Psicofarmaci, droghe e alcol distillato con la frutta: viaggio nell'inferno delle carceri di Sara Cariglia Il Giornale, 23 ottobre 2023 Il 40 per cento della popolazione reclusa fa uso di sedativi o ipnotici, nei casi più gravi anche al di fuori di una terapia studiata ad-hoc da professionisti della salute mentale. Numeri ufficiali non esistono. Esiste solo la parola di chi questa presunta coltre di interminabili botte da benzodiazepine, l’ha vista con i propri occhi e combattuta con le proprie mani. “Quando ero cappellano, avevo chiesto al magistrato di vivere un anno nelle celle con 14-15enni autori di reati. Ne ho viste di tutti i colori. L’aspetto educativo in galera non passa dalla relazione reciproca, ma dallo psicofarmaco”. Don Ettore Cannavera ha passato 27 anni nelle carceri minorili di tutta Italia. A buon intenditor di istituti penali giovanili, bastano poche parole per squarciare il velo tarmato che copre il più enigmatico e imperscrutabile degli interrogativi: nelle prigioni italiane esiste davvero un problema “occulto”: l’iper-uso di psicofarmaci? Numeri ufficiali non esistono. Esiste solo la parola di chi, come il presbitero cagliaritano, questa presunta coltre di interminabili botte da benzodiazepine, l’ha vista con i propri occhi e combattuta con le proprie mani, nelle diverse “vie Crucis” della vita oltre il muro di cinta. Le parole di chi conosce bene il carcere, raccontano di uno spaccio interno di farmaci ansiolitici. Parole che parlano di giovani talmente assuefatti da queste sostanze, tanto da essere spinti a chiederne sempre di più. Ecco una fonte che lavora in uno dei minorili del Nord Italia: “Quando non gli vengono più forniti può succedere che incendino la cella, che diano fuoco ai materassi. A volte troviamo ragazzi dentro al carcere positivi alle sostanze. Vuol dire che c’è uno spaccio all’interno”. Il volto in incognito tuona senza filtri: "La situazione si sta trasformando in una polveriera ed è un peccato che esploda”. Se nel silenzio statico delle celle sballo, bonghi e bevute sono proibiti, per tanti carcerati fare incetta di antidepressivi, sonniferi e antipsicotici, al fine di commerciarli o barattarli, sembrerebbe essere un gioco, il “game”, appunto: “In carcere chi non ha soldi, di solito usa la terapia come mezzo di scambio per comprare sigarette e caffè”, svela una ex detenuta. Un sistema che viene spesso accettato, perché gli psicofarmaci contribuiscono a tenere tranquilli gli animi. A disarcionare la porta di sicurezza è anche la cruda testimonianza del Sovrintendente capo D., ora a riposo, del corpo di Polizia penitenziaria di Torino che, sconcertato sempre più dalle carenze ataviche delle “pazze galere”, le spiattella nude e crude: “L’abuso di psicofarmaci c’è sempre stato. Lo spaccio anche. In carcere accadono cose pazzesche. Il personale, poco e spesso poco professionale, non ce la fa più”. Il vice di lungo corso accentua il tono da falco e parla così: “Mi chiedo” dice “come possa un solo poliziotto, sì, perché la notte capita che ne monti solo uno, tenere a bada oltre duecento detenuti che si tagliano, bevono, che inalano gas dai fornetti, che nascondono pillole per poi spacciarle o che protestano buttando giù gocce accumulate di Valium, di En, ma pure lamette, chiodi, batterie e detersivi”. Un incremento “sbirresco”, suggerisce l’ex Basco Azzurro, sarebbe un primo passo verso la soluzione: “La situazione è completamente allo sbaraglio. Ben 85 suicidi solo nel 2022. Serve più sorveglianza. I detenuti vanno seguiti, curati e rieducati”. In effetti, alcuni reclusi, pur di riprodurre il piacere delle bionde, fumano, per dire un eufemismo e per dirla alla Said Faim, medico penitenziario della casa circondariale di Milano San Vittore, erbe di ogni sorta. Tra i mix più testati e graditi si annoverano “foglie di basilico, fettine di cipolla e bucce di banane essiccate, fumate con paracetamolo e psicofarmaci”, spiega l’internista, consapevole di quanto quello carcerario sia un mondo a sé, assolutamente unico, difficile da comprendere per le persone che vivono fuori da quella eterna condanna. E quando è invece l’alcool a non poter entrare nelle celle serrate a triple mandata, perché proibito? “Capita, ma non è certo la regola, che qualche detenuto lo distilli clandestinamente in cella con dello zucchero e della frutta semi-marcia recuperata in mensa, e che lo mandi giù insieme a qualche sedativo messo da parte”, conclude lo specialista con esperienza trentennale nel settore. Sui mille modi di eludere il sistema di sorveglianza, con qualsivoglia escamotage, è intervenuto invece l’ex comandante e sindacalista della polizia penitenziaria di Fermo, il commissario capo Gerardo D’Errico: “Qualche pusher si fa persino arrestare pur di portare dentro le mura ovuli di cocaina e farmaci psicotropi”, ci dice intanto che lumeggia con dovizia di particolari tutti gli altri “arcana imperii” del pianeta carcere. Alcuni detenuti, prosegue, “tentano di farsele recapitare addirittura direttamente dentro pacchi di viveri o tramite l’ingegnoso stratagemma delle lettere e della colla per appiccicare i francobolli che, ben si presta, a essere mescolata ai principi attivi di questi farmaci ansiolitici”. Per non parlare del vecchio mezzo utilizzato dai familiari ai colloqui, i quali cercano di occultare queste sostanze in “panini farciti, polpettoni, polli arrosto, ma pure nei risvolti dei pantaloni e nelle suole delle scarpe”. Insomma, bisogna avere mille occhi, e non bastano nemmeno: “I suicidi sono dietro l’angolo”, conclude D’Errico. Ma sembra che qualcuno dietro le quinte di quell’angolo immerso in quest’ingorgo di vite morte, anche da overdose da psicofarmaci, ci si sia spinto fino in fondo, e ne abbia tratto le proprie (amare) conclusioni. Quel qualcuno è Antigone, roccaforte “per i diritti e le garanzie nel sistema penale”: “Il 2022 è stato l’anno in cui si sono registrati più suicidi nella storia moderna del penitenziario in Italia. Purtroppo uno dei pochi strumenti usati per approcciare al paziente-detenuto è l’uso comune, ancora attuale, massiccio e ricorrente di psicofarmaci”. Tradotto: “Il 40 per cento della popolazione reclusa fa uso di sedativi o ipnotici, nei casi più gravi anche al di fuori di una terapia studiata ad-hoc da professionisti della salute mentale”. No, a parlare non è la giostra dei media con la sua aria catastrofica, ma la “dea” (she) della giungla carceraria: Antigone. Psicofarmaci ai detenuti: Milano è la capitale delle carceri "sedate" di Cristina Bassi Il Giornale, 23 ottobre 2023 Indagine in 15 strutture: San Vittore è al primo posto nella spesa pro-capite e il Beccaria viene subito dopo. Carceri sedate e detenuti sotto psicofarmaci. Negli istituti di pena italiani c'è un abuso di queste medicine. In particolare si parla di anti psicotici. San Vittore è al primo posto per spesa pro capite e le cose non vanno meglio all'Istituto penale per minorenni (Ipm) Beccaria. L'inchiesta del numero di ottobre di Altreconomia, intitolata «Fine pillola mai», ha raccolto dati inediti di 15 strutture, cioè su un campione di 12.400 detenuti su un totale di 56mila. E Milano è la capitale delle psico-carceri. Gli esperti interpellati dall'autore degli articoli, Luca Rondi, si chiedono: si tratta di cura e salute mentale o di un modo per tenere sotto controllo i detenuti? I dati (forniti dalle Aziende sanitarie locali e in collaborazione con Antigone) sono del 2022, anno in cui nelle carceri considerate si sono spesi più di 2 milioni di euro in psicofarmaci. Si tratta per la maggior parte, il 60 per cento del totale, di anti psicotici, che si prescrivono per gravi patologie come il disturbo bipolare e la schizofrenia. In cella vengono utilizzati ben cinque volte di più che all'esterno. «Sono farmaci - spiega Fabrizio Starace, direttore del Dipartimento di salute mentale dell'Azienda unità sanitaria locale di Modena e presidente della Società italiana di epidemiologia psichiatrica - che servono per ridurre sintomi come i deliri e le allucinazioni e sono appropriati per chi ha una diagnosi per psicosi e schizofrenia. Ma a seconda dei dosaggi hanno effetti sedativi importanti: questa spesa così elevata potrebbe essere in parte determinata dal tentativo di evitare una somministrazione più ampia di ansiolitici, come le benzodiazepine, che danno luogo più frequentemente ad abuso e dipendenza». Tuttavia, secondo Antigone, i detenuti con «diagnosi psichiatrica grave» sono meno del 10 per cento. «Stiamo sedando i disturbi o i disturbanti?», chiede Starace. Nel 2022 è stato San Vittore, che ha 894 presenze annuali in media, il carcere che ha speso di più per ogni detenuto in anti psicotici: 83 euro. E con un aumento del 180 per cento rispetto ai 30 euro del 2018. Se si fa un paragone con la popolazione esterna al carcere, per cui si spendono per gli tessi farmaci 6,6 euro, quello di San Vittore è un valore di 12 volte superiore. Anche se gli autori dell'inchiesta ammettono le differenze tra i due campioni (e i numeri sulla popolazione generale sono del 2021, gli ultimi disponibili, forniti da Aifa a livello regionale), la sproporzione salta all'occhio. Virtuoso invece il caso di Bollate, con 1.300 presenze medie, dove si spendono a questo scopo 6,5 euro, più o meno come all'esterno. Mentre a Opera la cifra è di 10,9 euro, un po' meno del doppio del dato tra la popolazione non detenuta. Per avere un'idea della situazione nazionale, al secondo posto dopo San Vittore c'è il Rocco d'Amato di Bologna, con 41 euro. Sottolinea Michele Miravalle, coordinatore dell'osservatorio sul carcere di Antigone: i penitenziari italiani «sono contenitori di un'umanità in eccesso, di un disagio diffuso rispetto a cui la soluzione più immediata e semplice è quella farmacologica». Tra i detenuti minorenni il dato del consumo di psicofarmaci resta molto alto. Negli Ipm italiani la spesa pro capite per gli anti psicotici è aumentata tra il 2021 e il 2022 del 30 per cento. Se tra i carcerati adulti è in media di 24,5 euro pro capite, tra i ragazzini è di 19 euro. E anche qui Milano, con il Beccaria, è secondo in classifica (dopo il Ferrante Aporti di Torino): 27,6 euro. «Escludo somministrazioni non oculate, i giovani arrivano già con dipendenze pregresse», spiega a Altreconomia Simone Pastorino, operatore della cooperativa Comunità nuova al Beccaria. Giustizia, oltre mille magistrati contro la separazione delle carriere di Marco Maffettone Giornale di Sicilia, 23 ottobre 2023 Sottoscritto un documento inviato al presidente del Consiglio Giorgia Meloni e al guardasigilli Carlo Nordio. «Una riforma che non porterebbe alcun beneficio sul piano della rapidità ed efficacia del sistema penale». È quanto sostengono oltre mille magistrati, tra giudici e pubblici ministeri, nel documento inviato alla premier Giorgia Meloni e al ministro della Giustizia, Carlo Nordio, nel quale esprimono un «no» netto alla riforma costituzionale che punta ad introdurre la separazione delle carriere tra magistratura inquirente e quella giudicante. La sottoscrizione è stata promossa dal procuratore di Ascoli, Umberto Monti, e ha visto l’adesione anche di 576 magistrati i in pensione. Nella petizione si afferma che la riforma non darebbe risposte alle «aspettative di ciascuno per una giustizia giusta, imparziale ed equanime». Una riforma che per i 1.028 firmatari “comporta i rischi concreti (che sembrano anzi esserne il vero “motore”) verso una dipendenza gerarchica del Pubblico Ministero dal Governo e un controllo da parte della maggioranza politica sull’esercizio della azione penale e sulla conduzione delle indagini». Un controllo sui pm e sull’esercizio della azione penale che a detta dei firmatari «sarebbero una ineludibile conseguenza della