppo stretti tra pm e giudici sarebbe sufficiente che gli uni e gli altri lavorassero in due palazzi separati, così come gli uffici degli avvocati sono fuori dal Tribunale. Sarebbe molto più efficace questo di una separazione integrale che finirebbe a darci pm che conoscono solo, e qualche volta troppo e con troppa enfasi, il ruolo dell’accusatore. *Magistrato L’eterno ritorno delle grida contro la diffamazione di Vincenzo Vita Il Manifesto, 25 ottobre 2023 Il tentativo di normare “la diffamazione a mezzo stampa o con altro mezzo di diffusione” ha avviato il suo iter parlamentare per la quinta legislatura di seguito. La commissione giustizia del senato ha votato a maggioranza il cosiddetto testo base, che ha come primo firmatario Alberto Balboni di Fratelli d’Italia. Vi erano altri progetti assai migliori (del partito democratico e di 5Stelle, ad esempio), ma la destra ha fatto valere i suoi numeri e così quello sarà il punto di riferimento del dibattito e per gli eventuali emendamenti. Su tale delicatissimo argomento oggi si tiene presso la sede dell’ordine nazionale dei giornalisti una conferenza stampa promossa insieme alla federazione della stampa. L’articolato di riferimento è davvero imbarazzante, oltre che in vari punti sbagliato. Mentre si fa sempre più insistente il ricorso alle querele temerarie (o persino agli annunci di azioni, come avviene di consueto con le trasmissioni di Report) contro chi cerca di svelare verità scomode o critiche verso governo e affini, su tutto ciò il disegno n.466 è debolissimo e quasi inesistente. E dire che si mettono in atto costantemente censure preventive con richieste milionarie di risarcimento economico, impedendo il libero esercizio del diritto di cronaca in un settore popolato prevalentemente da precari senza tutele. I disegni dell’opposizione - invece- qualcosa scrivono al riguardo. Il testo elimina - è vero- la previsione della pena del carcere, come in alcuni dei precedenti tentativi era già stato tentato, ma rimane l’odiosa multa che può arrivare fino a 50.000 euro. Per chi guadagna davvero due soldi ad articolo significa una condanna senza via d’uscita. Insomma, per sostituire la rarissima detenzione dietro le sbarre si introduce una sorta di classismo della pena. L’effetto è deleterio e non ha neppure qualche virtù garantista. Non solo. Si riprende l’antica smania di considerare la rettifica una sorta di versetto sacrale: guai a chi la tocca e osa commentarla. In tal modo si incrina un tratto fondamentale della professionalità, in cui il dialogo con i soggetti della fruizione è fondamentale. Una ciliegina sulla torta avvelenata: chi non ottempera adeguatamente incorre in una sanzione che arriva a 51.646 euro. Ancora. La competenza per i giudizi cade nel luogo della persona offesa. Visto che lo spettro applicativo della disciplina riguarda pure i servizi on line, si potrebbe ipotizzare che entrino in scena amene località situate in isole lontane. La rete non risponde al criterio analogico dello spazio, com’è noto. Se si svolge una disamina di maggiore accuratezza, ma il prodotto non cambia. Un approfondimento merita, poi, il punto dedicato al segreto professionale, che contiene una cospicua dose di ambiguità. Così il disegno di legge non è accettabile e servirebbero significativi emendamenti per renderlo meno brutto. Del resto, la democrazia parlamentare si fonda proprio su questo. Ma la destra accetterà di discutere o si accontenta di avere scritto un segnalibro a futura memoria? È auspicabile che il confronto con categorie e associazioni interessate varchi la soglia dei doveri burocratici ed entri nel vivo di una questione diventata enorme, vista la concorrenza contemporanea tra vero, falso e verosimile. Ed è altrettanto importante che su un capitolo cruciale si formi un comune sentire tra le differenti anime del fronte progressista. Se ciò avvenisse, neppure una destra dura e cattiva avrebbe vita facile. PS. Si chiacchiera e si scrive su ipotetiche ritorsioni di Fratelli d’Italia contro Mediaset dopo i fuori onda che hanno coinvolto l’ex compagno della presidente del consiglio. Sembra improbabile, perché le aziende berlusconiane sono parte integrante della maggioranza. Ma a pensar male a volte si indovina, visto che non mancano territori ispidi per il biscione: dagli obblighi di produzione di film e audiovisivi italiani ed europei (oggi con percentuali inferiori rispetto alla Rai), alla definizione della prominence, come è chiamata la numerazione dei canali nelle smart tv, dove Mediaset rischia non poco. Il caso Lucano e la ‘ndrangheta alibi di un sistema perverso di Ilario Ammendolia Il Dubbio, 25 ottobre 2023 Sono passate due settimane dalla sentenza di appello su Riace e sono venute meno le prime impressioni che non sempre sono le più giuste, oggi ci sembra giunto il momento di aprire una riflessione per capire i fatti nella sua complessità e che la grande stampa nazionale ha spesso agitato agli occhi dell’opinione pubblica per spiegare lo stato comatoso in cui si trova gran parte del Sud. Per esempio, il giorno in cui viene arrestato Mimmo Lucano, Goffredo Buccini è a Riace. Il giorno dopo scrive un articolo sulla prima pagina del Corriere della Sera con l’intenzione di spiegare ai suoi lettori cosa ci sia stato realmente utilizzando come chiave di lettura il mio saggio ‘la ‘ndrangheta come alibi’ che chiudeva con una intervista a Mimmo Lucano. È Buccini a dirlo: “Lui stesso Lucano - del resto si è sempre a suo modo “autodenunciato” persino nella scelta del suo eroe di infanzia “Cosimo u zoppu” - un Robin Hood di Riace - e fin da bambino - è l’ex sindaco di Riace a parlare - ne ero affascinato, mi pareva che Cosimo desse un suo originale contributo alla costruzione di una società più giusta”. Lo ha detto Lucano in un’intervista che chiude il libro di un altro ex sindaco calabrese, Ilario Ammendolia. Papà di uno dei computati”. Fin qui le parole di Buccini. Non so perché abbia sentito il bisogno di scrivere “papà di uno dei computati” dal momento che il mio saggio era stato scritto prima, ma ha detto il vero anche se certamente fuori contesto. Non nascondo però che mi avrebbe fatto piacere se oggi, alla luce della sentenza di appello, Buccini avesse scritto un articolo in prima pagina o almeno un trafiletto per dire che dei diciotto imputati di Riace, escluso Lucano condannato per un reato di lieve entità, sono stati tutti assolti, anche coloro per i quali la procura di Locri, aveva chiesto gli arresti. Buccini ha dato una lettura dei fatti piuttosto facile, certamente priva di cattiveria, ma sbagliata dal momento che non c’è stato nessun Robin Hood in salsa calabrese. Lucano non ha rubato neanche per distribuire agli immigrati. Se ciò che abbiamo detto è vero e lo è, Buccini dovrebbe domandarsi perché qualcuno ha tramato per distruggere “Riace” lanciando un missile a testata multipla per mandare in galera degli innocenti e dimostrare, una volta in più, che in Calabria non può nascere nulla che non sia ‘ndrangheta o malaffare. Una tesi diffusa e che lo stesso Buccini nel suo libro “L’Italia quaggiù” sembra condividere quando definisce la Calabria: “... una terra di cui al Paese non importa nulla perché la considera irrimediabilmente perduta... e che al cronista ricorda Valona o Aruba”. È una brutta Calabria quella che vede Buccini anche se individua qualche speranza, per esempio, nell’impegno di tre valorose sindache impegnate contro la mafia. Anche in questo caso però l’autore avrebbe fatto bene a domandarsi come mai una delle tre sindache antimafia di cui parla nel suo libro, Carolina Girasole, sia stata arrestata, processata per intesa con la mafia e, dopo un lungo calvario, assolta perché completamente innocente. La stessa cosa è successa a Lucano e in forme diverse a Otello Lupacchini, procuratore generale emerito di Catanzaro, all’ex presidente della Regione, Oliverio, all’ex vescovo di Locri Bregantini, e altri che non nomino ma per non danneggiarli. Ma soprattutto e innanzitutto è successo a migliaia di donne e uomini sconosciuti, spesso senza soldi e senza avvocato, ma che hanno vissuto l’inferno senza ricevere mai, né prima né dopo l’assoluzione, un solo gesto di solidarietà. Forse per questo lo scrittore Francesco Permunian, zio del sostituito procuratore che ha sostenuto l’accusa contro gli imputati di Riace aveva consigliato al nipote di “fuggire” da Locri. Il dottor Permunian se ne è andato. Altri se ne sono andati, ma non se ne va chi la Calabria ama veramente. Non se ne vanno magistrati coraggiosi. Non fugge chi ritiene che questa terra bellissima e generosa meriti un destino migliore. Che non avrà, almeno finché ci limiteremo ad esprime solidarietà a singole vittime (considerando ogni storia, una storia a sé) invece di comprendere che bisogna rompere un sistema perverso che genera vittime e carnefici e pretende il sottosviluppo d’una parte importante del Paese. Lucia Borsellino: “La moglie di Scarantino cercò di raccontare a mia madre le torture subite dal