Fine pillola mai La Repubblica, 24 ottobre 2023 Oggi pomeriggio alla Camera dei deputati la presentazione dell’inchiesta sull’abuso di psicofarmaci nei penitenziari italiani. Dati inediti ottenuti quantificano in due milioni di euro la spesa per ansiolitici, antidepressivi e sedativi. Oggi, martedì 24 ottobre alle 16, in una sede della Camera dei deputati (in via della Missione 4) c’è la presentazione dell’inchiesta di Altreconomia “Fine pillola mai”, firmata da Luca Rondi. Dati inediti ottenuti quantificano infatti in due milioni di euro la spesa in psicofarmaci somministrati nelle strutture detentive italiane nel 2022. Soprattutto antipsicotici, il 60% del totale, prescrivibili per gravi patologie come il disturbo bipolare e la schizofrenia e utilizzati cinque volte di più rispetto all’esterno. Le domande al ministro Nordio. “I dati sulla somministrazione di antipsicotici nelle carceri italiane ottenuti da Altreconomia e pubblicati sulla copertina di ottobre interrogano il Parlamento e il governo. Ecco perché abbiamo deciso di presentare l’inchiesta alla Camera insieme ad Antigone. Sottolinea Duccio Facchini, direttore del mensile Altreconomia: “Che cosa ne pensa il ministro della Giustizia, Carlo Nordio? Perché il suo dicastero non ha voluto rispondere alle nostre domande? Riteniamo sia urgente fare chiarezza sulle ragioni e sui dispositivi che hanno portato a un consumo cinque volte superiore rispetto alla popolazione generale. Colpisce - ha affermato ancora il direttore di Altreconomia - che nel polarizzato dibattito politico sulla presunta ‘riforma della Giustizia’ le condizioni materiali di vita nelle carceri del nostro Paese non trovino mai spazio e attenzione. A proposito di sbandierato garantismo”. All’evento partecipano: • Luca Rondi, giornalista di Altreconomia, autore dell’inchiesta • Fabrizio Starace, presidente della Società italiana di epidemiologia psichiatrica • Alessio Scandurra e Michele Miravalle, coordinatori nazionali Antigone • il deputato Riccardo Magi. Introduce e modera Ylenia Sina, giornalista. L’evento sarà trasmesso in streaming sulla webtv della Camera a questo link: https://webtv.camera.it/conferenze_stampa?utm_source=ufficiostampa&utm_medium=email&utm_campaign=CSP263 “Quella prova io l’ho fatta e ho capito cosa vuol dire. E per le pene lievi dico no al carcere” di Liana Milella La Repubblica, 24 ottobre 2023 Luciano Violante è stato presidente della Camera e anche magistrato e ha fatto tre anni di volontariato in prigioni di Bari e Trani: “Mi hanno sempre colpito la sofferenza dei detenuti e il malessere del personale, spesso esposto a rischi gravi” Da giovane magistrato lei, Luciano Violante, promise che avrebbe fatto l’esperienza di stare in carcere per capire che significa viverci. Ha mantenuto la promessa? “Sì, prima di vestire la toga ho fatto tre anni di volontariato in carcere a Bari e a Trani. Poi da magistrato ho discusso spesso con colleghi che a cuor leggero proponevano quattro anni di pena. Io chiedevo “di che cosa”!? Puoi scontarli in un carcere vecchio, sporco e fatiscente o in un carcere ben diretto e pulito; sono due pene diverse”. Che ha portato con sé da quelle visite? “La sofferenza dei detenuti e il malessere del personale, spesso esposto a rischi gravi”. C’è una storia che ricorda tuttora? “Quella di un truffatore con anni di galera sulle spalle per via del sommarsi delle condanne. Era disperato perché non avrebbe potuto mantenere la figlia in collegio. La figlia pensava che il padre facesse il rappresentante. Con alcuni amici mobilitammo un gruppo di industriali e di famiglie abbienti. Raccogliemmo una somma consistente, e seppi poi che lei si era laureata. Quando ero presidente della Camera la incontrai nella veste di preside di una facoltà scientifica”. Da allora cos’è cambiato? “Dipende da carcere a carcere perché ognuno è una realtà a sé”. Le prigioni non sono hotel a 5 stelle, e a delitto grave deve corrispondere una severa detenzione... “Nel XXI secolo il carcere non può più essere la regina delle pene. Per le piccole infrazioni basterebbe pensare a lavori di pubblica utilità, alla sospensione della patente nei fine settimana. Per i delitti gravi purtroppo c’è solo il carcere”. I condannati sotto i 4 anni possono star fuori? “La pena lacera, non ricuce. Caso per caso si può pensare a sanzioni da scontare, almeno in parte, in libertà”. Mamme e figli dentro. Se ne parla da anni… “Questa è davvero una vergogna. Ma la condizione della donna anche in carcere è diversa. Dopo un po’ nessuno va a trovarla. Le mogli vanno dal marito. I mariti non vanno dalle mogli. Le donne in carcere sono più sole”. In cella la dignità va garantita? “Se non rispetti il detenuto, il detenuto non rispetta te”. Spazi decenti, l’ora d’aria... “La cosa più importante è il lavoro. Impararne uno, e farlo bene, conferisce dignità. Pochi anni fa un detenuto sardo condannato all’ergastolo ha tirato fuori dalla tasca la ricevuta dello stipendio e mi ha detto: “Questa è la mia dignità; non me l’ha data la vita, me la ha data il carcere”. I suicidi, 39 quest’anno, dicono che il carcere è inumano... “In cella avvengono a volte violenze e discriminazioni innominabili”. Cospito: no del tribunale di Sorveglianza alla revoca del 41 bis. “È pericoloso” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 24 ottobre 2023 L’anarchico resta al “carcere duro”, anche se la Dna e gli organi centrali di polizia avevano dato parere positivo. L’anarchico Alfredo Cospito rimane al regime 41 bis. Il tribunale di Sorveglianza di Roma ha respinto la richiesta di revoca del carcere speciale andando contro il parere della Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo. Una decisione inaspettata, che ha colto di sorpresa anche l’avvocato Flavio Rossi Albertini, soprattutto dopo il parere netto da parte della Dna. Come si può apprendere dalla lettura dell’ordinanza, la decisione del Tribunale si basa sulla convinzione che Cospito, nonostante la minaccia del regime 41 bis, abbia continuato a sostenere l’istigazione alla violenza terroristica. Si fa riferimento a un passaggio in un documento del 2019 in cui Cospito afferma che la spada di Damocle del 41 bis non lo costringerà al silenzio. Questa determinazione e l’attività incessante nel mondo dell’anarchia insurrezionalista sembrano giustificare, secondo il Tribunale, il mantenimento del regime carcerario differenziato. Inoltre, il Tribunale ha tenuto conto del parere della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Torino, che ha confermato la capacità di Cospito di influenzare le iniziative dei gruppi anarchici, nonostante il regime 41 bis. La Procura ha citato una serie di attentati rivendicati dai gruppi anarchici, dimostrando così il rischio di un collegamento operativo del detenuto con questi ambienti. Questo rischio, secondo il Tribunale, deve essere contenuto per evitare ulteriori atti violenti. Ma cosa dicono i giudici per giustificare il rigetto della richiesta di revoca? La circostanza che l’applicazione del carcere duro ad Alfredo Cospito non abbia limitato le comunicazioni tra i sodali in libertà, o comunque nel variegato quadro della galassia anarco-insurrezionalista, è un elemento che - secondo i giudici del tribunale di sorveglianza - ratifica l’assoluta operatività del sodalizio di appartenenza di Cospito. E questo non esclude l’inutilità del regime speciale, che non è diretto a rompere le relazioni e i collegamenti tra i sodali di Cospito in libertà e a impedire le loro azioni delittuose. E la circostanza che l’anarchico possa comunicare con i sodali, in caso di un regime di detenzione più blando, rafforzando i propositi criminali dei suoi accoliti e indicando nuovi obiettivi, è evidenziata dalla stessa Corte di Cassazione, pagina 30 della sentenza, che rigettò la prima richiesta di revoca. I giudici dicono che si incorrerebbe in un corto circuito logico: se uno dei presupposti per l’applicazione e la proroga del regime detentivo speciale è quello della persistente operatività dell’associazione di appartenenza del detenuto, è proprio perché il sodalizio è ancora attivo e quindi pericoloso che è legittima la sospensione di alcuni diritti del detenuto per evitare il pericolo di contatti dello stesso con l’associazione in cui riveste un ruolo apicale, salvo che dia prova di dissociazione, circostanza esclusa dalla stessa Dna. Quanto all’affermazione del resoconto dei Ros e della Dna che l’applicazione dell’articolo 41 bis non abbia azzerato le azioni violente del fronte anarchico, si ribadisce che trattasi di circostanza irrilevante ai fini che ci occupano, ma occorre comunque osservare che l’aumento degli attentati è coincidente non con l’applicazione del 41 bis, ma con l’inizio dello sciopero della fame da parte di Alfredo Cospito, tanto che si esauriscono con l’ultimo attentato appena due giorni dopo la conclusione dell’iniziativa personale. Ed è evidente, secondo i giudici, che la clamorosa iniziativa del pescarese abbia infuocato gli animi delle formazioni anarchiche e che soprattutto abbia reso Cospito una figura di ancor maggiore carisma all’interno del sodalizio. Secondo il tribunale di Sorveglianza, Cospito è un soggetto che ha dimostrato particolare determinazione e per questo viene rispettato dai suoi sodali. Qualsiasi strategia programmatica degli obiettivi da colpire, in un ambito associativo che propugna espressamente il metodo della lotta armata o l’avallo di azioni violente, sono considerati nel suo contesto eversivo autorevoli e insindacabili. Dall’incartamento processuale emergono elementi concreti che possano giustificare una rivalutazione delle condizioni di legittimità del 41 bi, ma semmai - secondo i giudici - è dato rinvenire negli stessi pareri della Dna plurimi elementi di segno contrario attestanti l’estrema pericolosità di Cospito e la persistente attività della Federazione anarchica informale. Per tale motivo, ad avviso dei giudici, non appaiono coerenti le conclusioni a cui è pervenuta la Dna, secondo cui dalla molteplicità dei canali decisionali si evincerebbe una ridotta pericolosità di Cospito, che invece è descritto come figura di vertice del movimento, come desunto dalla stessa direzione nazionale attraverso il richiamo testuale del Direttore centrale della Polizia di prevenzione. In sostanza, per il tribunale di Sorveglianza il regime del 41 bis non è solo doveroso per Cospito, ma nemmeno risulta il fattore di recrudescenza degli attentati e proteste come invece afferma la Dda. Per i giudici, l’anarchico risulta estremamente pericoloso. Eppure il regime speciale nasce per evitare che un capo dia ordini al proprio gruppo di appartenenza. La Federazione anarchica è un’associazione o un metodo? Ma soprattutto Cospito può dare ordini come se fosse il capo? A marzo 2023 il Tribunale della Libertà di Perugia ha revocato l’ordinanza di custodia cautelare per Cospito e altri cinque indagati per, a vario titolo, istigazione a delinquere, anche aggravata dalle finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico in relazione ad alcuni articoli pubblicati sulla rivista Vetriolo. Il Tribunale per la seconda volta aveva ritenuto che le esternazioni del Cospito non fossero idonee ad istigare in quanto “l’impiego di un linguaggio violento e, a tratti, truce non costituisce un elemento, di per sé solo, valorizzabile nella valutazione della carica istigatoria dei contenuti pubblicati”. Per il tribunale di Sorveglianza, si tratta di una vicenda che nel merito non può dirsi ancora definitiva e addirittura mal posta. I giudici non accolgono nemmeno uno degli aspetti proposti dall’avvocato Flavio Rossi Albertini che si fondano sul deposito delle motivazioni della sentenza della Corte d’Assise di Roma nella vicenda Bialystok, che ha assolto gli imputati escludendo la presunta esistenza presso il centro sociale Bencivenga di una cellula ritenuta affiliata alla Fai, la Federazione anarchica. Le conclusioni della Corte d’Assise farebbero venir meno, secondo il difensore, il presupposto della permanenza di una Fai ancora operativa. Inoltre, la Corte d’Assise romana non ha ritenuto provate le richieste di Alfredo Cospito volte ad imporre, all’esterno del carcere, tramite l’imputato Aurigemma, un pensiero unico di “azione” armata e distruttrice. Ma niente da fare. I giudici del tribunale di Sorveglianza rigettano anche questo aspetto, soprattutto perché si tratta di una vicenda giudiziaria tutt’altro che esauritasi in quanto la Procura Distrettuale Capitolina ha impugnato la sentenza il 23 gennaio scorso. Cospito rimane al 41bis. Per la Corte può ancora “infuocare gli animi” di Eleonora Martini Il Manifesto, 24 ottobre 2023 Secondo il Tribunale di Sorveglianza di Roma il parere positivo alla revoca espresso dalla Dda non è coerente. Il detenuto Alfredo Cospito resta al 41 bis. Lo ha stabilito il Tribunale di sorveglianza di Roma che non ha condiviso il parere favorevole alla revoca del regime di “carcere duro”, cui l’anarchico è sottoposto da 17 mesi, espresso dalla Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo (Dna) e da alcuni organi di polizia durante la precedente udienza. Per i magistrati di Sorveglianza il 57enne pescarese, recluso nel carcere di Sassari dove sta scontando una condanna a 23 anni per “strage” in relazione all’attentato dinamitardo commesso nel 2006 contro la Scuola allievi carabinieri di Fossano, ha dimostrato di avere ancora un’”estrema pericolosità” di infuocare “gli animi delle formazioni anarchiche”. E lo ha fatto proprio con la “clamorosa” iniziativa dello sciopero della fame durata sei mesi (dall’ottobre 2022 all’aprile 2023), che ha peraltro bucato il silenzio stampa di solito riservato ai tanti detenuti che intraprendono questo tipo di proteste, perfino quando ne rimangono vittime. È convinzione dei giudici romani infatti che quell’iniziativa dalla grande eco mediatica “soprattutto lo abbia reso figura di ancora maggior carisma all’interno del sodalizio”. “È un soggetto che ha dimostrato particolare determinazione - scrivono - e per questo viene rispettato dai suoi sodali. Qualsiasi strategia programmatica degli obiettivi da colpire, in un ambito associativo che propugna espressamente il metodo della lotta armata o l’avallo di azioni violente sono considerati nel suo contesto eversivo autorevoli ed insindacabili”. Un passo evidenziato dal Tribunale, “a riprova dell’irriducibilità” di Cospito che non ha “lesinato sforzi per proseguire la sua attività di istigazione alla violenza terroristica”, è un suo contributo all’assemblea anarchica del 9 giugno 2019 a Bologna quando l’uomo - che allora stava scontando la pena per la gambizzazione dell’Ad di Ansaldo, Roberto Adinolfi - scrisse: “La rivoluzione la può fare chi ha il diavolo in corpo e chi ha il diavolo in corpo non ha paura della parola terrorismo e non sarà certo la spada di Damocle del 41 bis sospeso sopra la mia testa a farmi cambiare idea, a farmi tacere”. Secondo il Tribunale romano, inoltre, anche lo stesso parere della Dna offrirebbe elementi di “incoerenza”: infatti dalle carte processuali, si legge nel provvedimento depositato ieri, “non emergono elementi concreti che possano giustificare una rivalutazione delle condizioni di legittimità” del 41 bis. “Semmai è dato rinvenire negli stessi pareri della Dna plurimi elementi di segno contrario attestanti l’estrema pericolosità” dell’anarchico considerato l’ideologo del Fai-Fri. Ecco perché, secondo il Tribunale, “non appaiono coerenti le conclusioni a cui è pervenuta la Dna secondo cui dalla molteplicità dei canali decisionali si evincerebbe una ridotta pericolosità del Cospito, che invece è descritto come figura di vertice del movimento come desunto dalla stessa Dna attraverso il richiamo testuale della nota Direttore centrale della Polizia di prevenzione”. Un giudizio contestato dal difensore di Cospito, l’avvocato Flavio Rossi Albertini, che ribatte: “Il Procuratore nazionale, i 20 sostituti procuratori nazionali, la sua sezione specializzata nell’antiterrorismo, gli organi centrali di polizia, si mostrerebbero superficiali nel giudizio espresso di non più attualità delle condizioni legittimanti il regime speciale di 41 bis”. In sostanza, obietta il legale, il Tribunale di Sorveglianza di Roma criticando la Dna si sostituisce agli organi investigativi. “Ad ognuno le sue valutazioni”, conclude. Quelle Rems da sempre poco accessibili. E i pazienti nel limbo di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 24 ottobre 2023 Le Rems, ex ospedali psichiatrici giudiziari, dovrebbero accogliere i malati psichici “socialmente pericolosi”: sottodimensionate da inadempienti Regioni, non assolvono alle richieste dei tribunali. Non che ci volesse chissà quale Cassandra, bastava una qualunque persona non adusa a farsi solo il segno della croce per temere che prima o poi ci scappasse il morto: in questo caso una donna, Marta Di Nardo, fatta a pezzi dallo schizofrenico vicino di casa Domenico Livrieri, che da marzo 2022 non era dove sarebbe dovuto stare per i magistrati, e cioè in una Rems, “per mancanza di disponibilità nonostante i ripetuti solleciti del pm alle autorità di competenza”, come constata nella convalida dell’arresto la gip Alessandra Di Fazio. Più volte su queste colonne si era provato negli anni ad accendere la luce su una lista d’attesa di cui nessuno parla: quella delle persone con disturbi psichiatrici tali da farle ritenere “non imputabili” ma nel contempo “socialmente pericolose”, per le quali la legge non ammette il carcere ma solo “misure di sicurezza detentive” eseguibili unicamente nelle “Rems-Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza”: strutture sanitarie delle Regioni, che in base alle leggi del 2012 e 2014 hanno in teoria sostituito i 6 vecchi Opg-Ospedali psichiatrici giudiziari (ex Ministero della Giustizia) chiusi il 31 marzo 2015 dopo 2 proroghe. In teoria. In pratica, invece, spesso le Rems, sottodimensionate da inadempienti Regioni, disattendono l’ordine di pm o giudici perché spiegano di non avere