separazione delle carriere e della discrezionalità della azione penale di cui la riforma pone le chiare premesse (tant’è che nella quasi totalità dei Paesi dove vi è la separazione delle carriere vi è anche la dipendenza dei PM dal Governo, con la differenza non secondaria in molti di tali Paesi della presenza del Giudice Istruttore a presidiare la indipendenza e imparzialità delle indagini)». Per i firmatari del documento si tratta, infine, di una riforma «che andrebbe a toccare equilibri delicatissimi rischiando di erodere i principi di uguaglianza di ciascuno davanti alla legge, di trasparenza e imparzialità nell’esercizio dell’azione penale e di esercizio autonomo e indipendente della giurisdizione». L’iniziativa arriva a poche ore dal documento approvato sabato a maggioranza dall’Anm al termine del direttivo dell’associazione, in riferimento alla vicenda del giudice di Catania, Iolanda Apostolico, in cui si afferma che «attacchi e reazioni scomposte di esponenti del governo» hanno come «scopo intimorire ogni giudice che dovesse assumere un’interpretazione non gradita o allineata ad un certo indirizzo politico». L’associazione ha quindi confermato lo «stato di agitazione sui temi dell’indipendenza e dell’autonomia della magistratura» e ha deliberato la convocazione di una assemblea generale con all’ordine del giorno «gli attacchi alla giurisdizione e la pesante denigrazione dei singoli magistrati che hanno adottato provvedimenti in materia di protezione internazionale». L'ordine giudiziario va difeso di Giuseppe Santalucia* giustiziainsieme.it, 23 ottobre 2023 Dall'ultimo Comitato Direttivo Centrale non sono per noi successe grandi cose, cioè non numerose ma significative. Credo, però, che un pensiero vada fatto ai fatti del mondo che ci stanno purtroppo rattristando fortemente: la seconda guerra che sta scoppiando alle porte, alle nostre porte. Io provo anche un senso di imbarazzo e disagio a parlare delle nostre cose nel momento in cui il mondo intorno a noi si infiamma, però supero questa, come dire, sensazione di parlare di piccole cose di fronte ai grandi drammi del mondo, pensando che quando succedono chi come noi non ha voce per occuparsi delle grandi cose non può che rafforzarsi nell'impegno di fare il proprio dovere, ciascuno facendo ciò che deve, facendolo al meglio può contribuire a che, come dire, le cose si rimettano a posto. Non possiamo intervenire sullo scenario internazionale, possiamo essere ancora più consapevoli dell’importanza di, un sabato, occuparci delle nostre cose e di farlo bene. È un dovere, quello della rappresentanza associativa, che alla luce di questa considerazione generale può sembrare un po', come dire, eccentrica e dei fatti che sono avvenuti dà il senso di quello che intendo io. Un dovere che dobbiamo sentire ancora più forte perché abbiamo nel nostro Statuto il compito di difendere l'ordine giudiziario, non solo i magistrati, ma l'ordine giudiziario e i fatti che sono avvenuti nei primissimi giorni di ottobre ci chiamano a questo dovere. Una difesa composta, una difesa razionale, riflessiva, aperta a discutere di tante questioni che sono implicate da quello che è avvenuto: mi riferisco ai fatti catanesi, ai provvedimenti di non convalida dei trattenimenti di cittadini extracomunitari, seguiti poi da polemiche giornalistiche anche per quanto avvenuto al Tribunale di Firenze. Dunque, aperti a trattare tutte le questioni che possono essere implicate senza però perdere di vista il dato centrale: il dato centrale è che da una critica a provvedimenti giudiziari, assolutamente legittima da chiunque provenga, si è passati - come tutti sappiamo - a una critica alla persona o, meglio, alla ricerca di elementi che possano gettare un'ombra di parzialità, di inadeguatezza sul magistrato che ha emesso determinati provvedimenti. Io credo che il nucleo della vicenda sia questo. Si è aperta, poi, una discussione sulla imparzialità, sull'apparenza di imparzialità, temi importanti che io non voglio, come dire, mettere in un angolo perché sono i temi nostri, i temi propri dell'essere magistrati, il tema dell'etica del magistrato e l’etica è un nostro tema. Un po’ quello che ha detto il Ministro della giustizia quando ha detto, secondo me, parlando della collega Apostolico e della sua partecipazione - per quanto sappiamo noi passiva - ad una manifestazione sul molo del porto di Catania ai tempi della nave Diciotti, tenuta fuori dal porto per una volontà ministeriale, una presenza passiva quella che sappiamo noi, lui ha detto, il Ministro, “poteva andare” - questa frase mi ha colpito molto - “ma non doveva”. In questo autorevole giudizio del Ministro, io vedo una opinione importante che è quella che non c'è stata nessuna violazione disciplinare perché se posso esercito un diritto ma “non doveva”, perché c'è un profilo dell'etica che, secondo l'opinione del Ministro, il punto di vista del Ministro, come dire, doveva essere tenuto in conto dalla collega. Io faccio due riflessioni su questo, stimolato appunto da questa breve battuta che è gravida di significati: che il non doveva dell’etica è un tema nostro, io non penso che il Ministro, al di là di un’opinione, possa come chiunque altro parlarne di più e approfondire la questione. L’etica nel codice etico l’abbiamo elaborata noi sulla base di una legge dello Stato, perché è una precisa scelta che sia l'organo associativo - che è l’organo che rappresenta il ceto professionale - a poter stabilire quali sono le regole dell'etica, non ci viene imposta perché se facciamo questo noi, come dire, trasportiamo le regole dell'etica sul campo del disciplinare e questo è pericolosissimo. Quindi io condivido ciò che dice il Ministro “può” - questo è un dato importante - ha esercitato un diritto costituzionale, basta leggere la sentenza della Corte costituzionale che dice che i diritti costituzionali spettano ai magistrati come a chiunque altro; si pone un problema di modalità di esercizio: bene, sulle modalità di esercizio, se non c'è, come dire, questione disciplinare perché c'è una possibilità, una liceità stabilita dall'ordinamento, quello spetta a noi e ne potremo discutere ma non è questo il momento. Il momento oggi è chiederci qualcosa di diverso da quello che si è chiesto il Ministro: se io potrò, io magistrato, dopo la campagna di denigrazione, di caccia all'uomo giornalisticamente messa in piedi con fotografie che riprendono la collega mentre circola per le strade di Catania su un ciclomotore - non so bene quale fosse il senso del post di questo giornalista - o chiedersi quale sia il senso, il contenuto di una deposizione testimoniale fatta nel procedimento che ha riguardato il figlio, tutto questo è altro, come dire, dal censorio sul piano dell'etica. È una caccia all'uomo, è una ricerca di una profilazione di questo magistrato in modo tale da poterlo consegnare all'opinione pubblica come un soggetto inadeguato, peggio, ancora, forse leggendo la rassegna stampa, come un soggetto che, in qualche modo, non assicura il contrasto dell'immigrazione illegale nel momento in cui, per i fatti cui accennavo prima, l'immigrazione illegale può diventare pericolosissima per la sicurezza nazionale visto il Ministro dell’interno ed altri che richiamano i pericoli di infiltrazione di terroristi. Se si compone il quadro l'operazione è pericolosissima. Allora io mi chiedo: potrà un magistrato, alla luce di questa esperienza che abbiamo vissuto attraverso questa povera collega consegnata in questo modo all'opinione pubblica, fare il proprio dovere, lo potrà fare, lo farà e potrà, non può e non deve ma devo e potrò fare ciò che io devo, perché quello che io devo è fare giustizia prescindendo da tutte queste considerazioni che appartengono al potere politico, al Governo. Io se faccio immigrazione non posso caricarmi di altro tipo di considerazioni che è quello che il Ministro dell'interno fa, se il Ministro dell'interno ritiene che ci siano infiltrazioni che faccia il suo, ma non si può caricare la giurisdizione di altro. La giurisdizione va rispettata per quello che è: un potere indipendente. La domanda che io sento forte oggi è: potremmo - come ha scritto anche un giornalista molto acuto - “potremmo fare ciò che dobbiamo fare senza occuparci dei rischi che questo nostro esercizio del dovere comporta?” Rischi personali. Ed è questa la domanda che io rimando al Ministro della giustizia, ribaltando i termini delle sue considerazioni che pure, come dire, mi trovano d'accordo. E lo faccio al Ministro della giustizia cercando di cogliere tutto il significato costituzionale della sua rilevanza, è l’unico Ministro nominato in Costituzione, perché credo che il senso fosse quello di schermare quanto più possibile un potere autonomo e indipendente dalle incursioni governative e che tutto si convogliasse e fosse reso, come dire, al Ministro della giustizia perché lui è l’unico nostro interlocutore, dell'ordine giudiziario. Io su questo vorrei che si riflettesse, perché noi abbiamo avuto invece un altro Ministro che attraverso un post ha scatenato questo tipo di, come dire, di aggressione alla persona, postando un video di cinque anni fa. Alla domanda, non importa da dove nasce il video, non importa cosa è successo, importa quello che c'era nel video, io sollecito una riflessione e ve la consegno. Io credo che questa domanda sia una domanda fuorviante e non perché non ci si deve occupare dell'apparenza di imparzialità o dell’imparzialità, ma perché in questo momento quello che a noi interessa è proprio come nasce una aggressione di una persona ad un magistrato, in ragione dei provvedimenti che ha assunto. Quindi nessuna sotto considerazione dei temi che possono essere implicati dalla partecipazione a una manifestazione pubblica, e come dire lascio impregiudicata, a me non interessa, ci sono gli organi istituzionali che si dovranno occupare, leggo nelle parole del Ministro già, come dire, un'anticipazione di quello che lui pensa. Il tema oggi è un altro: è proprio da dove nasce il video, da dove nasce questo modo di fare di un Ministro, di tutto ciò che poi ne consegue, perché ovviamente il Ministro ha postato questo video, poi come dire da quel video è nata una campagna giornalistica dai toni aggressivi inusitati, è nata anche - noi non abbiamo preso posizione - una indicazione dal partito di appartenenza del Ministro che dice che bisogna cambiare la composizione delle sezioni immigrazione, per restituire alle sezioni maggiore efficienza e maggiore indipendenza; non si è concretizzata in nulla ma vedete che, da quel modo di fare, da quella scelta infelice di additare all'opinione pubblica un magistrato, disinteressandosi dei contenuti del provvedimento, perché non c'è stata finora una critica al provvedimento - critica che noi come dire accettiamo come fisiologia, non c’è oggi nessun tipo di chiusura corporativa - si è passati a una aggressione alla persona. E da questo ci sono responsabilità anche, come dire, oggettive se si fa, se si impostano i rapporti con l'ordine giudiziario disinteressandosi del ruolo costituzionale del Ministro, perché non mi avrebbe scandalizzato se in un Consiglio dei ministri il Governo avesse conferito incarico al Ministro della giustizia di approfondire la questione - quello che vuole la Costituzione - il titolare dell'azione disciplinare è il Ministro della giustizia, è l'unico componente del governo, è l'unico Ministro che viene citato nella Costituzione e la sua citazione non è perché la giustizia è più importante dell’interno, degli esteri o dell'economia, ma perché la relazione che si instaura è con un ordine che deve essere preservato da questo tipo di incursioni che ci indeboliscono fortemente, che indeboliscono al di là della persona, indeboliscono