marito a Pianosa” di Giuseppe Pipitone Il Fatto Quotidiano, 25 ottobre 2023 La moglie di Vincenzo Scarantino, il falso pentito della strage di via d’Amelio, cercò di parlare con la moglie di Paolo Borsellino già nel 1994. Voleva raccontare delle torture subite dal marito nel carcere di Pianosa per obbligarlo ad autoaccusarsi della strage del 19 luglio 1992. A raccontarlo alla commissione Antimafia è stata Lucia Borsellino. La figlia del magistrato ha concluso la sua audizione a Palazzo San Macuto, insieme al marito, l’avvocato Fabio Trizzino, che difende anche Manfredi e Fiammetta Borsellino. Rosalia Basile, moglie di Scarantino, andò sotto casa della famiglia Borsellino in via Cilea, a Palermo, nel febbraio del 1994. “Abbiamo ricevuto uno squillo al citofono alle dieci di sera - ha raccontato Lucia Borsellino - era la moglie di Scarantino, con un gruppo di persone, che voleva salire a casa nostra e parlare con mia madre. Noi abbiamo visto questa incursione come poco opportuna: il mio fidanzato di allora, un poliziotto della Scientifica, ritenne di scendere e fare da filtro e quindi di fatto non consentì alla signora di salire a casa. Su indicazione dell’allora questore Finazzo fece una relazione di servizio, di cui però non si seppe nulla per molto tempo. Quella relazione non era mai stata assunta agli atti dei processi e questo testimone fu sentito solo nel 2016”. Ma cosa voleva raccontare la moglie di Scarantino alla famiglia Borsellino? “Dalle poche parole che il mio ex fidanzato riuscì a scambiare con la signora Basile seppe che voleva riferire a mia madre dei maltrattamenti che suo marito subiva a Pianosa per costringerlo a parlare”. Pochi mesi dopo Scarantino diventa ufficialmente un collaboratore di giustizia: si autoaccusa della strage di via d’Amelio e fa i nomi dei suoi complici. Comincia in questo modo il più grande depistaggio della storia giudiziaria italiana, come è stato definito dal processo Borsellino Quater. Alla fine della sua audizione Lucia Borsellino ha consegnato alla commissione anche una copia dell’agenda marrone di suo padre, quella che il giudice usava per segnare i numeri di telefono. “Nella borsa di mio padre c’era non solo l’agenda rossa ma anche un’agenda marrone, che conteneva una rubrica telefonica. Un’agenda mai repertata, che ci è stata consegnata e che abbiamo custodito per trent’anni senza aver mai saputo che non avesse avuto attenzione sotto il profilo delle indagini. In questi giorni ho chiesto a mio fratello di fornire a questa commissione copie scansionate di quell’agenda e sarà mio padre a far comprendere chi fossero le persone di cui si fidava e quelle di cui non si fidava”, ha detto la figlia del magistrato ucciso nella strage di via d’Amelio. Borsellino utilizzava tre agende: una grigia dell’Enel in cui segnava i suoi appuntamenti e che fu ritrovata in casa sua dopo la strage, una marrone dove appuntava i numeri di telefono e una rossa dei carabinieri, che comincia a usare dopo l’assassinio di Giovanni Falcone e che non faceva mai leggere a nessuno. Il giudice aveva riposto gli ultimi due diari, quello marrone e quello rosso, nella sua valigetta poco prima di compiere il suo ultimo viaggio: quello dalla casa al mare di Villagrazia di Carini a Palermo, in via d’Amelio, dove abitava sua madre. Dopo la strage, però, dalla valigetta di Borsellino mancherà l’agenda rossa. La borsa, invece, con all’interno l’agenda marrone, verrà consegnata solo dopo più di cinque mesi alla famiglia da Arnaldo La Barbera, che fino a quel momento l’avrebbe tenuta sul divanetto della sua stanza. “Di quella borsa non abbiamo mai avuto alcun verbale né di consegna e né di repertazione - ha detto Lucia Borsellino - Io vorrei dare la mia lettura su quell’agenda marrone, che è stata aggiornata fino alla mattina del 19 luglio: lì troverete tutti i numeri delle persone vicine a mio padre. Si trovano per tre quarti numeri di magistrati e per il resto di familiari. Troverete un surplus di numeri di persone che mio padre aveva necessità di raggiungere in qualunque momento oppure di persone come Giammanco che per questioni lavorative doveva raggiungere. Non troverete i numeri di chi non aveva queste frequentazioni. Me ne assumo la responsabilità: per i numeri che non troverete lascio a voi ogni valutazione”. La figlia del magistrato è anche una delle prime persone che ha fatto notare la mancanza dell’agenda rossa dalla valigetta del padre. “Io ho testimoniato personalmente in ordine alla presenza dell’agenda rossa nella borsa perché sono stata testimone oculare dell’utilizzo dell’agenda da mio padre la mattina del 19 luglio. L’agenda rossa era nella borsa con l’agenda marrone, il costume da bagno, le chiavi di casa, le sigarette”, ha continuato Lucia Borsellino, ricordando che quando fu riconsegnata alla famiglia la borsa del giudice “mi sono arrabbiata perché non ci era stata consegnata l’agenda rossa ed ero certa che fosse nella borsa”. Già pochi giorni dopo la strage Arnaldo La Barbera, il superpoliziotto che ha gestito il depistaggio Scarantino, dice che dentro la valigetta di Borsellino l’agenda rossa non c’era. O che forse era andata distrutta nell’esplosione. Ma come fa a essere stata distrutta l’agenda e rimanere quasi integra la borsa che la conteneva? “Io sono certo che l’ha portata con sé. Escludo la possibilità che l’abbia lasciata a casa al mare o in altri luoghi perché mio padre non se ne separava mai”, ha raccontato Lucia Borsellino. E nella “malaugurata ipotesi l’avesse lasciata a Villagrazia di Carini non gli fu dato il tempo di tornare”, ha continuato, ricordando che subito dopo la strage in quella casa “abbiamo subito un furto in cui è stato messo a soqquadro solo lo studio di mio padre e non fu rubato nessun oggetto di valore”. Varese. Educare alla legalità, gli studenti entrano in carcere varesenews.it, 25 ottobre 2023 Il progetto mira a presentare la realtà del carcere cittadino e soprattutto la sua funzione come servizio di giustizia per il territorio. Trentasei allievi del Liceo Ferraris, dell’Istituto Newton e di Enaip hanno visitato l’interno della struttura. Nella Casa Circondariale di Varese è stato attivato il 15° progetto di Educazione alla Legalità, un’iniziativa ormai storica per l’istituto che negli anni ha coinvolto circa 700 studenti delle scuole superiori locali. Questo progetto mira a presentare la realtà del carcere cittadino e soprattutto la sua funzione come servizio di giustizia per il territorio. La prima edizione delle due previste per l’anno scolastico 2023/24 si è conclusa e ha coinvolto studenti del Liceo Ferraris, dell’Istituto Newton e di Enaip. Trentasei allievi, accompagnati dai professori Zago, Maniscalco e Battista, hanno avuto l’opportunità di visitare l’interno della struttura detentiva, conoscere i vari servizi che la compongono e ascoltare direttamente dagli operatori informazioni sulla gestione di un servizio complesso, delicato e insostituibile. Oltre alle testimonianze dei professionisti che operano nella Casa Circondariale, gli studenti hanno avuto l’opportunità di interagire con alcune persone detenute sui temi del rispetto delle regole, dei comportamenti a rischio di devianza e dell’inclusione sociale. La direttrice, la dottoressa Carla Santandrea, ha svolto un ruolo fondamentale nell’accompagnare il progetto in ogni sua fase. Ha trovato un valido partner nell’Ufficio Scolastico Provinciale, di cui è referente la professoressa Lelia Mazzotta, che si è occupata della promozione dell’iniziativa. Il progetto prevede una seconda edizione nel mese di marzo, che coinvolgerà ulteriori tre scuole del territorio, offrendo così ad altri studenti la possibilità di conoscere direttamente un mondo spesso rappresentato in maniera distorta e carico di pregiudizi. “L’iniziativa quest’anno - sottolinea la direttrice Carla Santandrea, si è svolta con modalità assolutamente nuove. Gli studenti accompagnati dai loro insegnanti sono entrati in istituto e gli incontri si sono realizzati in carcere. Questo ha permesso agli studenti coinvolti attraverso il coinvolgimento diretto, di conoscere il lavoro svolto quotidianamente dagli operatori penitenziari. Gli allievi, infatti, guidati dagli operatori hanno potuto vedere e conoscere sul campo i singoli settori del carcere in particolare le traduzioni, le immatricolazioni, la gestione delle sezioni detentive, gli spazi per le attività trattamentali, l’area sanitaria e i servizi erogati. L’obiettivo del percorso è stato quello di avvicinare i ragazzi alle Istituzioni, stimolare il rispetto delle regole, comprenderne le conseguenze laddove vengano violate e conoscere professioni che, al pari di altre, garantiscono la legalità”. Questo progetto si configura come un importante strumento di sensibilizzazione che contribuisce a rompere gli stereotipi e a educare i giovani alla legalità, dimostrando che il sistema carcerario è un elemento chiave per il funzionamento della giustizia e della società nel suo complesso. Brescia. Carcere di