più posto per una assistenza decente, indicando al più a distanza di mesi la data alla quale ipotizzano di poter forse “programmare” un posto libero. Impasse che alimenta un vorticoso carteggio tra uffici giudiziari-Rems-Ministeri-Regioni, ciascuno in cerca del pezzo di carta che lo esenti da responsabilità. Nell’attesa restano nel limbo della libertà queste persone non processabili di solito per condotte serie come lesioni, maltrattamenti in famiglia, stalking, violenza sessuale o tentati omicidi: persone valutate pericolose dagli psichiatri negli atti, spesso dipendenti da droghe o alcol, prive di famiglia e lavoro e casa che possano contenerne la patologia psichiatrica, e del tutto indisponibili ad accettare di sottoporsi a cure. E un altro specularmente opposto limbo è quello dei non imputabili che, trovandosi in carcere nel momento in cui sono dichiarati tali e sono quindi nel contempo scarcerati e sottoposti a misura di sicurezza in Rems, non vengono però poi presi in carico dalle Rems prive di posto, e nell’attesa restano in carcere senza titolo. Con il rischio (tutto a carico dei direttori del carcere e degli agenti di custodia) che si uccidano o che facciano del male agli altri detenuti; e con la certezza di (già più volte verificatesi) messe in mora del governo italiano da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo. Giustizia, Meloni convoca vertice maggioranza: “Siate compatti” di Liana Milella La Repubblica, 24 ottobre 2023 “Riforme per efficienza e non contro magistrati”. La premier fa un punto sul cronoprogramma a Palazzo Chigi. Nordio annuncia di voler ridurre del 90% l’arretrato civile. Alleati ancora divisi sulla prescrizione, previsto nuovo incontro in via Arenula. “Facciamo le riforme non contro la magistratura, ma per rendere efficiente il sistema”. E ancora: “Serve maggiore dialogo per fare le riforme”. E poi: “Siate compatti, confrontatevi sugli emendamenti”. Parola di Giorgia Meloni che, a palazzo Chigi dopo il Consiglio dei ministri, riunisce la task force politica sulla giustizia. E sa bene che tira aria di scontro proprio sulla prescrizione. La legge in quota Enrico Costa di Azione va già in aula venerdì e la maggioranza non riesce a trovare ancora “la quadra”. Da una parte c’è chi, come Forza Italia con Azione, vuole tornare alla legge Orlando rimodulata dall’ex presidente della Consulta Giorgio Lattanzi (18 mesi di sospensione per chi è condannato dopo il primo grado, e 12 mesi in Appello, con recupero dei tempi se il giudice non scrive in tempo la sentenza). Ma il vice ministro alla Giustizia, il forzista Francesco Paolo Sisto, non rinuncia alla sua ipotesi, una prescrizione che si sospende solo in Cassazione, mentre “corre” in primo e in secondo grado. Anche se le statistiche gli ricordano che a piazza Cavour si prescrive solo l’1% dei processi, mentre il 25% “muore” in Appello. Ma tant’è. Nel tavolo sulla giustizia si parla di tempi, non si discute di singoli commi. Anche perché martedì 24 è il giorno in cui il Guardasigilli Carlo Nordio, in via Arenula, prende in mano il dossier prescrizione, con l’idea di chiudere lui stesso la partita. Vedremo chi vince, ma è assai probabile che perda Sisto, soprattutto perché i meloniani, con il sottosegretario Andrea Delmastro Delle Vedove, vedono bene la soluzione della Orlando in veste Lattanzi già sottoscritta dal vice presidente della commissione Giustizia, il forzista Pietro Pittalis, su c’è in pieno via libera del relatore Costa. Ma a Chigi si parla di alta politica della giustizia. Con un richiamo netto di Meloni “a fare squadra” e a non dividersi. In vista delle riforme costituzionali come la separazione delle carriere e del Csm. Anche perché proprio le divisioni stanno rallentando, dal punto di vista di Meloni, le riforme sulla giustizia. Tant’è che proprio lei avrebbe suggerito un modus operandi più collaborativo per chiudere le riforme. Chi ha partecipato alla riunione racconta che, tranne in un rapido passaggio, non avrebbe fatto capolino il caso Apostolico con le relative polemiche. La preoccupazione di Meloni invece è quella di andare avanti e di portare a casa il maggior numero di riforme. Da qui la necessità di fare il punto sul crono programma, tant’è che i presidenti delle commissioni Giustizia di Camera e Senato, rispettivamente il meloniano Ciro Maschio, e la salviniana Giulia Bongiorno - che è anche la responsabile Giustizia del Carroccio, nonché molto ascoltata da Nordio sul piano sia tecnico che politico - hanno fatto dettagliatamente il punto sui rispettivi calendari. Che vedono, al Senato, in dirittura d’arrivo in commissione il decreto Caivano e poi il ddl Nordio su intercettazioni e custodia cautelare. Mentre alla Camera c’è la patata bollente della prescrizione, prevista in aula già venerdì. Dove il Pd ha già preannunciato tempesta. Presenti i vice premier Antonio Tajani e Matteo Salvini, è toccato a Nordio fare il punto del suo futuro programma. Non solo il suo intervento sulle intercettazioni, ma soprattutto sulla giustizia civile, con un annuncio che se davvero dovesse andare a buon fine, sarebbe esplosivo. Perché Nordio promette di “tagliare del 90% i tempi della giustizia civile”. Un progetto di cui ancora non si conoscono i dettaglia, ma di cui sta parlando in tutte le occasioni pubbliche, e lo ha fatto anche davanti alla premier. Ma su di lui incombe la prescrizione, che il Parlamento gli ha di fatto “scippato”, con la proposta Costa e con quella delle altre forze di maggioranza. L’invadenza dei magistrati di Ermes Antonucci Il Foglio, 24 ottobre 2023 In mille scrivono a governo e Parlamento contro la separazione delle carriere. 1.028 toghe in servizio hanno firmato una petizione contro la separazione delle carriere in magistratura, inviandola alle massime istituzioni del paese: “Il pm finirebbe sotto il controllo dell’esecutivo”. La lezione (dimenticata) di Giovanni Falcone. La separazione delle carriere nella magistratura è sparita per il momento dall’agenda politica (rinviata a dopo la grande riforma costituzionale sulla forma di governo), ma il solo pensiero è sufficiente a spingere le toghe a non dormirci la notte. Così, oltre mille magistrati, per la precisione 1.028 (527 giudici civili e penali, 471 pubblici ministeri e 30 magistrati tirocinanti), hanno deciso di sottoscrivere una petizione contro la separazione delle carriere e di spedirla alla premier Meloni, al ministro della Giustizia Nordio, ai presidenti delle commissioni Giustizia e ai presidenti dei gruppi parlamentari di Camera e Senato. Un intervento a gamba tesa nella politica, alla faccia della separazione dei poteri. Nella petizione i magistrati esprimono “la più viva preoccupazione” per la possibile separazione delle carriere, “una riforma che non porterebbe alcun beneficio sul piano della rapidità ed efficacia del sistema penale e della risposta alle aspettative di ciascuno per una giustizia giusta, imparziale ed equanime”. L’accusa mossa alla maggioranza di centrodestra è sempre la stessa: la riforma, attaccano le toghe, “comporta i rischi concreti (che sembrano anzi esserne il vero ‘motore’) verso una dipendenza gerarchica del pubblico ministero dal governo e un controllo da parte della maggioranza politica sull’esercizio della azione penale e sulla conduzione delle indagini”. Insomma, il vero intento del governo sarebbe quello di sottomettere il pm all’esecutivo, scenario in verità escluso categoricamente e ripetutamente dallo stesso Guardasigilli Nordio. L’ultima volta è avvenuto lo scorso 30 settembre, al congresso nazionale della corrente dei magistrati Area: “Ho fatto il magistrato e lo rifarei, e mi sento con la toga addosso - disse Nordio - Perciò mi preme dire che, quali che siano le riforme, per me sarebbe un’eresia pensare che la magistratura possa finire sotto il controllo dell’esecutivo”. Le rassicurazioni di Nordio, però, evidentemente non sembrano tranquillizzare i magistrati, che nella petizione si spingono anche a considerazioni comparative: “Nella quasi totalità dei paesi dove vi è la separazione delle carriere vi è anche la dipendenza dei pm dal governo”. La riflessione delle toghe su quanto avviene sul piano internazionale dimentica un piccolo dettaglio: in un nessun altro paese occidentale sarebbe immaginabile che mille magistrati in servizio prendano posizione contro una riforma discussa dalla politica, inviando una petizione alle massime istituzioni del paese. Ma tant’è. Tra i firmatari della petizione spiccano i nomi dei procuratori Nicola Gratteri (da pochi giorni insediatosi a Napoli), Nunzio Fragliasso (Torre Annunziata), Pino Montanaro (Taranto), degli aggiunti Giuseppe Cascini (Roma) e Tiziana Siciliano (Milano), e di Piergiorgio Morosini, presidente del tribunale di Palermo. La petizione dei magistrati in servizio si aggiunge a una lettera sottoscritta da 576 magistrati in pensione, destinata al ministro Carlo Nordio, e anch’essa contraria alla separazione carriere tra pm e giudici. Dall’ex pm di Mani pulite Piercamillo Davigo all’ex procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, passando per Gherardo Colombo, Giuliano Turone, Francesco Greco, Nello Rossi e gli ex procuratori torinesi Marcello Maddalena e Armando Spataro, le toghe in pensione si scagliano contro una riforma che ancora non esiste, ma che “stravolgerebbe l’attuale architettura costituzionale”. A proposito del rischio di una sottoposizione del pm al potere esecutivo, dato per scontato dai magistrati riottosi, appare utile ricordare alcune considerazioni avanzate nel 1991 da Giovanni Falcone: “Un sistema accusatorio - spiegava il magistrato antimafia - parte dal presupposto di un pubblico ministero che raccoglie e coordina gli elementi della prova da raggiungersi nel corso del dibattimento, dove egli rappresenta una parte in causa. Gli occorrono, quindi, esperienze, competenze, capacità, preparazione anche tecnica per perseguire l’obbiettivo. E nel dibattimento non deve avere nessun tipo di parentela col giudice e non essere, come invece oggi è, una specie di para-giudice”. “Contraddice tutto ciò - aggiungeva Falcone - il fatto che, avendo formazione e carriere unificate, con destinazioni e ruoli intercambiabili, giudici e pm siano, in realtà, indistinguibili gli uni dagli altri. Chi, come me, richiede che siano, invece, due figure strutturalmente differenziate nelle competenze e nella carriera, viene bollato come nemico dell’indipendenza del magistrato, desideroso di porre il pm sotto il controllo dell’esecutivo”. “È veramente singolare che si voglia confondere la differenziazione dei ruoli e la specializzazione del pm con questioni istituzionali totalmente distinte”, concludeva Falcone, quasi profetico se si guarda alle accuse mosse oggi dalla magistratura al governo. Anm. La verità è che le nomine sono il core business delle correnti di Andrea Mirenda* Il Dubbio, 24 ottobre 2023 Lo scontro interno all’Anm sul caso Apostolico mette in luce ancora una volta il “nominificio”, il vero nucleo degli interessi coltivati al Consiglio superiore della magistratura. Il ruvido scambio di gentilezze tra Area e Magistratura indipendente, quanto alla mancata adesione della seconda al comunicato unitario del Cdc di solidarietà alla collega Apostolico, getta luce una volta di più - se mai ve ne fosse bisogno - sul vero nucleo degli interessi coltivati al Consiglio superiore della magistratura. Parliamo del nominificio. La sinistra giudiziaria, immemore delle scorpacciate di potere delle consiliature precedenti (“Fai come al solito: scegli chi deve andare e poi pubblichiamo il posto”. Così Fracassi a Palamara, giusto per non dimenticare…) e verosimilmente nervosa dopo un semestre di duro digiuno, accusa - in breve - Mi di collateralismo con le politiche dell’attuale governo, all’unico fine di conservarsi il serbatoio di voti dei laici di centro destra, essenziale - secondo la visione di Area - per pilotare le nomine dei dirigenti giudiziari da qui ai prossimi quattro anni. Già questo basterebbe ai cittadini per saltare sulla sedia e invocare “ore rotundo” l’intervento immediato del Capo dello Stato, Presidente del Csm, al duplice fine di fare chiarezza sul punto e stoppare immediatamente, se vere e se del caso, le tristemente note conventicole simil-champagniste. Tuttavia, la denuncia di Area, nella sua crudezza, pone ancora una volta al centro della riflessione la madre di tutte le questioni: la palese incompatibilità della presenza in Consiglio di consiglieri “casaccati”, militarmente designati dal sistema correntizio e ad esso proni. Perché è la stessa Costituzione a esigere consiglieri indipendenti da influenze sia esterne che interne, come prerequisito naturale della libertà e dell’indipendenza del Csm stesso. Principio che trova precisa eco nel Codice Etico dei Consigli di Europa, approvato a larga maggioranza anche dal Csm, lì dove raccomanda di evitare il frazionamento in gruppetti e camarille volti a limitare la libertà morale e deontologica del singolo consigliere, genuflettendolo alla parrocchietta di appartenenza. Esattamente quanto accade ancor oggi, tanto nelle commissioni quanto in plenum, dove il fenomeno ricorrente - ovviamente lì dove la polpa in contesa sia scarsa ovvero di assoluta rilevanza politica e tale da impedire l’unanimismo - è quello del voto “per gruppi”, plasticamente rappresentato dall’omogenea alzata di mano dei casaccati. Appare, infine, del tutto sterile spingere ancora sulla leva dell’etica individuale per contrastare la deriva descritta: persino l’accorato appello del Capo dello Stato, che bollò il fenomeno del correntismo lottizzatorio come espressione di “modestia etica”, è caduto nel vuoto assoluto. Con un Csm ancora saldamente all’anno zero della questione morale che lo avvilisce. Inevitabile la conclusione, frutto di lucida e, purtroppo, sperimentata sfiducia, secondo cui l’unica strada percorribile sia quella eteronoma: il rinascimento deontologico ed etico della magistratura e del suo associazionismo passa necessariamente attraverso la “liberazione” del Consiglio dalle trame opacissime delle conventicole casaccate. La dignità e il prestigio del Csm esigono un Autogoverno affidato a magistrati liberi da influenze esterne e indipendenti gli uni dagli altri, capaci di restituirlo ai compiti elevatissimi dl Alta Amministrazione che gli competono. Il sorteggio temperato dei candidati per l’elezione del Csm e la rotazione (ogni due-tre anni) negli incarichi direttivi, secondo l’anzianità di servizio nel singolo ufficio sono le vie semplici e “a costo zero” per dare piede a tutto ciò. Il legislatore e la politica lo sanno bene: abbandonino, dunque, le ipocrisie e anziché dolersi, con una mano, della politicizzazione della magistratura associata salvo poi, con l’altra, incoraggiarla con il collateralismo fatto di “fuori ruolo” e di contiguità di ogni tipo, nelle piazze o nelle segrete stanze, abbiano definitivamente il coraggio bipartisan di assumersi le responsabilità conseguenti. Liberato, infine, il Csm dal correntismo, grande sarà il beneficio non solo per magistrati e società civile, ma anche per l’associazionismo stesso dei giudici, affrancato dal compito di vile Ufficio di Collocamento per sodali e protetti e restituito a quello di prezioso motore di idealità. Siamo fiduciosi. *Consigliere del Csm Scontri e veleni tra AreaDg e Mi: l’Anm si spacca di Valentina Stella Il Dubbio, 24 ottobre 2023 Caso Apostolico, Magistratura indipendente non vota la delibera sulle toghe “sotto attacco”. Col plauso della Lega. Non era mai successo che una corrente dell’Associazione nazionale magistrati spaccasse il “sindacato” delle toghe e un partito intervenisse ufficialmente applaudendo a quanto accaduto. Il tutto si è verificato durante l’ultimo Cdc dell’Anm. Facciamo un passo indietro. Sabato, tutti i gruppi associativi, tranne Magistratura indipendente, al termine della discussione sugli attacchi ai giudici che stanno disapplicando il dl Cutro votano un documento in cui si conferma lo “stato di agitazione già deliberato sui temi dell’indipendenza e dell’autonomia della magistratura” e si stabilisce la convocazione di un’assemblea generale con all’ordine del giorno “gli attacchi alla giurisdizione e la pesante denigrazione dei singoli magistrati che hanno adottato provvedimenti in materia di protezione internazionale”. Ne nasce una dura reazione di Area Dg che accusa Mi di volere una “magistratura silenziosa e prona alle linee culturali della maggioranza”. La contropartita? “I voti dei laici di centrodestra necessari a monopolizzare le nomine dell’autogoverno”. Domenica arriva la replica delle toghe della corrente conservatrice che, nel dirsi “attoniti e sdegnati dai toni del comunicato di AreaDG”, accusano la maggioranza dell’Anm di voler “condurre la magistratura italiana tutta in una spirale di contrapposizione con la politica che ci farà apparire parte di uno scontro tra poteri dello Stato, e dunque politicamente schierati”. Questo si potrebbe inscrivere nelle normali dinamiche interne alla magistratura ma ciò che ha lasciato tutti perplessi è che poco dopo la nota di Mi è arrivato un comunicato della Lega in cui si è letto: “È doveroso ringraziare Magistratura indipendente per la saggezza e l’equilibrio a commento del documento dell’Anm che esaspera la contrapposizione istituzionale”. “Se veramente la Lega condivide i valori della sobrietà della autocritica e della responsabilità allora che cessino immediatamente gli attacchi personali ai magistrati e si cominci a parlare del contenuto dei provvedimenti”, era stata la replica del Segretario di Mi Angelo Piraino. Un ping pong di tal genere tra corrente e partito politico non si era mai visto. Tale iniziativa del Carroccio avrà quasi sicuramente messo in imbarazzo Mi perché agli occhi di molti osservatori ha confermato quel collateralismo con il governo Meloni, depotenziando allo stesso tempo quella stessa accusa di collateralismo mossa da Mi ad Area che a Palermo aveva invitato i leader del Pd e del Movimento Cinque Stelle