l'ordine giudiziario, la sua immagine, la sua credibilità, e che addirittura ne fanno un potere talmente indipendente da risultare arbitrario, talmente indipendente ed arbitrario da poter anche essere ragione di un indebolimento della sicurezza nazionale sul fronte dell'immigrazione e dei pericoli connessi. Questo è il tema. Non è il tema della imparzialità e dell'apparenza, perché sennò perdiamo di vista quello che è successo. Parliamo di tutto ma scegliamo i tempi, non facciamoci imporre l'agenda di una trattazione di questioni importanti da chi usa questi strumenti per aggredire non solo una persona ma anche la funzione giudiziaria. È un po' come dire, semplificando, visto che siamo anche su Radio Radicale, è un po' come la favoletta del lupo e dell’agnello, nessuno leggendo quella favoletta che conosciamo tutti del lupo e dell’agnello si è chiesto se veramente il genitore dell'agnello avesse intorbidito le acque sei mesi prima, poteva essere di una certa rilevanza, non sto comparando l'apparenza di imparzialità all’intorpidimento delle acque del lupo, però non è quello il tema. Occupiamocene in un’altra sede, sapendo che il dato centrale per un magistrato è l’imparzialità e l'apparenza di imparzialità è un valore importante ma ancillare. Senza l'imparzialità, l'apparenza ci trasforma in sepolcri imbiancati, per usare le parole evangeliche. Con l’imparzialità e senza l'apparenza possiamo essere avventati, incauti, possiamo incorrere in un giudizio censorio sul piano dell’etica e dei comportamenti professionali, ma certamente non abbiamo tradito la nostra funzione. Non avviene così se ci curiamo troppo dell'apparenza e poco dell’imparzialità, perché se no ci trasformiamo in soggetti che ipocritamente sfruttano il potere che hanno per fini che sono altri da quello di far giustizia. Quindi con questo tipo di coordinate credo che potremmo affrontare la questione che oggi ci interpella, perché quello che è accaduto è fortemente grave. Si dice: ma stava in una piazza pubblica, stava in un porto, quindi quando io pubblico qualcosa di pubblico non commetto nulla, nemmeno di non commendevole. Non è così. Perché io mi chiedo se qualcuno detiene, e chi e a che titolo e perchè, un video di quando cinque anni fa transitavo in una piazza pubblica, non rispettando un verde o un rosso, e allora è possibile che succeda questo, che se domani io faccio un provvedimento non gradito - perché il nucleo è quello, quei provvedimenti non sono stati graditi a chi ha legittimamente delle aspettative, ha fatto un decreto legge, io tutto questo lo lascerei sullo sfondo - ma è possibile che accada presto, che ci siano cassetti che conservano anche comportamenti pubblici da utilizzare alla bisogna per costruire una narrazione intorno ad un magistrato di un certo tipo. Se il magistrato ha sbagliato ci sono gli strumenti e noi rifletteremo. Credo che io sento il bisogno di riflettere su questi temi perché oggi i temi che ci interpellano fortemente sono l’imparzialità, con tutte le sue declinazioni possibili, e l’interpretazione. Perché, guardate, la critica poi si è spostata dal Tribunale di Catania al Tribunale di Firenze, che ha argomentato un po' più diffusamente sul rapporto tra atto e decreto ministeriale, sui luoghi sicuri, sul potere normativo e sul potere interpretativo del giudice; il tema è questo: quali sono i confini della interpretazione che è consentita, quali all'interno di una discussione sulla imparzialità. Io ricorderei che la prima verifica dell'imparzialità è la motivazione. Dunque, comunque partiamo da lì, partiamo dal provvedimento e non invertiamo l'ordine delle questioni partendo dalla persona per gettare un'ombra sul provvedimento. La nostra prima cartina al tornasole dell'imparzialità è ciò che scriviamo, come argomentiamo. Dopodiché il tema si è posto autorevolmente, si è posto anche in un convegno prestigiosissimo a Palermo, che è il tema dell'interpretazione, del rapporto tra gli ordinamenti, dell'ordinamento sovranazionale dell’Unione e dell'interpretazione conforme, sono temi che ricorrono, sono temi che come dire stanno ravvivando un dibattito dottrinale, sono temi importantissimi su cui noi dovremmo riflettere, ma tutto questo non oggi. Oggi c'è da rivendicare la indipendenza della funzione giudiziaria e la intollerabilità di questo modo di impostare i rapporti con dei provvedimenti non graditi, pensando anche e senza sottovalutare nessuno degli aspetti. Guardate, io ve lo dico con assoluta convinzione, per me il tema è importantissimo, che non basta non andare in una manifestazione pubblica per essere al riparo perché, come abbiamo avuto prova da quello che è successo col Tribunale di Firenze la questione si sposta: ha fatto un convegno, ha parlato contro un decreto, ha fatto un’esperienza ministeriale con questo o con quello. Ora il confine, quando si parla di apparenza di imparzialità tra il lecito e il non opportuno è, come dire, estremamente labile; riflettiamo noi prima che ce lo impongono gli altri. Riflettiamo sapendo che non è tema del legislatore, non è tema del governo, perché l'etica è un tema nostro. Dopodiché noi abbiamo alle porte un congresso; ci occuperemo anche di questo. Io, non come presidente, ma come magistrato, come componente della nostra categoria, sento fortemente il bisogno di rinnovare una nostra riflessione autonoma sull'interpretazione, e sui poteri e sui limiti dell’interpretazione. Vi anticipo, ancor prima di consegnarvi questa riflessione, che questo è il tema. Non possiamo cedere strumenti che sono ormai a noi consegnati da tempo in una complessità dell'ordinamento che vede l’interferenza di fonti normative non più organizzate secondo il principio della gerarchia - questo lo vorrei ricordare, la legge la si rispetta collocandola in un nuovo ordine, non dandole una primazia che oggi, non per volontà nostra, può non avere più in certi settori - quindi non cedendo strumenti, ma avendo consapevolezza che gli strumenti di cui disponiamo sono particolarmente incidenti e quindi cautela, attenzione, serietà professionale, questa è la riflessione che oggi il tema dell'interpretazione credo si imponga a tutti noi. Sapere quanto il potere giudiziario, per ragioni di evoluzione storico-istituzionali, ha a disposizione rispetto al potere degli anni Cinquanta, ma non è certamente quel tipo di sistemazione del rapporto del giudice e legge che possiamo invocare o evocare come un paradiso felice che ci vedeva in rapporti sereni col potere politico. Rinnovare una riflessione alla luce di tutto ciò che è successo anche per prendere atto, per riattestare la consapevolezza della delicatezza del lavoro che facciamo e quindi una delicatezza che, poi, sono strumenti come il bisturi, non penseremmo mai di levare il bisturi dalle mani di un chirurgo ma pretendiamo che lo usi con la massima cautela, con la massima professionalità, e anche il tema dell'imparzialità è strettamente connesso, perché noi interpretiamo, motiviamo e diamo in quel modo la manifestazione prima della nostra imparzialità. Trattiamoli in un congresso, trattiamoli, facciamoli temi congressuali, facciamo di più, prepariamo un congresso non come tradizionalmente è avvenuto, ponendo questi temi facendo intervenire cattedratici, esperti o autorevoli giuristi, lasciando un po' l’assemblea spettatore passivo. Facciamo in modo che dalle Sezioni, con il coinvolgimento del Comitato Direttivo Centrale, si inizi sin da subito, se decidiamo, una riflessione nelle varie articolazioni di cui si compone l’Associazione Nazionale Magistrati, che si arrivi al congresso con maggiore consapevolezza, avendo già delle proposte e delle idee su questi temi, che si discuta noi perché credo che il tema appartenga interamente a noi e non alla politica e non al resto. Non possiamo pensare che ci siano interventi sulla interpretazione, non possiamo pensare che ci possano essere interventi sulla imparzialità e l'apparenza, che ripeto sono temi che appartengono esclusivamente all'etica e alla professionalità e su questo credo che le invasioni di campo sarebbero di altri e non nostre. Quindi facciamolo perché c’è bisogno di farlo, quello che è avvenuto è comunque indicativo dell’urgenza della riflessione, facciamolo nelle sedi proprie, nelle sedi della riflessione collettiva. Oggi il nostro impegno è, invece, un impegno di difesa dell'ordine per non cadere nella trappola di parlare di altro rispetto a ciò che invece è l’urgenza. *Presidente ANM. Discorso tenuto in occasione dell'assemblea del Comitato Direttivo Centrale a Roma, 21 ottobre 2023). Il piano "anti-Apostolico" del governo: ecco di cosa si tratta di Francesca Galici Il Giornale, 23 ottobre 2023 Dopo il "caso" Apostolico, dalla Lega è stata lanciata l'ipotesi di una mini riforma dei tribunali per trasferire le pratiche dei migranti ai giudici di pace o alle Corti d'Appello. L'obiettivo di questo governo è quello di migliorare il Paese e man mano che si presentano criticità o problemi cerca di trovare soluzioni adeguate e durature per gli stessi. In questi giorni sta prendendo forma sui tavoli dell'esecutivo una mini-riforma della Giustizia, incentrata per lo più alla riorganizzazione dei tribunali. Nello specifico, l'idea è quella di abolire le sezioni che si occupano di immigrazione, trasferendo le competenze ai giudici di pace o alle Corti d'appello. L'idea nasce dalla Lega di Matteo Salvini a seguito del "caso" di Iolanda Apostolico, che ha sollevato preoccupazioni su una possibile politicizzazione dei giudici di quelle sezioni. Stando a quanto riferisce il Messaggero, gli uffici del Viminale e del ministero della Giustizia stanno già lavorando d'intesa con Palazzo Chigi per la riforma, che fa seguito alle voci secondo le quali, sempre il partito di Salvini, aveva fatto trapelare delle revisioni al sistema per "garantire una maggiore celerità nei responsi e una piena terzietà dei pronunciamenti" in relazione ai permessi di soggiorno e di lavoro. Iolanda Apostolico non è il primo giudice, e non sarà l'ultimo, ad agevolare dubbi di imparzialità nella magistratura italiana. E questo non è nemmeno un argomento nuovo, se si considerano gli "scandali" del passato, sempre legati alla politicizzazione delle toghe. La Lega, benché l'iniziativa parta da qui, non è l'unico partito che crede in un cambiamento necessario per limitare i danni dell'ideologia politica nei tribunali. È un pensiero condiviso con tutti gli esponenti della maggioranza, che ora lavorano per tentare di migliorare anche questo aspetto. La disapplicazione del decreto Cutro da parte di Iolanda Apostolico, e a seguire anche da altri giudici in diverse sezioni dell'Immigrazione in Italia, ma, soprattutto, la presenza della stessa alla manifestazione contro Matteo Salvini a Catania nel 2018, sono stati dei campanelli d'allarme impossibili da ignorare. La proposta della Lega ha trovato trasversale accoglimento nella maggioranza ma, ovviamente, ci sono alcuni nodi da sciogliere per avviare concretamente la mini-riforma. Nello specifico, infatti, c'è il problema dell'organico, non secondario. Le Corti d'Appello in cui si potrebbero convogliare queste richieste, spiegano da via Arenula, "sono competenti e hanno esperienza in materia ma sono anche oberate e non c'è abbastanza personale, a differenza dei giudici onorari che potrebbero farsi facilmente carico di questi processi". L'ipotesi di nominare nuovi magistrati, spiega il Messaggero, è in piedi ma serve prima trovare i fondi. E non sarà facile. Tuttavia, si lavora in questa direzione per "smontare" le 26 sezioni immigrazione, una per ogni Corte d'Appello, dove negli anni si sono trasferiti diversi giudici, che hanno espressamente e, pare, con insistenza, chiesto l'assegnazione in quel