Canton Mombello, interrogazione parlamentare di Almici giornaledibrescia.it, 25 ottobre 2023 La deputata bresciana Cristina Almici di Fratelli d’Italia ha presentato un’interrogazione parlamentare per chiedere quali siano le intenzioni del governo rispetto al carcere di Brescia. La grave situazione di Canton Mombello, definita “ingestibile” dal presidente della Corte d’appello Claudio Castelli nelle scorse ore, è dunque di rilevanza nazionale. Almici domanda “se e quali iniziative di competenza il Governo intenda assumere in merito per addivenire a soluzioni tempestive che consentano, nell’immediato, di alleggerire la popolazione carceraria della casa circondariale di Canton Mombello, senza rinunciare alle istanze penitenziarie”. La situazione - Costruita nel 1915, dunque vetusta e non più adatta, la casa circondariale ospita secondo gli ultimi dati 370 detenuti contro una capienza che ne prevede 189, con addirittura anche 18 persone in una cella. La difficile situazione avrebbe anche contribuito a fare aumentare gli episodi di disordine e violenza all’interno del carcere. “Da gennaio - scrive Almici - si contano 62 aggressioni verso altri detenuti e 25 nei confronti della polizia penitenziaria, a sua volta sotto organico e che opererebbero in mancanza di protocolli d’intervento operativi che permettano di preservare la sicurezza del personale e di ripristinare e mantenere l’ordine all’interno delle sezioni detentive”. “A parere dell’interrogante - prosegue la bresciana - la non vivibilità degli ambienti carcerari rischia di vanificare anche qualunque intento rieducativo della pena, nonostante gli sforzi delle associazioni e le intese, ad esempio, siglate con Confindustria, Università e Assoartigiani per progetti lavorativi in cui coinvolgere i detenuti”. Foggia. Detenuti senza abiti, scatta la solidarietà: “Qui c’è chi non ha neanche un paio di scarpe” foggiatoday.it, 25 ottobre 2023 L’appello a donare era arrivato dal cappellano del carcere foggiano. A mobilitarsi i volontari del Rotary Club Foggia, di Inner Wheel e Croce Rossa Italiana. Frate Eduardo Giglio chiama, i volontari rispondono ‘presente’. Sono quelli del Rotary Club Foggia e delle sedi foggiane di ‘Inner Wheel’ e Croce Rossa Italiana che si sono mobilitati per aiutare le persone detenute in stato di indigenza raccogliendo in pochi giorni abiti e scarpe. Tute, felpe, t-shirt, jeans, calze, biancheria intima, scarpe da tennis, ciabatte da doccia, cappellini riempiono l’elenco degli indumenti raccolti e donati al cappellano della casa circondariale di Foggia che aveva chiesto aiuto. “Molti detenuti - spiegano dal CSV Foggia - non possiedono vestiti ed è chiaro che, al di là degli errori commessi, la dignità umana debba essere sempre preservata. Abbiamo subito accolto e diffuso la richiesta d’aiuto del cappellano e abbiamo registrato con piacere l’entusiasmo e la prontezza dei volontari. Un gesto solidale che si aggiunge alle azioni messe in campo dalla Fondazione dei Monti Uniti di Foggia, grazie alla quale periodicamente viene arricchito il magazzino del carcere, pensato proprio per i detenuti privi di ogni tipo di risorsa. Non solo. Ogni anno, in collaborazione con l’ARCI Solidarietà, viene implementato il fondo di solidarietà, destinato a soddisfare i bisogni primari che condizionano la qualità della vita dei detenuti in condizione di fragilità, quali l’acquisto di farmaci di fascia C, pagamenti di ticket sanitari, telefonate ai familiari, attivazione di pratiche per la richiesta della pensione di invalidità”. “Alcuni ristretti - concludono dal CSV Foggia - posseggono solo gli abiti indossati al momento dell’arresto e, durante il periodo di detenzione, non hanno la possibilità di fare colloqui o di richiedere un cambio ai familiari. Qualcuno non possiede nemmeno un paio di scarpe oppure non ha abiti invernali, per affrontare la stagione più fredda. Per tale motivo, raccolta di abiti e donazioni sono sempre ben accette”. Livorno. Detenuti e inserimento lavorativo, un convegno conclude il progetto Milia toscana-notizie.it, 25 ottobre 2023 Venerdì 27 ottobre alla Camera di Commercio di Livorno. Al centro i risultati sulle attività a favore dell’inserimento lavorativo delle persone recluse nelle carceri di Gorgona e Pianosa e un confronto sullo sviluppo economico delle due isole dell’Arcipelago. Partecipano tra gli altri la vicepresidente Saccardi e l’assessora Nardini. on un convegno si concludono i 4 anni di attività di Milia, progetto della Regione Toscana nato per sperimentare modelli di inclusione lavorativa dei detenuti nelle carceri di Pianosa e di Gorgona. Il convegno si terrà a Livorno presso la Camera di Commercio in piazza del Municipio il prossimo venerdì 27 ottobre. Sarà non solo l’occasione per illustrare i risultati del progetto finanziato nell’ambito del Pon Inclusione con il contributo del Fondo Sociale Europeo 2014-2020, ma costituirà momento di confronto sullo sviluppo economico e l’attrattività turistico-naturalistica delle due isole dell’Arcipelago toscano, anche con il coinvolgimento delle persone detenute nelle strutture detentive. L’appuntamento, dal titolo “Pianosa e Gorgona: prospettive future tra inclusione socio-lavorativa, sviluppo economico e rurale e vocazione turistica e naturalistica”, è in programma dalle 9 del mattino. È suddiviso in alcune sessioni che vedranno la partecipazione della vicepresidente della Regione e assessora all’agricoltura Stefania Saccardi e dell’assessora a istruzione, formazione e lavoro Alessandra Nardini, della dirigente del Ministero della Giustizia Paola Giannarelli, del Provveditore regionale Amministrazione Penitenziaria Pierpaolo D’Andria, del Presidente dell’Ente Parco Nazionale Arcipelago Toscano Giampiero Sammuri, del Garante regionale dei diritti delle persone private della libertà Giuseppe Fanfani, del sindaco di Campo nell’Elba Davide Montauti, dell’assessore al lavoro del Comune di Livorno Gianfranco Simoncini, del direttore di Anci Toscana Simone Gheri. In apertura i saluti istituzionali dell’assessora Nardini a cui seguirà alle 10.30 la tavola rotonda “Il progetto MILIA in Toscana Politiche attive e formazione: un modello per l’inclusione socio-lavorativa di detenuti ed ex detenuti”. Contemporaneamente prenderà il via un altro incontro, “Sistema Isole: esperienze e progetti a confronto”. Stefania Aru della Regione Sardegna porterà l’esperienza fatta nelle colonie penali agricole in Sardegna, dove l’inserimento socio-lavorativo ha conosciuto anche dimensione aziendale. Alle 12, tavola rotonda di chiusura sulle “Prospettive e governance per lo sviluppo futuro delle due isole” a cui prenderà parte, tra gli altri, la vicepresidente Saccardi. Lecce. Da un anno in carcere ma nessuno lo va a trovare: autorizzato a incontrare il suo cane di Francesco Oliva La Repubblica, 25 ottobre 2023 È accaduto nella casa circondariale di Lecce dove un senza fissa dimora è detenuto per piccoli reati: “Zair è il suo unico amico”. Un cane come unico compagno di vita. Poi l’arresto per reati di poco conto. Il carcere, la solitudine e nessun parente o un amico dietro il vetro della sala colloqui. Ci sono storie che meritano di essere raccontare per comprendere ancora meglio il mondo della detenzione che, nell’immaginario collettivo, è solo un luogo di isolamento e di esclusione. La Casa Circondariale di Lecce ha avviato da tempo un importante lavoro di rieducazione sociale, che ha come fine ultimo quello che la pena dovrebbe sempre comprendere: ossia recupero e accoglienza. Ebbene, da oltre un anno nel carcere di Borgo San Nicola è detenuto un uomo che ha sempre vissuto in solitudine e senza fissa dimora. L’unico suo vero compagno era Zair, l’amico a quattro zampe con cui insieme era solito passeggiare per le vie di un borgo salentino. Dopo una detenzione di oltre 12 mesi, non avendo mai ricevuto visite, conoscendo la grande rilevanza al mantenimento delle relazioni personali e affettive pregresse, la dottoressa Monica Rizzo ha disposto un incontro tra l’uomo ed il suo affetto più caro, grazie anche alla sensibilità dimostrata dalla direttrice, Maria Teresa Susca. L’evento si è svolto all’interno del carcere: nello specifico in un roseto creato e accudito da un detenuto, dove si avverte un’aria di serenità e di grande cura. “Tutto questo - fanno sapere dal carcere - ci fa ben sperare che l’importanza che si da all’individualizzazione del trattamento detentivo sia il punto di forza per la rieducazione dei detenuti. Tale trattamento è l’unico in grado di rispondere ai particolari bisogni della personalità di ciascun soggetto, ancora più efficace se si dà particolare attenzione al modo in cui il soggetto ha vissuto, alla sua storia specifica, al suo vissuto familiare. Maggiormente vicini ci si pone al condannato più efficacemente si può attivare un processo di valorizzazione della sua individualità, in un’ottica di responsabilizzazione e di rieducazione”. Letteratura. Il concorso Città di Trieste premia il “coraggio di