Psicofarmaci nelle carceri, l’inchiesta di Altreconomia in Parlamento di Edoardo Andrein vipiu.it, 21 ottobre 2023 Il ministro Nordio non ha risposto alle nostre domande”. Il mensile Altreconomia ha svolto un’inchiesta intitolata “Fine pillola mai”, a firma di Luca Rondi, sull’abuso di psicofarmaci nelle carceri italiane. Tra salute mentale e controllo della popolazione detenuta, i dati inediti di 15 strutture penitenziarie italiane verranno presentati anche alla Camera dei Deputati. Un “carcere sedato” con più di due milioni di euro all’anno spesi dallo Stato in psicofarmaci, utilizzati anche negli Istituti penali per i giovani reclusi. Il consumo di psicofarmaci per i minorenni è elevato, e da Catania a Milano è stata identificata come la conseguenza di anni di abbandono delle strutture. “I dati sulla somministrazione di antipsicotici nelle carceri italiane ottenuti da Altreconomia interrogano il Parlamento e il Governo. Ecco perché abbiamo deciso di presentare l’inchiesta alla Camera insieme ad Antigone, grazie alla sensibilità dell’On. Riccardo Magi”, sottolinea Duccio Facchini, direttore di Altreconomia. “Che cosa ne pensa il ministro della Giustizia, Carlo Nordio? - aggiunge il direttore Facchini - Perché il suo dicastero non ha voluto rispondere alle nostre domande? Riteniamo sia urgente fare chiarezza sulle ragioni e sui dispositivi che hanno portato a un consumo cinque volte superiore rispetto alla popolazione generale”. “Colpisce - conclude Facchini - che nel polarizzato dibattito politico sulla presunta riforma della Giustizia le condizioni materiali di vita nelle carceri del nostro Paese non trovino mai spazio e attenzione. A proposito di sbandierato garantismo”. Caso Cospito, perché l’Antimafia ha chiesto la revoca del 41bis di Frank Cimini L’Unità, 21 ottobre 2023 Si apre uno spiraglio per il detenuto protagonista di un lunghissimo sciopero della fame contro il carcere duro. Se il Tribunale di sorveglianza dovesse accogliere la richiesta della Dna e della difesa, Cospito andrebbe nel regime di Alta sorveglianza. La decisione nei prossimi giorni. La Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo apre uno spiraglio per l’anarchico Alfredo Cospito chiedendo al Tribunale di Sorveglianza di Roma di revocare il 41bis, l’articolo del regolamento penitenziario che regola il carcere più duro. I giudici si sono riservati la decisione che sarà depositata nei prossimi giorni. Tutto succede nell’udienza in cui si discutono i ricorsi della difesa per ottenere la revoca del 41bis, compreso il reclamo presentato dopo la mancata risposta del ministro Carlo Nordio nei mesi scorsi. Sull’iniziativa assunta dalla Direzione antiterrorismo pesano diversi fattori. A cominciare dalla sentenza della Corte Costituzionale che aveva dichiarato la prevalenza delle attenuanti nei confronti della recidiva per i reati che prevedono l’ergastolo. E di conseguenza la valutazione della ‘lieve entità’ dei danni fatta dalla Corte di assise di appello di Torino sull’attentato con i pacchi bomba di Fossano. Si tratta di un fatto che ridimensiona depotenziandola notevolmente l’enfatizzazione della figura di Alfredo Cospito. Nel reclamo i difensori Flavio Rossi Albertini e Margherita Palazza ricordavano che per ben due volte il Tribunale del Riesame escludeva che le esternazioni dell’anarchico fossero idonee a istigare la commissione di reati o indicazioni utili a soggetti esterni per determinarsi a condotte illegali. Tutto questo ragionamento alla luce del fatto che il presupposto del 41bis è quello di interrompere l’attività comunicativa del soggetto detenuto con l’obiettivo di sanzionare l’istigazione che sarebbe ravvisata nelle sue parole. Alfredo Cospito che ha già scontato la condanna per il ferimento a Genova del manager dell’Ansaldo Roberto Adinolfi si trova recluso con le regole del 41bis dal maggio del 