ruolo. Questa è la voce riportata dal quotidiano romano che circola ai piani alti della Lega, che parla di mere "questioni ideologiche" dietro i trasferimenti. Vittima e carnefice. Storia (esemplare) di un abbraccio di Paolo Di Stefano Corriere della Sera, 23 ottobre 2023 C'è una donna, rimasta vedova una sera del 2009, che ha deciso di abbracciare e aiutare l'assassino di suo marito. Suo marito era Gaetano Montanino, aveva 45 anni, era una guardia giurata e venne ucciso da una banda di quattro giovani durante una rapina in piazza Mercato a Napoli. Il più giovane di questi rapinatori, colui il quale sparò, era Antonio: fu condannato a 22 anni di reclusione e rinchiuso nel carcere minorile di Nisida. La donna, Lucia Di Mauro, è protagonista del caso più clamoroso di giustizia riparativa. Quando suo marito venne assassinato, si chiese come dare senso a quella morte. E pensò di impegnarsi a salvare qualche ragazzo «sbandato», dunque si propose come volontaria proprio a Nisida, per parlare con i ragazzi detenuti e raccontare il proprio dolore. Il 21 marzo 2017, durante una marcia di «Libera» sul lungomare di Napoli, Lucia e Antonio si scambiano uno sguardo: lui è in libertà vigilata circondato dagli educatori, la vede, trema, scoppia a piangere, si accascia, lei lo abbraccia e scoppia a piangere con lui. Antonio le promette che cambierà vita. Dopo un anno il magistrato ha attivato un rapporto di riconciliazione tramite mediazione. Antonio si è messo a lavorare in un bene confiscato ma con la pandemia le cose si sono complicate e Lucia Di Mauro l'ha aiutato a trovare un nuovo lavoro, senza smettere di dedicarsi agli altri ragazzi di Nisida. Ha detto Lucia che molti familiari di vittime della delinquenza la criticano perché «vado a braccetto con l'assassino di mio marito». Ma lei va avanti, anzi chiede allo Stato di investire risorse nella riabilitazione sociale dei giovani detenuti. Si può salvare il proprio carnefice? In un libro intitolato Storia di un abbraccio (scritto con Cristina Zagaria e uscito da Piemme) Lucia spiega le ragioni di un perdono e di un impegno eccezionale. Ora, come scrive Rosanna Borzillo sull'Avvenire, con don Tonino Palmese, l'«Ambasciatrice del perdono» racconterà la sua storia nelle scuole di Napoli. Il perdono non si può imporre spontaneamente a nessuna vittima. Ma quello di Lucia resta un esempio straordinario. E se il carnefice non cerca giustificazione al male commesso e la vittima non esige vendetta, allora ci si può avvicinare. Quella di Lucia e Antonio è una lezione di magnanimità. Un’intelligenza artificiale attenta ai diritti? Sì, se controllata di Daniela Piana e Gaetano Viciconte Il Dubbio, 23 ottobre 2023 Nel corso degli ultimi cinque anni il settore del diritto e della giustizia è stato attraversato da un fenomeno particolarmente diffuso e di portata ancora largamente inesplorata, derivato dalla combinazione di due fattori: da un lato, la disponibilità, spesso in open access, di dati di carattere statistico sociale, economico, commerciale e di documenti di tipo giuridico e giudiziario in formato digitale; dall’altro lato la fruibilità di tecniche di matematica applicata e di scienza dell’informazione unita allo sviluppo di macchine dal potenziale di calcolo in crescita esponenziale. Una narrativa che tende a semplificare molto questo processo di trasformazione dei servizi giuridici e del mondo della giustizia parla di intelligenza artificiale applicata alla giurisdizione, di giustizia algoritmica, di giustizia digitale, o, utilizzando un termine molto diffuso nel mondo anglosassone, di legaltech. Alcune premesse di carattere empirico, ineludibili, sono da porre come punto di partenza di un percorso che ha come chiaro obiettivo quello di qualificare l’avvocatura istituzionale quale baluardo - soprattutto nell’interazione fra cittadino e giurisdizione - dei diritti fondamentali nella società digitale. Tre premesse sul ruolo dell’avvocatura nell’uso della IA - La prima premessa attiene al fatto che la competenza tecnica e specializzata che è all’origine e che si potenzia attraverso le azioni di progettazione e sviluppo di dispositivi di automazione e intelligenza artificiale (simbolica, statistica, generativa, solo per elencare qui le tre metodologie matematiche utilizzate nel mondo dell’IA) è detenuta in modo asimmetrico e largamente oligopolistico da attori di mercato. La seconda premessa riguarda il fatto che, mentre alla tecnologia e in particolare all’IA si chiede di proporre una organizzazione di fatto standardizzata e convergente sulla tipologia mediana del fruitore di tali strumenti, la difesa dei diritti della persona deve avere la capacità di cogliere i bisogni e le barriere incontrate nella tutela di quei diritti dai cittadini e dalle personalità giuridiche di tipo economico e sociale, privatistiche e di terzo settore, che non si posizionano nel punto medio della ipotetica curva di distribuzione dei profili socioeconomici delle parti nei contenziosi. In altri termini, è ben possibile che la standardizzazione non temperata e non sottoposta a una vigile supervisione dell’avvocatura induca un innalzamento delle barriere nel momento in cui le persone si trovino a interagire con una giurisdizione “aumentata” dall’integrazione dell’IA. Infine, la terza premessa punta i riflettori sul fatto che per, poter presidiare, occorre conoscere. E per poter integrare, occorre governare. È dunque essenziale che l’avvocatura si appropri di tutte le competenze che servono per sottoporre - perché occorre sottoporre - l’IA a un puntuale controllo sia nella fase di progettazione sia nella fase di utilizzo. Avendo esattamente queste premesse come perimetro di riflessione, vanno considerate le specificità dell’Avvocatura nella giurisdizione e in interazione con la giurisdizione. Dalla Federazione Ordini Forensi europei, le linee guida sull’IA - Tre aspetti ci appaiono mostrare, nel concreto della esperienza professionale, alcune delle prospettive aperte dall’IA e delle potenziali domande di garanzia rafforzate, oltre che di creazione di una cultura istituzionale diffusa capace di valorizzare la professionalità come presidio dei diritti fondamentali. Si pensi ad esempio al fatto che la capacità dei sistemi di intelligenza artificiale generativa (GenAI) di produrre ricerche su precedenti, di formare scritti difensivi, o addirittura immagini di possibili discussioni orali da replicare in dibattimento, impone adeguate riflessioni sui nuovi scenari di responsabilità nell’esercizio della professione forense correlati all’utilizzo di tali strumenti. Sappiamo che è giunta immediatamente dagli Stati Uniti l’eco di un primo caso emblematico in cui è stato sanzionato un avvocato che aveva presentato a una Corte distrettuale federale un “legal brief” predisposto da Chat Gpt, in cui erano riportati precedenti inesistenti, frutto evidentemente di allucinazioni del sistema (di tale vicenda si occupa nello specifico un altro servizio del giornale, ndr). È proprio il tema delle responsabilità correlate all’impiego di questi sistemi in ambito legale che ha determinato la Commissione Nuove tecnologie della Fédération des Barreaux d’Europe a elaborare, nel giugno scorso, sette linee guida per garantirne un uso responsabile e informato, con l’obiettivo di salvaguardare gli standards etici e di proteggere la riservatezza del cliente. Le linee guida riguardano la comprensione della tecnologia, la consapevolezza delle sue limitazioni, l’aggiornamento sulle normative, l’integrazione con le competenze umane, il rispetto del segreto professionale, la protezione dei dati personali e la comunicazione trasparente con i clienti. Riteniamo che abbia una particolare significatività, questa elaborazione e la diffusione di linee guida per la progettazione e l’utilizzo degli strumenti di tecnologia avanzata applicata che si avvalgono di intelligenza artificiale nel mondo forense. I riferimenti fatti dalle linee guida della Ccbe sono concreti e direttamente attinenti alla operatività quotidiana: la generazione di testi, la gestione documentale e la - grazie a questo possibile - elaborazione da documenti di dati e contenuti sintetici; le chat bot; le applicazioni delle tecniche di blockchain e in generale tutte le forme di smart contract; la elaborazione di applicativi capaci di ottimizzare, anche con l’ausilio della automazione, il lavoro quotidiano degli studi. Perché si dovrà garantire un ruolo all’avvocatura istituzionale - L’impatto dell’utilizzo dei sistemi GenAI sui profili di responsabilità professionale, derivanti sia dalle allucinazioni descritte sia dalle difficoltà di rendere intellegibili agli utenti i criteri di addestramento dei medesimi sistemi, ha indotto il legislatore Ue ad attivare, nel settembre 2022, l’iter di approvazione di una proposta di direttiva sulla Responsabilità da intelligenza artificiale, in parallelo rispetto al procedimento legislativo già in atto che riguarda la proposta di regolamento europeo che stabilisce norme armonizzate sull’Intelligenza artificiale. Le linee guida della Fbe anticipano in parte i temi della proposta di direttiva sulla responsabilità IA, in modo coerente con il contenuto di quest’ultima, delineando un paradigma che vedrà come destinatari non soltanto il produttore del sistema e l’avvocato che trae vantaggio dall’utilizzo del sistema, ma anche il cliente che riceve una protezione indiretta dal rispetto delle regole fissate per gli altri due soggetti. Nello specifico, l’avvocato deve utilizzare il sistema sotto la propria responsabilità, osservando le istruzioni fornite dal produttore, senza modificarlo, senza alterarne il funzionamento e inoltre senza introdurre dati di input diversi. Un discorso a parte merita l’obbligo di informazione dei destinatari finali sull’uso di GenAI nello studio legale. Le linee guida di Fbe invitano l’avvocato a rendere noto in modo chiaro ai clienti non soltanto l’ utilizzo di GenAI, ma anche il relativo scopo, i vantaggi, le limitazioni e le garanzie. L’avvocato deve assicurarsi che i clienti comprendano il ruolo di questa tecnologia nelle loro questioni legali, specificando se questi strumenti vengono utilizzati per ricerche o per ulteriori attività. È auspicabile, tuttavia, che in tempi rapidi, in sede di revisione del Codice deontologico, si affronti, unitamente al tema del rapporto avvocato-cliente, trattato dalle linee guida, anche quello concernente la salvaguardia della correttezza del rapporto avvocato- magistratura, che deve essere improntato alla stessa trasparenza informativa, al fine di evitare il ripetersi del caso statunitense in cui le allucinazioni dello strumento hanno finito per minare in modo irreparabile l’efficacia della difesa. Cosa farà la differenza? Se le linee guida sono concrete ma al contempo capaci di pertinenza in via trasversale alle diverse realtà della Avvocatura italiana, la dimensione degli studi, la capacità di internalizzare lo sviluppo digitale di dispositivi che siano approntati per lo studio, la professionalizzazione continua saranno fattori che interverranno nelle trasformazioni attese nel prossimo futuro. Ma vi è qualcosa che riteniamo farà ancor più la differenza, per l’effettività delle tutele del cittadino nella giurisdizione: la attiva, regolare, strutturata e orientata empiricamente partecipazione dell’Avvocatura istituzionale alla progettazione digitale che ha un diretto impatto d’uso nella giurisdizione. Il co-design non sarà più un’opzione fra molte quanto piuttosto la via necessaria per la effettività delle garanzie. Conclusivamente, si può ritenere quale ideale norma di chiusura dell’ordinamento in tale ambito la linea guida n. 4 di Fbe, in cui si esorta l’avvocato a non utilizzare mai