Le carceri sono l’emergenza che il governo vuole silenziare di Giulia Merlo Il Domani, 22 ottobre 2023 Il sovraffollamento carcerario anche minorile è fuori controllo e i nuovi decreti lo aumenteranno. Ma la maggioranza ignora la polizia penitenziaria e lottizza l’ufficio del Garante dei detenuti. Ormai si trovano quasi tutte fuori dalle città, nascoste dagli occhi dei cittadini e lontane dagli occhi della politica. Le carceri sono una bomba che ticchetta nelle mani del governo Meloni che - apparentemente inconsapevole dell’estate di emergenza appena trascorsa - continua ad approvare decreti in materia di giustizia (dal dl Cutro a quello Caivano) tutti a bilancio invariato ma che vanno tutti nella direzione di aumentare la possibilità di ricorrere alla detenzione, per i minori che delinquono come per i migranti. Trascurando, però, il fatto che che le strutture sono endemicamente sovraffollate. I dati dell’ultimo rapporto Antigone, infatti, fotografano come i detenuti nelle carceri italiane crescano circa 5 volte di più rispetto all’aumento dei posti, e il dato rischia di aumentare ulteriormente con gli ultimi decreti del governo. Con il risultato che, fronte di una capienza ufficiale di 51.249 posti (cui vanno sottratti i 3646 posti non disponibili), al 30 aprile erano detenute 56.674 persone, di cui il 26,6 per cento in custodia cautelare e dunque senza una condanna definitiva. Il dato è cresciuto anche per quanto riguarda i minori. Il rapporto 2023 Caritas-Migrantes, infatti, ha evidenziato come si sta assistendo a un consistente aumento degli ingressi di minori in carcere con 1.016 ingressi nel 2022, di cui 520 stranieri. Un fenomeno almeno in parte connesso alle gang giovanili, ma che potrebbe aumentare anche il seguito alle nuove norme sulla detenzione per i minori introdotte dal decreto Caivano. Secondo le stime dell’ufficio del Garante dei detenuti uscente, infatti, la popolazione carceraria negli istituti minorili è destinata ad aumentare del 20 per cento, in una situazione di strutture già sature. I problemi, però, riguardano anche l’intera macchina penitenziaria, tra carceri fatiscenti e agenti sul piede di guerra. Secondo il rapporto Antigone 2021 sui dati del Dap, la polizia penitenziaria - corpo che fa riferimento al ministero della Giustizia - ha un organico di 37.181 unità ma ad oggi sono solo 32.545 gli agenti di polizia penitenziaria realmente operativi, con una carenza di organico del 12,5 per cento che è stabile dal 2019. La carenza di agenti, però, non è equamente distribuita: si toccano picchi del 20 per cento in Sardegna e Calabria. Tra le situazioni difficili c’è quella di Salerno, dove il sovraffollamento è di 530 detenuti a fronte di una capienza di 350 e con il personale di polizia al collasso, “con quasi 9000 congedi arretrati non fruiti”, ha detto l’Unione dei sindacati di polizia penitenziaria. Il problema è duplice: da un lato la carenza di personale costringe a turni faticosi in un ambiente già di per sè difficile; dall’altro violenza produce violenza, sia da parte dei detenuti che delle forze dell’ordine. Meno poliziotti significa anche meno controlli nelle celle, con in risultato che nel 2022 sono stati 84 i detenuti che si sono suicidati e 87 che sono morti per quelle che vengono indicate come “altre cause” (malattia, overdose, omicidio, cause “da accertare”). Se ogni nove giorni un detenuto si uccide, ogni 24 ore almeno altri tre tentano di farlo e vengono fermati in extremis. Questa situazione di violenza, sovraffollamento e scontri tra detenuti e forze dell’ordine ha raggiunto nel corso dell’estate un livello considerato non più sostenibile nemmeno dai sindacati di polizia. Tanto che le sigle sindacali più rappresentative hanno chiesto le dimissioni del capo del Dap Giovanni Russo (toga di Magistratura indipendente e nominato dal guardasigilli Carlo Nordio a dicembre 2022) per “manifesta inadeguatezza” nella gestione dell’emergenza estiva e a proporne la sostituzione con i magistrati Nicola Gratteri (fresco di nomina alla procura di Napoli) o Sebastiano Ardita. I toni si sono leggermente rasserenati dopo il rinnovo dell’accordo nazionale quadro, dopo diciannove anni di blocco e sei di trattativa. Un documento “fondamentale”, ha gioito il sottosegretario Andrea Delmastro, ma è un palliativo che rischia di durare poco se il governo non mette mano alle cause strutturali dell’emergenza. Il Garante dei detenuti - Come ha fatto con il Dap, il governo ha proceduto con il meccanismo dello spoils system anche per un altro organo nevralgico per la galassia del carcere: l’Ufficio del garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà. Istituito nel 2013, l’Ufficio nazionale è composto da tre persone e ha poteri di ispezione molto pervasivi non solo nelle carceri, ma anche in luoghi di polizia, residenze per le misure di sicurezza, reparti dove si effettuano i trattamenti sanitari obbligatori. E i centri per i rimpatri che oggi il governo Meloni vorrebbe aumentare, costruendone uno in ogni regione. Di qui l’attenzione per una figura che, per legge, dovrebbe invece essere indipendente dalla politica e su cui invece si è consumata l’ultima forzatura della maggioranza. Nello scegliere i successori dell’attuale ufficio - presieduto da Mauro Palma, che è tra i fondatori dell’associazione Antigone e si è occupato di carcere per tutta la carriere - al Senato la maggioranza di centrodestra ha impedito l’audizione del candidato presidente Felice Maurizio D’Ettore, un professore di diritto civile e nella passata legislatura è stato deputato di Forza Italia poi passato a Fratelli d’Italia. A lui i senatori non hanno potuto porre alcuna domanda prima di procedere alla votazione, che si è conclusa con il via libera ai candidati ma con Pd e Italia viva che hanno rinunciato a votare per protesta. Il sospetto, infatti, è che il governo stia puntando a paralizzare l’organo, scegliendo persone evidentemente d’area e dunque prive del requisito dell’indipendenza, ma soprattutto che non si sono mai direttamente occupate di carceri e detenuti. Né D’Ettore, né gli altri due nomi indicati dal governo - Irma Conti che si occupa di penale societario e il professore di diritto privato Mario Serio - hanno infatti esperienza in materia. Dopo il passaggio alla Camera la pratica passerà al presidente della Repubblica, formalmente deputato a ratificarla, ma il timore tra chi si occupa di carcere è forte. Fonti interne al mondo degli operatori, infatti, sottolineano: “Senza esperienza specifica, difficilmente il nuovo Garante sarà in grado di svolgere le ispezioni individuando ciò che normalmente nelle strutture si vuole nascondere”. Con il rischio di silenziare la voce più autorevole e chiudere l’unico occhio indipendente aperto sull’inferno carcerario. Una politica penitenziaria senza proposte di Nello Trocchia Il Domani, 22 ottobre 2023 I numeri del disastro sono impietosi, dal sovraffollamento alle carenze di personale, dai suicidi in carcere ai tagli delle indennità. La destra si scopre incapace anche in un universo molto vicino politicamente dove da anni si aspettano inutilmente risposte. Per misurare il fallimento del governo Meloni bisogna partire dal carcere e dalle politiche messe in campo. Un anno è bastato per capire la distanza tra le promesse fatte in campagna elettorale e i risultati che scontentano tutti, anche gli stessi universi elettorali di riferimento delle destre, come quello della polizia penitenziaria. In dodici mesi la cura del ministro della Giustizia, Carlo Nordio, è stata perfetta per ammazzare definitivamente un settore, in precarie condizioni da tempo. Sul fronte carcere, i numeri dicono che niente è stato fatto per il sovraffollamento, ci sono quasi dieci mila reclusi in più della capienza. La ricetta proposta è sempre la stessa, utilizzare le caserme dismesse, vecchio cavallo di battaglia delle destre da 25 anni. L’inazione si somma alle sortite discutibili del ministro in giro per l’Italia, come quando, a Torino, dopo il suicidio di due donne in carcere, aveva paragonato quei casi a due nazisti che si erano tolti la vita prima e durante il processo di Norimberga. I numeri del fallimento - Sono i numeri a raccontare l’incapacità di dare risposte, l’unica proposta nuovamente sul tavolo, è quella di rabbonire la polizia penitenziaria, rivedendo il reato di tortura e regalando così licenza di impunità a una minoranza di agenti picchiatori. C’è un problema gigantesco, gli abusi in divisa, e il governo pensa di risolverlo rimodulando il reato. Tornando ai numeri, mancano 18 mila agenti di polizia penitenziaria rispetto al reale fabbisogno, una situazione che si aggraverà nei prossimi anni (entro il 2026) quando ci sarà l’entrata in funzione di nuovi padiglioni detentivi per un totale di 1.690 posti. I sindacati denunciano che con le assunzioni in corso non si riuscirà a coprire neppure il turnover, non si assume anche per la carenza strutturale di scuole di formazione. Una situazione allo sbando considerando che il governo, tra i primi provvedimenti assunti, ha perfino tagliato risorse alla penitenziaria, in particolare le indennità: 25 milioni totali per gli anni 2022 e 2023 e undici milioni di euro dal 2024. Bisogna aggiungere che le indennità non pagate alla polizia penitenziaria vengono, invece, riconosciute ad altri corpi di polizia. Di carcere si muore, solo nel 2023 ci sono stati 53 suicidi fra i detenuti; due omicidi in carcere; 121 morti totali con i detenuti malati di mente che non vengono adeguatamente curati. Gennarino De Fazio, segretario della Uilpa, dice: “Dopo un anno di governo, i problemi penitenziari rimangono sostanzialmente irrisolti e per molti versi peggiorati. Certamente registriamo un’attenzione diversa alle necessità della polizia penitenziaria, soprattutto dal sottosegretario, Andrea Delmastro delle Vedove, che ha consentito, per esempio, la previsione dei Medici del Corpo, tuttavia ancora solo sulla carta, il varo di un manuale per gli interventi operativi, che si scontra però con la realtà, nondimeno scontiamo il sostanziale disinteresse del Guardasigilli, Carlo Nordio”. Delmastro Delle Vedove è l’avamposto meloniano dentro il ministero, ma conta sempre meno visto che il dicastero è nelle mani di Nordio e soprattutto della stretta collaboratrice, un passato da forzista, Giusi Bartolozzi. Conta meno anche perché rischia il processo per la grave sgrammaticatura istituzionale, con il contributo del deputato Giovanni Donzelli, che ha portato all’indagine a suo carico per rivelazione di segreto d’ufficio. Una vicenda che ha profondamente segnato anche umanamente il sottosegretario, il quale aveva confidato alcune notizie riservate all’ex coinquilino, trasformate in una battaglia politica in aula contro il Pd. Delmastro si è assunto e si assumerà l’intera responsabilità di quel pasticcio e, in caso di rinvio a giudizio, potrebbe lasciare l’incarico di sottosegretario per proteggere ministero e governo. Un’eventualità che sguarnirà ulteriormente il dicastero di sentinelle meloniane, ormai la giustizia è in mano a Forza Italia come era già emerso con la scelta del capo del Dap, dove Fdi spingeva per Lina Di Domenico, ora vice, e, invece, si è accontentata di Giovanni Russo, attuale capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. L’Associazione nazionale magistrati: “Il governo ci vuole intimorire” di Danilo Paolini Avvenire, 22 ottobre 2023 Duro documento del Comitato direttivo, ma il “sindacato delle toghe” si divide: Magistratura indipendente vota contro e i colleghi di Area l’accusano di giocare di sponda con il centrodestra. Si tende nuovamente la corda dei rapporti tra l’attuale maggioranza politica di centrodestra e la magistratura associata. La quale, tuttavia, appare meno compatta rispetto ad altre fasi di questo ormai storico conflitto. La riunione del Comitato direttivo centrale, ieri pomeriggio a Roma, è stata l’occasione per l’Associazione nazionale magistrati, di tornare sulle polemiche relative alla giudice catanese Iolanda Apostolico. Al termine, è stato messo ai voti e approvato un documento che accusa il governo di volere “intimorire ogni giudice che dovesse assumere un’interpretazione non gradita o allineata ad un certo indirizzo politico”. Ma l’esito della votazione, come accennato, restituisce un “sindacato delle toghe” diviso: 22 favorevoli e 8 contrari, ovvero i rappresentanti di Magistratura indipendente, la componente più “moderata” dell’Anm e tradizionalmente più vicina alle posizioni del centrodestra. Nel testo approvato dal “parlamentino” dell’Associazione si conferma “lo stato di agitazione già deliberato sui temi dell’indipendenza e dell’autonomia della magistratura” e si dà il via libera alla convocazione di un’assemblea generale con all’ordine del giorno “gli attacchi alla giurisdizione e la pesante denigrazione dei singoli magistrati che hanno adottato provvedimenti in materia di protezione internazionale”. Si chiede, infine, all’Autorità garante per la privacy di “adottare tutte le opportune iniziative a tutela dei magistrati che sono stati e che saranno oggetto di intrusioni indebite nella loro vita privata in conseguenza del contenuto dei loro provvedimenti”. Il punto di partenza sono le sentenze con cui la giudice Apostolico (e successivamente altri suoi colleghi in diverse città) ha rimesso in libertà alcuni richiedenti asilo ceh erano trattenuti nei centri per immigrati in base al cosiddetto decreto Cutro, e la seguente diffusione da parte del vicepremier leghista Matteo Salvini di un filmato in cui la stessa giudice partecipa a una manifestazione del 2018 contro le politiche migratorie del governo Conte 1. “Un attacco di straordinaria gravità - è la denuncia dell’Anm - che sposta volutamente l’attenzione dalla discussione sul merito del provvedimento e la sua motivazione giuridica, fondata sul contrasto della normativa interna con il diritto europeo, alla persona del giudice che lo ha emesso”. Non a caso, nel suo intervento, Giuseppe Santalucia, presidente del “sindacato” delle toghe, aveva affermato che nei confronti della collega Apostolico è stata imbastita una “campagna denigratoria” e una “caccia all’uomo”, in quanto “dalla critica, sempre legittima, a un provvedimento giudiziario, si è passati alla ricerca di elementi che possano gettare ombra” sulla sua imparzialità. Nel documento finale, comunque, si assicura disponibilità “a una seria riflessione sulla imparzialità del magistrato in tutte le sue declinazioni”. Oggi, tuttavia, si chiede “con forza alla politica di riflettere sugli effetti dannosi per i cittadini di simili operazioni di delegittimazione, volte a indebolire la credibilità del potere giudiziario e l’indipendente esercizio della funzione giudiziaria”. Una presa di posizione senza mezzi termini, che richiama alla memoria gli scontri infuocati tra l’Anm e i governi Berlusconi. Troppo, per Magistratura indipendente, il cui voto contrario è stato interpretato dai colleghi di Area democratica per la giustizia (la “sinistra