perché, se memoria non ci inganna, durante la presidenza di Poniz ed Albamonte al vertice Anm non sono mancate dure critiche al governo di turno, compreso quello di sinistra. Sempre rimestando nei ricordi, neanche ai tempi del duro scontro tra Berlusconi e le toghe si era vista una presa di distanza di una corrente dal corpo intero della magistratura costantemente attaccata dalla politica. Di certo la posizione intermedia di Mi - “ ferma condanna alla delegittimazione personale mediatica dei magistrati” ma altresì “invito a riflettere su come questa situazione sia stata anche determinata da condotte inopportune di singoli” - non fa bene all’Anm che non arriverà compatta all’assemblea che in molti vogliono convocata quanto prima. Ma la maggioranza è quella che conta. Benché, da quanto appreso, durante le varie assemblee locali molti esponenti di Mi, soprattutto giovani magistrati, non erano d’accordo con la linea del vertice che invece, a detta dei più critici, ha voluto distinguersi dinanzi alle telecamere di Radio Radicale per mandare un messaggio al governo - “noi abbiamo fatto tutto il possibile per evitare lo scontro” - e soprattutto al potente sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano, già esponente di Mi e gran consigliere, più dello stesso ministro Carlo Nordio, della premier in materia di giustizia. Sulla vicenda abbiamo chiesto un parere all’entourage di Meloni ma ci è stato detto di rivolgerci direttamente al partito perché dal governo non sarebbe uscito nulla. Interpellati alcuni colonnelli di Fratelli d’Italia, nessuno ha voluto commentare. Intanto proprio una nota di Palazzo Chigi ha fatto sapere che l’Avvocatura generale dello Stato ha proposto distinti ricorsi per Cassazione contro i provvedimenti con i quali il Tribunale di Catania ha negato la convalida del trattenimento di migranti irregolarmente arrivati sul territorio nazionale. I ricorsi sottopongono alla Suprema Corte l’opportunità di decidere a Sezioni Unite, per la novità e il rilievo della materia, e affrontano i punti critici della motivazione delle ordinanze impugnate, con particolare riferimento alla violazione della direttiva 2013/33/UE. L’arresto in diretta della ex giudice: così la stampa si vende al mercato della gogna di Simona Musco Il Dubbio, 24 ottobre 2023 Una donna malata, una struttura sanitaria, i baschi verdi della Finanza e, oltre i cancelli, i giornalisti pronti a filmare tutto. L’ennesimo caso di giustizia spettacolo è quello di Silvana Saguto, ex presidente della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, condannata in via definitiva - ma la pena va rideterminata - per la gestione dei beni confiscati. Un crimine terribile, il suo, che ha rovinato la vita di decine di famiglie. Ma terribile è anche la scelta consapevole di ledere la sua dignità, da cannibalizzare in diretta, nonostante i tentativi disperati del figlio di nascondere il volto della madre con il proprio corpo. “Il figlio minaccia i giornalisti”, si legge online, a corredo delle immagini che immortalano il giovane urlare che si tratta di una struttura sanitaria e vige la privacy più stretta. Urla e dichiara la disponibilità a farsi arrestare, quell’uomo, pur di porre fine allo stillicidio, contrario ad ogni regola deontologica richiamabile a memoria e che ricorda ad ogni giornalista che la dignità delle persone non può essere violentata in nome del diritto di cronaca. Filmare quell’arresto, d’altronde, non fornisce alcuna informazione ulteriore all’opinione pubblica, alla quale sarebbe bastato sapere che la giudice e gli altri condannati sono finiti in carcere. Mentre sarebbe stato più utile chiedersi, forse, perché la pena sia stata subito eseguita quando c’è da affrontare un nuovo processo per stabilire l’entità della stessa. Domande sciocche, forse, interessanti solo per gli “addetti ai lavori”. Come se la giustizia interessasse solo una piccola parte della società. “I baschi verdi antiterrorismo della Gdf per arrestare una persona anziana in ospedale, “casualmente” i giornalisti appostati, un figlio costretto a fare da scudo alla mamma dai flash e dalle riprese. Uno schifo vomitevole da Paese incivile”, ha commentato su Twitter il deputato di Azione Enrico Costa, tra i pochi attenti - e in maniera bipartisan - alle degenerazioni della giustizia che si trasforma in show televisivo. Uno spunto di riflessione che non ha prodotto l’effetto sperato: i commenti al Tweet sono spietati e svelano una concezione della giustizia che è più vicina alla legge del taglione. Hai rovinato tante famiglie, devi subire l’umiliazione che hai inflitto, questo il riassunto delle reazioni. “Buonismo schifoso”, scrive un utente, “lo schifo è vedere come difendi i delinquenti” e poi ancora “siamo di fronte al male assoluto, nessuna pietà”, ribadiscono altri. La giustizia non serve a nulla se non alla vendetta e pensare che un giorno con Silvana Saguto possa essere messo in pratica l’articolo 27 della Costituzione, che mira alla sua rieducazione, è forse una speranza vana. D’altronde tra le proposte depositate da Fratelli d’Italia a inizio legislatura ve n’è una che mira a modificare anche questo pilastro: prima viene l’effetto “intimidatorio” della pena, poi - se rimane spazio - quello rieducativo. E poco importa se la repressione ha sempre fallito nella battaglia contro il crimine. La reazione scomposta della stampa è il sintomo di una “malattia” molto grave: l’informazione è una merce e dunque le regole che valgono non sono quelle deontologiche e nemmeno le leggi dello Stato, ma le regole di mercato. Ed è il mercato a richiedere la gogna, che porta clic, anche se fa a pezzi la Costituzione. La stessa sulla quale hanno giurato coloro che, occupando ruoli istituzionali, invocano la forca dai propri palcoscenici virtuali. Difficile far sentire in colpa, dunque, chi da casa rivendica il diritto di poter dire la sua. Il corpo di quel giovane uomo disperato di fronte alla distruzione della sua famiglia - anche il padre è stato condannato avrebbe dovuto essere, metaforicamente, il corpo di chi, come il giornalista, avrebbe il compito di garantire il rispetto dei principi cardine della nostra democrazia. Tra i quali non rientra la spettacolarizzazione della giustizia. Ma dovremo accontentarci, forse ancora per molto, della battaglia solitaria di chi prova a scardinare tutto questo. E dovrebbe far riflettere se a condannare questo modus operandi è proprio chi del “sistema Saguto” (forma che a sua volta serve ad assolvere chi ha consentito che tutto questo avvenisse) è stato vittima, come Pietro Cavallotti. “Non mi ha fatto piacere vedere le immagini del suo arresto - ha dichiarato al TgR -. La giustizia penale non deve farsi carico delle aspettative di un popolo sempre più affamato di carcere e sempre meno disposto a chiedersi quali siano i veri problemi che si nascondono dietro i titoli dei giornali”. “L’IA è una risorsa, ma la giustizia penale esige cautela e rispetto dei diritti” di Tiziana Roselli Il Dubbio, 24 ottobre 2023 Zanettin (FI), promotore dell’incontro con Camera, e Costa (Azione): “Un algoritmo non può giustificare le intercettazioni”. Bazoli (Pd): “La decisione sia solo umana”. L’uso dell’intelligenza artificiale nella giustizia penale è argomento sempre meno circoscritto alla sola riflessione dei tecnici e sempre più rilevante anche agli occhi della politica: se n’è avuta una prova dal convegno promosso ieri al Senato dall’associazione Italiastatodidiritto. Agli studiosi provenienti da avvocatura, magistratura e accademia si sono uniti esponenti della politica: tutti convergenti sulla necessità di garantire i cittadini da possibili abusi della tecnologia in ambito giudiziario. In gioco ci sono la trasparenza, l’equità e il diritto di difesa: durante l’incontro (dal titolo “Intelligenza artificiale e giustizia penale: alla ricerca di un equilibrio tra sicurezza, efficienza e libertà”), lo hanno sostenuto, da diversi punti di vista, il penalista Guido Camera, presidente di Italiastatodidiritto e promotore della tavola rotonda insieme con il senatore di Forza Italia Pierantonio Zanettin, Guido Scorza, avvocato e componente dell’Autorità garante per la Privacy, Stefano Zanero del Politecnico di Milano e Massimiliano Lanzi dell’Università Lum. Nella seconda fase dei lavori, coordinata da Luca Luparia Donati, ordinario di Procedura penale, sono intervenuti il presidente emerito della Cassazione Giovanni Canzio, il deputato di Azione Enrico Costa, il senatore Pd Alfredo Bazoli e l’avvocato ed ex presidente del Coa di Milano Vinicio Nardo. A provare a delineare il perimetro è stato Guido Scorza, secondo il quale “non possiamo considerare ogni tecnologia possibile come giuridicamente legittima e democraticamente sostenibile: non tutto ciò che è tecnicamente possibile è moralmente accettabile”. In altre parole, “se è comprensibile che la tecnologia ci permetta di identificare in modo predittivo i possibili futuri autori di reati, non dovremmo correre a utilizzarla ciecamente: non dovremmo sacrificare la democrazia e la dignità umana sull’altare della tecnologia”. In sintonia con il rappresentante dell’authority si è espresso il capogruppo di FI in commissione Giustizia al Senato Zanettin, il quale è partito dalle “profonde preoccupazioni” riguardo all’uso dell’intelligenza artificiale in ambito giudiziario, sottolineando “l’importanza di un adeguato inquadramento politico”. Il senatore azzurro ha menzionato l’uso inquietante dell’intelligenza artificiale applicata alla cosiddetta polizia predittiva in alcuni Paesi, in particolare in Cina, dove si sospetta che venga utilizzata per reprimere il dissenso politico: “Il paletto da fissare è quello del rispetto dei diritti dei cittadini: tutto ciò che ci consente di trovare delle soluzioni e risolvere problemi va perseguito senza aver paura della tecnologia e del progresso, ma quando si tratta di andare a incidere su reputazione, libertà personale dei cittadini, e in particolare degli indagati, se la polizia predittiva ci aiuta a trovare prima i colpevoli va benissimo, ma dal punto di vista dell’avvocato o del giudice non è pensabile che si possano giustificare le intercettazioni o un’ordinanza di custodia cautelare sulla base di quei dati”. Secondo il presidente emerito della Cassazione Giovanni Canzio, intervenuto in particolare nel panel dedicato a “Il giudice e l’algoritmo”, “questi strumenti stanno diventando sempre più comuni e giocano un ruolo cruciale nel determinare le sentenze e le pene nei casi giudiziari. Questo sviluppo è guidato dalla necessità di aumentare l’efficienza, risparmiare tempo e ridurre i costi del sistema giudiziario”. Tuttavia, Canzio sottolinea la necessità di garantire la fiducia dei cittadini nella giustizia, di preservare la parità di trattamento e l’uguaglianza di fronte alla legge: “Questo è possibile solo se le tecnologie e gli algoritmi impiegati nel processo penale sono neutri, obiettivi e non discriminano. Compito dei governi e dei giuristi è tenere insieme quello che non può essere frenato, e quindi l’evoluzione tecnologica del fenomeno, con il controllo di legalità e con l’umanità dell’operazione decisoria che si va a svolgere. In gioco ci sono valori imprescindibili, quelli che noi chiamiamo i metavalori” , ha ricordato il presidente emerito della Suprema corte. “In Italia e nella Costituzione il metavalore per eccellenza lo troviamo nel giusto processo. Dobbiamo dunque attrezzarci: nell’ingresso dell’intelligenza artificiale nel processo penal, e l’entrata dei tool deve essere ben correlata al tema delle indagini e alla responsabilità di tutti gli attori del processo stesso”. Il responsabile Giustizia di Azione Enrico Costa ha suonato un altro campanello d’allarme. Parlando del potenziale rischio legato all’uso dell’intelligenza artificiale nelle intercettazioni, ha gettato luce su un’importante sfida che si sta profilando nel nostro sistema giuridico: “Questo dubbio l’ ho messo nero su bianco in un ordine del giorno recepito dal governo giorni fa, che spero faccia scaturire una discussione sul tema. L’interrogativo principale riguarda la capacità del nostro legislatore di introdurre gli strumenti adeguati per regolare queste innovazioni. Mi chiedo se il legislatore sarà in grado di introdurre strumenti idonei a recepire queste innovazioni” . D’altra parte le preoccupazioni non riguardano solo l’ambito legale ma la società nel suo complesso, come ha sottolineato il senatore Pd Alfredo Bazoli: “L’intelligenza artificiale è una forza che permea ogni settore della nostra vita. L’uso della tecnologia per aumentare l’efficienza e fornire maggiore certezza dovrebbe essere accolto con entusiasmo, ma è fondamentale che rimanga uno strumento al servizio delle decisioni umane”, ha detto il capogruppo dem in commissione Giustizia. “Non possiamo permettere che l’intelligenza artificiale diventi il decisore finale, né che influenzi in maniera incontrollabile le scelte di giudici e avvocati”. Insomma, l’IA potrebbe essere definita un “evento straordinario che entra nel microcosmo del processo penale con un mix pericoloso”. Formula proposta da Vinicio Nardo, e che è sembrata dare il senso delle riflessioni sviluppate nell’incontro di ieri. Roma. Cibo scadente, caffè fatto con i fondi e latte allungato con l’acqua. Così si mangia in carcere di Gabriella Stramaccioni* Voci di dentro, 24 ottobre 2023 Fra le varie problematiche che ho dovuto affrontare nel mio ruolo di Garante dei diritti delle persone private della libertà personale quella relativa al vitto e sopravvitto per le persone detenuti è stata sicuramente la più emblematica di come funzioni il sistema penale. E’ necessario inquadrare il fenomeno e capire come funziona attualmente (spero ancora per poco) questo importante servizio all’interno degli istituti penitenziari. Il vitto è rappresentato da tre pasti principali che vengono distribuiti da parte dell’amministrazione penitenziaria alla popolazione detenuta: colazione, pranzo e cena. Il sopravvitto consiste in tutti quegli alimenti (autorizzati in apposita lista dall’amministrazione penitenziaria) che le persone ristrette possono acquistare a loro spese previa richiesta tramite modulo. Le spese per il vitto sono quindi sostenute dal Dap (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) mentre il sopravvitto è completamente a carico di chi lo ordina. Presentata così la questione potrebbe sembrare chiara, ma analizzandola attentamente dal di dentro (e cioè dal carcere) mi sono subito resa conto che tanto chiara la questione non era. Il primo riscontro a quella che già all’inizio mi sembrava una situazione opaca è stata quella di informarmi su quanto il Dipartimento pagasse per il vitto giornaliero pro capite. Euro2,39 la quota con la quale la ditta che serviva il vitto a Rebibbia si era aggiudicato l’appalto. Si, proprio 2,39 euro per fornire colazione, pranzo e cena a persone adulte. Una quota palesemente insufficiente per far fronte ad una alimentazione adeguata (che fra l’altro le tabelle vittuarie del dipartimento prevedono). Controllando le modalità di erogazione del sopravvitto ho scoperto l’anomalia collegata al vitto. E cioè la ditta che gestiva il sopravvitto e che riceveva i pagamenti (anticipati) direttamente dai detenuti, era la stessa che aveva in gestione il vitto (pagato dalla pubblica amministrazione). Mi è stato a quel punto più chiaro capire i tanti reclami che avevo ricevuto dai detenuti in merito alla pessima qualità e scarsa quantità del vitto giornaliero ed i reclami anche sull’elevato costo che dovevano sostenere per acquistare i prodotti dal sopravvitto. Prezzi assolutamente esagerati per prodotti anche in questo caso di pessima qualità. Pomodori, frutta fresca, carne, formaggi, pagati a peso d’oro anche quando si trattava (per la maggior parte dei casi) di prodotti di scarto. I detenuti continuavano a scrivere reclami, ma rassegnati a non vedere mai una risposta alle loro giuste rivendicazioni. Ho deciso di seguire questa vicenda che mi sembrava assurda ed ingiusta. Non ho trovato intorno a me anche da parte di altri soggetti istituzionali un interesse alla vicenda. La maggior parte degli interlocutori a cui mi sono rivolta mi dicevano: “Ma funziona così da anni”, “Ma tanto lo sanno tutti ed il sistema non cambierà mai “. Non mi sono arresa ed ho iniziato quella che non sapevo sarebbe diventata la mia battaglia solitaria per molto mesi. Ho iniziato a raccogliere i reclami, a controllare quotidianamente il vitto che veniva servito, a confrontarlo con le tabelle vittuarie, a fare le verifiche sul cibo acquistato a pagamento. Ho analizzato le salsicce acquistate al prezzo di carne pregiata: erano piene di grasso e riempite di colorante, il pollo intero era senza ali (perché le ali venivano vendute a parte), le uova arrivavano sempre prossime alla scadenza, i limoni fradici, i pomodorini datterini erano poltiglia, la frutta immangiabile. Nel frattempo la qualità del vitto che veniva distribuito era veramente scadente e scarso: latte diluito con acqua, caffè fatto con i fondi, carne contenente altre sostanze e via dicendo. Una vera galleria dell’orrore. Ho raccolto tutto pazientemente per mesi grazie alla collaborazione di alcuni detenuti che non ne potevano più di subire questo stato di cose. Ho preparato un dossier molto articolato e documentato e mi sono presentata in procura di Roma depositando un esposto. Nel frattempo si era mossa la Corte dei Conti del Lazio che aveva segnalato anomalie nella gara di appalto in quanto il servizio di vitto che era a carico dello Stato doveva essere separato da quello del sopravvitto che si configurava come altro servizio. Alcuni giornalisti iniziano ad occuparsi della vicenda e rilanciano il mio esposto in procura. A quel punto arrivano anche delle interrogazioni parlamentari rivolte al ministro della Giustizia (allora Marta Cartabia) che ammette in aula al Senato che è necessario modificare le gare di appalto per questi fondamentali servizi all’interno degli istituti