l’intelligenza artificiale per sostituire il proprio giudizio professionale, la propria capacità critica e la propria competenza. Il messaggio corretto legato all’utilizzo di siffatti strumenti è che esiste una discrezionalità professionale di tipo valutativo, per la soluzione di questioni sia tecniche sia etiche, a cui non si potrà mai rinunciare, affidandosi esclusivamente a questo tipo di pratica. «L’IA non va subita ma governata, o il linguaggio giuridico perderà la propria ricchezza» di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 23 ottobre 2023 Il futuro, sotto certi versi, è già il presente. Ecco perché occorre avere la sensibilità di cogliere i cambiamenti e non subirli. Anche nella professione forense. Di questo è convinto l’avvocato Vittorio Minervini, consigliere del Cnf e vicepresidente della Fondazione dell’avvocatura italiana. La persona - nel nostro caso il professionista - deve continuare a conservare la propria centralità. È impensabile, per esempio, che le capacità argomentative, le capacità di studio e di scrittura vengano sostituite dall’algoritmo. Avvocato Minervini, l’uso dell’Intelligenza artificiale, destinato a essere sempre più massiccio, impone delle capacità di adattamento per gli operatori del diritto, che, comunque, non potranno essere sostituiti. Cosa ne pensa? L’IA, secondo una delle migliori definizioni, indica la razionalità computativa. Sorgono delle questioni molto importanti quando si immagina di voler sostituire l’attività umana e l’elaborazione umana del pensiero con un altro strumento, con un artefatto. L’Intelligenza artificiale non fa altro che replicare il pensiero umano. Potrebbero esserci dei tipi diversi di ragionamento che non vengono fatti come quelli umani. Sorgono delle questioni importanti sulla valutazione della fattispecie che presenta sempre una sua complessità. Se è fatta su base statistica del precedente, l’elemento creativo, dato dal pensiero umano, viene meno e l’effetto creativo della giurisprudenza verrà bloccato. Adesso i sistemi di IA, applicati alla decisione, lavorano con trattamenti statistici dei dati raccolti e calcolo delle probabilità. Da ciò deriva il rischio di privilegiare una particolare modalità di applicazione del diritto e di favorire la cristallizzazione della giurisprudenza, nell’implicito vincolo del precedente. Per questo motivo l’impatto di tali artefatti sulla attività del giudice e sulla corretta valutazione della motivazione della decisione deve esser ben considerato. Vi è poi un altro aspetto da prendere in considerazione. Quale? La predizione spesso non prende in considerazione alcuni elementi molto importanti. Ogni fattispecie è sempre diversa dall’altra. La valutazione, attraverso l’Intelligenza artificiale, non può andare a considerare tutti gli elementi della fattispecie. Il linguaggio giuridico è complesso e articolato. Con l’IA questa componente rilevante si disperde. Nei mesi scorsi, durante il Congresso giuridico, abbiamo dedicato ampio spazio alle ricadute sulla nostra professione dell’Intelligenza artificiale. In quella occasione ho fatto l’esempio del fiume di Eraclito: siamo immersi in un fiume che è composto dall’alveo, dall’acqua e dal fluire dell’acqua. È la realtà in divenire. Con l’IA questo fiume non c’è più, dato che si ripete sempre la stessa cosa. Ragion per cui ci ritroviamo a fare i conti con una specie di eterno ritorno. Inoltre, per rendere trasparente l’attività di IA si deve imporre un principio di qualità e sicurezza nell’analisi dei dati e dei dati di confronto, che deve conseguire a una certificazione della loro fonte con sistemi che ne possano validare sicurezza e integrità, per il loro trattamento e del loro utilizzo nell’ambito delle decisioni giudiziarie. Deve essere garantito il rispetto del principio della trasparenza delle metodologie e delle tecniche utilizzate nel trattamento delle decisioni giudiziarie. L’avvocatura mostra perplessità rispetto all’incalzare dell’Intelligenza artificiale? Dipende. L’IA e tutti i sistemi tecnologici sono ineludibili. Noi dobbiamo pensare di dover approfittare dei nuovi scenari che si prospettano e dobbiamo farci trovare preparati. Se così non fosse, saremmo fuori da un mercato. Non possiamo pensare di rimanere esterni. L’avvocato tra dieci anni sarà completamente diverso da come si presenta oggi. Avrà una diversa considerazione degli strumenti tecnologici di cui potrà disporre. Le prime applicazioni dell’Intelligenza artificiale fanno ben sperare? Sono alleate preziose nello svolgimento della professione? La giustizia tributaria ha un progetto molto interessante che è stato portato avanti dall’avvocata Maria De Cono. Attraverso un sistema di IA sono state fatte analizzare le sentenze di primo e secondo grado. Non sono state però massimate, come ha fatto la Cassazione. Sono state individuate secondo dei sommari. L’utilità riguarda la valutazione del precedente. Ma anche questo metodo potrebbe indurre sempre di più a soffermarsi solo sul precedente e a non avere quell’effetto evolutivo delle decisioni della giurisprudenza. Si rischia di ripetere sempre una certa attività e di non fare altro che reiterare sempre la stessa indicazione- decisione, senza pensare che ci potrebbe essere un altro punto di vista. L’IA nella giustizia tributaria è una sorta di palestra. Bisogna stare però attenti all’utilizzo nell’attività di formazione della decisione e di valutazione della fattispecie. I margini per migliorare gli strumenti legati all’IA ci sono. La palestra della giustizia tributaria può darci indicazioni sulla strada da seguire in futuro e su certe soluzioni da non adottare. La professione legale in questo contesto sta cambiando. Come dovrebbe attrezzarsi? Sono convinto che la nostra professione debba cambiare per evitare la marginalità. Per effetto del Covid non andiamo più in tribunale, non abbiamo più situazioni di dialogo con i giudici. Se poi questo dialogo è affidato unicamente a un macchinario o a un sistema di intelligenza artificiale, tutto diventa più avvilente. Viene meno l’aspetto di valutazione della fattispecie e di strategia nell’esaminare le varie soluzioni che possono essere adottate, senza tralasciare la creatività nello scrivere e nell’argomentare. Vale a dire l’essenza della nostra professione. Non dobbiamo subire i cambiamenti. Fare i conti con l’Intelligenza artificiale richiede anche uno spirito proattivo da parte delle Università e delle facoltà di giurisprudenza? Senz’altro. Ci sono già alcune Università che stanno rivolgendo grande attenzione nei confronti dei sistemi di IA. In questo contesto i giovani potranno svolgere un ruolo fondamentale. Entrano già nella facoltà giuridiche con una attenzione nei confronti del sistema elettronico che non hanno altre generazioni. «In Italia finora non si è andati oltre l’uso della digitalizzazione del dato legale» di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 23 ottobre 2023 L’Intelligenza artificiale presenta delle opportunità che bisogna saper cogliere. Secondo Lucilla Gatt (ordinario di diritto privato e diritto delle nuove tecnologie nell’Università degli Studi “Suor Orsola” e direttrice del Research Centre of European Private Law), il momento storico che stiamo vivendo impone lucidità e capacità di scelta rispetto all’utilizzo degli strumenti messi a disposizione dall’Intelligenza artificiale nel rapporto con la giustizia. Allo stesso tempo non devono essere tralasciate le collaborazioni tra i diversi soggetti coinvolti, pubblici e privati. Un aspetto, quest’ultimo, purtroppo trascurato. Professoressa Gatt, l’intelligenza artificiale applicata al diritto stravolgerà le professioni giuridiche? La possibilità che possa prendere corpo una tecnologia cosiddetta disruptive è concreta. È inutile nascondersi dietro un filo d’erba. Dobbiamo essere attenti ad osservare e a comprendere i cambiamenti in corso, dato che le potenzialità dell’applicazione dell’IA generativa potrebbero mutare il volto delle professioni giuridiche. Credo al tempo stesso che occorra avere un approccio caratterizzato da consapevolezza e competenza. L’Intelligenza artificiale potrebbe migliorarne enormemente l’esercizio delle professioni giuridiche e non invece stravolgerlo. Siamo in questo momento di fronte ad un bivio: dobbiamo scegliere cosa fare con questo strumento. Le scelte che sono state fatte sono in parte condivisibili, in parte hanno presentato forti criticità. A quali criticità si riferisce? Le criticità che vedo di fronte all’interazione tra IA e giustizia o, più in generale, tra IA e diritto sono diverse. Per prima cosa manca in Italia una visione sistematica e sistemica del rapporto tra Intelligenza artificiale e diritto. A tal riguardo devono essere prese in considerazione delle specificità degli ordinamenti giuridici, che non sono uguali. I Paesi appartengono ai gruppi di Civil law e Common law, ragion per cui le applicazioni possono divergere. In Italia cosa sta accadendo? Purtroppo, la situazione non è delle migliori perché a livello governativo, già da tempo, si incentiva l’uso della digitalizzazione del dato giuridico a più livelli, soprattutto negli uffici giudiziari. Tuttavia, oltre a questo elemento, non si è andati oltre. Neppure con la riforma Cartabia, con i provvedimenti sugli uffici del processo. Gli atti normativi hanno di fatto promosso la creazione di data base giurisprudenziali presso i vari uffici giudiziari sparsi sul territorio. Oltre a quanto accaduto nel ministero della Giustizia, occorre ricordare anche il progetto Prodigit che ha un ambito di operatività tematico, dato che è declinato nel diritto tributario. Ma anche questo progetto non ha una valenza ampia, generale e sistemica. La cyber justice, vale a dire il rapporto tra diritto e tecnologia, tra diritto e IA, paga in Italia il prezzo di una organizzazione non armonica? Senza collaborazioni e senza collegamenti, le università realizzano data base della giurisprudenza locale. Generalmente si tende a digitalizzare in maniera più o meno perfezionata, con l’ampliamento delle chiavi di ricerca, e si mettono a disposizione dei giudici del luogo i precedenti dei colleghi. Ognuno realizza un sistema informatico non interpretabile, in maniera autonoma. In questo contesto, abbiamo assistito pure a progetti poco partecipati e poco noti nelle fasi di sviluppo in cui ognuno ha fatto per sé. Questo sul versante pubblico. Nel privato come vanno le cose? Anche qui si assiste ad azioni individuali e non collegate con il mondo istituzionale. Ci sono delle iniziative meritevoli, che hanno avviato delle sperimentazioni. Penso alla creazione di software che agiscono sul piano dell’IA potenzialmente generativa. Lo spartiacque tra un atteggiamento di stoccaggio e di visualizzazione di precedenti e un atteggiamento di uso massiccio di IA si è avuto all’inizio di quest’anno con la comparsa della famosa ChatGpt. È uno strumento che in qualche modo ha aperto e direzionato l’interazione tra tecnologia e diritto verso un prodotto specifico, che non era più il tradizionale data base. ChatGpt ha indotto i giuristi che si occupavano di cyber justice a utilizzarla per potenziare il rapporto tra i software e l’utente, basato su domande, anche generiche e non particolarmente tecniche. Siamo passati da una visione più legata agli operatori del diritto a una impostazione con i software che devono interagire con un utente non giurista, desideroso di risolvere un problema o che comunque vuole avere delle indicazioni. Le specifiche esigenze degli utenti cosa hanno portato? Sono stati sviluppati alcuni prodotti in alcuni casi buoni, in altri casi meno. Per esempio, abbiamo un prodotto che, a mio avviso, è molto interessante. Fa capo ad un gruppo di lavoro, coordinato