togata”) come “una scelta di campo” che confermerebbe “un asse tra questo gruppo associativo e la maggioranza di governo”. L’obiettivo di Mi, accusa Area, sarebbe quello di assicurarsi “i voti dei laici di centrodestra necessari a monopolizzare le nomine” del Consiglio superiore della magistratura. Insomma, l’atmosfera si fa pesante. Lo dimostra anche la breve nota della Lega: “La riforma della giustizia è urgente, nel frattempo la magistratura deve concentrarsi per lavorare proficuamente e giudicare con serenità. Le proteste e i toni sopra le righe della Anm non aiutano a ristabilire un clima rispettoso”. Caso Apostolico, l’Anm conferma lo stato d’agitazione. Ma MI vota contro di Valentina Stella Il Dubbio, 22 ottobre 2023 Quello di Magistratura indipendente è stato l’ennesimo distinguo dopo non aver sottoscritto al Csm la richiesta della pratica a tutela nei confronti della giudice del Tribunale di Catania. Il caso Apostolico divide in parte l’Anm riunita oggi a Roma per il Cdc. Alla fine della prima giornata, viene votato un documento in cui si conferma lo “stato di agitazione già deliberato sui temi dell’indipendenza e dell’autonomia della magistratura” e si delibera la convocazione di un’assemblea generale con all’ordine del giorno “gli attacchi alla giurisdizione e la pesante denigrazione dei singoli magistrati che hanno adottato provvedimenti in materia di protezione internazionale”. A favore del documento sono stati espressi 22 voti, mentre 8 sono stati quelli contrari: Magistratura Indipendente è stata l’unico gruppo a votare contro. L’ennesimo distinguo dopo non aver sottoscritto al Csm la richiesta della pratica a tutela nei confronti della giudice del Tribunale di Catania che non ha convalidato il trattenimento, nel centro per richiedenti asilo di Pozzallo, di migranti tunisini sbarcati a Lampedusa - e messa alla gogna in video pubblicato da Matteo Salvini mentre era alla manifestazione del 25 agosto 2018 al porto di Catania per il caso Diciotti. L’Anm, inoltre, con il suo documento, chiede al Garante per la privacy di “adottare tutte le opportune iniziative a tutela dei magistrati che sono stati e che saranno oggetto di intrusioni indebite nella loro vita privata in conseguenza del contenuto dei loro provvedimenti”. Al ministro della Giustizia, poi, si chiede di “precisare il contenuto e le finalità del mandato conferito agli ispettori” sul caso Apostolico. Per giungere all’approvazione del documento ci è voluta una sorta di trattativa tra i gruppi. All’inizio Mi e Unicost erano concordi nel ribadire la condanna agli attacchi ricevuti dalla collega catanese, ma avrebbero voluto specificare che occorre apparire indipendenti, diversamente dalla posizione di Md per cui “il cittadino magistrato pensa, ragiona e vota in base alle proprie convinzioni: la manifestazione del pensiero non può essergli preclusa, tanto più su temi generali che coinvolgono la difesa di diritti umani incomprimibili”. Alla fine, dopo che, come ci riferiscono fonti del Cdc, i membri Unicost hanno sentito probabilmente i vertici e, preso atto che 25 giunte territoriali Anm su 26, anche a maggioranza Unicost, erano a favore di una linea dura hanno deciso di appoggiare il documento che sintetizza così le posizioni: “Non intendiamo sottrarci ad una seria riflessione sulla imparzialità del magistrato in tutte le sue declinazioni. Ma oggi chiediamo con forza alla politica di riflettere sugli effetti dannosi per i cittadini di simili operazioni di delegittimazione, volte ad indebolire la credibilità del potere giudiziario e l’indipendente esercizio della funzione giudiziaria”. L’Assemblea si sarebbe voluta tenere a Catania ma altre fonti ci dicono che l’iniziativa non sarebbe piaciuta al Quirinale perché troppo d’impatto. Probabilmente si opterà per Roma. Intanto la mattinata era iniziata con la relazione del Presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia (AreaDg) che ha parlato di una “campagna denigratoria”, di “caccia all’uomo”. “Dalla critica, sempre legittima, a un provvedimento giudiziario, si è passati alla ricerca di elementi che possano gettare ombra sull’imparzialità di un magistrato. Oggi dobbiamo chiederci se un magistrato potrà, dopo questa campagna denigratoria, di “caccia all’uomo”, di profilazione per consegnarlo all’opinione pubblica come un soggetto che in qualche modo non assicura il contrasto all’immigrazione illegale, fare il proprio dovere, cioè fare giustizia prescindendo da tutte queste considerazioni. La giurisdizione va rispettata per quello che è, un potere indipendente”, ha detto il vertice Anm. “Ciò che è accaduto - ha aggiunto ancora Santalucia - è particolarmente grave: se faccio un provvedimento non gradito è possibile che ci siano cassetti che conservano comportamenti da utilizzare alla bisogna per costruire una narrazione di un certo tipo? Se un magistrato ha sbagliato ci sono gli strumenti, e la prima verifica di imparzialità è la motivazione: bisogna partire da questa, non dalla persona per gettare ombra sul provvedimento”. Da evidenziare ancora la posizione in parte diversa del segretario dell’Anm Salvatore Casciaro in quota MI, il quale ha sottolineato che “sarebbe auspicabile evitare che un giudice possa entrare in logiche conflittuali o partitiche, ovvero che si cali in contesti di tensione o dialettica sociale, connaturati a certe manifestazioni pubbliche o di piazza, rispetto alle quali sarebbe il caso di fare prudentemente un passo indietro”. Resta comunque per lui “indiscutibile” che “l’eventuale inopportunità del contegno del magistrato e l’inosservanza delle regole della prudenza nell’attività extra-funzionale non possono mai giustificare violenti e indiscriminati attacchi alla giurisdizione o al singolo magistrato, tanto più deplorevoli se mossi da esponenti delle istituzioni della Repubblica in grado, proprio per il ruolo ricoperto, di minare la fiducia dei cittadini nell’ordine giudiziario”. Mentre era in corso il Cdc non è mancata una nota della Lega: “La riforma della Giustizia è urgente, nel frattempo la magistratura deve concentrarsi per lavorare proficuamente e giudicare con serenità: le proteste e i toni sopra le righe della Associazione nazionale magistrati (Anm) non aiutano a ristabilire un clima rispettoso”. A piazza Cavour arriva il messaggio ma le toghe rilanciano, a partire da Md che si appella al Consiglio Superiore della Magistratura affinché “porti a termine nel minor tempo possibile la pratica a tutela” della Apostolico e insieme agli altri chiede quanto prima di convocare l’assemblea. L’ultima era stata a giugno sul caso Uss, sempre per l’attacco ai giudici che avevano evitato il carcere al figlio di un oligarca vicino a Putin con provvedimento motivato. La tensione tra magistratura e politica è sempre più alta. Tuttavia fa riflettere la posizione di Mi, che secondo voci degli altri gruppi con questa posizione “ambigua” si starebbe trasformando, grazie all’appoggio al Governo, “in un ufficio di collocamento” per tutte le posizioni. In merito a questo arriva una nota molto polemica del Coordinamento di AreaDg: “Oggi alla riunione del Comitato Direttivo Centrale dell’Anm come nei giorni scorsi al CSM, Magistratura Indipendente ha dimostrato di aver fatto una scelta di campo. Al congresso di Palermo avevamo ben spiegato come si stesse saldando un asse tra questo gruppo associativo e la maggioranza di Governo. Quale la contropartita? I voti dei laici di centrodestra necessari a monopolizzare le nomine dell’autogoverno in cambio della tacitazione della magistratura e della ANM portata in dote da M.I.? Si vorrebbe una magistratura silenziosa e prona alle linee culturali della maggioranza, ottenuta anche a costo di rinunciare alla funzione di interpretazione delle leggi. Un associazionismo silente o comunque diviso che sacrifica i magistrati che rendono provvedimenti sgraditi lasciandoli esposti al dileggio pubblico e prolungato per settimane e ad una indecente attività di dossieraggio che ne attinge la sfera più privata. Oggi abbiamo fermato questa deriva ma le insidie che reca sono sempre presenti. Ci chiediamo quale prezzo la magistratura dovrà pagare prima che questo disegno venga abbandonato”. Giustizia, le procure e i ritardi del Csm di Lirio Abbate La Repubblica, 22 ottobre 2023 Si tratta di uffici giudiziari importanti, che controllano vaste aree del territorio. Ma sono lasciati per troppo tempo senza un capo. Le procure distrettuali sono strette fra le inchieste sul terrorismo, quelle sulle organizzazioni mafiose che sono rafforzate dalla complicità di personaggi “eccellenti”, e l’irredimibile propensione della politica a delegare il contrasto della mafia esclusivamente a forze dell’ordine e magistratura. Sono uffici giudiziari importanti che controllano vaste aree del territorio ed hanno il compito di indagare - non solo contro i boss ma anche sui terroristi e il cybercrime - spesso lasciati per troppo tempo senza un procuratore capo. Presidi di legalità e giustizia in cui è assente il punto di riferimento per cittadini, pm e investigatori: il procuratore della Repubblica. I magistrati che vanno in pensione, altri che si trasferiscono per ricoprire nuovi incarichi creano un vuoto che non viene ricoperto in tempi brevi dal Csm. Per la nomina di questi posti direttivi ci sono lunghe attese al Consiglio superiore della magistratura. Lo abbiamo visto a Napoli, l’ufficio di procura con il più elevato numero di pm nel nostro Paese, che dopo un anno e mezzo ha visto solo adesso insediare Nicola Gratteri. E la stessa cosa è avvenuta poco tempo fa a Firenze, e andando a ritroso anche a Bari e Reggio Calabria, tanto per citare alcune sedi distrettuali importanti. Oggi ci sono altri uffici, soprattutto al Sud, a cui deve essere assegnato un capo. Messina, ad esempio, attende da più di un anno un procuratore e vacanti sono le sedi distrettuali di Lecce, Catania, Catanzaro, Torino e L’Aquila. Gli uffici di palazzo dei Marescialli hanno un carico di lavoro elevato rispetto all’organico. Un carico legato alle candidature per i posti messi a bando che si somma a un Consiglio che appare ancora prigioniero della solita dannosa logica di appartenenza correntizia. Questo Csm troppe volte è apparso prigioniero del predominio del centrodestra, rappresentato dalla corrente di Magistratura indipendente e dalla destra della politica che controlla sette su dieci consiglieri laici. Il sistema correntizio non è del tutto superato, c’è uno scenario in cui la destra della magistratura e la destra della politica vincono. Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha sempre invitato i consiglieri al dialogo, al confronto, all’unità. A marzo scorso, chiudendo il plenum del Csm che ha eletto Margherita Cassano presidente della Corte di Cassazione, il Capo dello Stato ha detto: “La tempestività dimostrata oggi (con la nomina di Cassano ndr) dal Consiglio superiore della magistratura possa costantemente caratterizzare il mandato consiliare appena iniziato così da assicurare la dovuta celerità alle nomine dei dirigenti”. Sarebbe auspicabile che il Csm valutasse con più celerità i candidati e i posti da assegnare ai vertici delle procure distrettuali proprio per le delicate inchieste che svolgono. A questi uffici spetta di contrastare gli attuali fenomeni criminali, le reti terroristiche e mafiose e quelle cibernetiche. Un tratto comune dei fenomeni della mafia e del terrorismo che non è solo un fatto giudiziario da perseguire, ha il suo peso anche su quello della sicurezza nazionale. Il concetto di cybercrime non è più separabile da quello delle organizzazioni mafiose e terroristiche, perché non definisce più soltanto determinate tipologie di illeciti, ma è un cardine organizzativo e strutturale delle organizzazioni mafiose e dei terroristi. Dalle inchieste delle procure distrettuali degli ultimi tempi si coglie che le mafie sono ossessivamente protese allo sviluppo di autentiche funzioni di security, esattamente come le imprese, sono ossessivamente alla ricerca di informazioni sulle indagini che si svolgono su di loro, sono ossessivamente spinte a elevare tutti i meccanismi che possano consentire la sottrazione ad ogni controllo. Per questo è necessario non lasciare scoperti a lungo i posti di vertici delle procure distrettuali dove il disegno di attacco al crimine non può essere disperso in tanti rivoli, ma raccolto sotto una sola strategia. “La separazione delle carriere è pericolosa”: 1.000 giudici e pm contro Nordio di Marco Franchi Il Fatto Quotidiano, 22 ottobre 2023 Più di 1.000 firme in pochi giorni da parte di giudici civili e penali, pm e tirocinanti. La petizione è quella promossa dal procuratore di Ascoli Piceno, Umberto Monti, contro la separazione delle carriere in magistratura. E a questa si aggiunge un documento sottoscritto da 576 magistrati in pensione. Da anni pallino del centrodestra, il principio è in cima ai pensieri del ministro della Giustizia, Carlo Nordio, che ne parla continuamente e a luglio dichiarò: “Va fatta, esiste in tutto il mondo”. Per realizzare la separazione tra magistratura inquirente e giudicante servirebbe una riforma costituzionale, che per i 1.028 sottoscrittori della petizione (527 giudici civili e penali, 471 pm e 30 magistrati tirocinanti) “non porterebbe alcun beneficio sul piano della rapidità ed efficacia del sistema penale”, bensì comporterebbe “rischi concreti verso una dipendenza gerarchica del pubblico ministero dal Governo e un controllo da parte della maggioranza politica sull’esercizio dell’azione penale e sulla conduzione delle indagini”. Inoltre, notano i pm in pensione, la riforma rappresenterebbe un boomerang anche per gli avvocati, che la sostengono. “Oggi - si legge nell’appello - il pubblico ministero (…) è obbligato a cercare anche le prove favorevoli all’indagato e non di rado chiedere l’assoluzione”, ma “avverrebbe lo stesso con un pubblico ministero che si è formato nella logica dell’accusa ed è del tutto separato dalla cultura del giudice? Oggi il pubblico ministero è valutato dal Csm anche per il suo equilibrio e non certo per il numero di condanne che è riuscito ad ottenere”. La petizione fa notare che, a fianco alla separazione delle carriere, “viene proposto anche un indebolimento del principio di obbligatorietà della azione penale” e la “modifica della composizione del Csm con aumento della componente di nomina parlamentare, con conseguente incremento dell’incidenza della politica. La documentazione con tutte le firme è stata inviata alla premier Giorgia Meloni, al ministro Nordio, ai presidenti delle commissioni giustizia e ai presidenti dei gruppi parlamentari di Camera e Senato. Tra i sottoscrittori spiccano i nomi dei procuratori, Nunzio Fragliasso (Torre Annunziata), Nicola Gratteri (Napoli), Pino Montanaro (Taranto), e degli aggiunti Giuseppe Cascini (Roma) e Tiziana Siciliano (Milano) e di Piergiorgio Morosini, presidente della Tribunale di Palermo. Bavaglio per i giudici anche sui social? Si apre un nuovo fronte al Csm di Liana Milella