penitenziari. Alcune gare in varie regioni vengono annullate e si procede con le nuove gare che vedono l’appalto del vitto distinto da quello del sopravvitto. Fortunatamente per me l’esposto presentato in Procura va avanti e vengo ascoltata come persona informata dei fatti da un bravissimo colonnello della Guardia di Finanza. Grazie alla sua attenzione e professionalità riesco a ricostruire tanti passaggi e situazioni che porteranno ad un blitz (gennaio 2023) della Guardia di Finanza all’interno degli istituti penitenziari di Rebibbia per il sequestro degli alimenti predisposti per il vitto. Ad agosto 2023 trapelano le prime notizie della chiusura della indagine con alcune persone indagate. Sono in attesa di conoscere le decisioni che verranno assunte. Nel frattempo io non sono stata più riconfermata garante dei diritti delle persone private della libertà personale (il regolamento prevedeva la possibilità della riconferma). C’entra qualcosa con le denunce che ho fatto e l’isolamento che ho subìto? *Ex Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del comune di Roma Brescia. “Carcere di Canton Mombello ingestibile”: la giustizia convoca la politica di Andrea Cittadini Giornale di Brescia, 24 ottobre 2023 Lo sfogo-appello è stato messo nero su bianco. “Non si può più far finta di ignorare le precarie condizioni detentive all’interno del carcere di Brescia. È una struttura vetusta e tra le più sovraffollate d’Italia” scrivono in una nota il presidente della Corte d’appello di Brescia Claudio Castelli e il procuratore generale Guido Rispoli. Stando agli ultimi dati a Canton Mombello i detenuti oggi sono 370 - “di 40 etnie diverse” viene ricordato - a fronte di un numero massimo di presenze che dovrebbe raggiungere quota 189. Da gennaio ad oggi - riferiscono i vertici della giustizia locale - da gennaio ad oggi sono stati 62 gli episodi di aggressioni verso altri detenuti, mentre 25 verso il personale. Destinatari del messaggio sono i politici bresciani, dal sindaco Laura Castelletti, a tutti i parlamentari e i consiglieri regionali eletti sul territorio e invitati per venerdì a partecipare ad un incontro pubblico “per trovare una soluzione per Canton Mombello”. Un appuntamento, al quale parteciperà anche il sottosegretario alla giustizia Andrea Ostellari e che si terrà in tribunale, che arriva a poche settimane dall’ultimo giorno di lavoro del presidente della Corte Castelli. “Quando sono arrivato a Brescia non pensavo di andare in pensione senza vedere non dico il nuovo carcere, ma almeno il progetto definitivo” spiega Castelli. “Serve la volontà politica per risolvere una questione che non può più essere rimandata” è il pensiero del procuratore generale Guido Rispoli e della presidente del tribunale di Sorveglianza Monica Cali. “Canton Mombello - spiega la magistrata - è una struttura fatiscente, risalente a fine 1800 e pensata per dinamiche detentive diverse rispetto a quelle di oggi. Siamo costretti a dire no ad associazioni che vorrebbe creare progetti in carcere, ma la struttura di via Spalto San Marco non permette attività”. Poi Cali mette sul tavolo un paragone che non può che imbarazzare Brescia: “A Canton Mombello ci sono anche 18 detenuti in una cella e situazioni simili le ho viste solamente nelle carceri sudamericane”. Per questo “continuiamo a ricevere - aggiunge - esposti dai detenuti per la violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo”. Va le a dire “il diritto di ciascun individuo a non subire una violazione dell’integrità fisica e psichica, a causa di tortura o trattamento o pena disumana o degradante”. “Non ampliare Verziano” - I vertici della giustizia bresciana bocciano però il progetto dell’ampliamento di Verziano sul tavolo da tempo. “È un’idea già superata e inadeguata per le esigenze bresciane” dice Rispoli. “Andrebbe a togliere spazio agli attuali detenuti di Verziano e non può funzionare” aggiunge Cali. I vertici della giustizia bresciana scrivono: “L’unico progetto per un carcere nuovo è fermo al 2019 e oggi appare già vecchio alla luce del vertiginoso rapido cambiamento della popolazione detenuta a livello di numeri e tipologia di utenti”. “Le carceri in Italia ormai vengono costruite tutte secondo un unico modello. E i tempi di realizzazione non sono lunghi” ipotizza Castelli. Da qui la proposta. “L’area di Verziano potrebbe essere una valida soluzione per un nuovo carcere, visti i molti terreni presenti in zona. Ma ampliare l’attuale penitenziario è sbagliato”. Milano. Cinque minuti dentro una cella, la simulazione all’università Bicocca di Brunella Giovara La Repubblica, 24 ottobre 2023 “Così i ragazzi capiscono la vita dei reclusi”. L’ateneo propone un’esperienza simile a come vivono i detenuti di San Vittore: “Un’esperienza forte e nessuno è preparato”. Provate dunque voi, a stare un po’ dentro questa cella da 2 per 4 metri tutto compreso, e si intende il cesso, altra parola non c’è. “Esperienza immersiva”, dura 5 minuti ma bastano per capire qualcosa. Tipo: in quattro qui non ci si sta. Eppure, ci si sta eccome, nelle carceri italiane che scoppiano di detenuti. Come, lo sanno solo loro, che quando uno si alza gli altri devono stare in branda, e se proprio vuole allargare le braccia - di fronte alla miseria in cui vive - deve calcolare bene il dove e il quando (sul lato lungo, sempre che nel frattempo uno degli altri non si sia alzato). E dopo 5 minuti qui dentro, a leggere le scritte “Mamma perdonami, e pagami l’avvocato”, e “chi galera non prova/libertà non apprezza”, si torna tristemente alla libertà, e al bar dove si può bere un caffè espresso, al BiM, che sta per “Bicocca incontra Milano”, spazio e cuore culturale dell’università. “Quando i visitatori escono, si sentono come sollevati, e hanno molte domande da farci”, spiega Olivia Serio, laureanda di 23 anni in Psicologia e tutor di alcuni detenuti, e anche accompagnatrice nella finta cella, ricostruita con fedeltà dal laboratorio di falegnameria del carcere di Bollate. Ma è la copia delle peggiori, cioè San Vittore. Casa circondariale, cioè per chi è in attesa di giudizio, e spazi ottocenteschi, un gran passaggio di detenuti, stipati come polli in allevamento. Si fanno i miracoli per evitare il peggio, che pure talvolta succede. Le risse, le crisi di disperazione, i suicidi. Seduta sulla branda (al piano inferiore del castello, e quindi con la testa storta perché non c’è spazio) c’è la professoressa Maria Elena Magrin, docente di Psicologia giuridica, coordinatrice del polo penitenziario della Bicocca, e nel decimo anniversario “abbiamo voluto proporre questa esperienza. Non solo agli studenti “liberi”, ma a tutta la cittadinanza”. Chi vuole, può presentarsi in viale dell’Innovazione 3 e provare, accompagnato, a farsi chiudere dentro (ci si prenota su bim-milano.com/eventi/extrema-ratio). “In realtà, la cella è aperta. Cioè, ha una maniglia interna, che nella realtà non esiste”, spiega Olivia Serio. “Gli ex detenuti notano subito la fondamentale differenza. In carcere la porta è chiusa dall’esterno. La maniglia significa libertà”. È questa la reclusione, cioè la costrizione. “Il carcere ha un fine pena per quasi tutti, quindi a un certo punto si esce, e lì si apre il tema delle re-inclusione, di quello che succede dopo”, spiega Magrin. E della paura: di chi è stato dentro, e ha paura di uscire, e di chi non c’è mai stato e ha paura - o repulsione, o disgusto - di chi c’è stato. La cella è in prestito, nel senso che appartiene alla Caritas Ambrosiana, costruita per il progetto “Extrema Ratio”. Ma la roba è vera. I brutti materassi blu - duri -, l’armadietto minuscolo, il tavolino con sgabello. Il cesso-cucina, “tutti domandano perché nella turca c’è infilata una bottiglia…”, dice Olivia. Molti non hanno mai visto un gabinetto alla turca in vita loro, e meno male. “Serve a evitare la risalita degli scarafaggi”. Ingegnoso, viene da dire, così come i piccoli scaffali costruiti con i pacchetti delle sigarette. È l’inventiva dei poveri, che sono la maggioranza del popolo carcerario. Ma non essendoci uno spazio cucina, il fornelletto da campeggio sta accanto al lavandino e a un metro dalla turca, e lì sopra si fa da mangiare. E cosa vuole sapere, il visitatore? “Se i detenuti hanno la divisa arancione, o a righe. Si stupiscono delle immagini sacre, domandano se in carcere si riscopre la fede, il che è abbastanza vero”. Magrin: “È un’esperienza semplice, ma forte, e apre dei pensieri. La gente non sa niente del carcere”. Perciò è utile provare a lasciare gli oggetti vietati (il telefono), o pericolosi (i lacci delle scarpe, la cintura), i soldi, i gioielli. Entrare (in quattro), la porta si chiude, per sedersi c’è solo lo sgabello, o le brande dove si sta con la testa storta, ingobbiti, scomodi, rassegnati. Il neon acceso, manca solo l’odore tipico della galera, il misto di cucina e gabinetto che resta indimenticabile. E tutto è abbastanza sporco, e soprattutto squallido. È tutto troppo piccolo, si sbattono le ginocchia nello spigolo del castello, o nell’armadietto, o nel muro. I nuovi giunti - come noi - si riempiono di lividi, poi imparano. Nonostante tutto questo - a cui andrebbe aggiunto il freddo d’inverno e il caldo d’estate - molti detenuti si iscrivono all’università, talvolta per ottenere qualche beneficio, spesso per reale interesse. Non solo la Bicocca, che è una università giovane, ma quasi tutte le università hanno i loro studenti residenti in un carcere. Alla Bicocca ne sono passati tanti, in questi dieci anni, e attualmente ci sono 80 iscritti, che seguono per forza da remoto, “ma sostengono veri esami, e conquistano una vera laurea”, senza sconti. Roma. Atena Donna lancia corsi di Primo Soccorso per ledetenute lapresse.it, 24 ottobre 2023 La Fondazione Atena Donna prosegue il suo percorso legato alla prevenzione e agli screening nelle case circondariali femminili, che si sviluppa con una presenza capillare e continuativa sul territorio nazionale, grazie al protocollo sottoscritto dalla Presidente con il Ministero della Giustizia e il Dap (Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria), presieduto da Giovanni Russo. Durante ogni incontro con le donne ristrette vengono fornite informazioni sull’importanza della prevenzione ed effettuati screening per le varie patologie femminili e non solo, affiancando il Sistema Sanitario operante all’interno delle carceri. Dal 24 ottobre inizierà un nuovo progetto, in collaborazione con la Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore e la Fondazione Severino, grazie al Prof. Francesco Franceschi (Ordinario di Medicina Interna alla Cattolica Campus di Roma e Direttore dell’Unità di Medicina Complessa - Medicina D’Urgenza e Pronto Soccorso del Policlinico Universitario A. Gemelli Irccs) e del suo team, con incontri che insegneranno le tecniche di Primo Soccorso, coinvolgendo le donne ristrette e le agenti di polizia penitenziaria. Si partirà con il carcere di Rebibbia per proseguire nelle altre strutture d’Italia. “Io e la dottoressa Martina Petrucci siamo molto contenti dell’avvio di questa attività che avrà un duplice obiettivo”, sottolinea Franceschi. “Il primo sarà quello di incrementare i livelli di sicurezza negli ambienti detentivi riguardo ad una possibile emergenza medica, istruendo tutte le donne che vorranno apprendere le tecniche del BLS. Il secondo sarà quello di promuovere la cultura dell’occuparsi dell’altro. Infatti, nelle circostanze in cui una persona perde conoscenza, avere accanto una persona altruista, può salvare la vita”, aggiunge. “Sono davvero soddisfatta di aver raggiunto con questo progetto di Atena Donna “Together” molte strutture detentive femminili dal nord al sud Italia, in modo sistematico, portando i medici più qualificati ad occuparsi delle donne ristrette”, aggiunge la presidentesse di Atena Donna, Carla Vittoria Maira. “Abbiamo effettuato screening e incontri per oltre il 50% delle donne che in questo momento della loro vita sono private della libertà di partecipare alle iniziative sulla prevenzione e sono entusiasta di iniziare questi nuovi percorsi così significativi nei luoghi di detenzione insieme al Prof. Franceschi e e alla Fondazione Severino”. Conclude Eleonora Di Benedetto della Fondazione Severino: “Sono fiduciosa che questo corso possa essere l’occasione per promuovere la cultura dell’aiuto reciproco e della responsabilità condivisa fra le donne detenute, intensificando quella rete di sostegno , che è peculiare della detenzione al femminile. Durante il corso donne e agenti penitenziarie potranno acquisire le competenze necessarie per affrontare situazioni di emergenza ed offrire aiuto a chi ne dovesse avere bisogno. Siamo grati al Prof. Franceschi dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ad Atena Donna e alla Casa di Reclusione di “Germana Stefanini”, che hanno reso possibile questa iniziativa. Mi auguro che la sinergia creata possa portare a nuove opportunità concrete di crescita e cambiamento per molte donne ristrette.” Gli ultimi incontri del progetto, che è sostenuto da Enel Cuore, la onlus del Gruppo Enel che supporta iniziative di forte impatto per le comunità e il territorio, si sono svolti nei primi giorni di ottobre nella casa circondariale di Verona Montorio, diretta dalla Dott.ssa Francesca Gioeni, dove grazie al Prof. Steven Nisticò e al suo staff sono stati effettuati screening dermatologici sulle detenute e fornite informazioni sulle tecniche che permettono di tenere costantemente sotto controllo la pelle. A seguire nella struttura di Civitavecchia, diretta dalla dott.ssa Patrizia Bravetti, si sono tenuti incontri di prevenzione cardiologica con il prof Luigi Chiariello e motivazionali con lo psicoterapeuta Dott. Salvo Noè. A Trani, nella struttura diretta da Dott. Giuseppe Altomare, lo scorso 16 ottobre si è tenuto un incontro motivazionale a cura della Dott.ssa Maddalena Cialdella, mentre è già in programma, il prossimo 23 ottobre, un incontro di prevenzione e screening dermatologico, che coinvolge le detenute e le agenti penitenziarie, sempre a cura del Prof. Nisticò, con medici del suo staff, nella Casa Circondariale Femminile di Foggia diretta dalla Dott.sa Giulia Magliuolo. Infine, nella Casa Circondariale femminile di Pozzuoli si sta concludendo il Progetto Benessere, nato da un’idea di Carla Vittoria Maira in collaborazione con il Prof. Raffaele Landolfi, che ha il fine di migliorare il benessere psicofisico delle donne ristrette grazie al sostegno reciproco, e ha ottenuto un efficace risultato rispetto agli obiettivi personali delle donne, con una notevole diminuzione del numero delle sigarette e una preziosa riduzione del clima conflittuale. Milano. Detenuti e matti, quando l’incontro brucia le etichette di Sara De Carli vita.it, 24 ottobre 2023 Da una parte i matti, dall’altra i cattivi: sembrava una scommessa ardita quella che per due anni ha portato i pazienti del Centro Diurno Il Camaleonte di Fondazione Sacra Famiglia dentro il carcere di Opera. Invece hanno vinto la tenerezza e la verità delle relazioni. Un progetto unico, raccontato con uno spettacolo ad alto impatto emotivo. Una cosa sola c’è da dire, basta e avanza. Una persona - scontata la sua pena - è uscita dal carcere dopo, pur di concludere il progetto e mantenere fede alle relazioni avviate lì: “Prima finisco il percorso, poi esco. Non posso sparire da un giorno all’altro”, ha detto. Ardito, improbabile, unico nel suo genere, surreale: anzi, meraviglioso. Sono questi gli aggettivi che descrivono il progetto “Emozioni all’Opera”, che per due anni ha coinvolto una ventina di detenuti del carcere di Opera e cinque pazienti del Camaleonte, il centro diurno psichiatrico di Fondazione Sacra Famiglia. “Ci differenzia la pena, ma ci accomuna la sofferenza”, hanno detto i partecipanti-attori nell’originale e intenso spettacolo con cui hanno raccontato il progetto. Sul palco gli ospiti di Sacra Famiglia (“i pazienti”), detenuti (ma loro si definiscono “ospiti permanenti di Opera”), educatori, familiari, volontari, tutti con un il loro ruolo scritto in grande su un cartello appeso al collo: “Ci portiamo tutti addosso delle etichette mica da ridere”, dicono. La stessa solitudine - Tutto è cominciato nel 2018, racconta Giovanna Musco, presidente di In Opera, l’associazione nata in carcere dagli stessi detenuti. “Dopo tanti incontri sulla giustizia riparativa mi hanno chiesto di poter fare qualcosa per gli altri, per andare oltre le parole. L’idea è stata quella di mettere insieme due situazioni che sono simili per il bisogno che le caratterizza: il carcere è solitudine e tempo vuoto, lo stesso il mondo degli anziani e delle Rsa. Abbiamo pensato di unirle, per far sì che il tempo vuoto di entrambe diventasse pieno”. Il direttore di Opera, Silvio Di Gregorio, approva: “Mi disse soltanto “proceda”, come fa spesso lui”, ricorda Giovanna. La proposta è ardita e infatti non trova subito risposta: “C’era comprensibilmente un certo timore nel far entrare degli anziani con le loro fragilità in un carcere, in relazione con i suoi ospiti”. (“Pericoloso!” esclama intanto uno dei partecipanti al progetto, con il cartello che sottolinea le emozioni in gioco). L’incontro che cambia le cose è quello con Barbara Migliavacca, all’epoca responsabile della residenza sanitaria assistenziale per disabili San Carlo e San Benedetto di Sacra Famiglia: è lei che intuisce la potenza e le potenzialità del progetto. Si lancia e così parte il progetto “Legami all’Opera”. A convincerla - ricorda - fu “la consapevolezza del bisogno primario di relazioni umane, che tutti abbiamo”. In Sacra Famiglia ben presto “telefoniamo al Walter” diventa una richiesta abituale, anche se “al Walter”, in carcere, non si può telefonare: “Le preoccupazioni si sono sciolte dinanzi all’importanza delle relazioni che accadevano tra detenuti e ospiti”, racconta Barbara. “In modo inatteso, quello spazio era diventato per tutti uno spazio di riconoscimento, un luogo in cui sentirsi finalmente desiderato da qualcuno”. Il rilancio - Nel 