dall’avvocato Luigi Viola, che ha realizzato Giurimatrix. Si tratta di un software che mira ad interloquire con l’utente con la possibilità di digitare nella stringa simile a quella di ChatGpt un quesito. È stato addestrato in maniera tale da offrire un risultato attraverso un processo non induttivo, che parte dal precedente giurisprudenziale, bensì deduttivo che si articola dal dato normativo. Sessualità in carcere: il caso davanti ai giudici della Corte costituzionale di Maria Francesca Chiappe L'Unione Sarda Il Tribunale di Sorveglianza di Spoleto ha sospeso il procedimento e rinviato gli atti per valutare la legittimità dell’articolo 18 dell’Ordinamento penitenziario. È molto più di un tabù, è qualcosa di cui non parlare, da rimuovere addirittura. Eppure la sessualità dei detenuti è un tema importante, che riguarda la persona, pure se ristretta in un istituto penitenziario dopo una condanna definitiva, se non addirittura prima, quando è ancora in attesa di giudizio. La questione sarà discussa il 5 dicembre dalla Corte costituzionale, dopo che il Tribunale di sorveglianza di Spoleto ha rimesso gli atti per valutare la legittimità dell’articolo 18 dell’Ordinamento penitenziario nella parte in cui non prevede che al recluso sia consentito, quando non ostino ragioni di sicurezza, di svolgere colloqui intimi, anche a carattere sessuale, con la persona convivente non detenuta, senza che sia imposto il controllo a vista del personale di custodia. La questione è stata sollevata da un detenuto nel carcere di Terni condannato in via definitiva per tentato omicidio, furto aggravato, evasione e altro: l’amministrazione penitenziaria gli ha negato colloqui intimi con i familiari, in particolare con la compagna, e con la figlia di tre anni. Il detenuto lamenta in particolare che la mancanza di rapporti intimi sta incidendo sul mantenimento del rapporto di coppia sul quale, peraltro, fa affidamento anche per il futuro reinserimento sociale. Dal momento che non è stato ammesso ai permessi premio a causa di alcuni comportamenti tenuti in carcere, i colloqui intimi sono l’unico strumento per esercitare il diritto a una serena relazione di coppia e per garantirsi a pieno un ruolo genitoriale. Fin qui il detenuto viene ammesso ai colloqui in cinque diverse salette, una delle quali è attrezzata per gli incontri con i figli minori di 12 anni, e in un’area verde. Ovunque è prevista una vigilanza permanente mediante sistemi di videosorveglianza o in presenza. Le sale sono predisposte in modo da accogliere più nuclei familiari contemporaneamente e in alcune fasce orarie c’è una cospicua presenza di persone che inevitabilmente incide sulla riservatezza del colloquio. La questione dell’affettività-sessualità in carcere è già stata sollevata nel 2012 e la Corte costituzionle quella volta aveva deciso per l’inammissiblità dell’istanza. Del resto, anche nel 1992 era stato affermato che il vigente ordinamento penitenziario esclude per i detenuti la facoltà di rapporti sessuali, anche tra persone unite in matrimono. Questa esclusione appare conseguenza diretta della privazione della libertà personale. Quest’ultima espressione, però, non sembra tener conto di un contesto sovranazionale in cui diffusamente la privazione della libertà personale non si associa a un divieto assoluto di esercitare la sessualità con il/la partner in libertà in appositi momenti di incontro né si confronta con l’assenza di una previsione di questo divieto tra le pene, anche accessorie, previste nel Codice penale. Secondo il Tribunale di Sorveglianza di Spoleto, insomma, viene messo in discussione il diritto alla libera espressione della propria affettività, anche mediante i rapporti sessuali, quale diritto inviolabile riconosciuto e garantito, essendo l’attività sessuale indispensabile completamento e piena manifestazione del diritto all’affettività oltre che uno degli essenziali modi di espressione della persona umana. E ancora: la forzata astinenza dai rapporti sessuali derivante dal disposto normativo ostativo appare in contrasto con l’articolo 13 della Costituzione con riferimento al primo comma poiché di fatto determina una compressione della libertà personale che non appare giustificata in ogni caso da ragioni di sicurezza e che perciò finisce per tradursi in una sofferenza aggiuntica rispetto alla privazione della libertà che già inevitabilmente deriva dalla restrizione carceraria. Il Tribunale va pure oltre nel momento in cui afferma che un’amputazione così radicale di un elemento costitutivo della personalità finisce per configurare una forma di violenza fisica e morale sul detenuto che, in mancanza di una giustificazione sotto il profilo della sicurezza (come nel caso in esame), volge in mera vessazione, umiliante e degradante, peraltro non soltanto per il condannato ma anche per la persona che convive con lui. Dunque l’articolo 18 dell’Ordinamento pentenziario da un lato viola la Costituizione, dall’altro si infrange sulla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Di lì la sospensione del procedimento e la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale. Pisa. Il Garante dei detenuti: "Situazione drammatica in carcere, tra sovraffollamento e carenze" pisatoday.it, 23 ottobre 2023 "Una situazione drammatica e oramai tristemente cronica". Questo è il quadro che venerdì 20 ottobre ha fatto il Garante dei diritti dei detenuti sulle condizioni del carcere di Pisa, nel corso dell’audizione in Seconda Commissione Consiliare richiesta dal gruppo consiliare Diritti in Comune. "E’ cronico il sovraffollamento - riporta il consigliere comunale Ciccio Auletta - che vede oggi presenti 260 persone detenute in un istituto che potrebbe contenere 198 persone: lo spazio vitale a persona è inferiore a 3 metri quadri". "E’ cronico, anzi sempre più drammatico il quadro delle carenze strutturali: nelle celle del piano terra le persone dormono inserendo bottiglie nei bagni alla turca per evitare che risalgano i topi durante la notte". Auletta prosegue: "La sezione semiliberi, che dovrebbe essere una struttura a custodia attenuata e collocata fuori dalle mura carcerarie è priva dei servizi primari e in uno stato di totale abbandono". "In carcere si vive male, e ci si ammala. Secondo i dati di Antigone relativi alla rilevazione del 2022 il 23 % delle persone detenute ha problemi di salute mentale. E, in modo paradossale proprio i servizi relativi alla principale emergenza sanitaria dell’istituto sono quelli più carenti. Il Garante lo ha detto a chiare lettere, ed ha parlato di un sistema di tutela della salute mentale assolutamente non idoneo. Così come è carente la presa in carico delle persone che hanno problemi di dipendenza, che richiederebbe una più assidua presenza degli operatori del SerD all’interno dell’istituto. Eppure, dice il Garante, in carcere girano un sacco di sostanze". Il consigliere del gruppo Diritti in Comune va avanti: "A questo si aggiunge che anche i percorsi trattamentali, ovvero quelli che dovrebbero offrire per legge alle persone detenute strumenti e possibilità di cambiamento e partecipazione sociale, sono cronicamente carenti, disattendendo così l'articolo 27 della nostra Costituzione. Emblematica la situazione del personale dell’Area pedagogica, che vede 3 funzionarie in servizio sulle 5 previste. Mancano, eccetto le opportunità offerte dalla frequenza dell’istituto alberghiero, le possibilità di accesso alla formazione professionale e pure le opportunità di inserimento al lavoro nel tessuto produttivo locale del territorio". "Il garante infine ha sottolineato un dato preoccupante: la maggior parte delle persone detenute ha tra 20 e 30 anni, questo deve allarmarci. Ed è cronica e grottesca la presa in giro sulla struttura di accoglienza che il Comune dovrebbe approntare per dare ricovero alle famiglie in attesa dei colloqui, che da sempre fanno la fila in strada. L’abbiamo chiesta dieci anni fa, e stiamo ancora aspettando. Il carcere è in sostanza un luogo da cui scappare, appena possibile. Qui sta il problema: nella casa circondariale sono tante le persone che hanno i requisiti per accedere all’esecuzione penale esterna ma non ci sono le condizioni per le prospettive di un reale inserimento". Prosegue la denuncia di Ciccio Auletta: "Contro i detenuti e in genere contro le persone vulnerabili i continui tagli ai servizi e ai diritti si ritorcono in modo drammatico, e privano le persone delle opportunità per scegliere percorsi di vita di piena cittadinanza e di legalità. In questo, il Comune di Pisa continua a distinguersi per l’assoluto disinteresse della situazione carceraria". "Per abbattere la recidiva bisogna costruire cittadinanza e l’unico modo per arrivarci sono i servizi per l’inserimento sociale e per l’accesso al lavoro e alla casa. Ma l'amministrazione comunale ha deciso di non considerare i detenuti del Don Bosco come abitanti su suolo pisano, dimenticandosi che, una volta finita la pena, la maggioranza di chi esce dal Don Bosco rimane sul territorio, senza alcuna possibilità di un positivo inserimento in società". Auletta conclude: "Noi denunciamo la latitanza del Comune da dieci anni: nel 2014 abbiamo presentato in Consiglio Comunale un Ordine del Giorno con ragionevoli proposte di intervento di competenza dell’Ente Locale. L’atto è stato approvato e l’allora giunta Filippeschi non ha fatto nulla; nel 2017 l’ha nuovamente approvato e ha continuato a fare nulla. Una tradizione che tristemente continua con l’attuale giunta di destra". Monza. Ecco le fioriere costruite dai detenuti di Barbara Apicella Il Giorno, 23 ottobre 2023 I detenuti del carcere di Monza hanno realizzato fioriere che sono state posizionate in un Giardino Partecipato a Villasanta. Un progetto di rete che ha visto la partecipazione di cittadini, istituzioni e cooperative. Un momento di festa per la salvaguardia dell'ambiente. In paese è “cresciuto” un giardino speciale, con fioriere realizzate dai detenuti del carcere di Monza. Fioriere che nei giorni scorsi sono state posizionate in piazza Canova in quel Giardino Partecipato frutto di un lavoro di rete che ha visto la partecipazione del Comune, dei cittadini, della cooperativa Azalea Onlus di Lissone e della casa circondariale di via Sanquirico. Il progetto è nato all’interno del Tavolo Ambiente Ecologia: le fioriere sono state realizzate in carcere da alcuni detenuti sotto la guida di Carlo Galbiati docente dell’Iis Meroni di Lissone e progettate dall’architetto Marco Terenghi. Grandi cassoni in legno poi ribattezzati “Fioriere poetiche” realizzate in multistrato marino e legno di larice sulle quali sono stati scritti a mano versi tratti dalle poesie composte da alcuni detenuti raccolte nei volumi “Il giardino delle ortiche” e “Voci lontane”. Fioriere dove poi sono state messe a dimora piante aromatiche che potranno essere raccolte liberamente dai cittadini. Proprio perché alla base di questo giardino c’è un’idea di partecipazione e condivisione nella salvaguardia dell’ambiente. Una messa a dimora che è stata anche un momento di festa con una grande partecipazione non solo di chi ha attivamente preso parte all’iniziativa, ma anche di tanti curiosi e passanti che improvvisamente hanno visto sbocciare un’altra area di verde sotto casa grazie alla generosità dei villasantesi: il progetto, sulla base di una delibera di Giunta, è stato realizzato grazie con gli introiti del 5 per mille 2020, per 8.924,94 euro. Trieste. Cambiare dentro/costruire fuori, oggi la presentazione del progetto di Alessia Da Dalt triesteallnews.it, 23 ottobre 2023 Oggi, lunedì 23 ottobre, si terrà, alle ore 17.30 in Corso Italia 13, un incontro pubblico dedicato alla presentazione del progetto “Cambiare dentro/costruire