La Repubblica, 22 ottobre 2023 Il consigliere laico di Italia viva Carbone ha chiesto di discutere nuove regole. Lo aveva già fatto e lo sostiene anche adesso il senatore di Forza Italia Zanettin. Lecito sollecitarla, opinabile approvarla. Al Csm torna l’istanza - la presenta il consigliere laico indicato da Italia viva Ernesto Carbone - di fissare un decalogo per gli interventi via social dei giudici. Stessa petizione aveva fatto, due Csm fa, l’avvocato e oggi senatore forzista Pierantonio Zanettin. La sua si fermò, ma quella di Carbone, visti gli equilibri politici dell’attuale Csm - centrodestra in maggioranza, centrosinistra in minoranza - potrebbe andare a buon fine, soprattutto sull’onda del caso Apostolico, la giudice di Catania che ha disapplicato il decreto Cutro e che, per il centrodestra, porterebbe anche la “colpa” di aver espresso le sue opinioni proprio sui social. Lo ha rivelato il quotidiano Libero, raccontando anche che la pagina era stata poi cancellata. Il magistrato oggi ha una stella polare, non solo deve essere, ma deve anche apparire imparziale. Né di destra, né di sinistra dunque. La sua deontologia, il suo senso di responsabilità, la sua auto tutela deve spingerlo a essere e anche a sembrare del tutto al di sopra delle parti. Pertanto non fazioso, né tantomeno prevenuto per via della sua fede in un’ideologia, qualunque essa sia, che possa influenzare o addirittura dirigere le sue opzioni giuridiche. Evidentemente è una questione di coscienza. Perché chi fa il giudice, quale che sia la materia di cui si occupa, sa bene quale comportamento personale o quale scritto pubblico può appannare la sua immagine di assoluta imparzialità. Nessuno di noi, del resto, vorrebbe trovarsi di fronte a un giudice partigiano. Se il principio è giusto, la via di codificare tutto questo con una “circolare” del Csm appare singolare. Anche perché già esiste il Codice deontologico dell’Associazione nazionale magistrati e per chi deroga ad esso ci sono una serie di possibili “punizioni” che giungono fino alla radiazione, proprio com’è avvenuto per Luca Palamara. Il Csm poi conta sulla sua “sezione disciplinare” che ha il potere di punire, con vari gradi di pena, comportamenti fuori linea delle toghe. Proprio mentre l’Anm si schiera dalla parte di Apostolico e il Csm discute la pratica per tutelarla, la richiesta di Carbone suona come un richiamo all’ordine. Con un’evidente difficoltà: come si può stabilire quale post è lecito pubblicare sui social? Può appannare l’imparzialità diffondere l’annuncio di un convegno o di una manifestazione? Può essere un indizio “postare” la copertina di un libro? Può comportare una reprimenda pubblicare il video di una manifestazione pubblica? O semplicemente riprodurre una foto? La legge sull’ordinamento giudiziario del 2006 - che fu firmata dall’allora Guardasigilli Clemente Mastella, ma che era il frutto del suo predecessore leghista Roberto Castelli - contiene già un nutrito elenco di illeciti disciplinari. E spigolando tra questi è ben chiaro cosa il magistrato possa e non possa fare. Un ulteriore decalogo assomiglia a un bavaglio. Meglio dire allora: cari amici non siete uomini e donne liberi, quindi state lontano dai social. Anche perché, se li usate, finisce come per i giudici che, in queste ore, si occupano di migranti. Noi - il governo, il ministro della Giustizia titolare dell’azione disciplinare, il Csm - misureremo la vostra imparzialità dopo aver spulciato le vostre pagine social. Ovviamente per condannarvi meglio. Ricucire la memoria dell’orrore mafioso: i familiari delle stragi del 1993 si ritrovano a Palermo di Lia Quilici L’Espresso, 22 ottobre 2023 Nel trentennale dagli attentati, il tributo della città degli eccidi di Capaci e via D’Amelio alle dieci vittime delle bombe di Firenze, Roma e Milano. Lì dove tutto è cominciato. A Palermo, dove dopo gli eccidi del 1992, Cosa nostra decise di esportare al Nord la campagna di terrore che avrebbe portato alle bombe di Firenze, Roma e Milano del 1993. Nel trentennale degli attentati, il 23 e 24 ottobre, familiari e superstiti si ritrovano in Sicilia per un appuntamento che è insieme un omaggio di memoria e una riflessione sulla nostra storia recente. Un appuntamento che costituisce anche il tentativo di ricucire il tessuto di un Paese lacerato dall’offensiva mafiosa. “Testimonianze di memorie ferite: il trauma e la rinascita. Le stragi del 1993 nel ricordo dei protagonisti”, è il titolo scelto dall’Università per il tributo della città Palermo e della Sicilia alle vittime e ai feriti di via dei Georgofili, via Palestro, San Giorgio in Velabro, San Giovanni in Laterano. Così, per la prima volta, per due giorni magistrati, uomini di Chiesa, storici dell’arte, restauratori e soprattutto familiari delle vittime e testimoni diretti di quella guerra che ha fatto 10 vittime e danni incalcolabili al patrimonio artistico del Paese sono insieme a Palermo. L’iniziativa è partita proprio dai parenti delle vittime, da Teresa Fiume, sorella di Angela, morta nella strage di via dei Georgofili a Firenze, Jamila Chabki, nipote di Moussafir Driss che ha perso la vita in via Palestro a Milano, Nicola Penna e Raffaella La Catena, cognato e sorella di Carlo La Catena, anche lui caduto in via Palestro, e ancora da Daniele Mosca e Paolo Lombardi, memorie viventi della strage dei Georgofili. Il convegno si svolge il 23 (dalle 15 alle 19) e il 24 ottobre (dalle 9 alle 13) nelle due sedi dell’Aula Magna dello Steri e dell’aula Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Paolo Borsellino del Palazzo di Giustizia. L’organizzazione coinvolge l’Università degli Studi di Palermo, insieme all’Associazione Nazionale Magistrati, il Centro Studi Pio La Torre, il Centro Siciliano Sturzo e il Laboratorio di Poetica dell’Istituto di Cultura Romantica. “Prendendo spunto da una mia ricerca ancora in corso sulla valenza simbolica delle stragi del 1993, e dalle sollecitazioni che mi arrivavano dalle tante persone incontrate e intervistate, assieme all’amica e collega Licia Callari, è nata l’idea di questo convegno”, spiega Alessandra Dino, ordinaria di Sociologia della devianza a Palermo. “Un tributo - aggiunge - che la citta di Palermo, a 30 anni dagli attentati, offre alle citta ferite di Firenze, Milano e Roma e ai tanti cittadini che di quelle stragi sono state vittime. Come un cerchio che si chiude, ma per continuare a riprodurre nuove spirali sempre piu ampie, abbiamo voluto che fosse Palermo (a sua volta ferita), a essere il luogo elettivo di questa celebrazione della memoria, che è anche dal desiderio di rinascita e decisa e forte richiesta di verità”. Al convegno, tra gli altri, i protagonisti della rinascita delle città ferite, come Cristina Acidini, Presidente dell’Accademia delle Arti del Disegno, ex Soprintendente del Polo Museale Fiorentino e Antonio Natali, storico dell’arte ed ex direttore degli Uffizi allora in prima fila nel processo di ricostruzione; Daniela Lippi, autrice dell’ultimo restauro a una delle tele distrutte in via dei Georgofili, il procuratore di Palermo Maurizio De Lucia, Nando Dalla Chiesa e il vescovo di Acireale Antonino Raspanti. Palmi (Rc). In prigione come pesci rossi in una boccia di vetro di Carmen Gualtieri L’Unità, 22 ottobre 2023 La mia visita nel penitenziario. Detenuti stretti in pochi metri quadri pieni di ogni cosa: vestiti, pentole, cibo. E io che sono libera mi sento in apnea. Avevo circa sette anni quando i miei genitori mi regalarono un pesciolino rosso. Una sera, mentre lo guardavo girare continuamente in tondo nella sua bella boccia di vetro adagiata sul mobile della cucina, mi pervase un forte senso di sofferenza. Mi convinsi che penava lì dentro e che aveva assolutamente bisogno di più spazio per poter cambiare il suo movimento. Allora lo spostai in una grande bacinella ma, anche lì, mi sembrava che non fosse abbastanza libero. A quel punto corsi nel bagno, riempii la vasca di acqua fino all’orlo e, appena lo tuffai, lo vidi nuotare velocemente avanti e indietro, indietro e avanti, come una scheggia impazzita. Provai una grande gioia ed ebbi la conferma che la mia intuizione era corretta: soffriva e non poteva vivere in una boccia di vetro. Anche se per lui in realtà sognavo un bel laghetto con tanti pesciolini, mi dovetti accontentare della vasca da bagno e, da quel giorno, pretesi che quella diventasse la sua nuova casa. Dopo che morì, o forse sparì, i miei genitori pensarono bene di non regalarmi mai più un pesciolino rosso. Estate 2023. Visita al carcere di Palmi con gli avvocati della camera penale e gli amici di Nessuno tocchi Caino. Fatichiamo per entrare e, dopo una lunga attesa, il comandante e gli agenti della polizia penitenziaria ci accompagnano nell’ispezione delle sezioni. Si aprono e chiudono i cancelli alle nostre spalle e ci avviamo verso la sezione transito: un corridoio stretto, cinque o sei celle con in fondo le docce in comune. Inizio a chiedermi quali pensieri possano abitare in questi ambienti, quale possa essere lo stato d’animo di chi, a torto o a ragione, entra qui dentro per la prima, seconda o ennesima volta. Mi convinco che possano essere solo pensieri agitati, pensieri che si esercitano solo nel trovare la forza per non impazzire, perché qui dentro tutto opprime. Gli odori, i muri scrostati, la muffa, la sporcizia, le sbarre, tutto sembra sospeso e io, libera, inizio a sentimi in apnea. Saliamo verso la sezione alta sicurezza. Ci sono 36 celle speculari per 3 piani. Buongiorno! Buongiorno! Come Va? Tutto a posto! Da dove vieni? Vieni, avvicinati, guarda! Mi affaccio attraverso le sbarre e scruto la cella. Sono in 3 in pochi metri quadrati pieni di tutto: buste, acqua, vestiti, scarpe, intimo e magliette stesi su una piccola finestrella, contenitori di cibo sul tavolo, pentole e padelle appese ai muri, sembra tutto un ritaglio di un’alterata parvenza di vita. Iniziano i colloqui con un detenuto alla volta. Sergio, Elisabetta e Rita li ascoltano con attenzione e appuntano tutto: un’ora di socialità, una telefonata di un’ora alla settimana per i familiari, tre telefonate di 10 minuti l’una verso gli avvocati, i rapporti con gli agenti sono buoni, fa caldo, manca il frigorifero e via discorrendo. Fabrizio misura alcune celle con la sua cintura di, precisa lui, “98 cm”. Mi dice sorridendo: “dai facciamo finta che sia di un metro, del resto mi pare di capire che qui ci si arrangia con quel che si ha e con quel che si può!”. Leggo alcuni avvisi affissi su una piccola bacheca. Mi colpisce quello che annuncia “La partita con papà”: per un’ora i bambini potranno giocare a pallone con i loro genitori e trascorrere un piccolo frammento di tempo intriso di ordinaria felicità, che quasi sicuramente passerà via troppo velocemente. Iniziamo a dialogare con gli agenti e capisco che anche loro devono affrontare enormi sforzi quotidiani. Mi spiegano che hanno 40 unità di personale in meno e rimango colpita quando mi dicono: “qui i detenuti hanno solo noi che alla fine dobbiamo fare anche da psicologi”. In fondo, qui dentro ci vuole davvero tanta forza per cercare di non abbrutire il proprio animo. Il tempo scorre, ma i pensieri e la mia attenzione sono rivolti verso un solo dettaglio, dal quale non riesco a distogliere lo sguardo: le sbarre in ferro, con la vernice verde scrostata, chiuse da una grande serratura. Finalmente usciamo fuori dal carcere. I cancelli si aprono, riemergo dall’apnea, mi volto, osservo l’istituto da fuori e, tutto d’un tratto, mi riaffiora il ricordo del pesciolino rosso nella boccia di vetro. Roma. Deceduto in carcere, la figlia denuncia la mancata assistenza medica e ottiene l’autopsia di Alessia Truzzolillo Corriere della Calabria, 22 ottobre 2023 L’esame urgente si terrà martedì prossimo. La famiglia: “Ci sono detenuti pronti a testimoniare l’attesa di ore prima che morisse”. Dopo le accese denunce della figlia Emanuela è stata disposta l’autopsia d’urgenza sulla salma di Rosario Leonetti, 58 anni, deceduto il 14 ottobre scorso nel carcere di Rebibbia in seguito a un malore. L’uomo, cardiopatico, era in attesa di un intervento chirurgico ed era detenuto nel settore infermeria della casa circondariale romana. È stata settimana di tira e molla tra la famiglia del defunto, assistita dall’avvocato Antonio Lomonaco, l’amministrazione del carcere e la Procura di Roma. In un primo momento, infatti, il pm romano non aveva ritenuto di dover procedere con l’autopsia. Ma in seguito alla denuncia di Emanuele Leonetti questa mattina un altro magistrato, Giovanni B. Bertolini, ha disposto l’autopsia da effettuarsi con urgenza. Alla famiglia è stato comunicato che l’esame autoptico avverrà giorno 24 ottobre alle 16. La Procura ha già nominato il consulente medico legale e ha avvisato i familiari di nominare i propri consulenti. La questione, dopo una settimana di denunce anche a mezzo stampa, è divenuta urgente tanto che il pm ha disposto di avvisare i parenti del defunto anche telefonicamente se necessario. E pensare che inizialmente, subito dopo la morte di Rosario Leonetti, la figlia ha denunciato di non aver saputo nulla sulle sorti della salma del padre per quasi tre giorni. La giovane ha denunciato per omicidio colposo “tutto il personale medico della Casa circondariale di Rebibbia-nuovo complesso, che ha avuto in cura mio padre sino al momento del decesso”. Ma la denuncia querela si estende anche al magistrato romano “in servizio presso la Procura della Repubblica di Roma per le ipotesi che l’autorità giudiziaria vorrà ravvisare in merito a mancato sequestro della salma e della documentazione sanitaria al fine dell’espletamento dell’esame autoptico”. La famiglia del 58enne vuole chiare le circostanze della morte del detenuto che si è sentito male e sarebbe rimasto per ore senza assistenza medica. Nella denuncia si chiede anche il sequestro della cartella clinica e si assicura che coloro che erano detenuti insieme a Leonetti “sono tutti pronti a testimoniare sulla circostanza che mio padre è stato per ore senza ausilio medico”. Oristano. Detenuto morto a Massama, l’avvocata della famiglia: “Ora si faccia l’autopsia” di Nadia Cossu La Nuova Sardegna, 22 ottobre 2023 Armida Decina insiste sulla richiesta finora respinta dal giudice. Alle 13 sono arrivate alla Camera dei deputati per la conferenza stampa. Insieme a Marisa Dal Corso, sorella di Stefano, il 42enne morto nel carcere di Massama il 12 ottobre del 2022, c’erano l’avvocata Armida Decina, che difende Marisa Dal Corso, Rita Bernardini, presidente dell’associazione Nessuno Tocchi Caino, e Roberto Giachetti, parlamentare di Italia Viva che ha presentato un’interrogazione al ministro della Giustizia, Carlo Nordio, in cui chiede che sia fatta chiarezza sulle morti in carcere, compresa quella di Stefano Dal Corso su cui, dice Giachetti: “Grazie alla tenacia e alla fermezza della sorella Marisa e dell’avvocato Armida Decina pochi giorni fa sono state riaperte le indagini”. L’avvocata - “A fine luglio abbiamo presentato una nuova istanza di