2020, bruscamente, il Covid interrompe tutto: le parole per ricordare le emozioni di quel momento sono “desiderio” e “bisogno”. L’esperienza però è già troppo importante per rinunciarvi. Sacra Famiglia, quando le condizioni permettono una riapertura stabile, decide di proporre l’esperienza di Opera alle persone con malattia mentale o disagio psichico che a Cesano Boscone frequentano il Centro diurno Il Camaleonte. Laboratori espressivi e ricreativi, gestione delle autonomie, atelier, sport. Il lavoro dell’équipe qui - spiega Emilio Castiglioni, psichiatra del Camaleonte - punta sul concetto di “recovery”, codificato negli States nel 2005: “Al centro del percorso riabilitativo non c’è il disturbo mentale, ma la persona, che diventa promotore della propria salute con azioni partecipate. L’obiettivo è che la persona, nonostante i sintomi della malattia, riesce a vivere una vita soddisfacente, con un’idea di progettualità e di apertura al futuro, quella sensazione di dire “il peggio è passato”, afferma Castiglioni. Su venti persone che frequentano il Centro, sei vengono coinvolte nel progetto. Per i familiari dare l’assenso non è una cosa scontata, raccontano Cinzia, cognata di Roberto e Giuseppe, fratello di Fabrizio: la parola-chiave qui è “fiducia”. “Legami all’Opera” così diventa “Emozioni all’Opera”. In comune questa volta c’è “l’essere prigionieri di spazi angusti, della propria mente o di una cella”, dice lo psichiatra. “Perché le emozioni? Perché abbiamo pensato di portare in carcere qualcosa che eravamo bravi a fare, quella attività terapeutica sulle emozioni che già facevamo al Centro”, ricorda Melissa Cozza, psicoterapeuta del Camaleonte. “Attorno al paziente psichiatrico c’è l’idea che le emozioni possano diventare pericolose, noi invece ci lavoriamo tantissimo, ovviamente risignificando le emozioni prima, durante e dopo il momento in cui vengono vissute. Una delle persone che avevamo coinvolto, Massimo, a un certo punto ha interrotto il percorso perché l’esperienza non lo faceva stare bene: questa cosa dimostra quanto sia stato in grado di “maneggiare” le proprie emozioni”. Mettersi a nudo - Il gruppetto di Sacra Famiglia entra ogni settimana a Opera: lato detenuti, gli incontri vanno sempre in overbooking tante sono le richieste di partecipare. Lato Sacra Famiglia, c’è chi non ha saltato mai un incontro. Poteva essere “i matti” e “i cattivi”, e invece. Giocano a carte, chiacchierano, fanno laboratori sulle emozioni, costruiscono insieme dei presepi utilizzando gli scafi dei barchini con cui i migranti attraversano il Mar Mediterraneo. “Pensavo che sarebbe stato solo “un pezzetto” del mio percorso di giustizia riparativa, invece è stato un incontro”, ammette Alessandro. Sincerità e amicizia sono le parole che vengono portate sul palco. “Ci differenzia la pena, ma ci accomuna la sofferenza”, aggiunge. Roberto racconta che questa esperienza lo ha “aiutato a pensare a ciò che ha fatto, a capire che ci sono cose più importanti dei soldi. Mi sta aiutando e spero che la mia presenza aiuti qualcuno”. Sergio dei nuovi amici dice che “sono persone distinte, gentili ed educate”. La psicoterapeuta del Camaleonte, che ha dato ordine alle emozioni vissute, afferma che “l’esperienza ha dato ai ragazzi un maggior senso di autoefficacia e ce li ha fatti conoscere sotto altri aspetti, mettendo in luce risorse che non immaginavamo”. Maria Luisa Manzi, educatrice a Opera, sottolinea la straordinarietà di aver potuto “vivere emozioni positive e costruttive in un luogo in cui di solito, invece, si vivono prevalentemente emozioni negative, sia per i detenuti per gli operatori” e l’aver di fatto “superato reciprocamente uno stigma, quello del detenuto e quello del malato psichico. Questa esperienza ha abbattuto un muro”. Monsignor Bruno Marinoni, da pochi mesi presidente di Fondazione Sacra Famiglia, mette l’accento sull’autenticità delle relazioni che - paradossalmente - diventano più sincere là dove potrebbero sembrare meno libere e spontanee: “accade perché qui le relazioni toccano la carne delle persone”. È l’ispettore Daniele Talanti a trovare l’immagine più bella, semplice ma vera: “In carcere a volte devi mostrarti diverso da quello che sei, più duro. In questa esperienza, lo avete visto dalle foto, c’è stata tanta tenerezza e accoglienza. Le persone si sono messe a nudo e vi garantisco che in carcere non è facile farlo”. Come ha detto don Gino Rigoldi, storico cappellano dell’istituto penale per minorenni Beccaria di Milano, “è la relazione che cura e fa crescere, il rialzarsi e lo scoprirsi come persone belle, capaci di esserci per gli altri”. Castelfranco Emilia (Mo). Sartoria in carcere: abiti per i frati realizzati dai detenuti di Marco Pederzoli Il Resto del Carlino, 24 ottobre 2023 Capi di abbigliamento per frati francescani, come il tipico saio, realizzati in carcere. È ciò che accade alla Casa Circondariale di Castelfranco Emilia, al momento l’unica in Italia ad essersi specializzata in questa attività. A confermarlo è i Confcooperative, che spiega: “L’iniziativa è della cooperativa sociale Giorni Nuovi di Modena (aderente a Confcooperative Terre d’Emilia), costituita nel 2015 da cinque persone che prestano volontariato nelle carceri modenesi da una dozzina d’anni”. Il presidente di Giorni Nuovi Francesco Pagano spiega: “Un detenuto originario del Gambia, che nel suo paese aveva imparato il mestiere di sarto, confeziona il saio francescano in collaborazione con due sarte volontarie. Il tessuto lo compriamo a Modena e Carpi, i clienti invece sono frati di vari conventi italiani. L’idea di produrre il saio ci è stata suggerita dal cappellano della Casa di reclusione di Castelfranco, che è un frate francescano. Oltre ai sai, il nostro laboratorio confeziona camicine da battesimo in cotone, rifinite con pizzo di prima qualità e ricamo con filo d’oro. I clienti di questo prodotto sono le parrocchie di tutta Italia, che acquistano attraverso il sito www.giorninuovi.jimdofree.com”. Nell’istituto di Castelfranco - aggiunge poi Confcooperative - saranno presto realizzati altri paramenti, come tuniche per la prima comunione e per i diaconi. La sartoria gestita da Giorni Nuovi effettua anche lavorazioni per conto terzi, tra cui un cuscino devozionale a forma di croce commercializzato da un’azienda scozzese, copriamboni ricamati e portachiavi a tema religioso”. Come forse si ricorderà, nella Casa di reclusione di Castelfranco Emilia funziona a pieno ritmo da tre anni e mezzo un ostificio, cioè un laboratorio per la produzione di ostie e particole. La produzione quotidiana è di circa 25 pacchi da 500 particole e quindici confezioni da 25 ostie usate dal celebrante. “Sembra un lavoro facile, invece richiede molta attenzione e scrupolo”, sottolinea Pagano. Parma. La Pastorale carceraria è cultura in crescita di Roberta Barbi vaticannews.va, 24 ottobre 2023 Il vescovo Solmi presenta “Oltre le sbarre i nostri volti”, una giornata di sensibilizzazione verso il mondo carcere, organizzata per il 29 ottobre. Per una settimana eventi e appuntamenti. “È la risposta a una sollecitazione di interesse sull’universo carcerario, ma anche una naturale continuazione del nostro lavoro: a Parma abbiamo un carcere particolare sia per la sicurezza sia per la presenza, ci sono circa mille detenuti…”. Così monsignor Enrico Solmi, vescovo di Parma, racconta a Vatican News l’idea che ha spinto all’organizzazione di “Oltre le sbarre i nostri volti”, una giornata di sensibilizzazione della comunità verso il mondo carcere, organizzata dalla diocesi per il 29 ottobre. L’evento diocesano vuole essere anche un invito a pregare e a mettere in atto gesti concreti verso i fratelli reclusi: “Siamo molto grati per tutti i volontari, i sacerdoti e i cappellani che lavorano in carcere a Parma abbiamo anche le suore ancelle che hanno questo particolare carisma”, spiega Solmi. “Non si può fare tutto, ma l’importante è la comunione tra tutte queste figure, per proseguire con cuore unito e avanzare una proposta unitaria alle istituzioni”. In arrivo in città, in occasione di questa settimana speciale, anche la mostra “Sub Tutela Dei” dedicata a Rosario Livatino, il giudice ucciso dalla mafia il 21 settembre 1990 e beatificato ad Agrigento il 9 maggio 2021, la cui memoria liturgica ricorre proprio domenica 29 ottobre. “È molto importante che questa mostra venga allestita nella chiesa della SS. Annunziata dove per anni ha vissuto padre Lino dei Frati Minori, una presenza importantissima per il nostro carcere e per l’allora riformatorio della città”, racconta ancora il presule che tiene a sottolineare anche l’importanza e la grandezza del Beato Livatino, un uomo di oggi, la cui figura parla a tutti noi: “Un cristiano che coniuga la fede cristiana con la propria professione, traendo le sue caratteristiche di dirittura morale e senso di responsabilità direttamente dal Vangelo, che teneva accanto al letto e che innestava tutta la sua vita”. Il mondo del carcere tra giustizia, perdono e misericordia Il libro dello storico cappellano del carcere romano di Regina Coeli, padre Vittorio Trani, intitolato “Così in cielo così in terra. Il carcere tra giustizia, perdono e misericordia” è il protagonista dell’altro grande appuntamento della settimana, previsto per giovedì 26 alle 20.45 nella chiesa della Trasfigurazione: “È anche grazie a opere come questa che la società fuori può venire a conoscenza di com’è la vita dentro - spiega monsignor Solmi - questo libro, inoltre, costituisce un appello alla giustizia riparativa e verrà poi presentato anche in una scuola, perché è importante che i giovani sappiano”. Preghiera e gesti concreti: su queste due parole chiave della Pastorale carceraria che permeano l’intera settimana di riflessione, vuole ritornare il vescovo di Parma: “La preghiera supera le sbarre, entra nei cuori e forma una comunità cristiana attenta anche a chi ha commesso degli errori, ma ha anche intrapreso un percorso di espiazione, maturazione e crescita”. Tante le iniziative che fanno da ponte tra l’interno e l’esterno: le ostie e il pane libero e solidale che i detenuti impastano e che è destinato alla mensa della Caritas; in senso inverso sono tante le raccolte diocesane di abbigliamento, medicinali e beni di conforto che arrivano ai ristretti, perché “in carcere ci sono tanti poveri ed è una fraternità che diventa aiuto”, testimonia ancora il vescovo, che ci lascia con una chicca sul rapporto tra chiesa e carcere che a Parma assume una forma singolare: “Il vecchio istituto di pena della città sorgeva all’interno di una chiesa francescana che venne requisita in epoca napoleonica - conclude - circa due anni fa questa struttura è tornata a essere chiesa e per noi costituisce una relazione, anche visiva, tra un luogo di sofferenza e di dolore e un’opportunità di fede e redenzione”. Tutti elementi che della vita detentiva fanno parte. Aversa (Ce). Detenuti sul Vesuvio per “Il cammino di redenzione” di Francesca Mari Il Mattino, 24 ottobre 2023 Alla Casa Circondariale di Aversa, il primo progetto di “giustizia riparativa” per adulti. Sono usciti dal carcere per quattro giorni, per un campo di “giustizia riparativa” che si è concluso con la scalata alla vetta del Vesuvio, in segno di “redenzione”. Non avevano “lacci” né guardie penitenziarie a seguito, nessuno ha fatto passi falsi. Anzi, si sono commossi ed hanno riflettuto tanto. Si tratta degli otto carcerati della casa circondariale di Aversa, protagonisti della prima edizione nazionale del progetto “Libera Espressione”, promosso da Libera Campania, coordinato da Antonio D’Amore, Marilù D’Angelo, Barbara Pucello delle segreterie regionale e nazionale e Bruno Vallefuoco Libera Memoria. Il progetto, durato sei settimane, è stato realizzato in collaborazione con Il Garante delle persone private della libertà della Regione Campania, con l’Ufficio del magistrato di sorveglianza, Tribunale di Napoli, dottor Francesco Chiaromonte. Il percorso si è articolato in una serie di incontri all’interno del carcere, in cui i detenuti sono stati preparati all’uscita esterna, al confronto con le Istituzioni, con il Terzo Settore e con le bellezze del territorio. L’ultima settimana, da lunedì a venerdì, è stata caratterizzata dal campo esterno. A bordo di un pullmino, i ragazzi insieme agli educatori hanno visitato alcuni luoghi simbolo, come l’area di Napoli Est con gli edifici confiscati alla camorra, la Fondazione Polis dove hanno incontrato Don Tonino Palmese, gli uffici del Consiglio regionale dove si sono interfacciati con il presidente, Gennaro Oliviero, e con il garante dei detenuti, Samuele Ciambriello. Poi hanno assistito al panorama della città di Napoli sia dall’interno di una barca confiscata al trasporto illegale di migranti, sia dalla cima del Vesuvio che hanno visitato giovedì mattina. “È il primo progetto di questo tipo a livello nazionale - spiega Antonio D’Amore, segreteria Libera Campania - e ha interessato coloro che sono vicini al termine della pena. La legge Cartabia prevede la “giustizia riparativa” che pone attenzione al riavvicinamento tra vittime e carnefici. Qui parliamo, però lo più, di autori di violenze di genere o di reati per regolamenti di conti, ma nessuno degli otto ragazzi è affiliato ad alcun clan. Oltre alle uscite, abbiamo fatto incontrare loro i familiari delle vittime di camorra, non per il perdono ma per far sì che attraverso il confronto tra i due tipi di dolore, possa scattare coesione sociale. I ragazzi durante queste uscite hanno rispettato le regole, si sono confrontati con gli altri anche attraverso meditazioni profonde. Abbiamo affrontato, per esempio, il tema della violenza di genere e abbiamo capito che, mancando capacità di comunicazione, questi uomini usano i “gesti violenti”, come azioni primordiali, perché spesso non hanno cultura, non conoscono le parole”. La scalata del Vesuvio - Poi il cammino, quello fino in cima al Vesuvio che rientra in un concetto di “cammino rigenerativo” che sta prendendo piede in Italia. Il percorso sul Vesuvio, infatti, fa parte anche di un circuito social della pagina “Ragazze in gamba”, fondata da Ilaria Canali e che racchiude tutte le esperienze di cammino salvifico in tutti i luoghi e le riserve naturali. “La scalata del Vesuvio - conclude D’Amore - è stata metaforica. Una sorta di ascesa verso una dimensione più profonda che lascia in basso errori e materialismo. La forza della natura, dei nostri territori “seduti sul fuoco” è la determinazione a cambiare. I ragazzi si sono offerti di aiutare l’Ente Parco a ripulire le pinete dagli alberi arsi dai roghi del 2017. Domani l’assegnazione del premio nazionale “Cosimo Rega” riservato ai detenuti garantedetenutilazio.it, 24 ottobre 2023 Una giuria sceglierà la migliore performance attoriale realizzata da una persona detenuta, nell’ambito di produzione cinematografica o audiovisiva o teatrale. “Rinnoverò al presidente Rocca, ma sarei felice se ne volessero fare interpreti il presidente Aurigemma e le consigliere e i consiglieri presenti, la proposta di un premio nazionale promosso dalla Regione Lazio per il teatro in carcere da intitolare al carissimo Cosimo Rega, formatosi come autore e attore teatrale nelle carceri di Rebibbia, che ha speso gli ultimi anni prima di detenzione poi in semilibertà a promuovere il teatro in carcere e la cultura della legalità nelle scuole di tutta Italia”. Così il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio, Stefano Anastasìa, durante la presentazione dell’ultima sua relazione annuale, lo scorso 7 luglio in sala Mechelli. E mercoledì 25 ottobre, alle ore 17, nello spazio “Lazio Terra di Cinema” dell’auditorium del Parco della Musica di Roma, sarà presentato proprio il premio proposto dal Garante Anastasìa, per attori e attrici detenuti, intitolato a Cosimo Rega, l’ex camorrista ergastolano, scomparso l’anno scorso all’età di 69 anni, divenuto attore dietro le sbarre. Il premio “Cosimo Rega” si propone di scegliere la migliore performance attoriale realizzata da una persona detenuta, nell’ambito di una produzione cinematografica o audiovisiva o teatrale realizzata nel proprio istituto penitenziario. Una giuria - composta da attori, registi, magistrati e altre figure esperte nel settore - assegnerà il premio dopo aver visionato i filmati inviati dagli istituti penitenziari, nei termini descritti nel bando a carattere nazionale. Al vincitore, scelto con giudizio insindacabile della giuria, verrà assegnato un premio in denaro e la possibilità di prendere parte ad una produzione cinematografica. Tale riconoscimento ha l’obiettivo di incentivare la realizzazione di opere teatrali e cinematografiche all’interno degli istituti penitenziari di tutto il territorio nazionale, ritenendo tali attività una delle più efficaci modalità di realizzazione dei percorsi di trattamento rieducativo, in ossequio ai principi costituzionali e alla previsione di cui all’art. 27 dell’Ordinamento penitenziario, ove si stabilisce che devono essere “favorite e organizzate attività culturali, sportive e ricreative e ogni altra attività volta alla realizzazione della personalità dei detenuti e degli internati, anche nel quadro del trattamento rieducativo.” Il premio, quindi, unisce all’obiettivo artistico - già sperimentato in opere di grande valore come il film “Cesare deve morire” dei fratelli Taviani, quello che ha avuto come protagonista Cosimo Rega, quello sociale e quello di rafforzamento della creazione di percorsi culturali inframurari, a forte vocazione rieducativa. Lo show di Sting in carcere diventa una clip per finanziare un progetto per detenuti e migranti Corriere del Mezzogiorno, 24 ottobre 2023 La star inglese si esibì con una chitarra realizzata dai detenuti con il legno delle barche dei migranti: la clip dello show donata per finanziare il progetto “Metamorfosi” della Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti. Sei mesi fa Sting ha suonato nel carcere di Secondigliano con una chitarra speciale, costruita con il legno delle barche usate