fuori. Emancipazione, inclusione, salute mentale per le persone private della libertà”. Il convegno metterà in risalto il grande problema che affligge le carceri italiane e che non risparmia nemmeno la casa circondariale di Trieste: il sovraffollamento. Si discuterà di come l’istituto della città non sia adeguato, dal punto di vista strutturale, a rispondere dei problemi di privacy e di spazi per le attività socializzanti, formative ed educative e della carenza di personale di sicurezza, trattamentale e sanitario esterno. Si riporterà tutto ciò che è stato redatto in una relazione dal Garante nazionale dei diritti dei detenuti e delle persone private della libertà personale. All’incontro interverranno Giovanna Del Giudice, psichiatra e presidente di Conferenza per la salute mentale nel mondo Franco Basaglia, Mario Novello, psichiatra e Mauro Palma, presidente nazionale dell’autorità garante dei diritti dei detenuti e delle persone private della libertà personale. Tutti loro spiegheranno quali sono i rischi di questa situazione sia per la comunità cittadina che per i detenuti stessi infatti, prendendo in considerazione la componente femminile, si corre il pericolo di incappare in una forte marginalizzazione e in un ozio forzato per non poter usufruire, il più delle volte, di attività dedicate. Verranno infine presentati gli esiti di un laboratorio di lettura e scrittura che l’associazione Copersamm-Conferenza per la Salute Mentale nel Mondo Franco Basaglia ha realizzato, sempre nell’ambito del progetto, nella sezione femminile della casa circondariale della città da maggio a ottobre. Si tratta di un pomeriggio di arricchimento e di nuove consapevolezze per la comunità cittadina, così da poter analizzare il problema con spirito critico, senza paura e attraverso dati certi. Parma. L'importanza della formazione in carcere: domani un incontro all’Università Gazzetta di Parma, 23 ottobre 2023 Si svolgerà martedì 24 ottobre alle 17.30 nell'Aula Magna dell'Università di Parma un dibattito sull'importanza della formazione in carcere. Interverranno Vincenza Pellegrino, Veronica Valenti e Barbara Cusi. Nel carcere di Parma è attivo da diversi anni un polo formativo che vede la presenza di più scuole e percorsi che aprono anche all'Università, che in questo caso vede coinvolti non solo i docenti ma anche gli studenti della nostra università. Il Polo Universitario di Parma fa parte della rete dei Poli esistenti in alcuni Atenei italiani, i quali negli anni hanno avviato progetti analoghi per garantire il diritto allo studio universitario a studenti detenuti e oggi sono riuniti in una Conferenza nazionale (la Conferenza Nazionale dei Delegati dei Rettori per i Poli Universitari Penitenziari - CNUPP) istituita presso la CRUI. La specificità del Polo Universitario di Parma è quella di accogliere studenti detenuti in regime di alta sicurezza, presentandosi quindi come una sfida particolare nel panorama nazionale. Oltre agli esami, alle sedute di laurea e agli incontri con i docenti, all’interno dell’Istituto Penitenziario si tengono incontri di orientamento e brevi cicli di lezioni in presenza di studenti detenuti e non, sempre nel pieno rispetto delle condizioni che permettano la sorveglianza. Per accompagnare gli studenti-detenuti nel percorso di studio e assisterli nell’espletamento di tutte le attività connesse alla carriera universitaria, è prevista la presenza di tutor, studenti iscritti all’Università alle lauree magistrali o a Corsi di Dottorato. Festival della Migrazione nel segno della libertà. «Di partire e di restare» di Elisabetta Soglio Corriere della Sera, 23 ottobre 2023 Torna la rassegna sull’accoglienza: dal 25 al 28 ottobre numerosi incontri ed eventi in diverse città tra Emilia Romagna e Veneto. «Una voce consapevole espressa dalla società civile per un dibattito». Un diritto, non un’emergenza. Da sostenere con spirito di accoglienza. Questo il filo conduttore del Festival della Migrazione, sul tema «Liberi di partire, liberi di restare», che si terrà da mercoledì 25 a sabato 28 ottobre, organizzato da Fondazione Migrantes della Cei, da Porta Aperta, dal Centro di ricerca interdipartimentale su discriminazioni e vulnerabilità di Unimore e IntegriaMo. Giunta all’8ª edizione la rassegna prevede incontri e iniziative tra Modena, Carpi, Bologna, Ferrara, Fidenza, Formigine, Mirandola, Soliera, Rovigo, Fiorano Modenese. Tutti gli appuntamenti potranno anche essere seguiti in streaming. «Il Festival della migrazione, nato come momento di studio, tutela e promozione del diritto al viaggio, è una voce consapevole espressa dalla società civile sui fenomeni migratori - spiegano gli organizzatori -. L’idea di fondo è stata quella di contribuire al dibattito pubblico sul tema, in modo da non lasciare la discussione solo a forze sociali e politiche che hanno per loro natura legittimi obiettivi specifici (o di parte) non direttamente collegati alla realtà profonda del fenomeno». Molti gli ospiti che interverranno nei quattro giorni di rassegna, esponenti del Terzo settore, del mondo cattolico, delle organizzazioni del sociale, della cultura, della scuola e dell’amministrazione. E numerosi i temi che saranno affrontati: dal tema dell’accoglienza sul territorio agli aspetti sanitari, inter-religiosi e inter-culturali, passando per storie, volti e diritti. Per quanto riguarda poi gli eventi nelle scuole testimonial del Festival sarà Amir Issaa, rapper e attivista romano che racconterà la sua esperienza. Programma e informazioni si possono trovare sul sito del Festival della Migrazione. Le ragazze di Scampia con «testa-cuore-mani», la moda come riscatto di Laura Aldorisio Corriere della Sera, 23 ottobre 2023 L’iniziativa di sartoria sociale, nata contro l’abbandono scolastico, ha coinvolto 18 ragazze del quartiere; conseguita la qualifica professionale ora si punta al diploma. Un acronimo che sa di vita nuova. «Tecuma», le sillabe iniziali delle parole «testa-cuore-mani», è il brand desiderato e realizzato da alcune ragazze di Scampia. La loro storia aveva già preso una piega, poi è accaduto l’imprevedibile. Il cuore del quartiere di Napoli, spesso ferito dalla dispersione scolastica, nel 2017 ha, infatti, conosciuto una svolta. Il centro di formazione professionale Eitd, in collaborazione con Ipam, l’Istituto Pontano delle Arti e dei Mestieri, ha avviato una sperimentazione rivolta ai giovani che avevano abbandonato la scuola e che la scuola non era riuscita a trattenere. «Il punto era: come attirarli di nuovo allo studio?», dice Anna Florio, docente dell’Eityd. «Abbiamo diffuso la notizia che avremmo fatto partire il primo corso di operatore dell’abbigliamento, un percorso che va dal fashion design, alla modellistica, fino alla sartoria. Abbiamo presentato il progetto agli assistenti sociali e raggiunto alcuni ragazzi fisicamente casa per casa». La risposta non si fa attendere, il primo corso viene avviato con 18 ragazze del quartiere. La sfida che loro avevano raccolto, per i docenti diventa duplice: non solo una formazione professionale, ma un vero proprio patto educativo, volto a coinvolgere quanto più i famigliari e a spalancare l’orizzonte delle studentesse. «Abbiamo studiato storia dell’arte lungo il centro storico di Napoli, vissuto attività didattiche a Scampia, ma siamo anche andati in barca a vela per imparare a collaborare, fino a vedere le sfilate al Pitti a Firenze. Così sono diventate consapevoli di essere e di poter diventare professioniste». Tutte le ragazze hanno preso la qualifica professionale, poi hanno chiesto di frequentare un quarto anno per conseguire il diploma. A questo punto, attraverso la Fondazione Città Nuova, hanno partecipato a un avviso della città di Napoli per creare una sartoria sociale «per passare dall’integrazione scolastica all’integrazione lavorativa. La risposta è stata positiva ed allora è nata Tecuma, la sartoria sociale «testa-cuore-mani» perché con il cuore ti accorgi di quel che esiste, con la testa elabori una consapevolezza per vedere quel che c’è e quel che sai fare, con le mani lo metti in pratica». Con i fondi la start up ha preso il via, in un bene confiscato alla camorra, vicino al carcere di Secondigliano, poi sono arrivati i primi ordini e gli accessori, le t-shirt e le felpe, così come anche gli abiti su misura sono entrati sul mercato. «Ora dobbiamo diventare sostenibili ed è la difficoltà che stiamo incontrando ora. Le ragazze temono che questa nuova possibilità di vita si possa interrompere», dice Roberto Sanseverino, direttore e legale rappresentante della Fondazione Città Nuova. «Siamo sempre alla ricerca di clienti, di nuove strade di mercato perché qui significa continuare ad avere speranza». Intanto il seme piantato da quelle tredici ragazze sta portando frutti. Le segnalazioni di ragazzi in dispersione scolastica arrivano dalle famiglie stesse o dai genitori dei ragazzi che hanno frequentato Eitd, secondo un passaparola positivo. Sono nati altri corsi, come quello di operatore informatico per accogliere anche la platea maschile, e sono stati avviati altri progetti di inserimento lavorativo, come quello in collaborazione con il centro antiviolenza di Scampia. «L’inclusione scolastica e l’inclusione sociale si misurano, così, con il lavoro», dice Sanseverino, «che è il completamento della dignità della persona». Medio Oriente. Il sonno della ragione di Massimo Ammaniti La Repubblica, 23 ottobre 2023 C’è qualcosa nella mente collettiva dei due popoli che li spinge a ripetere gli stessi comportamenti da molti decenni. “Il sonno della ragione genera mostri” è il titolo di un’acquaforte del pittore spagnolo Francisco Goya che lo realizzò nel 1797, nella quale si vede un uomo dormiente sdraiato su una scrivania mentre attorno a lui schiere di uccelli ed animali terrorizzanti lo stanno travolgendo. È un dipinto fortemente evocativo che si riferisce al clima politico di quegli anni e che è sempre attuale nello scenario odierno della guerra in Ucraina e in Israele e nella Palestina. Quello che è successo a Gaza con la distruzione dell’Ospedale e la morte di centinaia di persone, fra cui molti bambini, ha provocato uno scontro mediatico fra Israele e Hamas, ognuno per accusare l’altro per la responsabilità dell’eccidio, prima che si chiarisse che si era trattato di un razzo della Jihad islamica caduto per errore nel parcheggio dell’ospedale. Attribuire le responsabilità all’aviazione israeliana serve a galvanizzare l’odio delle popolazioni arabe contro Israele, mentre nell’altro caso l’opinione pubblica di Israele si convincerebbe ancora una volta di più della necessità di invadere la striscia di Gaza infestata da terroristi. Quello che è mancato in entrambi i popoli è il dolore e la disperazione per la drammatica morte di tante persone, sia che si trattasse dei malati ricoverati in ospedale sia delle famiglie che si erano rifugiate lì, nella speranza di potersi salvare dai bombardamenti. L’odio ha accecato gli occhi di tutti, purtroppo sono morti uomini, donne e bambini che fuggivano terrorizzati, la cui vita è stata cancellata con le loro storie personali fatte di rapporti, di affetti, di desideri e di paure. La stessa cosa è avvenuta nel rave in Israele, dove sono stati massacrati ragazzi e ragazze giovanissimi che si aprivano alla vita e che non avranno la possibilità di viverla. Sono stati anche loro vittime dell’odio e della vendetta implacabile dei militanti di Hamas, che hanno volutamente estirpato i loro sentimenti per divenire giustizieri violenti, che non hanno mai appreso il linguaggio dei sentimenti umani. Si può cercare di risalire alle cause di tutto questo, la nascita dello Stato di Israele non voluto dai paesi arabi, guerre di aggressioni concluse con sconfitte