2022 per decisione dell’allora ministro della Giustizia Marta Cartabia. Il suo successore Carlo Nordio ha sempre rifiutato di modificare quel provvedimento. Cospito era stato protagonista di un lunghissimo sciopero della fame in cui aveva anche rischiato la vita, poi interrotto nel momento in cui la Corte Costituzionale prendeva la decisione che sarebbe servita per evitare il massimo della pena per i fatti di Fossano come era nella richiesta del procuratore generale di Torino nel processo di appello bis. Nel caso il Tribunale di Sorveglianza di Roma dovesse uniformarsi alla richiesta della Dna e dei difensori Alfredo Cospito finirebbe nel regime detto di alta sorveglianza un gradino appena inferiore al 41 bis che nel nostro paese viene applicato a circa 750 detenuti. Si tratta di appartenenti a gruppi della criminalità organizzata e di tre ex militanti delle Brigate Rosse (Nadia Desdemona Lioce, Marco Mezzasalma e Roberto Morandi) organizzazione che non esiste più da oltre 20 anni. Carceri: una storia di amicizia, lavoro e rinascita per i 100 anni di Sesta Opera San Fedele Ristretti Orizzonti, 21 ottobre 2023 Carceri: una storia di amicizia, lavoro e rinascita. Una testimonianza del valore del volontariato carcerario, per i 100 anni di Sesta Opera San Fedele. A novembre 4 eventi, tra cui un incontro con i vertici dell’amministrazione giudiziaria nel carcere di San Vittore (sabato 11/11). Un lavoro nelle produzioni televisive, una vacanza in Italia con la fidanzata, un brutto caso di cronaca che gli vale una pesante condanna. Poi il vuoto e la solitudine del carcere, la volontà di offrire al mondo qualcosa di utile. Un progetto in ambito ambientale, un bando vinto, una macchina prototipo per la raccolta differenziata che diventa realtà e che dà lavoro ad altri detenuti. Poi una cooperativa sociale, la prima in Italia fondata da persone autori di reato per il reinserimento lavorativo dei detenuti, nel campo del video making. Tante svolte nella vita di Fernando G., brasiliano di 44 anni. Un percorso, il suo, che si lega a quello di Sesta Opera San Fedele, associazione milanese di volontariato carcerario che quest’anno celebra i 100 anni di attività e che prende appunto il nome dalla sesta opera di misericordia “visitare i carcerati”. È nel carcere di Bollate che incontra Guido Chiaretti, Presidente di Sesta Opera, lo affianca, lo consiglia sul suo futuro lavorativo e lo aiuta a costruire la base della sua attività. “Non sarei riuscito a venire fuori dalla mia situazione senza questa compagnia così personale, un’assistenza morale, psicologica e materiale - racconta Fernando -. È stato presente in tutti i passaggi della mia attività, siamo diventati amici. Ma chi dal mondo libero ha voglia di venire dentro, passare per 11 cancelli, lasciare documenti e telefonino per magari passare un’ora a chiacchierare con un detenuto? La presenza dei volontari in carcere è davvero insostituibile per cercare una nuova strada nella vita”. “Atakama”, che in brasiliano significa “deserto” è il nome della cooperativa sociale che gli dà lavoro. Un nome per ricordare che anche nel deserto possono crescere bellissimi fiori. “Come suggeriva il cardinal Martini per costruire percorsi di giustizia occorre visitare le persone in carcere e lavorare con loro, fianco a fianco - ha spiegato il Presidente Chiaretti -. Dare testimonianza che la società può dare loro fiducia, offrendo una seconda possibilità. E il primo passo è riconoscere, oltre i loro errori, la loro dignità di persona umana”. Sesta Opera San Fedele è una delle più antiche associazioni italiane di volontariato penitenziario. Nel 1923 un gruppo di liberi professionisti della Congregazione Mariana, gruppo di laici di spiritualità ignaziana (oggi Comunità di Vita Cristiana), che allora aveva sede presso l’Istituto Leone XIII a Porta Volta, oggi in San Fedele - dopo