esserci” delle donne di Martina Seleni Il Piccolo, 25 ottobre 2023 Premiati i migliori racconti del diciannovesimo Concorso. Tra le partecipanti anche undici autrici da diverse carceri italiane. “Il coraggio di esserci”. La forza di non fuggire e partecipare fino in fondo a situazioni difficili, pesanti, forse drammatiche. È stato questo il tema della XIX edizione del Concorso internazionale di scrittura femminile “Città di Trieste”, iniziativa promossa dal Comune assieme alla Consulta femminile con lo scopo di far conoscere il talento delle donne. La cerimonia - La cerimonia di premiazione si è svolta martedì pomeriggio in Sala Luttazzi, dove sono stati letti i migliori racconti selezionati dalla giuria, guidata dalla professoressa Cristina Benussi. “Spesso - ha spiegato la presidente del Concorso Carla Mocavero - qui a Trieste si dice “mi fazo din don”, oppure “mi no me intrigo”. Ma questo è un ragionamento sbagliato. Dobbiamo sempre essere in prima linea per la realizzazione di una società migliore, compartecipando al destino degli altri esseri umani. Per questo, abbiamo proposto “Il coraggio di esserci” come fil rouge dell’ultima edizione”. Il racconto di esperienze reali - Ma come hanno risposto le candidate a questa ambiziosa sfida? “Le scrittrici che hanno preso parte al concorso - ha detto Benussi - si sono messe sulla lunghezza d’onda giusta, e hanno raccontato di un’esperienza reale, che spesso ha implicato il coraggio di opporsi a qualcosa, siano le convenzioni, il disegno politico o il senso comune, per testimoniare a nome delle persone fragili o escluse”. Il premio più importante, quello elargito dalla Consulta, è andato al racconto “Fioi” della scrittrice Maria Grazia Lonza, dedicato a suo padre che nel 1953 dovette abbandonare giovanissimo la sua Istria, per aver salva la vita. Il Comune di Trieste ha premiato il lavoro della poetessa Diana Mayer Grego, che con il suo “L’amore va oltre ogni ostacolo” descrive con delicatezza la dedizione di una figlia verso la madre malata di Alzheimer. I premiati - Il Comitato Danilo Dolci ha deciso di insignire Laura Chiabudini che, con il racconto “Oltre la finestra”, parla di una profonda amicizia durante i tempi oscuri in cui Trieste era occupata dal regime nazifascista. E ancora, il Cai XXX Ottobre ha premiato “L’incidente” di Nadia Feroce, mentre il Soroptimist Club Trieste ha indicato “Ti lascio una vocale” di Silvia Pallaver come vincitore del Premio speciale in memoria di Edda Serra. Infine, la targa dell’Associazione “Giuliani nel mondo” è finita nelle mani di Virginia Veruma, autrice de “Il coraggio di tenerti la mano”, mentre “Il Piccolo” ha scelto il racconto “La prima persona” di Lucia Zacchigna. I racconti dalle carceri - “Ma la sorpresa più grande - ha sottolineato la presidente della Consulta femminile Anna Maria Mozzi - quest’anno ci è giunta dalle carceri: abbiamo potuto leggere ben undici racconti scritti da donne che vivono private della loro libertà, da Trieste a Catania. Ci hanno fatto vivere le loro dolorose esperienze, e ci hanno mostrato il loro coraggio nell’accettare la drammatica contingenza e farne un voucher per il futuro, per una nuova vita. In questo contesto, il Premio Pen Club è andato a “Il coraggio di esserci” di Fortunata Caminiti”. Durante la cerimonia, a tutte le vincitrici è stata distribuita la silloge con i racconti premiati, edita da Luglioprint Trieste con il contributo della Fondazione Casali. La musica - Le musiciste Julija Cante e Cecilia Bertolini, studentesse della Glasbena Matica, hanno proposto degli intermezzi musicali e le signore Anna Gloria Tetto e Luciana Villi hanno curato le letture. Era presente anche l’assessore alle Politiche dell’Educazione e della Famiglia Maurizio De Blasio, che ha portato i suoi saluti specificando che “la letteratura femminile in un momento come questo, in cui ci sono molte questioni da risolvere, è importantissima. Certo, non basta un racconto per risolvere i problemi, eppure la scrittura è uno strumento indispensabile per conoscere, comprendere e confrontarsi”. Cinema. “Desiré, quando il carcere è l’inizio di una rinascita”. di Viola Baldi hollywoodreporter.it, 25 ottobre 2023 Il regista Mario Vezza: “È la storia di una sedicenne in cerca di un’identità”. “Mare Fuori? Storie simili, ma la nostra nasce prima. Abbiamo tentato di raccontare con delicatezza l’esperienza del carcere per queste donne, codificandola in maniera solo nostra”, ha raccontato il regista a THR Roma. Il film è in concorso ad Alice nella Città, sezione autonoma della Festa del Cinema di Roma. “Il carcere di Nisida è un luogo particolare da sempre: l’isolamento su un’isola si sente ancora più forte, ma volevo si percepisse il contrasto tra la staticità della prigione e il progredire della vita, di pari passo con la crescita della protagonista”. Parola del regista Mario Vezza, il cui Desiré - in concorso ad Alice nella Città - racconta la detenzione e l’esperienza del carcere come luogo formativo visto dagli occhi della giovane protagonista omonima: una sedicenne intrappolata in un ambiente al quale è inesorabilmente costretta e dal quale è difficile prendere le distanze. Desiré è una ragazza volubile e fragile, vittima di un mondo che prova a padroneggiare, ma dal quale viene continuamente schiacciata. Ed è così che il luogo di contenzione per antonomasia - grazie alla sensibilità di chi ci lavora e grazie all’arte teatrale - può diventare ambiente di crescita e rinascita. Il primo vero inizio di una vita tutta nuova. Il racconto di Desiré è un cerchio che si chiude. Nasce in mare, ed è nel mare che troverà poi la sua identità... Sì, in effetti sì. La circolarità nasce dall’idea di far fare un percorso errante alla protagonista. Ai fini della struttura del film c’era bisogno di chiudere il cerchio, di mettere un punto alla sua introspezione, e l’ho voluto fare così, ricollegandomi all’inizio. Il tema del mare, poi, è molto delicato, e ci tenevo a metterlo al centro di tutto. Le tematiche trattate però sono molteplici, dalla violenza alle dipendenze. A chi si rivolge il film? Desiré nasce come opera prima, quindi l’idea di base l’obiettivo è quello di far arrivare anche attraverso l’autore un punto di vista ben preciso allo spettatore. Volevo raccontare la formazione identitaria di una giovane donna attraverso una serie di condizioni sociali e identitarie. Il discorso alla base di tutto poi, è proprio quello della formazione ed educazione. Lei stesso ha partecipato a dei percorsi formativi in carcere... È stata l’esperienza che più mi ha cambiato la vita. Il personaggio di Desiré nasce anche da lì. Ci racconta il progetto del film? Il progetto del film nasce cinque anni fa sotto forma di documentario, con piccole interviste fatte a dei giovani detenuti insieme al co-sceneggiatore Fabrizio Nardi. Abbiamo fatto dei percorsi educativi di teatro negli istituti penitenziari, e ci siamo resi conto che c’era un elemento sotteso tra le storie di questi ragazzi. Molti di loro erano uniti da un pessimismo per il futuro, non si prospettavano alcuna condizione di lì ai dieci anni successivi. Desiré è in questo senso una ragazza che non ha una vera e propria identità, vive le difficoltà in modo passivo e, come gli intervistati, non ha ben chiaro chi sia, cosa stia facendo lì. Da qui la scelta di trovare un’eroina che fosse un po’ ibrida. Volevo creare un aspetto di ricerca anche a livello visivo, oltre che nelle questioni trattate. I detenuti intervistati erano perlopiù sfiduciati, dunque? No, in realtà variava di persona in persona. I giovani nati in un sistema malavitoso si proiettano tutta la vita in quell’ambiente. Coloro che sono stati posti in situazioni difficili dalla vita invece manifestano una mancanza di strumenti personali ed educativi per potersi immaginare nel futuro. È una caratteristica delle nuove generazioni? È un dato di fatto. I ragazzi di oggi hanno poche aspirazioni, pochi ideali. E da qui l’idea del film: creare una storia di un personaggio nel corso della sua formazione, tramite una fotografia che la seguisse in un momento di radicale cambiamento. Com’è avvenuta la scelta dei giovani attori del cast? Siamo partiti dalla volontà di raccontare il territorio napoletano. Servivano attori che sapessero parlare il dialetto e che rappresentassero Napoli in maniera autentica. Abbiamo cercato di trovare dei ragazzi che potessero avere vissuto storie simili per dare al film una sua verità. Desiré è stata il personaggio più difficile da trovare. Volevo una ragazza per metà nigeriana, piccola di corporatura, e che parlasse napoletano. Con lei abbiamo fatto un tour de force, a partire dall’insegnarle a guidare il motorino fino a nuotare. È stata come una meta-formazione, che è ciò che mi auspicavo lavorando con i ragazzi. Perché, come racconta anche la protagonista, il nome Desirée è scritto in maniera sbagliata? È voluto. La volontà era quella di creare una sorta di strappo, di frattura, che fosse visibile. Delle volte c’è bisogno di