dai migranti per arrivare in Italia. Ora quella clip, girata in occasione delle riprese del documentario “Posso entrare? An Ode to Naples”, per la regia di sua moglie Trudie Styler, isolata dal resto del progetto, sarà usata per finanziare il progetto “Metamorfosi”, idea della Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti in collaborazione con la Fondazione di Comunità San Gennaro. In un virtuoso ciclo di rigenerazione i barchini approdati al molo Favarolo di Lampedusa diventano non solo chitarre o violini, ma anche oggetti sacri, veicolo di riflessione sulla condizione umana e su tutte le persone costrette a fuggire da guerre, persecuzioni e fame, ma anche strumento di reintegrazione sociale e lavorativa per le persone detenute, coinvolte nell’opera artistica insieme a liutai e falegnami. Il progetto - Sono 100 le imbarcazioni provenienti da Lampedusa che hanno raggiunto la Casa di Reclusione Milano - Opera e il carcere di Secondigliano, a Napoli, dove il progetto ha preso forma facendo nascere un laboratorio di falegnameria/liuteria all’interno del carcere. A Sting è stata donata la prima chitarra realizzata nel carcere, quella con la quale si è esibito in una commovente “Fragil” con il Quartetto del Mare ripresa da Trudy Stiler e inserita nel suo docufilm. “Questi strumenti hanno un’anima”, ha detto allora l’artista. La clip dello show, isolata dal resto del documentario, è stata donata dal cantante inglese a titolo gratuito alla Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti e alla Fondazione di Comunità San Gennaro, che ne faranno mezzo di promozione speciale per far partire una raccolta fondi del progetto (per donare vai qui www.progettometamorfosi.org). La realizzazione del video ha trovato il sostegno della Fondazione Con il Sud e delle numerose maestranze che hanno donato la loro arte a titolo gratuito. A Milano e Napoli - Nelle due carceri, di Milano e Napoli sono attualmente impiegate e regolarmente assunte per questo progetto nove persone. I fondi raccolti grazie alla campagna andranno a sostegno del lavoro delle persone detenute coinvolte nel progetto e delle loro famiglie. Metamorfosi è un progetto della Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti realizzato con Intesa Sanpaolo e Fondazione Cariplo, Fondazione Peppino Vismara, Fondazione della Comunità di Monza e Brianza, in collaborazione con il Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria e l’Agenzia delle Accise, Dogane e Monopoli. Se non crediamo nel nostro Paese di Dacia Maraini Corriere della Sera, 24 ottobre 2023 Credo che noi italiani siamo bravissimi nell’arte dell’autodenigrazione. Sento spesso persone che commentano scoraggiate: tanto siamo gli ultimi, non c’è niente da fare. Per questo poi non vanno a votare. Ma se non hai un minimo di stima per te stesso, come pensi che possano averne gli altri? Si suole dire che i ragazzi non hanno voglia di studiare, che sono ignoranti e tendenzialmente bulli. Ma si tratta di una informazione scorretta. Esistono gli ignoranti e i bulli, ma è sbagliato identificare la scuola con costoro. Io vado spesso nelle scuole e posso dire che incontro tanti ragazzi e ragazze che hanno voglia di studiare, di approfondire. Certo questo succede soprattutto dove gli insegnanti stimolano la loro curiosità rendendoli protagonisti dei processi di conoscenza. E anche se si tratta di minoranze, il loro numero è notevole. Mi chiedo perché si preferiscano le informazioni catastrofiche invece di andare sul campo a osservare e confrontarsi. La prova di quanto dico sta in una statistica condotta quest’anno dal Cepell (Centro per il libro e la lettura), dal Premio Benedetto Croce, e dall’Università di Urbino. Le città in cui sono state condotte le indagini sugli studenti sono Avezzano, Lanciano, Sulmona, Vasto, Montesilvano, Casoli, Castel di Sangro, Popoli, Atri e Roseto. Il risultato: il 47% degli studenti intervistati afferma di dedicare ogni giorno un tempo alla lettura. 48% legge più di 4 libri l’anno. Il genere preferito per il 53% è la narrativa, e il 63,9% dichiara di non scegliere i libri seguendo la pubblicità ma il passaparola soprattutto in rete. Di questi il 60% si rivolge per l’acquisto alle librerie, mentre il 34,9% li compra on line. L’89% considera la libreria un luogo di incontro. Il 91,2 % pensa che la lettura possa essere di aiuto per un futuro professionale. Solo il 15% pensa che leggere sia fonte di piacere. La maggioranza, il 58,8 % sostiene che si tratti di una pratica che avvia alla conoscenza e alla professionalità. A meno che non mentano tutti sfacciatamente, questa indagine smentisce certi racconti sull’inadeguatezza della scuola pubblica italiana. Se fosse così fra l’altro non troveremmo all’estero tanti giovani italiani appena emigrati che si inseriscono velocemente in posti di prestigio nei campi della scienza, della ricerca, della tecnica. Credo che noi italiani siamo bravissimi nell’arte dell’autodenigrazione. Sento spesso persone che commentano scoraggiate: tanto siamo gli ultimi, siamo incapaci, la scuola fa schifo, la politica fa schifo, non c’è niente da fare. Per questo poi non vanno a votare. Ma, cavolo, se non hai un minimo di stima per te stesso, come pensi che possano averne gli altri! E se non si crede nel futuro del proprio Paese , come possiamo aiutare a migliorarlo? A Milano e provincia quasi 1.700 bambini e ragazzi senza fissa dimora di Giovanna Maria Fagnani Corriere della Sera, 24 ottobre 2023 Il rapporto “Fare spazio alla crescita”, diffuso da Save the Children. Svantaggio educativo: maglia nera al Municipio 7. In Lombardia barriere all’inclusione per 1,8 milioni di giovani Quasi 1.700 bimbi senza fissa dimora La mappa del disagio socio-educativo. A Milano e provincia, millesettecento bambini e ragazzi, da 0 a 19 anni, non hanno un tetto sopra la testa. Vivono, insieme alle loro famiglie, in condizioni di grandissima precarietà abitativa. Si arrangiano, quando trovano, adattandosi ad abitare temporaneamente in alloggi sovraffollati, ospiti di conoscenti. Oppure dormono in auto, in camper, nei casi limite in baracche e alloggi di fortuna. Tra gli adolescenti, c’è chi finisce in strada, nelle fila della già folta comunità degli “invisibili”, i clochard. Ma l’abitare non è l’unico problema. Anche nascere e crescere in un quartiere di Milano invece che in un altro può aprire scenari diversi e grandi disuguaglianze nel futuro di un bambino. Non tutte le zone offrono gli stessi spazi, stimoli e opportunità per crescere. Lo racconta il rapporto “Fare spazio alla crescita”, diffuso da Save the Children in occasione del lancio della nuova campagna “Qui vivo”, accompagnata anche da una petizione (su savethechildren.it/quivivo). Il report analizza 14 città metropolitane, dove maggiore è la presenza di bambini e adolescenti. In questi contesti l’organizzazione vuole realizzare un programma a lungo termine di innovazione sociale delle periferie. A Milano, la classifica dei quartieri misurati in base all’indice di “svantaggio educativo” vede in testa il Municipio 7, l’area di Forze Armate, San Siro e Baggio: qui il 36,2% dei residenti ha solo la licenza media e il 31 per cento delle persone tra i 15 e i 65 anni è disoccupata. Ma è proprio in questa zona che vive il 17,6 per cento dei ragazzi milanesi tra zero e 19 anni. Seguono, per indice di svantaggio, Porta Ticinese, Vigentino e Gratosoglio e Porta Volta, Fiera, Gallaratese e Quarto Oggiaro. Anche nella zona fra Porta Nuova, Bovisa, Niguarda e Fulvio Testi è alta la percentuale di chi non va oltre la terza media (37 per cento). Il rapporto valuta anche l’offerta scolastica. Mentre a livello nazionale il 42% delle scuole primarie possiede una mensa, a Milano sono il 40,3%. A Firenze si arriva all’86,2 per cento. La nostra città è però virtuosa nell’accesso al tempo pieno alla scuola primaria: l’87,8 per cento delle classi lo offre. Un dato negativo è invece l’accessibilità per i minori disabili: solo il 36,4 per cento degli edifici scolastici ha rampe di accesso. Nuove opportunità potrebbero arrivare poi dal riutilizzo degli spazi confiscati alla mafia: nel Milanese sono 889, solo 19 destinati ai piccoli. “Le periferie oggi sono le vere città dei bambini perché è lì che vive la maggior parte di loro, ma spesso non offrono spazi, stimoli e opportunità, alimentando invece isolamento e marginalità. Nel nostro lavoro in questi contesti, ci troviamo spesso a dialogare con ragazze e ragazzi pieni di risorse e talento, che si sentono traditi dagli adulti - sottolinea Daniela Fatarella, direttrice generale di Save the Children -. Con la campagna e il programma di innovazione sociale puntiamo a valorizzare in positivo la partecipazione e il protagonismo di bambine, bambini e adolescenti, loro sono la migliore risorsa per la rigenerazione e il futuro dei luoghi che abitano”. Migranti. I Cpr formato “Panopticon”: ecco il piano segreto del governo di Giovanni Tizian e Nello Trocchia Il Domani, 24 ottobre 2023 I documenti ottenuti da Domani rivelano i progetti per realizzare strutture circolari a moduli. Come i penitenziari. Ecco le località selezionate da Piantedosi e Crosetto: da Ferrara a Castel Volturno, da Bolzano ad Aulla in Toscana. Nel carcere di Santo Stefano è nato il manifesto di Ventotene, scritto da Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi: il documento ispiratore della nuova Europa. Il governo ha pensato bene di ripartire proprio da lì. Non da quel manifesto, scritto nel 1941, piuttosto da quel carcere, costruito come un panopticon, simbolo di controllo e oppressione dove il guardiano dal corpo centrale aveva la possibilità di monitorare ogni singolo detenuto. I primi progetti di fattibilità dei nove Cpr, infatti, voluti per decreto dal governo Meloni ricordano il panopticon , l’occhio che tutto vede: l’incarnazione di un potere penetrante, diffuso, strumento di sorveglianza preso a modello da Michel Focault nel suo celebre saggio “Sorvegliare e punire”. Le origini del panopticon risalgono al 1791, progettato dal filosofo Jeremy Bentham con l’idea ambiziosa di creare delle carceri ideali. L’estrema destra al governo ha scelto questo modello e lo ha applicato a strutture che non dovrebbero essere carceri, ma che di fatto lo saranno. Se è noto il numero, nove da progettare interamente più due da ristrutturare, non si conoscevano finora i luoghi prescelti né i costi esatti e neppure i dettagli dei progetti di fattibilità presentati che Domani è in grado di rivelare. Il decreto ispiratore - Il decreto legge 124 del 19 settembre 2023 prevede espressamente (all’articolo 21 comma 3) che la costruzione delle nuove strutture e la ristrutturazione delle due già esistenti ricadrà in capo al ministero della Difesa “mediante le proprie competenti articolazioni del Genio militare, l’impiego delle Forze armate e avvalendosi di Difesa servizi Spa”. Il ministero guidato da Guido Crosetto è incaricato “della progettazione e della realizzazione delle strutture individuate dal piano dislocate sul territorio. Tali opere sono dichiarate di diritto quali opere destinate alla difesa e alla sicurezza nazionale”. Nel provvedimento è stata ristabilita anche la possibilità di trattenimento del migrante fino a 180 giorni. I cpr dovranno essere costruiti, emerge dalle indicazioni, in zone scarsamente popolate e facilmente sorvegliabili per evitare fughe. Con quali costi? Un primo stanziamento di 20 milioni per il 2023 e, inoltre, “è autorizzata la spesa di 1.000.000 di euro annui a decorrere dall’anno 2024 quale contributo al funzionamento delle strutture”, si legge. In realtà, come vedremo, l’esborso sarà maggiore e non di poco. Panopticon - Gli edifici che comporranno i Cpr saranno disposti a cerchio. Questa è almeno l’idea messa nera su bianco nei primi progetti presentati cui ha partecipato anche la Direzione dei Lavori e del Demanio oltreché i vigili del Fuoco, che dipendono dal ministero dell’Interno. Sarà costituito da un nucleo centrale, composto da moduli abitativi ognuno da 2,4 metri per 6 di altezza, assemblati tra loro. Alle spalle di uno dei lati del panopticon saranno realizzati gli altri locali, sempre con prefabbricati: lo spazio per la polizia di stato, quello per il corpo di guardia, quello per i vigili del fuoco, un altro ancora per il personale dell’azienda che otterrà la gestione del centro. Ma torniamo agli alloggi per i migranti detenuti. La proposta è di rinforzare ogni modulo con delle blindature così da renderli più resistenti a eventuali rivolte e tentativi di vandalizzarli. In effetti nel progetto è previsto che saranno “blindati” come le “celle di sicurezza”. Non è l’unico riferimento a elementi che ricordano le carceri: “I serramenti sono del tipo di sicurezza penitenziario”. Domani ha contattato alcuni addetti ai lavori che conoscono il mercato delle strutture modulari acquistate dal pubblico. Ogni modulo può costare fino a 10mila euro, il costo è doppio se è richiesta la blindatura. I Cpr previsti dovranno ospitare dalle 120 alle 300 persone: i moduli necessari sono variabili, ma non meno di 100. Solo gli alloggi per i migranti in attesa di respingimento, quindi, avranno un costo di 2 milioni di euro. A questo si aggiungono le spese per il resto della struttura con l’area mensa, forze dell’ordine, gestori e tutto il necessario per farlo funzionare. Secondo alcune fonti qualificate del Tesoro il budget messo a disposizione dal ministero guidato da Giancarlo Giorgetti è di 30-40 milioni di euro. Il problema è però che la produzione di questi moduli richiederà tempo: la costruzione di 100 unità richiede non meno di 6 mesi. Impossibile perciò rispettare la tempistica di un anno pubblicizzata dal governo. Per avere tutti i Cpr previsti dal piano occorrerà aspettare almeno due anni, e non è detto che serviranno ancora. Ai costi di realizzazione (i lavori verranno fatti dal Genio militare, non da aziende esterne) si aggiungeranno i costi di gestione, affidata tramite gare a cooperativa o ditte: i costi saranno di svariati milioni all’anno per ogni Cpr. Poi ci sono i servizi di mensa e lavanderia, di solito subappaltati ad altre società. Altri milioni che dal pubblico andranno ai privati. Da Bolzano a Catanzaro - Esiste già un elenco ufficiale di luoghi selezionati e trasmesso al ministero dell’Interno, che aveva attivato l’Agenzia del Demanio e altri enti locali per ricevere indicazioni sulle aree disponibili sulle quali realizzare i prossimi Cpr. La lista, ottenuta da Domani, è provvisoria: ora il ministero dovrà verificare se nelle località indicate si potranno effettivamente realizzare opere o se esistono dei vincoli oppure sono troppo a ridosso dei centri abitati. Nella mappa si va dal nord a sud. Oltre alle due da ristrutturare a Torino e Milano, le nove strutture da realizzare saranno sparse in varie regioni. A Bolzano potrebbe nascere nella periferia sud, vicino alla frazione San Giacomo. Lì insiste peraltro il piccolo aeroporto e un’area produttiva, ma anche alcune zone residenziali. In Liguria sono due le località proposte e inserite nella lista: a Diano Castello, provincia di Imperia, l’area è quella dell’ex caserma Camandone, mentre ad Albenga, nel savonese, l’ex caserma Piave. Entrambi non distanti da palazzi e vie residenziali. Ma in quei comuni è già in atto una silenziosa protesta che potrebbe mettere in difficoltà la Lega locale, che non vorrebbe essere identificato come il partito che ha permesso di portare il centro per migranti sul territorio. In Toscana un Cpr potrebbe nascere alle porte di Aulla, provincia di Massa Carrara, in una zona compresa tra alcune frazioni a sud del paese confinante con la Liguria. Nella vicina Emilia Romagna spunta Ferrara, nell’area dell’ex aeroporto militare. Non sarà facile spiegarlo all’amministrazione dei leghisti duri e puri che amministrano la città e che dell’antimmigrazione hanno fatto la loro bandiera identitaria. Inoltre c’è da superare il no ai Cpr pronunciato dal presidente di regione del Pd, Stefano Bonaccini. Nella Marche, regione amministrata dalla destra con Fratelli d’Italia, gli esperti hanno indicato al Viminale Falconara Marittima, in una via a ridosso dell’uscita autostradale appena fuori la cittadina. Nell’elenco ci sono, infine, Catanzaro, Castelvolturno e Brindisi. Nel capoluogo calabrese verrà sondata un’area appena fuori città. A Castelvolturno, in Campania, si pensa a un’area di campagna stretta tra Grazianise e Villa Literno. Un’area già densa di migranti spesso vittime di sfruttamento sessuale e dei caporali. Infine un altro centro dovrebbe sorgere in Puglia, a Brindisi, nella zona dell’esistente Cara (il centro per richiedenti asilo). Tuttavia, una volta verificare le condizioni dell’area individuate i problemi non sono finiti. Come reagiranno i territori coinvolti? Spesso amministrati da partiti che sono oggi al governo. Un’incognita che rischia di innescare un cortocircuito nella propaganda dell’estrema destra. Migranti. Il governo impugna in Cassazione le ordinanze dei giudici di Catania di Giulia Merlo Il Domani, 24 ottobre 2023 L’avvocatura dello Stato ha chiesto che il ricorso venga deciso dalle Sezioni Unite di Cassazione e motivato scrivendo che il decreto del governo che prevede la cauzione per i migranti sia applicativo della direttiva europea e non contrario, come invece sostenuto dai giudici siciliani. Dopo gli attacchi politici e lo scontro tra il centrodestra e la magistratura, il governo ha proceduto anche sul piano formale ad opporsi alla decisione del tribunale di Catania sulla questione dei migranti e dei Cpr. L’avvocatura generale dello Stato, infatti, ha depositato oggi i ricorsi per Cassazione contro i provvedimenti del tribunale di Catania, con i quali i giudici avevano negato la convalida del trattenimento dei migranti nei cpr, disapplicando il decreto che prevedeva la cauzione di 5.000 euro. Sul piano processuale, l’avvocatura ha anche sottoposto ai giudici della Suprema corte di decidere a Sezioni Unite, ovvero che la decisione venga presa in carico dalla