riapertura delle indagini - conferma l’avvocata della famiglia Dal Canto, Armina Decina - che sono state effettivamente riaperte il 4 ottobre”. Secondo l’avvocata, però, la strada sarebbe ancora in salita: “Sì, il fascicolo è stato riaperto ma l’autopsia non è stata ancora disposta. Speravo che i magistrati si muovessero in quella direzione, ancor prima di sentire i testimoni. L’autopsia è la chiave di volta di tutta la questione”, conclude. La storia Stefano Dal Corso aveva problemi di droga, la assumeva e la spacciava, e per questo stava scontando la sua pena nel carcere romano di Rebibbia. Fino a quando un’udienza al tribunale di Oristano gli aveva aperto la possibilità di cambiare aria ma, più di tutti, di incontrare la figlia avuta da una relazione con una ragazza sarda e residente proprio in provincia di Oristano. Il 6 ottobre del 2022 Stefano arriva al carcere di Massama dove, il 12 ottobre, muore. “Suicidio”, dirà il 13 ottobre l’infermiera del carcere di Massama all’ex compagna di Stefano, aggiungendo che “non ha sofferto perché lasciandosi andare si era spezzato l’osso del collo”. Una tesi subito contestata dalla famiglia di Stefano: “Secondo la dottoressa del carcere, Stefano sarebbe morto in seguito alle fratture delle vertebre cervicali - aveva detto l’avvocata Decina -. Il nostro medico legale ha sottolineato come sia in realtà impossibile definire questo tipo di frattura senza prima effettuare un’autopsia, o perlomeno una tac”. I pareri dei medici di parte, intanto, diventano tre e tutti arrivano alla stessa conclusione. E allora la famiglia chiede che venga effettuata l’autopsia che però non è prevista se il pubblico ministero non ravvisa un’ipotesi di reato. E infatti, il Gip accoglie la richiesta di archiviazione del Pm e sul caso cala il silenzio, perlomeno da parte della Procura. La famiglia di Dal Corso, però, insiste e per tre volte chiede che sul corpo di Stefano venga effettuato l’esame post mortem. Per la Procura non se ne parla, nonostante i dubbi aumentino: Stefano ha un ecchimosi sul lato del collo, e non all’altezza del mento. Il colore dell’ecchimosi, poi, sembra raccontare una tempistica diversa da quella dichiarata dalla direzione del carcere di Oristano, che sostiene di aver trovato il corpo poco dopo il decesso. Stefano, poi, si sarebbe impiccato alla grata della finestra della cella del carcere, dove però sarebbe riuscito a mettere i piedi sul letto, vanificando il tentativo. Infine c’è il letto, che nelle foto fornite dalla direzione del carcere risulta perfettamente rifatto. Difficile, a questo punto, spiegare dove Stefano abbia trovato il brandello di stoffa utilizzato per creare il cappio. Insomma, gli interrogativi non mancano. Ma oltre ai dubbi della famiglia ci sono anche quelli che emergono dalle lettere che Stefano spediva all’attuale compagna, l’ultima il 10 ottobre del 2022, in cui non si evince in alcun modo l’intenzione di farla finita. Due giorni prima di morire Stefano scriveva “Siamo anime gemelle che con qualche sforzo possono avere una vita fantastica”. E in carcere, a Rebibbia, stava lavorando a quell’idea. Aveva seguito corsi dedicati al settore alberghiero, al giardinaggio e scriveva alla compagna di aver sostenuto un colloquio per un lavoro in ristorante. Perché Stefano non vedeva l’ora di uscire, sarebbe stato scarcerato il 31 dicembre del 2023, e di ricominciare a vivere. Ancona. Corsi di ceramica e calzature, nelle carceri nuove attività trattamentali di Annalisa Appignanesi centropagina.it, 22 ottobre 2023 Corsi di formazione nel calzaturiero, nella lavorazione della ceramica e attività nel mondo della musica. Sono le nuove attività trattamentali in partenza per i detenuti reclusi nelle carceri marchigiane. Lo annuncia il garante regionale per i diritti Giancarlo Giulianelli che nell’ultima settimana fa sapere di aver partecipato a diversi incontri con l’obiettivo di attivare collaborazioni in diversi ambiti. Il primo confronto con la Svem (Sviluppo Europa Marche) nel settore della calzatura. “Una progettualità - spiega Giulianelli - che dovrebbe riguardare la Casa di reclusione di Fermo. Si tratta di una scelta territoriale, considerata l’importanza del comparto economico proprio in questa zona, ma anche dell’esigenza di rafforzare le attività trattamentali in un istituto che ha sempre incontrato problemi per la loro concretizzazione, alla luce delle caratteristiche strutturali sicuramente inadeguate”. Nell’ambito della musica il garante ha incontrato i responsabili di “Musicultura” per portare in carcere alcuni appuntamenti che vedano la partecipazione dei detenuti in qualità di giurati (l’istituto è ancora da individuare). Progetto innovativo anche quello destinato alla sezione femminile della Casa circondariale di Villa Fastiggi a Pesaro. “L’idea è quella di rendere possibile un corso di ceramica per le detenute - spiega il garante -. Un primo passo verso altre iniziative che intendiamo proporre anche con la collaborazione della Commissione pari opportunità”. Ovviamente a queste attività si uniscono quelle ormai consolidate e che nel corso del tempo sono diventate delle vere e proprie eccellenze, come nel caso dell’azienda agricola di Barcaglione. Pompei (Na). Lavori di pubblica utilità per il reinserimento dei detenuti di Marco Santarelli La Discussione, 22 ottobre 2023 il Parco archeologico di Pompei si apre ad una più ampia forma di inclusione sociale, attraverso il protocollo d’intesa tra il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria - Casa Circondariale “Giuseppe Salvia” di Poggioreale, il Tribunale di Sorveglianza di Napoli e il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale, che consentirà ai detenuti di contribuire in attività di lavoro di pubblica utilità, non retribuita, presso i siti archeologici del Parco. La presentazione dell’accordo e la firma del protocollo si è tenuta presso l’Auditorium degli scavi alla presenza del Direttore del Parco Archeologico di Pompei, Gabriel Zuchtriegel; del Direttore Casa Circondariale “G. Salvia” Poggioreale, Carlo Berdini, del Garante regionale dei detenuti della Campania, Samuele Ciambriello e del Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Napoli, Patrizia Mirra. Sono intervenuti anche il Provveditore regionale dell’Amministrazione Penitenziaria Campania, Lucia Castellano e il Capo Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Giovanni Russo. Si tratta della seconda convenzione in materia di svolgimento dei lavori di pubblica utilità non retribuita presso siti archeologici, di cui il Parco è pilota nell’esperienza. L’obiettivo comune, sia all’amministrazione penitenziaria, sia al Parco, è quello di favorire il reinserimento occupazionale e sociale dei soggetti sottoposti a procedimenti penali e rendere la detenzione un’occasione di formazione e recupero, sfruttando la straordinarietà dei luoghi di cultura come ulteriore elemento di stimolo verso la riabilitazione personale e professionale. I soggetti saranno individuati, in un numero massimo di 5 l’anno, tra coloro che hanno manifestato nel corso della loro pena una buona condotta, a cura di un’apposita commissione composta da figure professionali delle diverse istituzioni sottoscriventi l’accordo. Como. Il mondo in nove metri quadrati, premiato il videoclip musicale dei detenuti di Federica Pacella Il Giorno, 22 ottobre 2023 Un “infinito senza uscita” in cui non muore la speranza che il mondo possa, prima o poi, “ridonare la vita”. Così musica e teatro raccontano cosa significa vivere in 3 metri quadrati, la dimensione di una cella, in “CM300”, videoclip musicale frutto di un percorso laboratoriale musicoterapeutico tenuto all’interno della Casa Circondariale di Brescia Nerio Fischione. Il progetto, nato nell’ambito delle iniziative proposte dal Centro Diurno “l’Ancora” e finanziato da Cassa delle Ammende e da Fondazione Cariplo, ha vinto nei giorni scorsi il premio Best Music Video, allo Shizzle Short Film Festival 2023 di Vienna. Testo e immagini raccontano, in modo coinvolgente e senza retorica, quanto sia prezioso ogni centimetro all’interno di uno spazio abitativo limitato che misura 300 cm per 300 cm. Raccontano anche come 9 metri quadrati possano essere un mondo, un contenitore di vite umane dove si gioca la quotidianità, l’intimità, i legami, le paure, le difficoltà, le aspettative, le speranze, affidate alla preghiera finale: “Ogni giorno prego il mio Dio di dirmi dov’è la mia strada”. Prima di entrare nello spazio limitato di una cella, simbolicamente rappresentata dal perimetro disegnato sul placo dell’auditorium del Nerio Fischione, il video rimanda al mare, emblema per eccellenza della libertà, che resta sullo sfondo mentre volti coperti da maschere bianche mettono in fila parole che raccontano di orizzonti lontani, di navi e naufragi. Frutto del lavoro appassionato di tutta l’equipe del Centro Diurno l’Ancora e in particolare di Andrea Bui, regista del video e musicoterapeuta di Comunità Fraternità e di Alessia Pizzocolo, educatrice e coordinatrice della Cooperativa Sociale di Bessimo, il lavoro ha visto l’impegno, la costanza e l’inventiva portata ogni giorno dalle persone detenute che hanno partecipato al corso: Azzurro, Big M., Daniele, Francesco, Gianni, Ramses e Stefano. Raccontare il carcere con l’arma del surreale Ristretti Orizzonti, 22 ottobre 2023 Un ricordo di Sergio Staino, amico di Ristretti e del Dado Galeotto (Incontro avvenuto in redazione nel mese di aprile 2006). Sergio Staino in un incontro in redazione ci ricorda, commentando le vignette di Graziano Scialpi, che “occorre una grossa maturazione interna per arrivare a fare della satira e dell’ironia, soprattutto quando si toccano cose che ti fanno soffrire, in cui sei dentro, in cui sei partecipe e sei partecipe come vittima” Quando abbiamo per la prima volta incontrato Sergio Staino e gli abbiamo messo in mano una copia di Ristretti, non immaginavamo di trovare la settimana dopo un paginone de “L’Unità” con un nostro articolo sul sesso negato in carcere, “rivisitato” e trasformato in fantastiche vignette. Da lì è iniziata una amicizia con il padre di “Bobo” (il protagonista delle strisce di Staino), che ha deciso di adottare anche “Dado”, il nostro carcerato in vignette. Recentemente Sergio Staino è venuto a trovarci in redazione, e lì lo abbiamo sottoposto a una lunga intervista. Noi ci chiedevamo, visto che la tua comunicazione critica è fatta attraverso le vignette, cosa consentono di fare di più delle vignette rispetto allo scritto e al parlato? Ci viene in mente, ad esempio, la pagina che hai fatto su “L’Unità”, prendendo spunto da un articolo a più voci sul tema del sesso negato che era uscito su Ristretti Orizzonti: in quelle strisce ci siamo rivisti tutta la discussione che avevamo fatto, che era durata un pomeriggio, e una striscia molto breve comunque rendeva benissimo l’idea. L’ultima vignetta poi, quella in cui rappresentavi un detenuto che rientra dal permesso e dice: “Eh sì, con trenta euro, o mangi o scopi!”, se vai a vedere assomiglia davvero anche un po’ al detenuto che aveva detto quella frase... Questo fa parte di un intuito che sembra che io abbia, intuire le cose mi aiuta molto. Io ho una degenerazione retinica che mi ha quasi accecato: vedo brandelli di cose, quindi l’intuizione poi funziona moltissimo per capire la realtà, perché se dovessi capirla per quello che vedo, capirei molto poco. Sì, mi ricordo solo che questo articolo mi ha colpito tantissimo, come quando leggi certe cose che si sente da come sono scritte che sono zeppe di emozioni vere, emozioni anche difficili da raccontare, perché poi si va su una sfera intima in cui anche il pudore esiste, metterle in piazza non è facile. Siccome io l’ho fatto in passato, riesco a capire quando c’è una sincerità di fondo. Quando sono nato come disegnatore umoristico o satirico, più per un’esigenza di tirar fuori una serie di problemi che avevo dentro, che per una voglia proprio di fare satira, era secondaria l’importanza dello strumento che andavo ad usare, rispetto al desiderio di tirar fuori le cose che avevo dentro. Potevo farlo anche in altra maniera, avrei potuto farlo raccontandole, filmandole, ho scelto di disegnare perché il disegno era quello che mi riusciva meglio, era una cosa che mi è sempre piaciuto fare. Io non a caso comincio a fare il disegnatore di strisce nel ‘79, e il ‘79 per me è l’anno, soprattutto, del crollo delle utopie politiche, per me ha significato molto, il ‘79 è stato proprio l’anno in cui sono uscito dai marxisti-leninisti, ho avuto il coraggio di capire che lì non c’era nessuna prospettiva, che c’era qualcosa di sbagliato in questa formula che doveva portare alla giustizia sociale, e in realtà, per me, ha portato delle grandissime ingiustizie che si sono poi prolungate nel tempo. Io mi sono fermato, sono uscito, però dentro avevo un sacco di magoni, un sacco di cose non risolte, un sacco di frustrazioni da tirar fuori, e ho pensato di farlo attraverso le strisce, quindi non per fare satira politica, ma per un’esigenza mia, come quando uno va dall’analista. Io non sono andato dall’analista, ma mi sono messo a raccontare queste strisce con la stessa sincerità che devi avere quando vai dall’analista, quando queste cose le racconti ad un medico. Io le ho buttate in forma, spero divertente, sulle strisce. Ma c’è stata la terza o quarta striscia che ho fatto il 10 ottobre del ‘79, era un giorno preciso in cui mi sono messo a tavolino a fare queste strisce, e la terza o quarta striscia era una striscia che apparentemente sembra che non dica niente, ma per me diceva moltissimo. Era una striscia in cui Bobo si guardava intorno e alle soglie dei quarant’anni, quindi un po’ in là con gli anni, la maturità è già ben iniziata, vedeva i suoi colleghi, i suoi coetanei, che fine avevano fatto, e iniziava con un breve elenco, diceva: “Quello stronzo di Pierino, dai e dai è finito a Panorama. Quell’altro imbecille di Piero ha aperto la rappresentanza della Renault”, e si segnava 3 o 4 amici che si erano piazzati, dal che si capiva che l’unico che non era riuscito a fare niente era lui. E citava un personaggio del cabarèt, il Gastone di Petrolini, che era uno che negli anni 30 cantava una canzoncina in cui il ritornello diceva: “A me mi hanno rovinato le donne, mi hanno rovinato le donne”, solo che a lui lo hanno rovinato le donne, a me la Cina. Bobo diceva: “A me la Cina”, in primo luogo il partito comunista cinese che per primo si era levato contro le teorie del partito italiano di Togliatti, furono i cinesi, e poi, a ruota, seguirono anche gli albanesi, solo che gli albanesi erano due milioni e seicentomila, i cinesi erano più di un miliardo, allora c’era un peso diverso anche dei valori, quando andavamo nelle Case del popolo a discutere sul marxismo-leninismo e a fare annoiare i poveri compagni comunisti, si arrivava a mezzanotte e questi compagni vecchi dicevano: “Ma ragazzi, non vi rendete conto che siete quattro gatti?”, e noi pronti: “Sì, quattro gatti qui e un miliardo