simbolismo nel cinema, e in Desiré l’ho voluto inserire così. Volevo che questo nome scritto male per cause fortuite simboleggiasse le condizioni di una vita invivibile sotto tanti aspetti. È l’epoca aurea dei drammi penitenziari, primo tra tutti Mare fuori. Si è ispirato alla serie? Il progetto del nostro film nasce un po’ prima. Sono consapevole che siano due realtà molto simili, per il tema rappresentato e per la location. Noi, però, abbiamo cercato di instradarci in un percorso autonomo. Abbiamo tentato di raccontare con delicatezza il carcere di Nisida, la ricerca di identità di queste donne in via di formazione, codificandola in maniera solo nostra. Desiré nasce e cresce nella malavita, ma l’esperienza del carcere la porta verso la rinascita. Alla base della sua esperienza negli istituti penitenziari, la redenzione è una conseguenza reale e possibile? In alcuni casi avviene. La scelta di raccontare il riscatto nel mio cinema nasce proprio perché c’è una volontà personale ed autoriale di guardare il tutto da un punto di vista positivo. Conosco tantissime storie di ragazzi che, una volta forniti loro gli strumenti adatti, sono riusciti a riscattarsi e a rinascere. Io stesso sono cresciuto in un ambiente che mi avrebbe potuto deviare verso una strada diversa. La formazione e gli incontri giusti, però mi hanno edificato correttamente. Lo stesso può avvenire col carcere. La pellicola non ha una fine netta e sembra preannunciare una nuova fase della vita di Desiré. Tutto finisce - così come era iniziato - con l’acqua... I suoi problemi rimangono, vanno ancora affrontati, ma è come se lei riuscisse finalmente a trovare una forma identitaria, peraltro grazie al contatto fisico con l’acqua. A sedici anni non si può dire di sapere o di conoscere qualcosa completamente, perciò anche la fine della pellicola doveva rappresentare la giovane età della protagonista. Come se fosse l’inizio di un nuovo percorso. Stavolta però intrapreso in autonomia. Cosa si auspica per il film? Mi piacerebbe riuscire a farlo arrivare a un pubblico giovane che ne percepisca l’onestà. I film devono avere una natura collettiva, devono raccontare chi li guarda. Devono essere condivisi e apprezzati, anche se solo da una fetta di pubblico. Non mi interessa l’essere popolare, l’importante è che si riesca a diffondere un’idea di verità che non possa essere smentita. Sport. Giocare per diritto nelle Case circondariali di Palermo e Trapani di Miriam Palma uisp.it, 25 ottobre 2023 Il progetto Uisp Sicilia “Giocare per diritto” ha vissuto giornate importanti per le recenti inaugurazioni delle aree da gioco all’interno delle case circondariali Pagliarelli di Palermo e Pietro Cerulli di Trapani. Il progetto, che ha preso il via a giugno 2021, si sta avviando alla conclusione con l’inaugurazione delle ultime aree da gioco previste dall’iniziativa. Giocare per diritto, infatti, si occupa di realizzare delle aree da gioco all’interno delle carceri, per permettere ai detenuti di rafforzare il legame con i loro figli e di godere di momenti di spensieratezza anche nel periodo di reclusione. Il progetto è stato selezionato dall’impresa sociale “Con i bambini” nell’ambito del Fondo per il contrasto della povertà educativa e minorile e finanziato attraverso il bando pubblico “Un passo avanti”. Agrigento, Caltanissetta, Catania, Enna, Ragusa, Messina, Palermo e Trapani, sono i territori coinvolti nel progetto. Il progetto si concluderà ufficialmente il 30 novembre, siamo alle battute finali, ma mancano ancora le ultime tre inaugurazioni. La prossima sarà il 18 novembre nel carcere di Messina, a cui seguiranno le inaugurazioni ad Agrigento e Catania, entro la fine di novembre. Il presidente Uisp Sicilia, Vincenzo Bonasera, commenta così la fase finale di Giocare per diritto: “Questo progetto nasce con l’adesione di otto istituti penitenziari, poi altri istituti si sono aggregati, come il carcere di Barcellona Pozzo di Gotto (Me) e quello di Caltanisetta. Quando si arriva alla fine di un progetto si raccoglie quello che si è fatto, le esperienze e la rete associativa che si è riusciti a costruire. Per l’Uisp non è un mondo nuovo questo: da sempre svolgiamo attività nelle carceri. Con questo progetto abbiamo sicuramente aumentato il numero di iniziative e coinvolto quante più persone possibili, cercando di aumentare anche il numero di adesioni. Come tutti i progetti, Giocare per diritto nasce per avere un prosieguo. Siamo soddisfatti, perché intorno a noi abbiamo trovato supporto anche nei comuni, nelle università e in tanti altri enti che sono stati al nostro fianco, e di questo ne siamo orgogliosi. Le grandi difficoltà sono superate dalle grandi soddisfazioni”. Il 28 settembre l’Uisp Sicilia è entrata con il progetto nel carcere di Palermo. “Questa area gioco è un simbolo tangibile ed evidente del bellissimo percorso che è stato fatto e che vuole valorizzare il ruolo di genitore del detenuto - ha detto all’inaugurazione Maria Luisa Malato, direttrice della Casa Circondariale Pagliarelli di Palermo - Questo spazio darà l’occasione di vivere in maggiore libertà il classico colloquio genitore-figlio, che normalmente si svolge nelle sale colloqui. Non solo è importante perché dà maggiore libertà e un senso diverso al colloquio, ma anche perché probabilmente consentirà ai genitori di godere di un momento di vicinanza con i loro bambini. È un segno importante anche di attenzione ai detenuti, che in parte potranno anche riacquistare questo ruolo di genitore che a volte, anche prima dell’ingresso in carcere, per problematiche varie, non avevano rivestito con la dovuta attenzione”. Il 17 ottobre si è tenuta anche l’inaugurazione dell’area gioco nella casa circondariale Pietro Cerulli di Trapani. “Giocare per diritto è stata quasi una scommessa - racconta Marilena Galia del Comitato territoriale Uisp Trapani - non poche sono state le difficoltà e molteplici gli ostacoli da superare. Lunghi colloqui, interminabili trafile per le autorizzazioni, mille telefonate, ma oggi posso dire che tutto quello per cui abbiamo lavorato esiste. È stata una grande emozione vedere gli occhi umidi dei detenuti presenti all’inaugurazione, degli psicologi Nicola Pollina e Betty Camuto, che hanno lavorato affinché i detenuti potessero vivere questa esperienza. Ho sentito il respiro di sollievo del responsabile degli educatori della casa circondariale, Giuseppe Navetta, che insieme a me ha combattuto per arrivare al giorno dell’inaugurazione. Adesso avanti tutta! Pronti per sostenere al meglio la genitorialità dietro le sbarre!”. “Difendiamo la famiglia”, dice la destra (purché etero, bianca e procreativa) di Andrea Pugiotto L’Unità, 25 ottobre 2023 Voler imporre un modello dominante di famiglia implica narrare le altre come marginali e devianti, esponendone i componenti al pregiudizio sociale. Ecco quindi la contrarietà alle famiglie arcobaleno e alla loro genitorialità, allo jus soli, gli ostacoli alla procreazione assistita, il reato universale di gestazione per altri: insomma, il rifiuto della declinazione plurale di famiglie. 1. Il privato che si fa pubblico per un fuori-onda televisivo e un fatto personale che diventa politico tramite un tweet. In sintesi, è questa la dinamica del “caso” che vede protagonisti la premier e il suo (ex) compagno di vita. Il linguaggio da trivio e la postura da maschio-alfa di Giambruno sono stati diffusamente stigmatizzati, mentre la reazione di Meloni ha avuto commenti misti per tutti i gusti. Con un riquadro in prima (“Chapeau. Se invece volete gossip leggete un altro giornale”), L’Unità ha scelto di non occuparsene. Non credo di rompere l’embargo se di questa vicenda segnalo la cultura politica che veicola e la trascende. Sta tutta in un interrogativo: quando i leader del centrodestra alzano le loro insegne (“Dio, Patria, Famiglia”), a quale famiglia fanno riferimento? 2. Non è quella tradizionale affermatasi nella storia italiana, a lungo costitutiva della cultura nazionale. Richiamarsi ad essa sarebbe anacronistico (e politicamente controproducente), perché i suoi caratteri un tempo irrinunciabili si rivelano, oggi, regressivi e inaccettabili. L’indissolubilità del matrimonio. Una struttura familiare gerarchica a subordinazione femminile. Un diritto di famiglia che - prima della riforma del 1975 - ammetteva il delitto d’onore e l’estinzione del reato di violenza carnale con nozze riparatrici. La responsabilità penale del marito limitata ai casi di “abuso” nei mezzi di correzione della moglie. Il reato del solo adulterio femminile, inizialmente salvato dalla Corte costituzionale proprio richiamando il “tradizionale concetto della famiglia, quale tuttora vive nella coscienza del popolo” (tranne, anni dopo, rimuoverlo con sent. n. 126/1968). Fino a l’altro ieri, questo era il modello familiare di casa nostra. Nessuno, al governo, credibilmente lo rimpiange. 