sezione più autorevole e composta da otto consiglieri, presieduta dal Primo Presidente della Corte di Cassazione, Margherita Cassano. Le decisioni prese a Sezioni unite, infatti, hanno un peso maggiore in ambito giurisprudenziale e fissano un precedente particolarmente rilevante di cui poi le altre sezioni e i tribunali di merito terranno conto. La richiesta è stata motivata con “la novità e il rilievo della materia” e dunque la necessità di un orientamento autorevole da parte della Cassazione. Le motivazioni - Nel merito, il ricorso dell’avvocatura dello Stato argomenta le ragioni per cui la decisione del tribunale di Catania disapplichi erroneamente il decreto del governo. Secondo l’ordinanza catanese, infatti, la disapplicazione nasceva dal fatto che il decreto violasse la direttiva europea 33 del 2013. L’avvocatura dello Stato, invece, sostiene che “la direttiva prevede procedure specifiche alla frontiera o in zone di transito, per decidere sulla ammissibilità della domanda di protezione internazionale, se il richiedente non ha documenti e proviene da un Paese sicuro” e “alternativamente il trattenimento o il pagamento di una cauzione”. Dunque, secondo l’avvocatura, non esiste ragione per una disapplicazione del decreto che prevede appunto la cauzione. Inoltre, la direttiva prevede “la possibilità che il richiedente sia spostato in zona differente da quella di ingresso, se gli arrivi coinvolgono una quantità significativa di migranti che presentano la richiesta” e “in caso di provenienza del migrante da un Paese qualificato “sicuro” deve essere il richiedente a dimostrare che, nella specifica situazione, il Paese invece non sia sicuro, senza improprie presunzioni da parte del giudice”. Sostanzialmente, quindi, la linea giuridica adottata dal governo per difendere il suo decreto è quello di considerarlo non in opposizione, ma applicativo della direttiva europea. Migranti. Mauro Palma: “I Cpr non funzionano. Carceri, non vedo rischi di radicalizzazione” di Giovanni Tomasin Il Piccolo, 24 ottobre 2023 “I Cpr non funzionano”. Queste strutture “dovrebbero essere centri per il rimpatrio, ma in realtà quando anche in altri periodi, non è questa la prima volta, si sono prolungati i tempi di permanenza al loro interno la percentuale di coloro che poi vengono effettivamente rimpatriati non varia molto, rimane attorno al 50%. C’è un complessivo non funzionamento dello strumento”. Lo ha affermato il presidente del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, Mauro Palma, in visita oggi, lunedì 23 ottobre, a Trieste. I Cpr, ha spiegato, “devono essere ristretti a quelle situazioni in cui si ha realmente una prospettiva di rimpatriare”. Inoltre “ci deve essere una tutela giurisdizionale, che attualmente non c’è, e ci deve essere la possibilità di organizzare anche in altro modo il tempo all’interno, perché un tempo vuoto come è oggi, trascorso da persone che sono lì, e essere lì significa e aver perso delle speranze, può essere un tempo esplosivo”. Il rischio di radicalizzazione islamica è un “tema che deve far mantenere sempre gli occhi bene aperti, perché tutti i luoghi chiusi, di collettività chiuse, possono avere rischi di esasperazione che poi prendono forme di radicalizzazione. Ma non vedo questo rischio attuale nel carcere italiano”, afferma ancora Palma, in merito al rischio di radicalizzazione islamica nelle carceri. “Abbiamo superato varie crisi” a riguardo, ha aggiunto: “C’è stata una capacità complessiva del sistema di non fare esplodere situazioni di questo genere. Su questo punto” il sistema “funziona con molta abnegazione delle persone che operano”. Parlando poi della situazione dei penitenziari in Italia, Palma ha osservato che al loro interno “si delinea una sofferenza di tipo generale: sofferenza nei numeri, soprattutto del ritmo di crescita, e sofferenza nel livello di tensione, che poi riguarda anche chi in carcere opera”. I penitenziari sono “pieni di persone che sono lì per sentenze molto brevi per reati, che hanno anche un impatto nella collettività, ma sono reati minori e dovrebbero trovare altre forme di regolazione”. Queste strutture non possono “diventare l’elemento che è chiamato a risolvere segregando tutto quello che non si è saputo risolvere all’esterno”, come “i disturbi di tipo psichico, la presenza dei senza dimora, la tossicodipendenza”, ha concluso. Medio Oriente. Per raggiungere la pace con Israele serve un “Mandela palestinese” di Enrico Franceschini La Repubblica, 24 ottobre 2023 Ecco chi ha fallito e chi potrebbe aspirare a diventarlo. Se Hamas verrà effettivamente sconfitta, il passaggio successivo sarà trovare una leadership autorevole che guidi la nuova fase. Ma il compito è arduo. Nel migliore dei mondi possibili, Israele riuscirà a smantellare Hamas da Gaza minimizzando le perdite fra i civili e gradualmente a restituire la striscia all’Autorità Nazionale Palestinese (Anp), il “governo” creato dagli accordi di pace del 1993, attualmente insediato soltanto in Cisgiordania, che fino al 2006 controllava anche Gaza. Dopodiché lo Stato ebraico e l’Anp rilanceranno il negoziato per creare uno stato palestinese e mettere fine al loro conflitto. A parte le difficoltà militari, questo piano, di cui parlano le indiscrezioni a Gerusalemme e Washington, ha tuttavia un problema politico: Mahmud Abbas, più noto come Abu Mazen, presidente dell’Anp dalla morte nel 2004 del suo predecessore Yasser Arafat, ha 88 anni ed è universalmente giudicato un leader in declino fisico e mentale, oltre che macchiato da sospetti di corruzione. Tutti vorrebbero farlo fuori, perlomeno politicamente, da Hamas a Fatah, il suo stesso partito: se non ci hanno ancora provato seriamente è perché non si sa chi possa sostituirlo. Idealmente ci vorrebbe un “Mandela palestinese”: un capo della resistenza capace di trascinare il suo popolo verso il traguardo della pace con il nemico, come fece Nelson Mandela in Sud Africa. Ma chi potrebbe essere questo leader? Ecco una scheda sui candidati al ruolo. Il Mandela fallito - L’analisi dei possibili successori di Abu Mazen deve partire dal suo predecessore, perché il suo caso è un esempio da tenere ben presente: ovvero partire da Arafat, morto di malattia a 75 anni in un ospedale di Parigi, quasi due decenni or sono. Lo storico capo dell’Olp e poi presidente dell’Anp aveva le carte in regola per diventare il Mandela di Palestina: a lungo designato come terrorista da Israele, leader militare del suo popolo, come sottolineava indossando sotto la kefiah un’uniforme da generale (pur avendo un aspetto decisamente poco marziale), nel 1993 aveva stretto la mano con entusiasmo al premier israeliano Yitzhak Rabin sul prato della Casa Bianca e poi, dopo l’assassinio di Rabin per mano di un estremista israeliano, aveva continuato a negoziare con altri premier dello Stato ebraico, da Shimon Peres a Benjamin Netanyahu. Ma nel 2000 Arafat rifiuta la migliore offerta di pace che Israele abbia mai fatto ai palestinesi, quella di uno stato in Cisgiordania e a Gaza (collegate da un corridoio speciale), con Gerusalemme est come capitale, impuntandosi sulla richiesta del “diritto al ritorno” per i profughi palestinesi nello Stato ebraico, da cui erano fuggiti o erano stati cacciati nella guerra del 1948. “Accetti questa offerta ora o rimpiangerà per sempre di averla respinta” dice ad Arafat l’ambasciatore saudita a Washington all’ultimo giorno di colloqui. Arafat la respinge lo stesso. Il giorno seguente il leader palestinese va ad accomiatarsi da Bill Clinton, grande mediatore della trattativa, a cui resta poco più di un mese alla Casa Bianca prima di lasciarla a George W. Bush. “Lei è stato un grande uomo”, dice Arafat al presidente americano, come Clinton racconta nelle sue memorie. “No”, gli risponde con amarezza il presidente, “io sono un fallito e lei è la causa del mio fallimento”. Qualche anno dopo Dennis Ross, il diplomatico americano che aveva pazientemente tessuto per anni i fili del negoziato, dà questo giudizio di Arafat: “Un leader che non ha saputo compiere fino in fondo la transizione da capo guerrigliero a statista”. In altre parole, che non è riuscito a diventare un Mandela palestinese. Il Mandela mancato - Per un certo periodo di tempo è sembrato che la parte di Mandela palestinese sarebbe stata interpretata da Mahmud Abbas, detto Abu Mazen, l’attuale presidente dell’Anp. Che ha un difetto, rispetto ad Arafat: non è stato un capo militare, un guerrigliero con il kalashnikov in pugno. Laureato in legge al Cairo, con un dottorato conseguito più tardi all’università Patrick Lumumba di Mosca (culla di leader terzomondisti in era sovietica), Abu Mazen è sempre appartenuto all’ala politico-diplomatica del fronte palestinese. Ma specie all’inizio sembrava lo stesso un duro. Pur stretto collaboratore di Arafat, era uno dei dirigenti palestinesi più moderati, tra i primi a capire che si poteva arrivare a uno stato soltanto trattando con Israele. Negli ultimi anni di potere di Arafat, Abu Mazen lo critica aspramente, accusandolo di non fare abbastanza per raggiungere la pace. E, dopo la morte di Arafat, eletto suo successore, si batte per accelerare la trattativa, tenendo fede agli impegni di pace del ‘93, in particolare su un punto: la collaborazione dei servizi di sicurezza palestinesi con l’antiterrorismo dello Stato ebraico nel dare la caccia ai terroristi palestinesi, visti da entrambi come un ostacolo al negoziato. Così facendo però Abu Mazen si fa la reputazione di complice di Israele, aggravata dal fatto che, nel frattempo, Israele continua ad aumentare gli insediamenti ebraici in Cisgiordania, anch’essi un ostacolo alla pace, e la trattativa non progredisce. A questo si aggiungono le accuse di corruzione, nei suoi confronti e in quelli dei suoi figli, spregiudicati affaristi. Tutto ciò contribuisce alla vittoria di Hamas alle elezioni legislative palestinese dei 2006, perché il gruppo fondamentalista, a differenza dell’Anp, vive tra i poveri di Gaza e fa opera di beneficenza e di assistenza a loro favore. In virtù del successo alle urne, Hamas prende il potere a Gaza, detronizzando l’Anp nel corso di una lotta armata che causa 800 morti e innumerevoli feriti: molte vittime vengono torturate e uccise dai fondamentalisti islamici per il sospetto di essere al servizio di Israele. Da allora, Abu Mazen rinvia continuamente nuove elezioni, con la scusa che la situazione di tensione con Israele non consente di svolgerle: il vero motivo è che teme di perderle in modo ancora più netto che nel 2006. Invecchiando, il presidente dell’Anp dà segni di senilità. Come se non bastasse, ripete con preoccupante frequenza affermazioni negazioniste sull’Olocausto, che sembrano qualcosa di più di una gaffe, visto che teorie del genere apparivano già nella sua tesi di dottorato all’università di Mosca. Screditato e in declino, nemmeno lui ce l’ha fatta a diventare un Mandela palestinese. “Si occuperà Allah di togliere il potere ad Abu Mazen”, dicono quelli di Hamas, alludendo al fatto che, quasi novantenne, non potrà mantenere l’incarico ancora a lungo. Il Mandela potenziale - Nelson Mandela rimase in carcere per più di trent’anni. Marwan Barghouti è in una prigione israeliana da ventun anni e, con una condanna all’ergastolo per terrorismo, dovrebbe restarci per il resto della sua vita. Le analogie con il primo presidente del Sud Africa post-apartheid non finiscono qui. Mandela è stato un rivoluzionario, filocomunista e capo clandestino della lotta armata dei neri sudafricani, Barghouti è stato un leader della Prima e della Seconda Intifada palestinese, oltre che capo delle Brigate Martiri al-Aqsa, organizzazione accusata da Israele di innumerevoli attentati terroristici. Ma prima di questo ruolo, fresco di laurea in relazioni internazionali alla Birzeit, l’università palestinese di Cisgiordania, era un giovane membro del parlamento palestinese e fautore del processo di pace scaturito dagli accordi del ‘93 fra Arafat e il premier israeliano Rabin. Soltanto nel 2000, dopo il fallimento del summit di Camp David mediato da Clinton tra Arafat e il premier israeliano Barak, Barghouti perde fiducia nella trattativa con lo Stato ebraico e comincia a radicalizzarsi. Piace ai giovani dell’Intifada in Cisgiordania, piace anche ai dirigenti di Hamas: al punto che, durante i negoziati per uno scambio di prigionieri fra Hamas e Israele, dopo il rapimento di un soldato israeliano a Gaza nel 2006, proprio Hamas insiste affinché Barghouti venga inserito nella lista di più di mille detenuti palestinesi che Israele finirà per liberare in cambio del rilascio del suo soldato. Ma Israele rifiuta: non vuole lasciare uscire Barghouti. Perché ha le mani “macchiate di sangue”, è la risposta ufficiale: ma ce le hanno anche altri detenuti che vengono rilasciati. Oppure non lo rilascia perché, secondo un’altra teoria, Israele vede in Barghouti un leader potenziale in grado di unire Hamas e Anp, palestinesi di Gaza e palestinesi di Cisgiordania, rilanciando il negoziato e arrivando al sospirato obiettivo di uno stato palestinese. Finchè esiste il dualismo tra Hamas e Anp, i “falchi” israeliani hanno una scusa perfetta per non riprendere il negoziato di pace. Di certo c’è che Marwan, seppure dietro le sbarre, viene a lungo indicato come il possibile successore di Abu Mazen. A differenza del quale, non è macchiato né di sospetti di corruzione né dall’ombra di collaborazione con i servizi segreti israeliani nella caccia ai terroristi palestinesi: anzi, proprio lui ha accusato i servizi di sicurezza dell’Anp di gravi violazioni dei diritti umani nella repressione del terrore. Dal carcere non ha lanciato segnali di disponibilità a ricredersi sulla lotta armata, ma non è escluso che lo farebbe se venisse rilasciato in un nuovo scambio fra ostaggi e detenuti. In vari sondaggi, il 60 per cento dei palestinesi interpellati lo vorrebbero come presidente dell’Anp, preferendolo sia all’attuale leader Abu Mazen, sia ai leader di Hamas. In passato i media occidentali lo hanno soprannominato più volte “il Mandela palestinese”. A 64 anni e ancora in prigione, avrà mai l’occasione di dimostrare se è questo il suo destino? Il Mandela intellettuale - C’è un altro Barghouti che è libero, ha un ruolo di primo piano tra i palestinesi e viene spesso intervistato dai media occidentali come un loro rappresentante, più articolato e credibile dell’anziano presidente Abu Mazen: si chiama Mustafà Barghouti, ha 69 anni, di professione è medico e attivista politico, come segretario generale dell’Iniziativa Nazionale Palestinese, il partito di cui è a capo. È stato ministro dell’Informazione nel governo dell’Anp, è un deputato del parlamento palestinese e un membro del Comitato centrale dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, il vecchio organismo che aveva al suo vertice Arafat. È un lontano cugino del Marwan Barghouti in carcere per terrorismo, ma la sua biografia è ben diversa. Più che nel nazionalismo palestinese, crede nel socialismo come mezzo di lotta all’oppressione in tutte le sue forme: frutto dei sette anni trascorsi a Mosca a studiare medicina al tempo dell’Urss. Ha lavorato come cardiologo e internista in un ospedale di Gerusalemme, è stato arrestato varie volte e brevemente detenuto, ma crede nella “resistenza non violenta a Israele” pur avendo sostenuto la seconda Intifada come inizio di una guerra d’indipendenza palestinese. Ha criticato Hamas per l’attacco del 7 ottobre scorso, ma ricordando quanti bambini, donne e civili palestinesi siano morti in tanti anni di raid israeliani. Dice che la soluzione del conflitto sta in uno stato palestinese in Cisgiordania e a Gaza, o in uno stato unitario binazionale ebraico-arabo. Per diventare un Mandela palestinese, però, gli manca la militanza in gruppi radicali: sembra troppo intellettuale per la parte. Il Mandela “israeliano” - Il candidato favorito degli Stati Uniti e di Israele per la successione ad Abu Mazen è stato per molto tempo Mohammed Dahlan, ex-capo dei servizi di sicurezza palestinesi a Gaza. Sarebbe ancora il favorito, se non fosse che per molti arabi, più che un Mandela palestinese, Dahlan sarebbe un “Mandela israeliano”: lo considerano un agente dello Stato ebraico, come minimo il dirigente palestinese che ha avuto i migliori rapporti con Israele e con gli Usa. Nato e cresciuto nella striscia da una famiglia di profughi palestinesi fuggiti a Gaza dopo la guerra del 1948, Dahlan è stato arrestato e detenuto più volte da Israele negli anni Ottanta, quando era un giovane attivista di Fatah: ha passato abbastanza tempo in prigione da imparare l’ebraico, che parla perfettamente (anche questo non depone a suo favore tra i radicali palestinesi). Negli anni Novanta, quando parte il processo di pace, Arafat lo nomina capo delle Forze di Sicurezza Preventive a Gaza, una delle tante polizie create dal leader palestinese nel suo stile di governo all’insegna del “divide et impera”. A Gaza, Dahlan forma un corpo di sicurezza di 20 mila uomini, collabora (come richiesto dagli accordi di pace) con lo Shin Beth, l’antiterrorismo israeliano, e con la Cia, viene accusato di torturare sospetti terroristi palestinesi e di arricchimento personale: un vizio, quest’ultimo, che peraltro accomuna tutta la leadership dell’Anp. Personalmente, ricordo che indossava abiti firmati e aveva una predilezione per le Marlboro rosse: ne accendeva una dietro l’altra con un costoso accendino. Inizialmente appoggia Arafat, poi comincia a criticarlo. Il nuovo presidente palestinese Abu Mazen lo sostiene per un po’, quindi lo accusa di avere avvelenato Arafat, sulla cui morte rimane un alone di mistero. Dopo la vittoria di Hamas nelle elezioni del 2006, Dahlan è protagonista di una lotta senza quartiere a Gaza contro il gruppo fondamentalista, che lo accusa di avere tentato di assassinare il proprio leader Ismail Haniyeh e demolisce per ritorsione la sua villa sul mare nella striscia. Dahlan si salva fuggendo all’estero. Sua moglie è saudita, lui ha acquisito cittadinanza