amare, insediamenti dei coloni israeliani che hanno eroso i territori palestinesi, le convinzioni deliranti di cancellare lo Stato di Israele, una spirale distruttiva che ha intrecciato i destini di due popoli e che rischia di perpetuarsi nel futuro condannandoli come Sisifo a reiterare i propri comportamenti inconcludenti. Tutto questo è senz’altro vero, ma forse c’è qualcosa nella mente collettiva dei due popoli che li spinge a ripetere gli stessi comportamenti ormai da molti decenni, senza interrogarsi sul senso di quello che stanno facendo. La paura, l’insicurezza, il terrore, il risentimento e l’odio silenziano le capacità di guardare sé stessi, di comprendere quello che si pensa, i propri sentimenti, le proprie direzioni personali e le proprie motivazioni. Non riguarda solo una capacità individuale, si riferisce anche ai gruppi e addirittura ai popoli che perdono il terzo occhio, quello rivolto a sé stessi e che aiuta a comprendere anche gli errori effettuati e a correggere le traiettorie personali, non solo quotidiane anche quelle di più lunga durata. Come scrive Stephen Fleming, Direttore del Laboratorio di Neuroscienze dell’ University College di Londra, la metacognizione, ossia la consapevolezza di sé è fondamentale per vivere ed orientarsi nel mondo attuale. Questa autoconsapevolezza non solo si focalizza su sé stessi, aiuta a capire che anche gli altri hanno una mente come la propria , per cui ci si può interrogare “ io vedo quello che succede nel mondo a modo mio, ma come lo vedrà un’altra persona differente da me?” Un esempio più che convincente raccontato da Stephen Fleming nel suo libro “Conoscere se stessi” riguarda quello che successe in Iraq nel 2002 con l’invasione americana, che veniva giustificata dai Comandi militari e dagli stessi Governanti convinti che Saddam Hussein e gli iracheni possedessero le armi di distruzione di massa. In una intervista alla Cnn fu chiesto a Donald Rumsfeld, Segretario della Difesa americana quali fossero le prove che il governo iracheno possedesse queste armi a cui rispose: “Sono interessato perché ci sono cose conosciute note. Poi ci sono cose sconosciute che non conosciamo e poi cose sconosciute che non sappiamo neppure di non sapere”. Con questa argomentazione capziosa si decise di entrare in guerra perché questa incognita sconosciuta sarebbe stata troppo pericolosa, anche se in seguito si è scoperta la sua falsità. Evidentemente Rumsfeld nonostante ignorasse l’esistenza di questo pericolo non ebbe incertezze, che invece lo avrebbero aiutato a dubitare dell’utilità dell’intervento. E se poi nonostante tutto si fosse intrapresa la guerra sarebbe stato possibile riconoscere gli errori e rimediare evitando di andare avanti a testa bassa compromettendo la propria posizione politica e il futuro dell’Iraq. Purtroppo nella guerra fra israeliani e palestinesi ognuno vuol far valere le proprie ragioni che non vengono valutate in modo critico; diventano convinzioni granitiche, supportate anche da credenze religiose che provocano un’intolleranza dogmatica verso il nemico. L’altra faccia è l’autoritarismo con cui si impone la propria visione intransigente e la propria volontà nei rapporti cogli altri. Questo viene puntualmente confermato dai dirigenti di Hamas che si sono impossessati del potere abolendo le elezioni, mentre in Israele nonostante certe forme autoritarie del Governo attuale vi è un assetto democratico nel paese, testimoniato dalle manifestazioni oceaniche contro i provvedimenti governativi proposti per ingabbiare la giustizia. Speriamo che anche in questa drammatica situazione le stesse voci si facciamo sentire per moderare le scelte del governo e spingerlo a trovare una soluzione per gli ostaggi. Israele-Gaza: l’Unione Europea sta indebolendo il diritto internazionale di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 23 ottobre 2023 All’inizio del nuovo conflitto tra Israele e Gaza, le leadership dell’Unione europea e dei suoi stati membri avevano di fronte a loro due opzioni molto chiare: ribadire l’importanza del diritto internazionale umanitario pretendendone il rispetto da tutte le parti in conflitto, oppure indebolirlo applicando doppi standard. Finora è stata scelta la seconda opzione: sostegno incondizionato a Israele, solidarietà selettiva nei confronti delle vittime. Alla popolazione civile di Gaza tuttalpiù maggiori aiuti, come se si trattasse solo di una crisi umanitaria (innegabile e di dimensione spaventosa) e non anche di una crisi dei diritti umani (per lo più negata e invece di dimensione altrettanto spaventosa). Giovedì scorso il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione che, al posto del cessate-il-fuoco, chiede una “pausa umanitaria”. Nulla di più: una sorta di appello non vincolante. Il messaggio che l’Unione europea sta inviando al mondo è il seguente: le vite di alcuni valgono più delle vite di altri; i crimini di diritto internazionale si condannano o si condonano a seconda di chi li compie. C’è poi un altro aspetto preoccupante: in alcuni stati membri sono entrate in vigore limitazioni al diritto di protesta pacifica nei confronti delle manifestazioni in favore della Palestina. In Francia, il divieto è stato dichiarato totale e Amnesty International l’ha giudicato un provvedimento “grave e sproporzionato”. È dovuto intervenire il Consiglio di stato a spiegare che un divieto del genere non è applicabile e che si deve valutare caso per caso. Silenzio, invece, sul tema della giustizia internazionale. Nel 2021 la Corte penale internazionale ha formalmente aperto un’indagine sulla situazione in Palestina, riguardante crimini di sua competenza commessi dal giugno 2014. L’ufficio del procuratore della Corte ha confermato che il mandato dell’indagine comprende crimini di diritto internazionale commessi da tutte le parti nell’attuale conflitto. Sarebbe importante che gli stati membri dell’Unione europea chiedessero al governo israeliano di cooperare con la Corte e di facilitarne il lavoro, anche consentendo ai suoi funzionari l’ingresso nei Territori palestinesi occupati e in Israele per condurre indagini sul posto sui crimini commessi da tutte le parti in conflitto. Altrettanto importante sarebbe che gli stati membri garantissero alla Corte adeguati finanziamenti per condurre pienamente le proprie indagini. In definitiva, le azioni che l’Unione europea e i suoi stati membri stanno intraprendendo in queste settimane avranno conseguenze significative per la vita di milioni di palestinesi e israeliani e saranno cruciali per capire se all’Unione europea e ai suoi leader spetterà mai un ruolo di attore imparziale, impegnato nella tutela dei diritti umani. *Portavoce di Amnesty International Italia Il modo in cui i media affrontano il massacro di Gaza è un salto di qualità morale di Paolo Ferrero* Il Fatto Quotidiano, 23 ottobre 2023 Di fronte all’ennesimo atto del genocidio in corso in Palestina, il sentimento che ci attanaglia è di drammatica impotenza, di sgomento per un orrore a cui assistiamo in tempo reale con la drammatica impressione di non poter fare nulla. Ci rimane una cosa: dire cosa ne pensiamo, cercare di comunicare agli altri umani il nostro pensiero. Questo mi appresto a fare. Il modo in cui i principali apparati - statuali, militari, informativi - occidentali trattano il massacro in corso a Gaza da parte delle truppe occupanti israeliane rappresenta un salto di qualità morale che parla del degrado assassino delle élite occidentali. Due mi paiono le caratteristiche principali. Le costruzione di una narrazione fondata integralmente sulle menzogne. Non è solo il problema delle singole bugie - che pure sono rilevanti - dalla ipotetica decapitazione dei bambini alle accuse ad Hamas di aver bombardato l’ospedale battista di Gaza. E’ il complesso della narrazione che rovescia la realtà, descrivendo gli occupanti, ipertecnologici e iperarmati, che hanno violato per decenni tutte le risoluzioni della Nazioni Unite come le povere vittime, mentre i palestinesi sono descritti come barbari violenti e bruti, non umani, come ha detto senza avere grandi reazioni negative il ministro della Difesa israeliano. I non umani, questa razza inferiore che abusivamente occupa da secoli i propri territori, viene infatti sottoposto ad apartheid dallo stato israeliano senza che questo faccia problema ai potentati occidentali. Anzi questi ultimi considerano e dipingono questo stato fondato sull’apartheid e sul razzismo come un baluardo della democrazia. Sull’accettazione di questo stato di fatto l’occidente costruisce una narrazione fondata integralmente su un doppio standard valutativo: gli israeliani vengono barbaramente assassinati, i palestinesi muoiono; gli uni si difendono, gli altri sono sadici criminali, e così via. Non voglio proseguire oltre perché qualunque persona dotata di una qualche capacità critica nell’uso della propria intelligenza è in grado di rintracciare altre decine di esempi. Il nodo è cogliere il punto di fondo che a mio parere emerge: le élite occidentali in declino sono diventate il principale ostacolo allo sviluppo dell’umanità nella sua accezione più ampia. Stanno perdendo il primato economico, quello tecnologico e quello finanziario. In particolare quelle statunitensi ritengono che il tempo e la pace giochino a loro sfavore e che solo la guerra possa ristabilire il dominio di un occidente in declino. E’ l’occidente a mettere in discussione la pace mondiale e la Nato è stata ristrutturata nel corso dell’ultimo anno per essere lo strumento operativo attraverso cui perseguire la strategia di guerra a livello mondiale. La Cina e tutte le potenze emergenti del Sud del mondo, che viaggiano a velocità doppia dell’occidente, sono interessate ad avere la pace. Perché grazie alla pace possono sovvertire le gerarchie mondiali. Anche la Russia, che a causa del cambio climatico vedrà la Siberia diventare il granaio del mondo nei prossimi decenni (due terzi delle terre coltivabili mondiali) ed è un autentico forziere di materie prime con una popolazione assai ridotta, ha tutto da guadagnare in una situazione di pace. Le élite occidentali, che nella pace vedono la perdita del proprio potere e dei propri privilegi, sono interessate alla guerra. Per questo l’unica strada è il decoupling, il disaccoppiamento. Non tra l’economia occidentale e quella cinese, ma tra i popoli occidentali e le élite che le dominano colonizzando integralmente l’immaginario. Rendere evidente che gli interessi dei popoli occidentali - sempre più impoveriti - non hanno nulla a che vedere con quelli delle élite occidentali e che i valori della civiltà occidentale non hanno nulla a che vedere con quelli propagandati dalle élite mi pare il vero compito che abbiamo, qui ed ora in occidente. Produrre una consapevolezza che i nostri nemici non hanno gli occhi a mandorla o la pelle scura, ma sono “i nostri” che ci sfruttano cercando di ammaestrarci blandendoci e manipolando la realtà. Proprio in questa ora buia, la protesta di centinaia di ebrei statunitensi che insieme ad altri hanno occupato il Campidoglio per manifestare contro il governo israeliano e per il cessate il fuoco ci indicano che questa strada è possibile. Nella protesta dei nostri fratelli con la kippah in testa che hanno chiesto che gli Stati Uniti la smettano di finanziare il genocidio israeliano nei Territori palestinesi e che per questo sono stati arrestati, vediamo la speranza e la strada da seguire: la più netta, radicale separazione e contrapposizione alle élite che dicono di rappresentarci. Not in my name non è solo uno slogan ma deve diventare il punto di partenza del nostro modo di pensare e di agire. Di essere. *Rifondazione Comunista - del coordinamento nazionale di Unione Popolare