3. Non è neppure la “società naturale fondata sul matrimonio” (art. 29 Cost.), la famiglia sbandierata dal centrodestra. Sarebbe contraddittorio: i suoi leader passati e presenti (Berlusconi, Fini, Casini, Salvini, Meloni) sono divorziati o non sono sposati o hanno finto di esserlo (pensando all’inedito berlusconiano delle “nozze” simulate con l’ultima “moglie”). Sarebbe anche un uso improprio di quella formula costituzionale che non incorpora un modello familiare fondato sul diritto naturale. Lo scopo dell’art. 29 è ben altro, come spiegò Costantino Mortati in Assemblea costituente: indicare nella famiglia una realtà preesistente allo Stato, con “una sua autonomia originaria, destinata a circoscrivere i poteri del futuro legislatore in ordine alla sua regolamentazione”. I Costituenti intesero così marcare il confine tra autonomia familiare e sovranità statale. In ciò, ammaestrati dalla storia patria che aveva conosciuto obbrobri come l’obbligo di improntare l’istruzione e l’educazione dei fi gli al sentimento nazionale fascista; il divieto (per gli ebrei) di sposarsi in territorio italiano; il divieto di nozze con stranieri per non contaminare la razza. Nessuna prescrizione di un modello, dunque, tantomeno confessionale. Semmai, uno scudo a difesa della libertà di scelta, a cominciare da quella del proprio partner. 4. Forse il centrodestra difende la famiglia monogamica, quale unione tra un solo uomo e una sola donna? Lo si può realisticamente escludere. Le biografi e dei suoi leader raccontano di più relazioni e di più fi gli, di primo e secondo letto. Nulla di illegittimo, anzi: è il nostro ordinamento a non elevare la monogamia a cardine dell’istituto familiare. La sopravvenuta depenalizzazione dei reati di adulterio e di relazione adulterina. L’introduzione del divorzio per scelta legislativa, poi confermata dal referendum popolare. La conseguente possibilità di creare nuove famiglie - anche legittime - senza il passaggio obbligato della vedovanza. I doveri costituzionalmente imposti ai genitori verso i figli, legittimi o naturali che siano. Sono tutti tasselli che hanno ridefinito il paradigma monogamico dei tempi andati. Oggi, “non si può avere più di un coniuge per volta, ma se ne possono avere più di uno in sequenza” (Chiara Saraceno). Oggi, non solo si consente, ma addirittura si ammette l’esistenza di rapporti poligamici di fatto, riconoscendone gli effetti giuridici tra le generazioni. 5. A cosa alludono allora i leader di centrodestra? Quando invitano a difenderla, pensano a una famiglia trinitaria: etero, bianca, procreativa. È questa che vogliono tutelare legislativamente, agevolare con specifiche misure economico-sociali, culturalmente difendere e diffondere. Nella loro visione, le tre componenti devono suonare in stereo: l’assenza anche di una sola, infatti, cambia la musica e giustifica un diverso spartito. Serve esemplificare? La contrarietà alle famiglie arcobaleno e alla loro genitorialità, di cui si vieta la trascrizione. Il rifiuto di una legge sulla cittadinanza improntata allo jus soli (per quanto temperato), perché favorirebbe successivi ricongiungimenti familiari da paesi extraeuropei. Le agevolazioni per le famiglie a prole numerosa, purché italiane. Gli ostacoli legislativi alla procreazione assistita. Il divieto penale universale della gestazione per altri, anche quando solidale (così, se ieri nascevano i figli del peccato, oggi nasceranno i figli del reato). È la declinazione plurale di famiglie che non piace e che, dunque, va avversata. Tutto si tiene. Purché si resti entro il perimetro della famiglia etero-bianca- procreativa, nella propria vita privata ogni altra possibile combinazione è tollerata. Lo testimoniano le loro biografi e, da questo punto di vista per nulla incoerenti. 6. Senonché, il diritto (costituzionale, in particolare) parla un lessico familiare diverso. Quanto alla nostalgia per la famiglia “granaio della Nazione”, contrarre matrimonio non è mai stato un diritto esclusivo di chi è idoneo a procreare naturalisticamente. Può sposarsi la coppia di anziani. Lo può fare il transessuale con il partner del suo sesso originario. Si celebrano nozze in punto di morte. Dentro o fuori dal matrimonio, avere figli è una libera scelta individuale: infatti, la sterilizzazione volontaria non è più reato; quello di propaganda delle pratiche contraccettive è stato dichiarato incostituzionale (sent. n. 49/1971); la legge sull’aborto riconosce il diritto soggettivo alla procreazione cosciente e responsabile (art. 1, legge n. 194 del 1978). Sono tutti esempi di come, giuridicamente, sia stato da tempo tagliato il cordone ombelicale che univa famiglia e funzione procreativa. È vero: il calo demografi co rappresenta un problema nazionale. Lo si potrebbe affrontare con una politica migratoria inclusiva. Se non lo si fa è perché ne uscirebbe divelto uno dei tre picchetti (la famiglia bianca) che si vuole ben piantato a terra. Quanto al paradigma eterosessuale, resiste solo nell’istituto matrimoniale, come ha confermato la Consulta con una sentenza (n. 138/2010) tra le più discusse in dottrina. Ma non permea di sé le formazioni sociali a vocazione familiare che vediamo intorno a noi: unioni civili, coppie di fatto, famiglie unipersonali, allargate, omo-genitoriali, monoparentali. Famiglie che tali sono (non per il diritto, ma) per la vita, perché capaci di inedite e autentiche relazioni di cura: “è così difficile capirlo? Quello che fa davvero la differenza è la legge dell’amore” (Massimo Recalcati). Non la legge della natura o del codice civile. 7. Se le cose stanno così, l’opposizione farebbe bene allora ad abbandonare il moralismo di chi addita l’ipocrisia altrui. Irridere i leader di centrodestra perché amano così tanto la famiglia da averne più d’una è inutile ed anche sbagliato: infatti, le loro sono - tutte - unioni etero, bianche, procreative. La posta in gioco è molto più alta. Voler imporre, attraverso il diritto, un modello dominante di famiglia implica narrare le altre come marginali e devianti, esponendone i componenti al pregiudizio sociale. Serve forse ricordare che, nella storia, sono sempre iniziate così tutte le discriminazioni peggiori? Violenza sulle donne, ora un voto bipartisan di Fabrizia Giuliani La Stampa, 25 ottobre 2023 Racconta Paola Cortellesi, ne abbiamo scritto su queste pagine, che il suo film è nato dallo stupore di Lauretta, sua figlia, nel conoscere le tappe della sua storia, le tappe dei diritti conquistati dalle donne. La meraviglia di Lauretta la leggiamo negli occhi di ogni studente quando ricordiamo le date dello Ius corrigendi (1956), l’abolizione della punizione dell’adulterio femminile (1969) o del delitto d’onore (1981). Stupore, incredulità e soprattutto fatica nel riconoscere come per donne e uomini la cittadinanza abbia viaggiato su binari diversi. Il diritto non è neutro, a dispetto delle intenzioni, la storia si è incaricata di mostrarlo con puntualità. Il nodo non è solo italiano, intendiamoci, basta pensare alla Convenzione d’Istanbul (2011) il trattato europeo che ha dovuto affermare, nero su bianco, che la violenza contro le donne costituisce una lesione dei diritti umani. Torniamo allo stupore: perché serve una carta ad hoc per ribadirlo? Perché i “diritti umani” astrattamente invocati dai trattati internazionali non arrivano a ricomprendere le donne, nel senso comune e nell’esperienza prima ancora che negli strumenti giuridici? Occorre partire da qui, da questa differenza che non si lascia comprendere - e tantomeno risolvere - se la si intende solo come diseguaglianza. Le leggi che hanno cambiato l’Italia sono state norme conquistate grazie a battaglie difficili, combattute fuori e dentro le istituzioni. Sono state dure soprattutto quelle che riguardavano il privato, più che il pubblico e durissime quelle che hanno affrontato il contrasto alla violenza e alla violenza domestica. L’assenza di una memoria condivisa nasconde il dato rilevante: cosa ha reso possibile che le cose cambiassero nonostante gli ostacoli? L’alleanza oltre gli schieramenti. Senza non ci sarebbero state leggi che sono - senza retorica - conquiste di civiltà: dalla 194 che ha consentito alle donne di non morire nella vergogna della clandestinità alla legge sullo stupro come crimine contro la persona e non contro l’onore. Questa trasversalità non è stata rinuncia all’identità: al contrario, ha rappresentato un inedito gesto di autonomia che ha sottratto alla strumentalità della contesa politica una lotta di libertà che chiedeva norme e parole nuove - da autodeterminazione a femminicidio. Senza questa forza, la sola capace di battere i residui patriarcali radicati e soprattutto saldamente trasversali non saremmo dove siamo: lo spazio conquistato dalle donne ha ridimensionato privilegi e potere maschile. I numeri e l’efferatezza della violenza ci ricordano che non è un conflitto indolore, non siamo “oltre” anche se piace pensarlo, siamo in mezzo. Sarebbe un gesto politico importante, nel tempo delle leadership femminili, identificare questa battaglia come priorità, dargli rilievo, collaborare e