serba e montenegrina, attualmente vive ad Abu Dhabi, negli Emirati Arabi Uniti, dove ha stretti legami politici e d’affari con la famiglia reale al Nahyan, così come con il presidente egiziano al Sisi. Il suo pari grado e acerrimo rivale degli anni di Arafat, Jibril Rajoub, che capeggiava le forze di sicurezza palestinesi in Cisgiordania, lo definisce senza mezzi termini “un agente della Cia”. Tutti elementi che hanno contribuito a screditarlo fra i palestinesi. Ciononostante, quando si discute la lista dei potenziali successori di Abu Mazen, circola anche il nome di Dahlan: di sicuro sarebbe il candidato preferito di Washington, Gerusalemme, Riad, Cairo e Abu Dhabi. Una Golda Meir araba - Non ci sono molte donne nella leadership palestinese. Una è stata eliminata in questi giorni a Gaza dalle forze israeliane: Jamila al-Shanti, prima donna eletta nell’ufficio politico dell’organizzazione fondamentalista palestinese e fondatrice del movimento femminile del gruppo. Ma pur essendo la vedova del co-fondatore di Hamas, Abdel Aziz al Rantissi (ucciso nel 2004, anche lui durante un raid aereo israeliano), Jamila non aveva la minima chance di prenderne il posto, tantomeno di diventare leader di tutti i palestinesi di Gaza e Cisgiordania. L’unica donna che ha veramente occupato un ruolo di primo piano nella galassia politica palestinese è piuttosto Hanan Ashrawi, portavoce della delegazione palestinese alla conferenza di pace di Madrid del 1991 (che fu il prologo degli accordi del ‘93), deputata del parlamento palestinese, per un certo periodo ministra dell’Istruzione, membro del Comitato Centrale dell’Olp, a lungo uno dei due o tre più stretti collaboratori di Arafat e, insieme a Saeb Erekat, scomparso nel 2020, uno dei principali negoziatori palestinesi nella trattativa con Israele. Laureata in letteratura all’università americana di Beirut, accademica recipiente di undici dottorati onorari da università di mezzo mondo, premiata con il Gandhi International Award for Peace e l’Olof Palme Prize per il suo impegno per i diritti umani, Ashrawi è da più di trent’anni una figura di primo piano della dirigenza palestinese e uno fra i più qualificati partner di Israele per la pace. Ma come il dottor Barghouti è una intellettuale, non una ex-combattente, non è mai stata in prigione e, in un ambiente fortemente maschilista, non è mai stata presa seriamente in considerazione come capo assoluto del movimento: tantomeno lo sarebbe oggi, a 77 anni. Peccato, perché è intelligente, appassionata ed esperta: non avrebbe potuto essere una Mandela palestinese, ma sarebbe potuta diventare la Golda Meir araba. Una Somalia palestinese - Naturalmente il Mandela palestinese potrebbe non essere nessuno dei suddetti: anche altri aspirano alla parte. E se non saltasse mai fuori? È possibile che Israele elimini Hamas, se non del tutto, almeno a livello dei suoi capi, sia con l’invasione di Gaza, sia con esecuzioni mirate all’estero, come fece dopo la strage di atleti israeliani alle Olimpiadi di Monaco: Ismail Haniyeh e Khaled Meshal, due dei suoi leader, saranno probabilmente nel mirino (Meshal è già sopravvissuto a un tentativo di avvelenamento, nel 1997, da parte di due agenti israeliani ad Amman, in Giordania, dove viveva all’epoca). Quanto ad Abu Mazen, prima o poi scomparirà dalla scena, politicamente o fisicamente per ragioni di età, e si vedrà chi siederà sulla poltrona di presidente dell’Anp. Ma la carneficina compiuta da Hamas nell’incursione lanciata da Gaza il 7 ottobre e il declino di consensi e del governo palestinese in Cisgiordania disegnano anche un altro scenario: che i palestinesi rimangano senza una vera leadership. Del resto, da vent’anni sono già in due a disputarsela, Hamas e Anp. Il rischio è che adesso, davanti a una guerra che travolge tutto, le divisioni si moltiplichino, aggiungendo la Jihad islamica e altri gruppi radicali al quadro di coloro che si contendono il potere palestinese. Un timore dei servizi segreti americani e israeliani è che Cisgiordania e Gaza diventino così una “Somalia palestinese”, contesa da gruppuscoli del terrore e gang criminali, con effetti ancora più destabilizzanti della situazione odierna. Per questo Joe Biden ha detto a Netanyahu che bisogna pensare non soltanto all’attacco a Gaza ma anche a cosa fare dopo l’attacco. Con due consapevolezze: che Israele, se vuole la pace, prima o poi avrà bisogno di un partner con cui farla. E che non sarà facile trovare un Mandela palestinese. Medio Oriente. La strage che si prepara, quella che il mondo non vede di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 24 ottobre 2023 I soldati “stanno facendo una serie di esercizi in modo da essere pronti per l’operazione” ha tenuto a far sapere ieri un portavoce militare di Israele. La poco rilevante informazione serviva a bilanciare una assai più importante notizia di segno opposto: l’invasione di terra nella striscia di Gaza è rimandata. Il portavoce militare si riferiva alla fanteria: l’aviazione i suoi “esercizi” non li ha mai interrotti, come sanno bene i palestinesi sotto le bombe. In attesa della carneficina terrestre che arriverà, scivola come un dettaglio la carneficina aerea che c’è già. Ma sono più di cinquemila i morti palestinesi dall’inizio dell’assedio, in maggioranza donne e bambini, mentre lo stesso governo israeliano parla di centinaia di capi di Hamas colpiti, così confermando anche nei numeri che la guerra è fatta ai civili. Solo tra domenica e lunedì sono morti in quasi cinquecento dicono le fonti dalla Striscia. Malgrado l’invasione si faccia attendere. Sono morti nell’attesa. Ieri l’ufficio per gli affari umanitari delle Nazioni unite ha comunicato che più della metà della popolazione di Gaza è ormai sfollata. Ha lasciato case che assai difficilmente rivedrà, abbia successo o meno l’espulsione collettiva perché nel frattempo quelle case saranno state tutte distrutte. Il trasferimento forzato di massa, ha ricordato anche l’Onu, è un crimine. Crimine particolarmente efferato in questo caso, visto che le persone che sono state fatte sfollare verso sud con la promessa di corridoi sicuri sono state in più occasioni ugualmente bombardate. Tanto da fuggire di nuovo verso nord, cercando una salvezza sempre più difficile dentro una gabbia sempre più piccola e più esposta al fuoco. Ma il concetto di crimine, così come persino quello di diritto internazionale, secondo il realismo dei fomentatori della rabbia di Israele sono ormai inservibili. L’Onu e i tribunali internazionali non servono più a niente - tant’è che adesso è addirittura la Russia dell’aggressione all’Ucraina a chiedere al Consiglio di sicurezza di condannare Tel Aviv - chi ancora ci crede è un’anima bella. Salvo scoprire, però, che sguarnita la diplomazia e gettato alle ortiche il diritto, non resta che la barbarie della violenza. Che infatti si dispiega ormai da diciassette giorni, con il contorno tutt’al più di timidi inviti alla moderazione. Quelli sì inutili. Fermare la strage che sta portando avanti Israele - è qui che sbagliano i suoi sostenitori, in buona o cattiva fede che siano - non c’entra niente con il riconoscergli il diritto a difendersi. La sua vulnerabilità di fronte al barbaro attacco di Hamas è anzi la novità con la quale tutti devono fare i conti, anche i critici più inflessibili del governo di Tel Aviv. Questa novità andrebbe indagata a fondo per capire cosa veramente ha reso possibile il successo dei terroristi (probabilmente al di là delle loro stesse aspettative), che peso ha avuto l’incapacità del governo più a destra nella storia di quel paese, come hanno influito le fratture che ha alimentato nella società israeliana e nel rapporto con le forze armate. Intanto, lasciare a Netanyahu mano libera nella vendetta, rivendicare persino il suo diritto alla punizione collettiva, lanciare inni al dio della guerra come si è arrivati a fare (nel nostro paese al solito in maniera più sguaiata che altrove) non risponde al desiderio di proteggere Israele. Ma solo a quello di sterminare con cinica arroganza un problema che non si è saputo affrontare. Eliminarlo anche dai propri pensieri. Ma quel “problema” è l’esistenza stessa del popolo che quelle terre abita, i bambini, le donne e gli uomini palestinesi che stanno morendo, ammazzati, a migliaia. Niente, nemmeno la lunga occupazione illegale e violenta da parte di Israele giustifica l’oscena macelleria di Hamas. Ma ugualmente niente giustifica la strage che Israele sta portando avanti impunemente, nemmeno l’attacco di Hamas e nemmeno il fatto che la cornice del diritto internazionale sia ormai rotta in più punti. Se a invocare l’inservibilità delle regole è colui che apertamente le viola qualche domanda dovrebbero farsela anche i realisti assolutori di Netanyahu. Cosa impedisce questa elementare presa di coscienza, ora che neanche la bilancia degli ultimi morti è più in equilibrio? Bambini erano molti degli israeliani trucidati da Hamas, bambini erano e sono molti palestinesi bombardati da Israele. Persino il discorso sulle cause di tanto dolore può aspettare, adesso. La violenza non è mai fuori dalla storia anche quando è folle e cieca, ma adesso Israele va fermata in nome di quello che può ancora essere, non di quello che è stato. Non ci sarà alcuna pace possibile, nemmeno la più fragile e provvisoria, se a Netanyahu sarà consentito di continuare sulla strada del sangue, se sarà addirittura spinto a farlo. Solo un cessate il fuoco immediato può mantenere aperto almeno uno spiraglio verso la pace. Chi, come la quasi totalità dei governi occidentali, il nostro in prima fila, si rifiuta persino di chiederlo, è complice del futuro di guerra che si sta costruendo oggi. E che i palestinesi nella striscia di Gaza stanno già pagando. Nell’attesa dell’invasione di terra. Medio Oriente. “Quindici anni di educazione alla pace andati distrutti” di Paolo Vittoria Il Manifesto, 24 ottobre 2023 Intervista e Elsy Wakil, segretaria generale dell’Arab House for Adult Education di Beirut. Un’esperienza a rischio: “Non lasciateci soli”. La guerra tra Israele e Hamas si fa sempre più minacciosa al confine con il Libano. Elsy Wakil, segretaria generale dell’Arab House for Adult Education and Development (Ahaed), con sede a Beirut, è impegnata da anni sui temi della pace, dell’alfabetizzazione, dell’educazione popolare nel mondo arabo. La sua testimonianza racconta di un processo culturale che - nonostante la distruzione indiscriminata di civili, ospedali, chiese, moschee, le chiusure di scuole e università - non ai arrende, ma richiama a una rete di solidarietà internazionale. “Quando c’è stato il primo attacco di Hamas contro gli israeliani - racconta - ho pensato che siamo tutti esseri umani, fratelli e sorelle e, come cristiana, non avrei mai potuto accettare lo spargimento di sangue. L’attacco all’ospedale di Gaza ha colpito civili, bambini e donne e non abbiamo sentito una condanna né da parte di Hamas né da parte di Israele, ma solo uno scarico di responsabilità da entrambe le parti. Naturalmente, senza i 65 anni di occupazione della Palestina non staremo vivendo questo dramma”. Il dramma della guerra colpisce anche scuole e università… Il Libano è al confine con la Siria e Israele, o meglio con la Palestina occupata, e ovviamente stiamo soffrendo questa situazione. Dobbiamo tristemente prendere atto del bombardamento di molte scuole a Gaza e persino di una chiesa greco-ortodossa e una moschea. Temo che sarà una guerra lunga che colpirà anche l’istruzione. Nel sud del Libano scuole e università sono chiuse da qualche giorno e probabilmente lo rimarranno a lungo: quotidianamente abbiamo aggiornamenti dal ministero dell’Istruzione. Non abbiamo invece informazioni sulle scuole a Gaza, sappiamo che nel resto della Palestina sono chiuse e si lavora da remoto come nel sud del Libano. Molte compagnie aeree non voleranno più a Beirut a causa della guerra e del timore che l’aeroporto possa essere bombardato dagli israeliani. Hezbollah è un partito molto forte in Libano: cosa accadrebbe se entrasse attivamente in guerra? Credo che ci sarebbe un’escalation e che il Libano potrebbe scomparire perché siamo un Paese molto piccolo e non abbiamo più la forza di resistere, avendo già subito altre guerre: l’ultima da parte di Israele risale al 2006; sono stati 14 giorni di bombe e Israele si è fermata solo dopo aver distrutto mezza Beirut, ponti, infrastrutture, per la cui ricostruzione ci vorranno ancora anni e anni. Quando Biden ha incontrato il primo ministro israeliano Netanyahu, ha giustamente condannato l’attacco di Hamas, ma non ha detto nulla sui crimini di Israele. E nessuno ha detto niente quando Israele nel 2006 bombardava tranquillamente il Libano. Quanto influisce la questione religiosa nel conflitto? A mio avviso la religione c’entra relativamente: ci sono differenze tra la percezione cristiana, musulmana o ebraica della guerra, ma sul fronte russo-ucraino si fanno la guerra pur avendo la stessa religione, visto che sono quasi tutti cristiani ortodossi. L’unica causa di questa guerra è l’occupazione della Palestina e l’emarginazione dei palestinesi. Qualcuno ritiene che Usa e Israele abbiano lasciato che Hamas commettesse liberamente i suoi crimini per poi reagire e non è uno scenario da escludere. Gli Stati uniti non hanno mai sostenuto la pace. Cosa hanno fatto in Iraq? Cosa hanno fatto in Afghanistan? Cosa hanno fatto in Siria? Appare come una strategia in cui ci sono molti fronti di guerra. Anche Yemen e Iraq, non solo Hamas o Hezbollah. Una guerra su base regionale, ma totale, con vari scenari. Credo che la strategia sia occupare più terre a Gaza e trasformarla in zona militare. Probabilmente entreranno a Gaza e cambieranno i confini con Israele, utilizzando Gaza come area e base militare, creando danni irreversibili a tutti i livelli, non solo socioeconomici e sanitari, ma anche mentali e educativi. La gente a Gaza ora non ha cibo, né acqua, né scuole. Da anni nella Arab House lavorate per la pace, per il dialogo tra popoli arabi: come state affrontando questa crisi? Abbiamo lavorato per più di quindici anni per la pace, per vederne ora la distruzione. Abbiamo avuto un incontro dall’8 al 15 ottobre 2023 all’Arab Academy. Molti partecipanti provenivano da Gaza e sono passati attraverso il valico di Rafah, via Egitto. Uno di loro, un caro amico e collega, quando è arrivato al Cairo ha chiamato la sua famiglia e ha saputo che suo fratello era stato assassinato a Gaza. Ovviamente, preso da rabbia e disperazione, voleva tornare a Gaza, ma suo padre ha insistito affinché continuasse il viaggio e partecipasse all’incontro, perché non voleva perdere un altro figlio. Abbiamo deciso di procedere come da programma. Tutti i partecipanti sono arrivati, solo uno dalla Palestina non è potuto venire perché i confini tra Giordania e Palestina sono chiusi. Abbiamo vissuto una settimana di paura, ma siamo riusciti a finalizzare il lavoro e tutti i partecipanti sono tornati sani e salvi. Ancora due partecipanti stanno aspettando che il valico di Rafah venga aperto per viaggiare dal Cairo a Gaza. Cosa si può fare per Gaza in questo momento? Stiamo facendo molte attività da remoto, abbiamo molti gruppi di discussione su WhatsApp, sulla Pace, sui Diritti Umani, sui media e sulle normative. Stiamo facendo incontri - anche se a distanza - con specialisti sui traumi infantili dovuti alla guerra e ai bombardamenti. Spero che questa guerra finisca presto e non colpisca tutti i paesi arabi, in particolare il Libano. È molto importante che ci sia una rete di solidarietà e che non ci lasciate soli. Iran. Il regime ha ucciso Armita Gerevand: in coma irreversibile di Francesca Luci Il Manifesto, 24 ottobre 2023 Mentre i giornali e le tv iraniane sono concentrate sulla guerra a Gaza, la società civile piange Armita Gerevand, che sarebbe in coma irreversibile. La sedicenne, ricoverata per una commozione cerebrale in ospedale dal primo ottobre in seguito ad un probabile spintone dei Guardiani della Hijab islamica, “colpevole” di non aver osservato il rigido codice di abbigliamento. Le autorità iraniane hanno negato l’accaduto e hanno affermato che la ragazza è svenuta dopo un calo di pressione e ha battuto la testa in una stazione della metropolitana di Teheran. Le riprese delle camere a circuito chiuso mostrano Armita senza copricapo accompagnata da due amiche che camminano verso il treno dalla banchina della metropolitana. Entrando nella carrozza, una delle ragazze viene vista immediatamente indietreggiare e cadere al suolo, prima che Armita venga trascinata priva di sensi fuori dal vagone. Domenica le agenzie di stampa affiliate al governo hanno pubblicato un rapporto sulla “certezza della morte cerebrale di Armita”. Tuttavia, lunedì i famigliari sulla base delle dichiarazioni di fonti mediche dell’ospedale Fajr di Teheran, hanno smentito le notizie sulla sua “morte cerebrale”. La vicenda ha commosso l’opinione pubblica iraniana, che ricorda la triste vicenda di Mahsa Amini, morta in settembre un anno fa in custodia della Polizia morale, colpevole dello stesso “reato”. Narges Mohammadi, premio Nobel per la pace, che sta scontando una pena detentiva di 10 anni, ha affermato su Instagram che “il comportamento del governo mostra il suo disperato tentativo di impedire che la verità… venga rivelata”. “È inaccettabile il comportamento dell’autorità. Armita è stata chiusa in ospedale, i familiari non hanno avuto accesso libero, non si possono intervistare i medici. Tutto è un mistero. Se non hanno nulla da nascondere perché non permettono di fare una valutazione indipendente? Il diritto della famiglia è stato sistematicamente negato”. Dice Farah, giurista e attivista per diritti umani. Continua imperturbabile il pugno duro del regime teocratico contro le donne iraniane. Negli ultimi mesi sono riapparse la polizia morale e gli agenti di controllo dell’hijab per le strade mentre i legislatori spingono per imporre sanzioni ancora più severe per coloro che violano l’obbligo del copricapo.