a Pechino”. Ad un certo punto i cinesi dall’oggi al domani hanno incontrato Nixon e sono passati a collaborare con gli Stati Uniti abbandonando tutti i legami di fraterno aiuto che esistevano, e quindi c’è stato questo senso nettissimo di essere stati fregati dai cinesi. Quindi, quello scrivere: “A lui l’han fregato le donne e a me la Cina”, faceva ridere. Io sono stato venti minuti prima di scrivere quest’ultima frase, perché mi vergognavo molto di dirlo, di tirar fuori l’idea di aver subito, di essere stato così coglione da essermi fatto fregare dalla Cina nel fare le mie scelte. Finalmente, e fortunatamente, l’ho scritto, e quando l’ho scritto è stato come togliere un tappo da una bottiglia: tutto quello che era dentro è uscito, ho fatto 50-55 strisce una di seguito all’altra, con dentro tutte le mie frustrazioni, le mie paure, e più ne scrivevo e più me ne veniva. Quindi, la mia idea nasce così, e quando le ho pubblicate, se andate a rivedere le mie strisce, non è che il mio disegno fosse particolarmente attraente. Poi piano, piano, ha imparato, ma all’inizio era un personaggio molto fisso, com’è Dado di Graziano, che cambiava pochissimo espressione, rimaneva fisso da un quadretto all’altro, guardava verso l’osservatore ogni volta che concludeva la battuta. A funzionare, come funziona in Graziano, è quello che c’era dentro: si capiva che quello che scrivevo non era una cosa così, tanto per fare, ma che dietro c’era sangue e sudore. La stessa sensazione l’ho avuta leggendo quell’articolo sul sesso negato in carcere, per cui, quando hai un’emozione forte, sei facilitato poi nel trasferire, con il linguaggio che meglio conosci, che nel mio caso è il disegno, quelle emozioni da un articolo al disegno, questo è il meccanismo. Che cosa ti ha colpito della comunicazione sul carcere fatta attraverso le vignette di Graziano Scialpi? Ci sono delle cose che mi piacciono a priori, per esempio personalmente il giorno che saprò che l’Osservatore Romano pubblica una vignetta a me piacerà moltissimo quella vignetta, indipendentemente dalla sua qualità, sarà una prova di intelligenza rara per quel giornale, e la stessa cosa vale per quando sono uscite le vignette dal carcere. Mi è subito venuto in mente uno strano ricordo di una canzone di Enzo Jannacci, un fiore di campo che è nato in miniera e questi minatori che cercano di salvarlo: un luogo innaturale per un fiore così come il carcere è uno dei luoghi più innaturali per far nascere un sorriso, una vignetta, un momento di tenerezza, una denuncia all’interno di un involucro che è estremamente tenero e dolce. Io non ho l’esperienza di molti di voi del carcere né come carcerato, né come studioso dall’esterno, sono entrato in contatto con la realtà carceraria da quando lavoravo su Linus perché mi arrivarono delle lettere da Rebibbia, di lì ho cominciato a pubblicare queste lettere, a rispondere tramite il disegno, poi questo mi ha portato in contatto con Mario Almaviva che è il primo carcerato vignettista che ho conosciuto, lui era ancora un politico, uno polemico con la società, che continuava la sua lotta dentro un carcere, e dall’interno della sua celletta commentava gli avvenimenti esterni. Ho conosciuto il carcere più dall’interno dall’arresto di Adriano Sofri, io sono amico stretto di Adriano da molti anni e quindi per andare a trovare lui, per seguire le cose e poi fare quei libri che abbiamo fatto insieme necessariamente ho dovuto spesso andare a trovarlo in carcere, e nel mio immaginario, nel mio lavoro, credo che il carcere è entrato molte volte e si è modificata moltissimo la percezione che io avevo dall’esterno, una percezione errata ma ancora largamente diffusa. Ecco, quando eravamo giovani rivoluzionari e facevamo le manifestazioni per il Vietnam e rischiavamo l’arresto e il carcere, in certi momenti pensavamo quasi con serenità all’idea di finire carcerati, insomma, lo vedevamo come un periodo di riposo, sai tipo: quasi-quasi due mesi magari… quest’idea un po’ serena in cui uno in fondo si stacca un momento dalla società, si ritrova solo-solo in un ambiente tranquillo in cui può leggere, scrivere… entrandoci davvero in carcere ho visto una realtà drammaticamente diversa: se esiste un luogo dove non c’è tempo libero e dove non c’è tempo per raccoglierti e far qualcosa di tuo è proprio il carcere, e nemmeno c’è il silenzio che uno immagina. Ma la percezione del carcere che ha la stragrande maggioranza della popolazione, e non solo quella larga fetta della popolazione che si interessa poco di quello che c’è oltre il suo giardino, ma anche persone civilmente impegnate, persone colte, io l’ho toccata con mano tutte le volte che sono andato a parlare di Adriano Sofri: c’era sempre qualcuno non sprovveduto che arrivava e mi diceva: “Ma si può avere un numero di telefono per parlare con Adriano, si può mandargli una mail?”. Quindi tutto quello che viene fatto per far conoscere quella realtà largamente sconosciuta e incomprensibile, e per portare all’esterno questa fetta di società e questo “specchio”, uno degli specchi fondamentali a mio avviso per giudicare la civiltà di una società, è un lavoro ben fatto. Per quel che riguarda le vignette di Graziano, questa cosa nasce da una sua grande maturazione e intelligenza perché insomma io credo che statisticamente l’arrivo a un racconto ironico, autoironico, richieda un distacco tale dalla realtà che ti circonda, una capacità di vederla con occhi fermi e sereni che solo società molto colte, civili, e persone brave possono fare. Non credo che sia un caso che l’ironia e il sorriso e la satira non solo manchino nell’ambiente delle autorità ecclesiastiche, ma mancano soprattutto in società come l’Iran, come la Cina. Se io mi guardo intorno, le civiltà più oppressive sono le prime a cancellare la satira, l’ironia… perché occorre una grossa maturazione interna per arrivare a fare della satira e dell’ironia, soprattutto quando si toccano cose che ti fanno soffrire, in cui sei dentro, in cui sei partecipe e sei partecipe come vittima. È chiaro che è molto più semplice ribellarsi, è molto più semplice urlare, è molto più semplice stravolgere il volto, ma invece fermarsi, disegnare una figurina piccola, debole, incerta, con questi occhioni grandi che dice alcune cose molto dure, molto crude, però rivestite da quella tenerezza, questa è una grande capacità da parte di chi la fa ed è di grande utilità per chi ha la fortuna di vedere queste vignette, perché certe cose molto forti dette con quella forma lì arrivano più a fondo. Quando tu sai che leggi un drammatico articolo sul carcere, qualcosa dentro ti prepara a riceverlo subito: adesso mi arriva una bella botta, aspetta un attimo che mi accomodo in modo da reggerla bene. Quando ti arriva invece rivestita di questo sorriso la cosa in fondo colpisce molto di più. Sono contento quindi che molte persone riescano a godere di questi sorrisi e soprattutto attraverso il sorriso diventare più vicini a questa realtà che oggi voi state raccontando. Con il disegno, che cosa si può fare di diverso rispetto allo scritto? Quello che si può fare è di usare l’arma del surreale, cioè con il disegno, la vignetta puoi spaziare anche nel campo del surreale, puoi alludere, puoi raccontare cose che forse non esistono, non hai quella necessità di prova che devi avere quando scrivi. Cioè, se un giornalista fa un articolo, e dice che quel politico è corrotto, o ha le prove, o non lo può scrivere, e se lo scrive, viene condannato ed è giusto che sia così. La satira può non dirlo chiaramente, ma può girarci intorno, alludere, per cui, uno legge e capisce queste cose che gli stanno indicando, “Guarda che quello probabilmente è corrotto”, ma che però gli viene detto in una forma diversa. Io sono stato processato una volta, a Reggio Emilia, dove c’è una sede della Max Mara, le operaie che lavoravano in questo stabilimento erano tutte donne. Allora erano in lotta contro situazioni di lavoro interne molto antiche, molto ottocentesche, con anche il controllo sui tempi quando una andava al bagno. C’erano tantissime cose antisindacali. Il proprietario, che ora è morto, si chiamava Achille Maramotti. All’epoca hanno occupato la fabbrica, queste operaie, e ad un certo punto hanno organizzato una manifestazione in un cinema di Reggio Emilia, e per far conoscere alla cittadinanza le ragioni della loro lotta mi hanno chiamato. Ero sul palco con un banchetto, che facevo vignette sulla lavagna luminosa. Mentre le operaie raccontavano la loro esperienza, io illustravo alcuni passaggi del loro racconto. Ad un certo punto ho fatto anche una vignetta, perché all’epoca era Presidente della Repubblica Sandro Pertini, un grande Presidente, che però aveva nominato cavaliere del lavoro Achille Maramotti. In questa vignetta c’era Ilaria che chiedeva a Bobo: “Ma perché Pertini ha nominato cavaliere del lavoro una carogna come Maramotti?”, e Bobo rispondeva: “Vedi, per questo bisognerebbe ogni tanto avere un Presidente della Repubblica donna!”, e questa è piaciuta molto, hanno fatto anche un sacco di applausi e risate. Qualche mese dopo, finita la lotta delle operaie e rifatto il contratto, la Camera del lavoro di Reggio ha fatto una pubblicazione in cui ha riportato un quaderno bianco su questa lotta, e ad illustrarla ha messo alcune delle mie vignette, senza chiedermi l’autorizzazione, non perché non gliela avrei data, ma perché se me l’avessero detto io avrei riguardato le vignette con l’occhio della legge sulla stampa. Una cosa è fare una vignetta in una manifestazione, e una cosa è se la metti nero su bianco su un giornale, allora lì devi vedere se ci sono gli estremi per essere denunciato. Maramotti ha visto la vignetta e mi ha querelato per diffamazione, per la parola “carogna”, chiedendomi, all’epoca, 100 milioni di danni da devolversi in beneficenza. La cosa mi ha preso parecchio male perché era difficile difendersi da un’accusa del genere. Se me lo avessero detto, bastava mettere: “Perché il Presidente ha fatto cavaliere del lavoro uno come Maramotti, visto che le operaie, dicono che è una carogna?”, cioè metterla in una maniera in cui non figuravo direttamente io. Quindi c’è stato il processo. Lui era, tra l’altro, proprietario del giornale “Il Resto del Carlino”, che è il giornale più diffuso di Bologna, e quindi questo giornale aveva pubblicato molti articoli dicendo: “Bobo questa volta l’ha fatta grossa, Bobo alla sbarra…”, e avanti così. Quando c’è stato il processo, io sono andato là sicurissimo che avrei perso, ho basato la mia linea di difesa su due argomentazioni: una era che, per definizione, fin dalla fine dell’Ottocento, dalle prime lotte operaie, il padrone è una carogna; il secondo punto, poi, specificità tipica toscana, fiorentina, anzi, di casa mia, la parola carogna, da tempo ha perso ogni connotazione offensiva, è quasi affettuosa: mia figlia mi dava del carogna 3-4 volte al giorno, mi diceva: “Babbo, mi dai i soldi per comprare il giornalino?”, io magari rispondevo: “No, non li ho”, e lei mi diceva: “Che carogna che sei!”. Quando ho finito io, hanno chiamato Achille Maramotti a testimoniare. Questo padrone che sembrava uscito veramente da una caricatura dell’800, e i giudici gli chiedono: “È lei il proprietario della Max Mara?”, e lui dice: “Sì”; “Di quante altre fabbriche è proprietario oltre alla Max Mara?”, e lui risponde: “Signor giudice, ora, qui, su due piedi, non saprei dirle bene”. Allora il giudice chiede: “E da quanti anni non paga i contributi assicurativi ai suoi dipendenti? Questo se lo ricorda?”, e lui è sbiancato. I giudici hanno cominciato a fare un processo a lui, un processo su tutte le cose che non funzionavano nella sua fabbrica, e alla fine hanno concluso che forse era una carogna davvero, e mi hanno assolto perché il fatto non costituiva reato. Che cosa pensa uno come Bobo della nuova legge sulla legittima difesa? Pensa di fare qualcosa su questo tema? E sull’eterna questione della sicurezza? Qualcosa faremo senz’altro, comunque ne penso esattamente quello che pensate voi: che è sempre un’escalation di violenza, perché la cosa più semplice che ti viene in mente, al di là della profonda ingiustizia di rispondere togliendo la vita a chi sta aggredendo la tua proprietà privata, la cosa importante è che comunque ci sarà meno sicurezza per gli stessi proprietari che vengono aggrediti. Ma un’altra cosa che mi viene in mente è la storia del poliziotto inglese: perché il poliziotto inglese è disarmato? È disarmato perché si sa che se un poliziotto può svolgere la sua attività disarmato invita anche i potenziali delinquenti a non andare armati a loro volta, o comunque a stare molto attenti ad usare l’arma, che è in ogni caso un’aggravante in sede di processo. Allora, cosa succede ora? Succede che chiunque deciderà di dire: “Si va lì in quella casa, che hanno delle cose…”, se finora ci andavano disarmati, un’arma non basterà più, quindi andranno con qualche arma più potente, e così instauri una escalation di violenza che è poi una schiavitù totale per le persone che dovrebbero essere difese dalla possibile delinquenza. Il discorso sulla sicurezza dei cittadini è tutta un’altra cosa. È una lotta che riguarda in genere proprio la convivenza nella collettività. Io sono stato per alcuni anni il responsabile delle manifestazioni culturali del Comune di Firenze. Una cosa che mi sono scelto, che ho voluto io, e in questo campo abbiamo fatto delle cose abbastanza interessanti, partendo dall’idea che bisognava che la città offrisse ai suoi cittadini, e soprattutto alla parte più giovane dei suoi cittadini, una serie di possibilità di incontro, di scambio, di convivenza, di capacità di stare insieme, di vivere questa città. L’idea che io ho è che se tu riesci a vivere la tua città, ad amarla, a conoscerla, una serie di situazioni e di tensioni che generano poi quella microcriminalità che tutti temono verrebbe, di fatto, a cadere. È successo anche che per la fine dell’anno sono riuscito ad ottenere la stazione di Firenze per fare una festa aperta per i giovani. Questa stazione ha un grande salone centrale, che abbiamo trasformato in un salone di festa, poi ho messo due palchi per le orchestre, invitando i giovani a venire lì per la fine dell’anno; l’ingresso era completamente gratuito. Ebbene, sono stato sottoposto ad una guerra da parte dei benpensanti, violentissima, perché aprivo la città al “gorillaio”, questa era la parola che usavano sui giornali, cioè quelli che singolarmente erano dei bravi ragazzi, studenti, appena diventavano cento, duecento, diecimila li chiamavano “gorillaio”. E sempre secondo queste persone i giovani avrebbero distrutto la città, avrebbero distrutto la stazione. Pochi giorni prima, mentre resistevamo con il sindaco andando avanti sul progetto, e le ferrovie ci avevano dato tutte le autorizzazioni necessarie, mi rendo conto che il sottopassaggio della stazione, che è attrezzato a parcheggio, quella notte lì sarebbe rimasto chiuso, allora chiamo il responsabile e gli dico: “Scusa, ma perché mi chiudi il parcheggio proprio la notte in cui faccio la festa?”, e lui mi risponde: “È l’unica notte dell’anno in cui si chiude da quando quattro anni fa sono entrati sotto dei ragazzi e sparando dei petardi hanno spaccato una serie di vetrate e abbiamo avuto un sacco di danni”. Io allora gli ho chiesto: “Ma quattro anni fa che cosa c’era per i giovani a Firenze?”, e lui mi risponde: “Nulla. A maggior ragione se quest’anno tu me li porti anche, mi distruggono tutto!”