riconoscersi com’è accaduto in ogni tornante decisivo. Alla Camera sono al voto nuove norme volte al rafforzamento delle misure cautelari, un passo avanti decisivo per la protezione delle donne che tante volte abbiamo visto venire meno con esiti fatali. Sono parte di un capitolo di riforme al quale i diversi schieramenti, negli anni hanno contribuito e possono rappresentare il primo passo di un cammino che dovrebbe essere sostenuto da tutti, responsabilmente. Non sono norme risolutive, esaustive, ma sono necessarie a salvare vite: meriterebbero un’attenzione che finora, francamente, è mancata. Il contrasto agli abusi non ha bisogno di bandiere e proclami, ma di rigore, collaborazione e lealtà. Ha bisogno, soprattutto, di un coraggio all’altezza della storia ma capace di guardare al futuro. Forza. Migranti. Moduli blindati a prova di rivolta: ecco il progetto del governo per i nuovi Cpr di Alessandra Ziniti La Repubblica, 25 ottobre 2023 La lista dei nuovi nove Centri non c’è ancora ma in alcuni dei luoghi presi in esame, dall’Alto Adige all’Emilia Romagna, monta la protesta. Le strutture saranno realizzate dal Genio militare e affidate in gestione ad imprese private con una spesa di oltre 40 milioni di euro. La lista non c’è ancora e, bene che vada, arriverà non prima di un mese. C’è da superare l’ostilità di gran parte dei territori individuati come i più adatti ad ospitare le nuove prigioni amministrative destinate ad ospitare le migliaia di stranieri, più o meno pericolosi e senza titolo per rimanere in Italia, che il governo ritiene di poter rimpatriare più facilmente tenendoli chiusi, in regime di detenzione amministrativa, per 18 mesi. In barba ad ogni statistica, come quella accuratissima fatta da Action Aid, che dimostra come non solo l’allungamento dei tempi di detenzione nei Cpr non ha mai prodotto più rimpatri ma anzi come gli anni in cui l’Italia è riuscita a rimandare a casa più stranieri sono quelli in cui il periodo di detenzione era al minimo, tre mesi. Le strutture blindate - E però è lì che il governo punta: a creare nuove carceri amministrative, dai costi spropositati e con strutture blindate. A realizzarle sarà il Genio militare per conto del ministero della Difesa e stando ad alcuni documenti visionati da Il domani i progetti prevedono strutture circolari, con un nucleo centrale composto da moduli prefabbricati da assemblare ma a prova di rivolta per evitare le vandalizzazioni e le distruzioni che, nella storia dei centri per i rimpatri, hanno costellato soprattutto gli anni in cui gli immigrati sono stati trattenuti più a lungo nella speranza che i Paesi d’origine li riconoscano e accettino di riprenderseli. Costi altissimi - Strutture realizzate come vere e proprie carceri sebbene chi vi sarà detenuto non avrà alcuna pena da scontare né contestazione di reato penale, affidate dunque - come è sempre stato finora - a società private con specifiche gare d’appalto e senza che la vita all’interno sia soggetta alla giurisdizione di alcuno come avviene invece negli istituti di detenzione e pena. A costi che si prevedono altissimi, ben più dei 57 milioni di euro che sono costati negli ultimi cinque anni. Soldi a perdere, visto che la media dei rimpatri si aggira sempre tra i 3 e i 4 mila l’anno e che più della metà di coloro che sono stati detenuti nei Cpr con un foglio di espulsione in tasca, in mancanza di accordi che neanche questo governo sta riuscendo a fare, alla fine non viene rimpatriata. Carceri amministrative, di fatto, costruite per rimpatriare i tunisini, gli unici che vengono rimandati a casa. E infatti tunisini sono stati finora il 70 % dei detenuti nei Cpr rimpatriati. Le sedi: dall’Alto Adige alla Campania - La lista, dicevamo. Al momento non si va oltre una serie di sedi, proposte dai prefetti al governo, nelle Regioni che non hanno ancora alcun Cpr, in zone a densità abitativa scarsa. E però le manifestazioni di protesta, dall’Alto Adige all’Emilia Romagna, sono già cominciate e altre ce ne sono in programma. Oltre a riattivare il maggior numero di posti nei Cpr già attivi in 11 regioni italiane, e in particolare quelli metropolitani a Milano e Torino, in ballo ci sono nove location: i più preoccupati sono i cittadini dell’Alto Adige e della Liguria i cui governatori, Kompatscher e Toti, hanno già dato l’ok alla realizzazione del Cpr. A Bolzano potrebbe sorgere in un’area individuata vicino all’aeroporto, in Liguria (esclusa la sede di Ventimiglia) in pole position ci sono due ex caserme, in provincia di Imperia e ad Albenga. Le aree vicine a piccoli aeroporti civili o militari sono prese in grande considerazione: in Emilia, ad esempio, si valuta l’edificio dell’ex aeroporto militare di Ferrara, in Toscana torna il nome di Aulla ma c’è la grande contrarietà del governatore Giani. Un Cpr dovrebbe essere realizzato anche nelle Marche, forse a Falconara Marittima, in Campania (ricorre il nome di Castelvolturno) mentre per ora il governo potrebbe soprassedere sulle strutture di piccole regioni come Umbria e Abruzzo. In Calabria si pensa a riattivare moduli abitativi attigui al Cara di Crotone e stessa cosa in Puglia con il Cara di Brindisi. Dalla parte delle vittime di Luigi Manconi La Repubblica, 25 ottobre 2023 È possibile disertare? Non intendo dire restare indifferenti o assumere una posizione equidistante, bensì sottrarsi alla logica bellica degli opposti schieramenti in campo - filopalestinese, filoisraeliano - e adottare un punto di vista che vada oltre questa tragica spirale di morte. Quando sento anche persone a me care (politicamente e affettivamente) ammonire che i bambini palestinesi uccisi dai bombardamenti di Israele sono “tre, quattro volte” quelli uccisi da Hamas provo un leggero disgusto. Le cifre sono quelle e quella è la loro ripartizione etnica. Ma questo calcolo selettivo aiuta a porre rimedio alla catastrofe in corso? Accade che quotidianamente venga stilata una sorta di gerarchia del dolore, esito torvo di una triste contabilità dei morti, dei feriti, dei rapiti e della loro aritmetica attribuzione all’una o all’altra parte in guerra. E provo altrettanto disgusto per l’ossessione di trarre un saldo definitivo nel bilancio delle responsabilità e delle cause, delle radici remote e delle dinamiche storiche che hanno determinato l’attuale tragedia. Non che queste non esistano o non siano trattabili e discutibili, ma mi sembra che non possano più essere utilizzate secondo l’elementare e micidiale meccanismo di causa-effetto. Per capirci, resto convinto che tra le antiche ragioni di quella tragedia vi sia la mancata fondazione di uno Stato palestinese all’epoca della formazione di quello di Israele; e che tra quelle recenti pesi assai significativamente l’occupazione dei territori palestinesi e la politica di colonizzazione messa in atto dai governi israeliani. Ma non mi basta. Limitarsi a questo rischia di alimentare il giustificazionismo morale che inevitabilmente porta a ritenere Hamas come l’espressione - magari deformata - di una causa giusta. Così non è. Per questo bisogna tornare al 7 ottobre scorso e alla carneficina, a opera di Hamas, nel deserto del Negev e nei kibbutz di Kfar Aza, Be’eri, Re’im e Urim. Condivido l’opinione di quanti hanno definito quel massacro come l’azione più efferata dopo i crimini della Shoah. E la condanna sarà tanto più forte quanto più saremo capaci di considerare il comportamento di Hamas non come la manifestazione estrema ed estremista della condizione di oppressione del popolo palestinese, bensì come una scelta tutta politico-militare e tutta da attribuirsi alla strategia dell’Iran e dei “partiti armati” da esso formati e finanziati. Da qui una ulteriore conseguenza: le vittime civili della reazione di Israele mai potranno essere considerate - come tanti fanno - una forma di risarcimento o di riequilibrio per le vittime ebree. Anche in questo caso ci si deve sottrarre al meccanismo di causa-effetto. Anche in questo caso le morti dei civili palestinesi non sono l’esito collaterale di una giusta reazione di Israele ai crimini di Hamas, ma l’espressione di una strategia politico-militare del governo Netanyahu. Per questo quello che vorrei riuscire a dire e a motivare è una posizione che non si schieri con una fazione o con l’altra, bensì esclusivamente dalla parte delle vittime quando come tali si presentano a noi con tutto il loro carico di dolore.Sono d’accordo quindi con quei cinquecento ebrei statunitensi - tra loro una ventina di rabbini - che la scorsa settimana hanno manifestato all’interno del Congresso degli Stati Uniti chiedendo il “cessate il fuoco”. Insomma, non ne posso più di questa interpretazione competitiva e tifosa dell’orrore e penso che sia nostro compito - tanto più perché siamo privilegiati e viviamo in una comfort zone dove non arrivano né le bombe né i parapendio - farci carico del dolore di tutti, cercando di porvi rimedio nei limiti delle possibilità e delle responsabilità di ognuno e tentando di disinnescare il dispositivo