. Questo è l’errore! È quando non fai nulla, è quando non intervieni, non gli offri qualcosa per stare insieme alla città, per farti sentire partecipe alla comunità che scattano questi episodi, frutto dell’isolamento. Una città che è deserta, che tu percepisci come nemica, passi in mezzo a questo deserto e ti viene voglia di accendere un razzo e che si rompa una vetrata… e chi se ne frega! Ma se ti stai divertendo, senti della musica, magari conosci una ragazza, ci sono amici, perché ti devi mettere a distruggere le cose? Insomma, l’ho convinto, mi ha aperto il parcheggio, ho avuto 20.000 giovani là dove se ne prevedevano 6.000, e non è successo niente; fanno più danni un gruppo di ultras del Milan o del Livorno quando vengono a giocare a Firenze che 20.000 giovani a fare la festa di fine anno. Quell’anno lì io e il sindaco abbiamo avuto i complimenti da parte del prefetto che allora era Achille Serra. Lui, dati alla mano, ha dimostrato che la microcriminalità in città durante i mesi in cui abbiamo fatto queste cose, rispetto agli anni precedenti, era caduta a picco. Il problema è che molti giovani sentono di essere odiati dalla città, io lo vedo, da noi d’estate è venuta la moda, per i giovani, di trovarsi sulle scalinate di Santa Croce, stanno lì con chitarre e bonghi… io quando trovo una situazione simile mi infilo sempre, perché poi basta un nulla, basta un sorriso, basta chiedere una cosa e fai subito amicizia con questi ragazzi. C’è, a mio avviso, una disponibilità, una voglia di scambiare esperienze anche con qualcuno molto più vecchio di loro, invece da parte dei miei coetanei io trovo paura, mi trovo con degli amici in piazza che quando vedono questi gruppi di giovani, cominciano: “Oh Dio, oh Dio!”, sembrano vittime predestinate. Occuparsi di sicurezza dovrebbe voler dire: “Guardi, signor poliziotto, stia a casa, ci pensiamo noi al quartiere, troviamo idee per far vivere in modo diverso”: invece alle otto chiudono tutto e la città si trasforma in qualcosa di orrendo, tutta la città concorre ad essere odiosa, e come tale, quindi, a generare comportamenti scorretti. La persona umana è portata alla serenità ed alla convivenza, sono una serie di condizioni che poi ti fanno fare la fatica di essere cattivo, perché è molto più faticoso. Ricordo una poesia che a me piace molto, in cui l’autore confronta le due maschere giapponesi che ha appese nello studio: una che sorride e una incazzatissima e feroce. Lui guarda questa maschera e conta tutti i muscoli che deve muovere per essere feroce e dice: “La guardo sempre per ricordarmi quanta fatica costa essere cattivi”. Sergio, libero come Pasolini di Dacia Maraini La Stampa, 22 ottobre 2023 La morte di Sergio Staino mi addolora molto, primo perché con lui se ne va un grande vignettista, un critico attento e acuto della realtà italiana e secondo perché perdo un amico affettuoso e gentile. Il suo Bobo ha accompagnato l’immaginazione di molti italiani, soprattutto quelli di sinistra. Lui si dichiarava marxista, ma è sempre stato critico verso gli eccessi e le debolezze della sinistra. Le sue vignette sull’Unità e su Tango, che sono impresse nella mia memoria e certamente anche in quella collettiva, sono una dimostrazione perfetta di questa sua libertà. Una libertà che mi ricorda Pier Paolo Pasolini: come lui, Staino aveva una personalità anarchica, e non credeva nella fedeltà al partito, non issava bandiere o inseguiva parole d’ordine. Era un battitore libero e per questo molto spesso si è fatto nemici tanto a destra quanto a sinistra: anche questo condivideva con Pasolini. E poi aveva un cuore schivo e generoso. Se vedeva un amico in difficoltà, si rendeva disponibile. Ogni tanto mi mandava dei disegni, con una figuretta femminile che trovavo deliziosa, aveva il naso pronunciato, lungo, all’insù. Mi divertiva perché era un po’ pinocchiesca, ma non diceva bugie: quel naso lungo le serviva per annusare l’aria intorno. Questo ha sempre raccontato Sergio Staino: l’aria che tirava nel nostro Paese. L’anno scorso avremmo dovuto fare un incontro insieme, un dialogo pubblico in Toscana, ma è saltato perché non si sentiva bene. Un’altra volta è saltato perché io ero in viaggio Mi ha detto spesso, negli ultimi mesi, durante le telefonate che ci facevamo, che dovevamo assolutamente recuperare quell’appuntamento. Non ci siamo riusciti, mi dispiace tanto. Non scorderò il suo affetto, il suo sorriso e il suo senso dell’ironia. Sergio Staino che vedeva senza occhi, sempre fedele ai suoi sogni di Walter Veltroni Corriere della Sera, 22 ottobre 2023 Il vignettista aveva 83 anni. Da Tango alla direzione dell’Unità, era rimasto ancorato ai valori di giustizia sociale, inclusione e multiculturalismo Sergio Staino che vedeva senza occhi, sempre fedele ai suoi sogni. Sergio Staino ci vedeva benissimo. I suoi occhi non funzionavano più, si erano progressivamente spenti. Ma lui vedeva. Caspita se vedeva. Anche se nell’ultima telefonata mi disse, senza apparente disperazione: “Ormai è finita, sono cieco”. Ma ciechi erano stati Omero, Milton, Saramago, Borges, Andrea Camilleri, Vittorio Foa, l’ultimo Monet. Come loro però vedeva le cose del mondo e le traduceva in immagini, parole, opinioni. La forza lapidaria di una vignetta - Più intelligente dell’intelligenza artificiale, ascoltava da sua moglie Bruna, dai suoi figli, da qualche amico o compagno, racconti che lo interessavano e li decodificava restituendoli ai suoi lettori con la forza lapidaria di una vignetta e o di una battuta. All’inizio del suo lavoro Bobo, il suo personaggio, sembrava un Cipputi della sinistra, qualcuno che si preoccupava, eravamo ancora ai tempi del Pci, di evitare derive moderate. Un guardiano dell’ortodossia. Così sembrava, ma solo ai più superficiali. La verità è che Bobo, e Sergio, sono stati sempre due cose in un corpo solo, un corpo d’inchiostro. Erano ancorati ai valori fondamentali della sinistra - la giustizia sociale, i diritti, l’inclusione, il multiculturalismo - ma, al tempo stesso, erano tanto intelligenti da sapere che proprio quei valori, per essere inverati, non potevano essere chiusi in cassaforte, trasformati in artigianato da contemplare con nostalgia. Da questo punto di vista il Sergio Staino che ho conosciuto e amato ha svolto una grande funzione pedagogica nel cuore del popolo della sinistra. La direzione de l’Unità nel segno del riformismo - Dai tempi di Tango, quando laicizzava il suo rapporto con il partito a cui apparteneva con orgoglio, fino alla sua direzione de l’Unità che avvenne nel segno del riformismo e del rifiuto della demagogia, del populismo, delle semplificazioni di un tempo che gli appariva spesso devastato dalla sua futilità. Ricordo Sergio negli ultimi anni, un bastone nella mano e gli occhi spenti. Ma lo ricordo capace di esserci sempre, a Scandicci od ovunque, per animare la sua vita e quella degli altri di una passione invincibile. Si è sempre mosso in verticale, seguendo e stimolando le evoluzioni della sinistra. Ma mai in orizzontale, cambiando direzione. Lui, che vedeva senza occhi, non ha mai smesso di essere fedele ai suoi sogni più antichi. “Nulla smuove più le nostre coscienze. Ma per capire gli altri bisogna mettersi nei loro panni” di Loredana Lipperini L’Espresso, 22 ottobre 2023 Ormai siamo diventati indifferenti di fronte alle guerre e alle stragi. Dimentichiamo e rimuoviamo tutto in fretta. Invece dovremmo ricordare. Per imparare a reagire. Un anno fa, il 13 ottobre 2022, iniziava la XIX legislatura: dodici mesi dopo, siamo impietriti davanti a una nuova guerra e ascoltiamo le grida d’aiuto, guardiamo il fumo delle esplosioni, litighiamo sui social, togliendo dalle amicizie chi non è d’accordo con noi. Dimenticheremo anche questo? Per rispondere, serve un passo indietro fino al 1980: è l’anno in cui Walter Tevis (l’autore de “La regina degli scacchi” e de “L’uomo che cadde sulla terra”) scrive il romanzo distopico “Mockingbird”, tradotto come “Solo il mimo canta al limitare del bosco”. Come spesso avviene, le distopie hanno la misteriosa capacità di anticipare il futuro e di farci scoprire che nel 2467 la specie umana è quasi decimata, anche per l’azione di un intelligentissimo robot, Spofforth, che l’ha anestetizzata con sciocchezze e droghe. Dunque, gli umani sono diventati apatici, non hanno coscienza del tempo che passa, non sanno più leggere e scrivere, non hanno relazioni con gli altri. Non so se ci sia uno Spofforth in circolazione, né so se fra dieci giorni o un mese faremo spallucce davanti a quel che avviene in Israele e in Palestina: alcuni avvenimenti degli ultimi giorni sembrano però confermare che abbiamo messo in pratica alcuni dei presagi di Tevis. La guerra in Ucraina è già faccenda per volenterosi e giornalisti. Per non parlare delle grandi stragi del Mediterraneo: il 3 ottobre scorso, per esempio, il decennale dei 368 su cui si sono chiuse le onde di Lampedusa ha avuto solo qualche bagliore di attenzione e neanche un rappresentante del governo, sia pure come presenza di facciata, durante la commemorazione. È difficile, si dirà. Secondo il metodo Spofforth, siamo sottoposti a troppi stimoli quotidiani e non possiamo reagire a tutto. È così vero che non stupisce neanche l’indifferenza dei più con cui è stato accolto un intervento papale che riserva molte sorprese. È l’esortazione apostolica del 4 ottobre “Laudate Deum” sulla crisi climatica, dove papa Francesco riesce a citare Donna Haraway, a stigmatizzare la mancanza di autorevolezza dell’Onu, a spendersi in favore di Ultima Generazione e dei “gruppi radicalizzati” (“essi occupano un vuoto della società”) e a dare un colpo magistrale al culto della meritocrazia. “Si incrementano idee sbagliate sulla cosiddetta “meritocrazia”, che è diventata un “meritato” potere umano a cui tutto deve essere sottoposto, un dominio di coloro che sono nati con migliori condizioni di sviluppo. Un conto è un sano approccio al valore dell’impegno, alla crescita delle proprie capacità e a un lodevole spirito di iniziativa, ma se non si cerca una reale uguaglianza di opportunità, la meritocrazia diventa facilmente un paravento che consolida ulteriormente i privilegi di pochi con maggior potere”. Reazioni? Nessuna. Neanche un corsivo di Luca Ricolfi e Paola Mastrocola (forse perché papa Francesco a Barbiana, dal don Milani maestro, c’è stato e non in gita). La cosa preziosa della settimana, dunque, è un reportage: lo ha scritto il premio Pulitzer Matthieu Aikins che, in “Chi è nudo non teme l’acqua” (Iperborea), racconta come ha gettato il passaporto e ha seguito un migrante afgano nella rotta verso il Mediterraneo. Perché solo mettendosi concretamente nei panni degli altri si comprende davvero cosa sta e ci sta accadendo. Forse. Le battaglie per i diritti civili sono nelle mani delle grandi aziende tecnologiche di Alessandro Longo L’Espresso, 22 ottobre 2023 La sorveglianza dei regimi da una parte contro i tentativi di aggirare la censura dall’altra: è nel digitale che si combatte lo scontro per la libertà. E questo riapre il dibattito sull’enorme potere detenuto dalle piattaforme e sulla loro regolamentazione. Samira ha 30 anni e all’alba è stata trascinata da casa in un carcere iraniano. Samira il giorno prima era in un ospedale pubblico a trovare la madre. Nella stanza non c’era nessun altro; Samira non pensava di essere osservata mentre, stanca e afflitta, scostava un po’ il proprio Hijab, il velo, lasciando affiorare i capelli lucidi. Non sapeva però che, qualche giorno prima, il regime che ha sostenuto l’attacco di Hamas in Israele aveva installato in quell’ospedale nuove ed efficientissime telecamere cinesi, dotate di intelligenza artificiale, per individuare comportamenti illegali e anche riconoscere, in automatico, i volti dei trasgressori. Samira per ora è un personaggio di fantasia, ma non lo sarà ancora per molto. Così temono gli attivisti per i diritti civili in Iran. Il governo sta per approvare una legge che tra l’altro istituisce l’installazione di telecamere con riconoscimento facciale in tutti i luoghi pubblici. “Non ci sono ancora prove che le stiano già usando, ma è certo che lo vogliono fare. Per ora utilizzano manualmente le normali telecamere del traffico e arrestano sempre più donne”, racconta a L’Espresso Shaghayegh Norouzi, attrice e attivista femminista iraniana. Vive a Barcellona, quattro anni fa ha dovuto lasciare il Paese: “Dopo che ho lanciato un movimento contro gli abusi sessuali nell’industria cinematografica non mi facevano più lavorare”, dice. Collabora con la non profit United for Iran per promuovere, anche con la tecnologia, il movimento per i diritti civili nel Paese. “Il governo usa la tecnologia per censurare e sorvegliare”, spiega. “Obbligano le persone a usare app di Stato per tutti i servizi internet e così possono tracciare tutto quello che viene fatto; mentre censurano i contenuti accessibili su Internet dall’Iran. Hanno imparato la lezione dalla Cina, da cui anche comprano tecnologia apposita”. “Ci tracciano con la complicità degli operatori telefonici, che dicono alla polizia chi si è connesso alla rete nelle zone dove c’è stata una protesta. Gli arresti conseguenti sono stati migliaia”, spiega. Gli attivisti diventano però, da parte loro, sempre più bravi a usare la tecnologia. Tutti usano le Vpn (“reti private virtuali”) per accedere da computer o smartphone ai normali contenuti o servizi internet - come i social network - proibiti in Iran. Sono software o app che consentono di connettersi in modo sicuro e protetto, bypassando restrizioni di rete in vigore nel proprio Paese. “Non potremmo fare nulla senza Vpn. Le usiamo per accedere ai social, dove organizziamo le proteste e gli incontri”, spiega Norouzi. Gli attivisti in Iran ricorrono anche a chat sicure come Signal, gestita da una fondazione (non profit). Signal nel 2024 intende rendere più anonima la sua app, proprio per tutelare meglio gli attivisti. Permetterà di usarla senza associarvi un numero di cellulare, che il regime può controllare (in Iran come in altri Paesi dittatoriali). Ma l’attuale sviluppo tecnologico più aiuta o più ostacola la lotta per i diritti civili, dal momento che a usarlo sono sia attivisti sia le dittature? Norouzi vede un bilancio positivo: “La tecnologia tutto sommato è più un bene che un male, per noi. Solo grazie alla tecnologia possiamo organizzare le azioni anche stando fuori dall’Iran, come sto facendo io”. Ma la risposta dipende dal Paese dove ci si batte. “L’evoluzione tecnologica per noi, che lottiamo per i diritti in Cina, è soprattutto un ostacolo”, dice