infernale della vendetta che chiama vendetta. Voglio dire, molto semplicemente, che, mentre mi auguro con tutta l’anima che Israele interrompa i suoi bombardamenti indiscriminati e l’assedio a Gaza, non voglio dimenticare nemmeno per un attimo gli ebrei sgozzati nei kibbutz e quelle ragazze e quei ragazzi uccisi mentre ballavano. Solo se pensiamo a loro, ai loro nomi e cognomi, alle aspettative distrutte, alle speranze spazzate via e alla dignità mortificata, solo allora potremo essere all’altezza del dolore altrettanto irreparabile dei loro coetanei palestinesi. Ciò che davvero conta è “l’autorità dei sofferenti”, di cui scriveva Johann Baptist Metz. Non la sofferenza come astrazione o categoria ideologica, come fattore statistico o contabilità funebre. Ma la sofferenza dei corpi straziati di esseri umani che sono solo ed esclusivamente esseri umani. Questo non significa ignorare la storia e la geografia e le dinamiche politico-diplomatiche: si tratta piuttosto di constatare che siamo precipitati in una dimensione che eccede tutto questo e che si presenta come dis-umana, dove serve qualcosa di più dei consueti strumenti di analisi e di intervento. E dove tutti dovremmo essere capaci di andare oltre la miseria degli schieramenti convenzionali e della logica marziale, o di qua o di là: quella che sempre impone di sacrificare un pezzo di umanità a vantaggio di un altro pezzo di umanità. Armita è morta e ora l’Iran non può più distogliere l’attenzione dal caso di Tiziana Ciavardini Il Fatto Quotidiano, 25 ottobre 2023 La Repubblica islamica di Iran teme una nuova ondata di proteste dopo la morte di Armita Garavand. I media italiani hanno riportato la notizia solo qualche giorno fa, io ne avevo parlato a Radio Cusano Campus già venerdì scorso nell’approfondimento della trasmissione La Storia Oscura dal titolo “Il Crimine in Rosa”. Proprio in quell’occasione avevo trattato il caso come l’ennesimo omicidio di Stato. Due donne: Masha Amini e Armita Garavand. Entrambe giovani entrambe uccise dalla polizia morale a causa del velo islamico. Entrambe vittime di un regime dittatoriale, misogino e crudele che delle donne non ha alcun rispetto. Così come non ne ha dell’essere umano. La storia di Armita, di soli 16 anni, inizia il primo ottobre quando insieme a delle compagne di classe è entrata su un vagone della metro. Armita era senza velo come tantissime giovani donne stanno facendo da un anno a questa parte. Secondo le ricostruzioni, una funzionaria della polizia morale sul treno avrebbe chiesto ad Armita di mettere l’hijab e lei le avrebbe risposto “ti sto per caso chiedendo di toglierti il velo? Perché chiedi a me di portarlo?”. Armita si è rifiutata ed è stata così colpita con un manganello. Le immagini riprese dalle telecamere mostrano la giovane che esce “quasi cadavere” dal treno della metropolitana. Alle sue amiche è stato detto di dire che si è trattato di un incidente. “Ha sbattuto la testa”, secondo i media statali la ragazza era svenuta per “un calo di pressione”. Verrà portata nel reparto di terapia intensiva dell’ospedale militare Fajr a Teheran. Ai familiari sarà chiesto di non parlare. La mamma, Shahin Ahmadi, aveva chiesto più volte notizie di sua figlia e per questo era stata presa in custodia. Si era più volte chiesta del perché quella massiccia presenza di forze di sicurezza e agenti dei servizi segreti davanti all’ospedale; non le hanno permesso di vedere sua figlia, non le hanno permesso di controllare i filmati delle telecamere di sicurezza che avrebbero mostrato il momento in cui Armita è stata colpita. Perché quelle trasmesse in tv sono solo parziali, le altre sono state censurate. E non è finita. In queste settimane la Repubblica islamica ha cercato di prendere tempo e di non divulgare la notizia della morte della ragazza. Ancora oggi qualcuno sostiene sia ancora in coma. Invece no. Armita è morta, lo dichiara Tavaana, una delle piattaforme più affidabili e anonime sostenute e curate dai maggiori esperti e professionisti iraniani. Sul suo canale Telegram oggi si legge che: “Domenica 22 ottobre 2023, alle 16:30, hanno interrotto i dispositivi che erano collegati da quasi due settimane al corpo di Armita Garavand e il suo corpo è stato trasferito dall’ospedale all’obitorio. Nel certificato di morte è scritta la causa della morte: ‘morte cerebrale’. La stessa sera la famiglia di Armita è stata informata della morte della figlia e gli è stato detto di tenersi pronti per il funerale. Le forze di sicurezza insistono affinché il corpo di Armita venga sepolto in un villaggio nella provincia di Kermanshah o nel Lorestan. Ma la mamma di Armita si è opposta fermamente a questo obbligo ed ha dichiarato di voler seppellire la propria figlia a Teheran la città nella quale Armita viveva e in cui abitano tutt’oggi. Vorrebbero seppellirla nel cimitero di Behesht Zahra a Teheran o almeno nelle vicinanze”. Secondo le informazioni raccolte da Tavaana, il giorno dell’incidente, subito dopo il trasferimento di Armita in ospedale, è stata chiamata la preside della sua scuola e di notte sono state chiamate anche le due amiche che erano con lei sul vagone della metro ed i suoi compagni. Sono stati interrogati nell’ufficio dell’intelligence. Alcune fonti riferiscono che le ragazze e la preside sono state minacciate affinché non rivelassero i dettagli dell’incidente. Anche il personale dell’ospedale è stato minacciato obbligandolo a non pubblicare foto o a rilasciare interviste ai giornalisti sulla vicenda. Armita è morta e la Republica Islamica dell’Iran oggi ha un problema in più. In una società quella iraniana già profondamente provata dalle repressioni violente avvenute nel paese dalla morte di Mahsa Amini, il governo iraniano non ha giorni facili all’orizzonte. Se lontanamente ha pensato di spostare l’attenzione da quello che avviene nel paese alla crisi in Medioriente, il regime non ha considerato che la morte di una giovane, giovanissima donna potrebbe nuovamente portare gran parte della popolazione a proteste di massa come quelle dello scorso anno. Un copione già visto. Ma con un’aggravante: ora anche il resto del mondo sa quello di cui è capace quel regime criminale e questa volta non rimarrà silente. *Giornalista e antropologa La Russia vuole “cancellare” Navalny: confiscato materiale per scrivere e messo in isolamento di Rosalba Castelletti La Repubblica, 25 ottobre 2023 L’oppositore sconta una condanna a 19 anni. A metà ottobre i suoi legali arrestati per “estremismo”. Non basta averlo condannato a 19 anni di carcere. Le autorità russe stanno facendo di tutto per mettere a tacere Aleksej Navalny. La scorsa settimana hanno arrestato i suoi tre legali. Lunedì hanno confiscato tutto il suo materiale per scrivere. E oggi, martedì, lo hanno rimesso in isolamento per la 21esima volta da quando è detenuto. Tutto pur di impedirgli di comunicare con il mondo esterno. “Eccomi di nuovo in isolamento. Per 12 giorni”, ha annunciato lo stesso Navalny su X, ex Twitter. “In totale ha trascorso 236 giorni così”, ha commentato la sua portavoce Kira Jarmish. Era stata proprio lei a lanciare l’allarme lunedì quando Navalny non era comparso in video-collegamento a un’udienza che era stata poi rinviata. Si era poi scoperto che Navalny si era rifiutato di lasciare la sua cella per protestare contro la confisca del suo materiale per scrivere. “La polizia è entrata nella sua cella e lo ha trascinato con la forza nell’ufficio dell’investigatore”, ha poi spiegato il suo stretto collaboratore Ivan Zdhanov. Arrestato nel gennaio 2021 al suo ritorno dalla Germania dove era stato ricoverato in ospedale dopo essere stato vittima di un avvelenamento, l’oppositore quarantasettenne è stato da allora condannato a pesanti pene, l’ultima delle quali, lo scorso agosto, a 19 anni di carcere per “estremismo”. Detenuto nella colonia penale IK-6 di Melekhovo, 250 chilometri a est di Mosca, da oltre due anni e mezzo Navalny alterna soggiorni in isolamento a condizioni di detenzione più o meno rigide, decisioni dell’amministrazione penitenziaria che Navalny poi contesta in tribunale. Processi che poi sfrutta per diffondere messaggi politici, condannare l’offensiva russa in Ucraina o criticare Vladimir Putin. L’oppositore scrive inoltre messaggi che consegna ai suoi avvocati e che vengono poi diffusi tramite i suoi profili sui social network o il suo sito. Come le 10 domande che ha rivolto all’opposizione la scorsa settimana per tentare di delineare una strategia comune in vista delle prossime presidenziali russe. Ma ormai per Navalny comunicare con il mondo esterno sta diventando pressoché impossibile. A metà ottobre tre avvocati che lo difendevano o lo avevano difeso in passato sono stati arrestati per “estremismo” per il solo fatto di trasferire i suoi messaggi al suo team in esilio. Non ha più materiale per scrivere. E presto, in base alla condanna dello scorso agosto, verrà trasferito in un carcere di massima sicurezza. Di Navalny potremmo non sentire più parlare.