Laura Harth, rappresentante all’Onu del Partito radicale nonviolento transnazionale e transpartito. “Rende tutto più difficile in un Paese dove il governo è molto maturo a livello tecnologico; più che in Iran o Russia”, spiega. Il firewall cinese che censura i contenuti sgraditi è quasi impenetrabile. Un esercito di profili falsi (“bot”), alimentati anche dall’intelligenza artificiale, manipola di continuo l’opinione pubblica con propaganda e fake news sui social (alla stregua dei media di Stato). “Le connessioni in Cina sono molto ben tracciate dal governo, che usa anche telecamere con intelligenza artificiale. Risultato, per gli attivisti cinesi è sempre più difficile muoversi, agire, in Rete o di persona, senza essere scoperti e arrestati”, spiega Harth. È possibile usare le Vpn anche in Cina, ma il rischio è molto alto per i residenti. Chi le usa dall’Occidente per accedere a informazioni cinesi viene invece bloccato sempre più spesso, appunto per via dell’efficiente sistema di controllo istituito dal partito comunista cinese. “Non riusciamo più ad accedere ai database della Corte Suprema cinese per studiare lo stato di processi e condanne”, aggiunge Harth. Secondo molti attivisti, come Harth, la sfida del secolo per i diritti civili in questi Paesi si gioca sul ruolo delle grandi aziende private. I capi di Meta (Facebook, Instagram), Google, Apple e X (ex Twitter) hanno il potere di decidere se opporsi alle richieste dei regimi o assecondarle. “In Iran non hanno grandi interessi economici; qui Google arriva a offrire agli attivisti buoni sistemi di Vpn. In Cina invece si piegano alle richieste dei regimi”, dice Harth. “Caso eclatante X. Il nuovo padrone, Elon Musk, ha grossi interessi in Cina con la sua azienda Tesla. Non è un caso che Twitter sia diventato molto più ricco di bot e disinformazione cinesi”, dice Harth. Lo confermano numerosi studi e, a settembre, un sollecito dalla Commissione Europea a Musk. Come riassume Antonella Napolitano, ricercatrice specializzata in digitale e diritti umani: “Il dibattito sull’enorme potere detenuto dalle piattaforme in questi contesti, sulle decisioni che prendono e sulla loro regolamentazione è sempre più attuale e urgente”. “Il termine attivista di per sé non vuol dire nulla. È l’azione concreta a riempirlo di significato” di Diletta Bellotti L’Espresso, 22 ottobre 2023 La definizione è ormai inflazionata e, spesso, priva di senso. Per incidere davvero nelle lotte di liberazione contro le classi di oppressori sono richiesti ascolto, rinuncia ai privilegi e, soprattutto, la disponibilità ad agire. In altre parole, complicità e non mera adesione a una causa. Non c’è nulla di naturale o inevitabile nel denaro, nel debito, nei diritti di proprietà o nei mercati; sono sistemi simbolici che traggono la loro efficacia dalla convinzione collettiva che debbano esistere per forza. Questo non significa necessariamente invocare il primitivismo o essere contro la civilizzazione, ma significa aspirare a un sistema di pensiero che non associ ciò che è storicamente radicato con qualcosa di necessariamente futuribile. Il ruolo degli attivisti è quello di ispirare la speranza radicale esponendo la mutevolezza delle relazioni sociali, come per esempio la possibilità, per ognuno, di vivere meglio, oltre sistemi che minacciano la sopravvivenza sulla Terra. È sotto gli occhi di tutti quanto “attivismo” sia un termine inflazionato: è quasi un significante flottante, cioè vuoto, un contenuto linguistico che non ha più un preciso contesto di riferimento. Nel dibattito pubblico italiano si ha molta esperienza di significati flottanti: si pensi a termini come “sviluppo” o “resilienza”. Nonostante l’avanzare di un significato di fare attivismo sempre più vuoto, non dobbiamo perdere la creatività, anche semplicemente trovando sinonimi ancora intatti. In quanto attivisti, in quanto cittadini, in quanto esseri senzienti, bisogna trovare nuovi modi per armare il proprio privilegio, cioè per utilizzarlo in senso offensivo verso i sistemi di oppressione, iniziando con il comprendere e rinnegare la propria ricompensa nell’essere parte della classe dell’oppressore. Come beneficio, per esempio, dei legami coloniali dei Paesi europei anche se non sono stato io stesso a creare questi sistemi? Che vantaggi traggo dal sistema patriarcale anche se, apparentemente, non faccio nulla per rafforzarlo? Come beneficio della propaganda anti-migrante anche se non ho nulla a che spartire con coloro che la portano avanti? Non tutti, per fortuna, ricoprono il ruolo di oppressore in ogni aspetto della propria identità: ciò che di noi è più marginale e bistrattato forse è anche molto nascosto. Può darsi che non sia ancora stato dichiarato perché abbiamo paura che poi anche noi ne rimarremmo schiacciati. C’è un sistema preciso che beneficia dall’isolare e reprimere gli attivisti e i militanti, questo è ancora vero in Occidente ed è molto vero nel Sud del mondo. Da un decennio, invece, ci sta un sistema economico che usufruisce di un certo modo di fare attivismo e che rientra perfettamente nel cosiddetto complesso industriale. In inglese “industrial complex” è un concetto socioeconomico per cui le aziende si intrecciano alle istituzioni sociali e politiche, creando o sostenendo un’economia di profitto da queste. Un esempio classico è il “military-industrial complex” ovvero il modo in cui l’industria bellica trae profitto dal perpetuarsi delle guerre e ha un ruolo, sociale e politico, nell’ostacolare la pace. Similmente, il complesso-industriale dell’attivista rischia di mercificare termini e modalità di lotta così da impedire ogni reale e profonda possibilità di cambiamento. Oggi, quindi, allearsi con una causa può non essere abbastanza. Che siano i lavoratori in sciopero o chi, oltre i nostri confini, vive in guerra, ci richiede qualcosa di più di essere alleati e attivi: ci chiede complicità. Si parte dall’ascolto, certo, si procede rinunciando a dei privilegi, ma poi si passa all’azione, chiedendosi intanto: in che modo io posso contribuire ai processi di liberazione? Medio Oriente. Per un atto di umanità e di lungimiranza politica di Luigi Ferrajoli Il Manifesto, 22 ottobre 2023 La qualificazione dell’aggressione di Hamas come un atto di guerra, anziché come un crimine efferato da combattere con gli strumenti del diritto, e la conseguente risposta israeliana della guerra hanno già prodotto i loro terribili effetti: l’imposizione a un milione di palestinesi di lasciare le loro case e di affollarsi al sud del loro minuscolo territorio, l’assedio di Gaza che sta lasciando senza cibo né acqua due milioni di persone, i bombardamenti sulle popolazioni civili che hanno già provocato più di 4.000 morti, di cui 1.400 bambini, e decine di migliaia di abitazioni distrutte. È una risposta ottusa ancor prima che illecita. La guerra è soltanto tra Stati: “publicoum armorum contentio” la definì Alberico Gentili nel suo De iure belli libri tres, più di quattro secoli fa, e altrettanto hanno sempre fatto i teorici del diritto internazionale. Chiamare guerra le atrocità del 7 ottobre equivale ad elevare Hamas al livello di un pubblico esercito. Rispondere con i bombardamenti sui civili vuol dire abbassare lo Stato al livello dei terroristi e compattare con Hamas il popolo palestinese. Israele avrebbe ancora un modo per rompere il legame tra Hamas e il popolo palestinese, per non confondere i due milioni di persone che vivono a Gaza con i criminali e recuperare l’identità di uno Stato democratico. Se considerasse l’aggressione del 7 ottobre non come un atto di guerra, ma come un crimine orrendo non condivisibile da milioni di palestinesi, potrebbe compiere un atto di straordinaria lungimiranza e intelligenza politica: l’apertura di un varco nel confine con Gaza, onde consentire l’ingresso in Israele a tutti i palestinesi chiaramente disarmati, primi tra tutti i bambini e le donne, ricoverare i malati e i feriti negli ospedali ed offrire agli sfollati, sia pure provvisoriamente, cibo, acqua, medicinali e assistenza. Sarebbe, se fosse possibile illudersi, un atto magnanimo di umanità, tanto più nobile e inaspettato in quanto in risposta a un crimine feroce che tanto sgomento e dolore ha suscitato. Sarebbe la dimostrazione, oggi più che mai necessaria, dell’asimmetria radicale tra la disumanità incivile degli atti terroristici e la civile umanità delle istituzioni pubbliche. Soprattutto sarebbe un atto politico di enorme efficacia. Avrebbe l’effetto, più di qualunque discorso, di dissociare radicalmente il popolo palestinese da Hamas, e perfino di disarmare - politicamente se non militarmente - le organizzazioni criminali che ne rivendicano la rappresentanza. Favorirebbe la liberazione degli ostaggi. Varrebbe a contraddire la logica distruttiva del nemico. Salvando decine, forse centinaia di migliaia di palestinesi innocenti, varrebbe a dissociare il popolo israeliano dalle politiche disumane e irresponsabili portate avanti fino a ieri da Netanyahu. Sarebbe il segno di una svolta, di un primo passo verso la pace, altrimenti irraggiungibile, e comunque verso una soluzione politica del dramma. La spirale della vendetta, d’altro canto, può essere rotta soltanto da chi è più forte, e la sua rottura sarebbe la vera manifestazione di forza del governo israeliano, incomparabilmente maggiore di qualunque successo militare. E invece, come tutte le risposte razionali, questa ipotesi è totalmente irrealistica, null’altro che un sogno. Del resto l’analfabetismo istituzionale è generalizzato: tutti - esponenti politici e commentatori - parlano dell’aggressione di Hamas come di un atto di guerra, e non come di un atto terroristico, ed anzi non comprendono neppure la necessità vitale di distinguere tra le due cose: esattamente come dopo l’11 settembre, quando alla strage criminale delle due Torri, subito chiamata guerra, si rispose con due guerre e centinaia di migliaia di morti tra le popolazioni civili, anziché con la mobilitazione delle polizie di tutto il mondo per identificare e punire i colpevoli. Ovviamente il linguaggio della guerra, benché sia esattamente ciò che vuole il terrorismo, che come “guerra” si autorappresenta e legittima i suoi massacri, è assai più congeniale del linguaggio del diritto alla demagogia dei Bush e dei Netanyahu. Ma è altrettanto certo che il linguaggio e la pratica della guerra non potranno che avvelenare ulteriormente la questione palestinese, infiammare i conflitti identitari in forme sempre più esplosive, alimentare i fondamentalismi e rendere senza fine la spirale dell’odio e della vendetta, al termine della quale ci saranno solo rovine e la sostanziale sconfitta di entrambi i popoli. Medio Oriente. L’unica via è la soluzione dei due stati di Ettore Sequi La Stampa, 22 ottobre 2023 Secondo il diplomatico e politico israeliano Abba Eban, la storia insegna che uomini e nazioni si comportano più saggiamente quando hanno esaurito tutte le alternative. Siamo ancora scossi dall’orribile azione terroristica di Hamas contro Israele e profondamente toccati dalle terribili immagini di vittime civili palestinesi. Proprio per questo ci domandiamo se esista una alternativa di buon senso alle conseguenze possibili di questo orrore. Probabilmente si, ma occorre tenere conto di alcuni vincoli, locali e generali. L’invito di Biden a Netanyahu a non ripetere gli errori americani è molto importante. Deve essere chiaro che non tutti i palestinesi stanno con i terroristi di Hamas, così come in Afghanistan non tutti i Pashtun sono talebani. Inoltre, non si può garantire la sicurezza solo con strumenti militari. Esiste una dimensione economica. A Gaza circa il 70% della popolazione vive sotto la soglia di povertà. Nel 2022 la disoccupazione superava il 46%, e il 60% tra i giovani tra i 15 e i 30 anni. Vi è anche un fondamentale aspetto “istituzionale” della sicurezza. La debolezza dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) è in gran parte dovuta alla sua incapacità di assicurare servizi essenziali ai palestinesi della Cisgiordania e alla diffusa percezione di inefficienza amministrativa, prima ancora che politica, che favorisce tra l’altro la disaffezione di larghe fasce della popolazione palestinese a vantaggio di Hamas. Un eventuale intervento israeliano a Gaza dovrebbe poi tener conto della presenza di ostaggi. Oggi Hamas ne ha di tre categorie - israeliani, stranieri e palestinesi- che vorrà cinicamente utilizzare. È importante che eventuali operazioni di terra, durino il meno possibile e tengano conto del diritto umanitario e della necessità di evitare vittime civili poiché, oltre all’orrore della perdita di vite umane, ciò verrebbe utilizzato da Hamas per mobilitare le masse arabe e dividere le opinioni pubbliche occidentali. Questa crisi, infatti, si gioca in larga parte sul ruolo delle opinioni pubbliche: quella israeliana, scioccata e desiderosa di un’azione forte e dirompente; quella araba, e in generale islamica e del Global South, che ha un grande potere di condizionamento sulle leadership dei rispettivi Paesi, come hanno dimostrato recenti dichiarazioni di vari attori mediorientali; quella americana, soprattutto in un anno elettorale e con la presenza di ostaggi statunitensi; quelle europee, spesso erratiche e a volte contraddittorie. Battere Hamas significa anche non cadere in questa trappola. Israele dovrebbe avere un’idea molto chiara di cosa significhi “distruggere” Hamas: le organizzazioni terroristiche altamente ideologizzate possono sempre rinascere sotto altra forma -Hamas 2.0?- o essere sostituite da altri attori votati al terrorismo (Jihad islamica?). Ciò che resta fondamentale è preoccuparsi del futuro di Gaza, sia in termini di status di governo della Striscia, sia in termini di ricostruzione economica ed erogazione efficace di servizi essenziali. Quale può essere dunque “l’alternativa residua” dettata dal buon senso? A tempo debito, un atto di coraggio e di lungimirante visione da parte di Israele, Anp e altri attori arabi, con il sostegno di Paesi garanti. Tale “alternativa” passa attraverso la soluzione dei “Due Stati”; la creazione di uno Stato palestinese; un chiaro e definitivo riconoscimento dello Stato di Israele e della sua sicurezza; un processo di normalizzazione tra Israele e mondo arabo, peraltro già avviato; la rivitalizzazione della ANP come interlocutore autorevole e credibile. Ci troviamo in una situazione nuova e certamente eccezionale che occorre trattare tenendo conto proprio della sua eccezionalità. Questa soluzione non dovrebbe escludere nessuno, nemmeno la Cina che dovrebbe vederne la convenienza e uscire dal riflesso condizionato che ciò che colpisce gli Usa è comunque vantaggioso. Il crescente ruolo cinese nei Paesi arabi e il suo rapporto con l’Iran potrebbe essere molto utile. E l’Europa? Deve ricordarsi di essere sé stessa, perdere la sua timidezza, superare le sue frammentazioni, avere consapevolezza delle sue origini. Solo così potrà avere un ruolo attivo. Questa soluzione rappresenterebbe un atto di coraggiosa lungimiranza e di generosità. Lungimiranza, poiché si affronterebbe in modo strutturale un problema a lungo eluso. Generosità perché questo processo può forse essere avviato dagli attuali attori, ma sarebbe probabilmente realizzato da attori nuovi. Hamas ha già ottenuto il primo dei tre risultati che si era prefissata: dimostrare la possibilità di attaccare in profondità il nemico ebraico. Israele può evitare gli altri due: il blocco della normalizzazione con i Paesi arabi e l’indebolimento dell’Anp. Non si può tornare alla quiete apparente del 6 ottobre. Il passato non deve essere un destino eterno. E, affrontato il problema di Hamas, questa è forse l’unica alternativa di buon senso. Medio Oriente. Violenze, privazioni e arresti di massa. La vendetta passa anche dalle carceri di Stefano Mauro Il Manifesto, 22 ottobre 2023 La guerra tra Tel Aviv e Hamas si sposta anche nelle carceri. Il ministero della Pubblica sicurezza israeliano ha approvato questo giovedì una serie di “nuove misure repressive” nei confronti dei detenuti palestinesi che permette di “imprigionare detenuti anche in numero superiore alla capienza delle celle”, con indicazioni anche per una “drastica riduzione per l’utilizzo di acqua, elettricità e cibo”. “Israele si sta vendicando con i prigionieri palestinesi all’interno delle sue carceri”, ha affermato il presidente della Palestinian Prisoners Society, Daqoura Fares, che ha denunciato “brutali abusi contro centinaia di detenuti nelle ultime due settimane”. Per Fares la prigione del Negev è diventata come Abu Graib - creata dagli Stati Uniti in Iraq durante l’invasione del 2003 - vale a dire un centro di detenzione dove “quotidianamente vengono perpetrate barbarie e comportamenti atroci contro i prigionieri politici palestinesi”. Testimonianze simili arrivano anche dalle carceri di Ofer, Megiddo e Beersheba. Secondo quanto riporta Addameer - organizzazione non governativa palestinese che monitora le condizioni di detenzione dei prigionieri - Tel Aviv utilizza i detenuti politici come forma di “ritorsione e vendetta”. Un appello è stato lanciato alla Croce Rossa Internazionale per il “rispetto dei diritti umani nelle carceri israeliane”. In queste ultime due settimane - indica Addameer - le autorità di Tel Aviv hanno cominciato ad utilizzare nuovi dispositivi di “disturbo ad onde sonore” - considerati cancerogeni - con l’obiettivo di limitare qualsiasi possibilità di contatto dei prigionieri con il mondo esterno e negare loro qualsiasi informazione sul conflitto. Apparecchi di nuova generazione che, emettendo un continuo segnale sonoro, producono un rumore assordante che provoca “forti mal di testa, malattie croniche e impedisce ai detenuti anche di dormire”. Un nuovo inasprimento del regime di detenzione, da parte del governo israeliano, che si va ad aggiungere alle altre forme di tortura già utilizzate: le continue deportazioni da un carcere all’altro, la privazione del sonno, il divieto di incontrare avvocati e familiari, le visite mediche solo per “gravi condizioni fisiche”. Pratiche utilizzate anche nei confronti delle donne detenute - circa una sessantina - con l’obiettivo di “umiliare e mortificare la loro stessa condizione femminile”. Prima dell’operazione “Tempesta di al-Aqsa”, il numero dei detenuti palestinesi nelle carceri israeliane era di circa 5300, in meno di due settimane con una campagna di arresti in tutta la Cisgiordania sono diventati oltre 10mila. Hamas aveva annunciato che la cattura di militari e cittadini israeliani aveva lo scopo di “ottenere il rilascio dei detenuti palestinesi”. La stragrande maggioranza dei quali sono in regime di detenzione amministrativa, una misura che permette a Israele di incarcerare qualsiasi persona, dissidente o attivista palestinese, per diversi mesi, rinnovabili all’infinito, e senza dover notificare nessuna accusa o capo d’imputazione. Una pratica di massa definita dalle ong che difendono i diritti umani come una “forma illegale di repressione politica”. Congo. Il racket dei visti dietro la morte dell’ambasciatore Luca Attanasio di Antonella Napoli L’Espresso, 22 ottobre 2023 Il nuovo ambasciatore denuncia un tentativo di corruzione legato al rilascio dei documenti. Il rappresentante diplomatico ucciso aveva già avviato accertamenti e affrontato un funzionario. Dalla Farnesina alla Procura di Roma, l’inchiesta sul presunto racket di visti nell’ambasciata italiana a Kinshasa che fanno da sfondo all’omicidio dell’ambasciatore italiano Luca Attanasio aprono nuovi scenari. Il ministero degli Affari Esteri italiano è pronto a inviare gli ispettori dopo aver richiesto alla sede diplomatica nella Repubblica democratica del Congo alcuni atti, oltre agli esposti di irregolarità presentati da cittadini congolesi, che non erano ancora stati acquisiti. Nel frattempo è partita per l’Italia una segnalazione alla Procura di Roma dell’attuale ambasciatore in Congo, Alberto Petrangeli, estraneo agli illeciti che L’Espresso ha raccontato nel numero del 10 settembre attraverso la testimonianza di un imprenditore italo-congolese. Irregolarità avvenute prima che Petrangeli assumesse la titolarità della sede diplomatica. Nell’esposto si fa riferimento ad alcuni messaggi arrivati sul cellulare dello stesso diplomatico con i quali, chi scriveva affermava di essere disposto a pagare qualsiasi cifra per ottenere un visto. Un chiaro tentativo di corruzione che l’ambasciatore italiano ha subito denunciato. Un ulteriore elemento che tratteggia il clima e il contesto in cui, in passato, sarebbero maturati gli atti di corruzione legati alla gestione del rilascio dei visti, riferiti da un testimone a L’Espresso e il cui racconto è stato acquisito già agli atti della procura romana. Nei palazzi della politica l’inchiesta de L’Espresso ha spinto il deputato di Fratelli d’Italia Andrea Di Giuseppe, membro della Commissione Esteri della Camera, a chiedere chiarimenti alla magistratura. “Nella Repubblica democratica del Congo siamo di fronte a illeciti gravi che ho riscontrato anche in altre ambasciate. È uno schema ripetitivo, con protagonisti diversi ma stesse dinamiche. I fatti che denuncia l’imprenditore di Kinshasa, riportati da L’Espresso, riferitimi da decine di funzionari, e persino ambasciatori, si sono verificati anche in altri Paesi. Nel caso di Kinshasa parliamo di un funzionario che nonostante la gravità delle denunce non è stato sospeso ma semplicemente spostato in altra sede. Con il mio esposto denuncia intendo avanzare una richiesta di informazioni alla magistratura per fare chiarezza affinché nulla resti nell’oscurità. Serve trasparenza”. Il deputato di FdI, eletto nella circoscrizione estera Nord e Centro America, ha scoperto e denunciato alla Guardia di Finanza un giro di “visti facili” mirato a favorire l’immigrazione illegale in Italia, attraverso un commercio internazionale di permessi di soggiorno di lavoro (o di turismo) per immigrati, favorito da “decine di dipendenti corrotti e infedeli” delle ambasciate e dei consolati italiani in Asia, Africa e in Sud America. L’onorevole Di Giuseppe, per aver messo in crisi un modello di business gestito da gruppi criminali organizzati è stato minacciato e ha ricevuto intimidazioni ed è stata disposta una misura di protezione nei suoi confronti. “Quello che emerge dalla testimonianza dell’imprenditore Italo-congolese è un ulteriore pezzo dello schema che ho denunciato e che va approfondito perché, in questo caso, ci sono due servitori dello Stato, l’ambasciatore Luca Attanasio e il carabiniere Vittorio Iacovacci, per i quali va colmato un buco di ambiguità ed è doveroso ristabilire un certo tipo di memoria, di ragione e di verità”, conclude Di Giuseppe. Le denunce in possesso de L’Espresso, oltre a certificare fatti e illeciti, riportano nomi e cognomi dei presunti promotori del racket. In ogni ambasciata la competenza al rilascio dei visti emessi dalla Repubblica Italiana spetta al ministero degli Affari Esteri. Un compito affidato alla rete di uffici diplomatico-consolari all’estero, responsabili dell’accertamento del possesso e della valutazione dei requisiti necessari per l’ottenimento del visto. La domanda per acquisire il permesso d’ingresso in Italia deve essere presentata alla rappresentanza consolare del Paese di origine. Nel caso della RdC il destinatario era proprio l’ufficio dello stesso funzionario scoperto a portare fuori dall’ambasciata una borsa piena di passaporti. La circostanza è nella relazione di sevizio dei carabinieri della sede diplomatica italiana che lo avevano scoperto. Secondo le testimonianze raccolte, in Congo il racket dei visti andava avanti da anni e lo scandalo su cui insiste Di Giuseppe sta assumendo dimensioni vaste. A Kinshasa, come negli altri Paesi le cui sedi diplomatiche sono finite sotto la lente della Farnesina. Il ministero ha già inviato ispettori in Pakistan, Sri Lanka e Bangladesh con una “missione d’urgenza”. Il comune denominatore sembra essere questo: chi si vedeva respinta la richiesta d’ingresso nell’area Schengen poteva recarsi all’ambasciata italiana per ottenere quanto richiesto, naturalmente dietro compenso. A detta dei locali in Congo, il nostro Consolato era considerato “più malleabile e vulnerabile alle mazzette”. Vari testimoni sostengono che i “comportamenti gravi” di alcuni funzionari italiani erano ben noti a tutti sia nella capitale congolese che a Goma, capoluogo della regione del Nord Kivu. Le voci erano arrivate anche all’ambasciatore Attanasio che si era messo a verificare di persona l’attendibilità delle segnalazioni in grado di rovinare la reputazione dell’ambasciata italiana in Congo sotto la sua responsabilità. Proprio per questo, qualche giorno prima della missione nel Kivu, dove il 22 febbraio del 2021 fu vittima dell’agguato in cui morì insieme con il carabiniere che gli faceva da scorta, il diplomatico, secondo un testimone a lui molto vicino, aveva discusso con uno dei funzionari chiacchierati e che era stato già avvisato in passato. In quella occasione lo avrebbe ammonito di “non giocare con i visti”. Richiesta disattesa, come emergerebbe da quanto scoperto successivamente. Ufficialmente, Attanasio e il carabiniere Iacovacci sono stati vittime di una imboscata da parte di predoni locali che avevano l’obiettivo di rapinarli. Una versione che non ha mai convinto i loro familiari. Cina. Fai meditazione? 10 anni di carcere! di Elisabetta Zamparutti* L’Unità, 22 ottobre 2023 Viviamo un tempo che santifica il ritmo pressante, la risposta veloce e la performance efficiente. Nel tutto e subito di questo modo di vivere all’insegna del materialismo, chi si ferma è perduto. Fermarsi, meditare, può diventare finanche fatto eversivo. Accade in Cina, campione perverso di questa concezione che vuole esaurire nella produzione e riproduzione meccanica ogni forma di pensiero e di espressione. Da quasi un quarto di secolo, il Partito Comunista Cinese persegue una repressione di massa volta all’annientamento dei praticanti il Falun Gong, un antico movimento spirituale d’ispirazione buddista legato ai principi di Verità, Compassione e Tolleranza. Una persecuzione che continua a costituire una delle principali sistematiche violazioni dei diritti umani nella Cina contemporanea. Il regime vi attribuisce anche una valenza simbolica tant’è che la persecuzione si intensifica in coincidenza di certe ricorrenze come nello scorso marzo in occasione di meeting politici annuali o di eventi speciali quali la visita, lo scorso mese di maggio, di Xi Jinping nello Shaanxi. Dal gennaio del 2022 oltre 900 praticanti il Falun Gong sono stati condannati a pene superiori ai dieci anni di carcere, spesso dopo processi farsa, ma il numero lievita a decine di migliaia se si considerano i praticanti detenuti nelle centrali di polizia, in carcere o nei centri di detenzione extra legali. Almeno 182 sono i praticanti deceduti tra il 2022 e l’inizio del 2023 che dolorosamente si aggiungono alle oltre 5000 vittime di questa repressione che ha cinicamente fatto dei loro copri anche fonte di approvvigionamento di organi umani. L’evoluzione high-tech ha avuto un occhio particolare per loro al punto d’aver fornito alla polizia un’applicazione per l’identificazione dei praticanti il Falun Gong. Ma che fanno di male? Meditano e fanno esercizi spirituali all’aperto. Li ho conosciuti molti anni fa. Tra loro, in particolare, Lili Zhao che è in Italia dall’ottobre del 2000. Nel 2001 ha ottenuto lo status di rifugiata politica e nel 2016 la cittadinanza italiana. Da anni lavora come docente a contratto con l’Università di Bologna. Lo scorso 20 settembre, suo fratello l’ha chiamata dalla Cina per comunicarle una notizia che non è delle migliori: la loro sorella, Lihong Zaho, è stata arrestata per aver praticato il Falun Gong. A informare la famiglia è stato un poliziotto, Wang Bing. Lihong vive in una zona di sviluppo economico e tecnologico nella città di Yantai, nella provincia dello Shandong. Il 17 aprile 2022, era nel parco Kaifaqu Fulaishan con un’altra praticante di nome Chen Yawen. Degli spioni (non mancano mai nei regimi!) le hanno segnalate alla polizia che è prontamente intervenuta e le ha portate alla stazione di Fulai. Successivamente Lihong è stata rilasciata su cauzione per un anno. Dopo due mesi la stazione di polizia ha trasmesso il fascicolo al procuratore e ad agosto il suo caso è stato portato in tribunale. La condanna (poteva andare diversamente?) è arrivata il 6 febbraio 2023: tre anni di reclusione. Mi scrive sua sorella Lili: “La mia famiglia, come tante altre in Cina, ha vissuto grandi sofferenze. Prima di mia sorella, mio fratello maggiore è stato 5 anni in una prigione cinese. Quando è uscito aveva perso la vista e tutti i denti a causa delle torture e dei maltrattamenti. Mio marito è stato per quasi due anni in un campo di lavori forzati ed è quasi morto. Io stessa sono stata arrestata tre volte e sottoposta all’alimentazione forzata perché protestavo contro l’ingiusta detenzione con uno sciopero della fame. I miei familiari in Cina vivono ogni giorno nel pericolo, con il rischio di essere imprigionati e torturati.” Ecco, pensare a Lihong, magari occuparcene per sapere che fine ha fatto e chiedere conto alle autorità cinesi coinvolte delle ragioni di tanto accanimento potrebbe aiutarci a essere migliori. Potrebbe aiutarci, nella fermezza delle nostre convinzioni, a relazionarci con i regimi senza necessariamente indulgere a politiche di accondiscendenza. Ma occuparci di Lihong e delle sorti dei praticanti il Falun Gong può significare anche affermare altro rispetto a una visione meccanica che riduce il valore degli esseri umani alla capacità di produrre secondo modi stabiliti. Può significare porre un freno al materialismo che proprio recidendo la connessione tra l’uomo e la natura di cui pure fa parte, mira ad annientare lo sviluppo e l’elevazione spirituale che tanto contribuisce invece alla costruzione di una società migliore e a uno sviluppo sostenibile. *Nessuno Tocchi Caino