aver frequentato un corso di esercizi spirituali a Triuggio, tenuto dal gesuita padre Beretta, decise di dedicare alcune ore alla settimana ai reclusi del carcere di San Vittore, ottemperando così al precetto evangelico di visitare i carcerati. Nessuno di loro avrebbe mai pensato che questa iniziativa potesse avere uno sviluppo così significativo e duraturo. Il 30 novembre 1963, venne formalmente costituita l’Associazione “Sesta Opera San Fedele”. Tra i soci fondatori si ricordano Giovanni Lazzati e Francesco e Giovanni Battista e Giuseppe Legnani, Luigi Gatti. Nel 1968, su impulso di Sesta Opera, Azione Cattolica Italiana si fece promotrice del Coordinamento degli enti e dei singoli volontari impegnati nell’assistenza carceraria, costituendo un Segretariato Enti Assistenza Carceraria (S.E.A.C.). Forte della adesione di 120 Enti, il S.E.A.C., tramite l’opera di Gianbattista Legnani, poté far pressione sul legislatore perché riconoscesse nel volontariato carcerario la forma migliore di operatività per la rieducazione del detenuto. Nel 1975, diventa legge la proposta di Legnani, allora Presidente dell’Associazione, degli attuali art. 17 e 78 dell’Ordinamento Penitenziario, medianti i quali gli assistenti volontari furono formalmente istituiti per legge, legittimando quindi l’ingresso negli istituti penitenziari di cittadini impegnati nel volontariato in carcere. Attualmente i suoi 200 soci operano a Milano - fuori e dentro nel carcere - negli Istituti di San Vittore, Opera, Bollate, nel Carcere minorile Beccaria, nel reparto speciale dell’Ospedale San Paolo e nel carcere di Cremona. “La sua mission - spiega Guido Chiaretti, Presidente di Sesta Opera - è quella di prestare assistenza morale e materiale ai carcerati e alle loro famiglie, promuovendone la dignità e attivandosi per la rimozione delle cause di emarginazione e per facilitarne il reinserimento nella società”. Fin dalle sue origini l’Associazione fa riferimento alla Comunità dei Padri Gesuiti di S. Fedele di Milano. Le iniziative per i 100 anni dell’associazione iniziano venerdì 10 novembre con un evento “Nel cuore di Milano” (ore 17-19, Fondazione Ambrosianeum - via delle Ore, 3 Milano) cui partecipano l’Arcivescovo di Milano, Mario Delpini, il Sindaco di Milano, Beppe Sala, e di molte autorità civili e religiose di Milano, con gli interventi di Guido Chiaretti, Presidente Sesta Opera San Fedele, Luigi Pagano, già direttore del carcere di San Vittore, Franco Bonisoli, ex detenuto, Piero Colaprico, giornalista. Modera, Fabio Pizzul. Sabato 11 novembre (ore 9-13) , presso l’Auditorium San Fedele (Galleria Hoepli 3/b) si tiene, in collaborazione con SEAC il Convegno “Il contributo del volontariato e della società civile per declinare il senso di umanità nelle pene” con gli interventi di Carlo Condorelli - Presidente SEAC, P. Maurizio Teani s.j. - biblista, Claudia Mazzucato - Professore associato di Diritto penale nella Facoltà di Scienze politiche e sociali dell’Università Cattolica, Monica Martinelli - Professore Associato di Sociologia presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università Cattolica, Giovanni M. Pavarin - già Presidente dei Magistrati di Sorveglianza e Patrizia Patrizi - Università di Sassari e Presidente Forum Europeo Giustizia Riparativa. Concluderanno Guido Chiaretti, presidente di Sesta Opera, e il prof Andrea Rangone, docente al Politecnico di Milano e presidente di Digital360. Dalle 15 alle 18, il Convegno continua nel carcere di San Vittore dove il mondo del volontariato dialoga con i dott. Giovanni Russo, Capo del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, e Antonio Sangermano, capo del Dipartimento di Giustizia Minorile e di Comunità per aprire nuovi percorsi di collaborazione. I lavori pomeridiani saranno aperti dal dott. Giacinto Siciliano, direttore di San Vittore, e dal racconto “Qui tutto è cominciato” di Guido Chiaretti e Luigi Pagano. Mercoledì 15 novembre, ore 12, nell’ambito di “BookCity 2023” presentazione del libro “Per una giustizia “degna del senso ultimo dell’essere umano” con il prof. Giovanni Maria Flick, Presidente emerito della Corte Costituzionale, autore della prefazione, Claudia Pecorella, Professore ordinario di Diritto penale presso l’Università di Milano Bicocca, coordinatrice scientifica dell’opera, Guido Chiaretti, Presidente dell’Associazione Sesta Opera San Fedele e curatore del libro; Modera il dott. Ferruccio de Bortoli, giornalista. L’incontro si terrà presso Fondazione Culturale San Fedele · piazza San Fedele 4, Milano - Sala Ricci. Per informazioni: Chiara Santini: chiara.santini@sestaopera.it. Titti Arena: 349 8849202 Abolizione abuso d’ufficio Scarpinato avvelena i pozzi di Paolo Pandolfini Il Riformista, 21 ottobre 2023 Per l’ex magistrato intervenuto nella discussione sul testo in Commissione giustizia, la riforma Nordio sarebbe “una riforma contro tutti e contro tutto”. L’abolizione del reato di abuso d’ufficio rappresenta “la discesa agli inferi dell’etica pubblica”. Parola di Roberto Scarpinato, ex procuratore generale di Palermo, attualmente senatore grillino e componente della Commissione giustizia di Palazzo Madama, che ha dunque deciso di ‘avvelenare i pozzi’ del dibattito parlamentare sulla riforma della giustizia voluta da Carlo Nordio ricorrendo a tali improbabili iperbole. Per Scarpinato, intervenuto questa settimana nella discussione generale sul testo in Commissione giustizia, la riforma Nordio sarebbe infatti “una riforma contro tutti e contro tutto”. L’abrogazione del reato di abuso di ufficio, in particolare, si porrebbe in contrasto con la proposta di direttiva europea sulla materia, rappresentando anche “una grave criticità per l’intero sistema Paese, come rilevato dal rapporto sullo Stato di diritto del luglio 2023 della Commissione europea che, su questo punto, ha espresso delle riserve nei confronti dell’Italia”. Le modifiche volute da Nordio, inoltre, sarebbero addirittura da ostacolo al contrasto della corruzione, “danneggiando lo Stato, la credibilità delle istituzioni” e al contempo con un “impatto devastante sulla tutela dei cittadini nei confronti degli abusi perpetrati da parte del potere”. Per dar forza a tale scenario apocalittico, Scarpinato ha ricordato che dal 1997 al 2020, nelle 3600 sentenze passate in giudicato aventi ad oggetto condanne per il reato di abuso d’ufficio, la casistica ha evidenziato come le condotte punite fossero “tutte strumentali a forme di criminalità perpetrata dai cosiddetti colletti bianchi oppure da dipendenti pubblici - presidenti di Regione, magistrati, persino appartenenti alle Forze dell’ordine”. “Non si può inoltre tacere - ha ricordato il senatore grillino - che questo genere di criminalità ha fortemente agevolato nel tempo anche le organizzazioni criminali operanti in particolare in alcuni settori come quelli dell’edilizia”, tornando con la memoria al sacco di Palermo degli anni 60, che tuttavia “non è una storia del passato ma dell’attualità”. “Le azioni criminose commesse dai colletti bianchi, infatti, sono finalizzate proprio ad agevolare la grande criminalità organizzata e la sua penetrazione nelle istituzioni. Da tutto ciò emerge un quadro impressionante che delegittima l’istituzione pubblica nei suoi gangli vitali: edilizia, appalti, sanità, concorsi, in una logica di favoritismo che, in particolare per l’aspetto riguardante la pubblica amministrazione, ha ucciso il merito rendendo molto difficile l’accesso al lavoro dei giovani”, ha poi aggiunto Scarpinato con sprezzo del ridicolo, essendo quanto mai improbabile che il sindaco di Crema, indagato lo scorso anno per abuso d’ufficio in quanto una bambina si era schiacciata la mano nella porta dell’asilo comunale, tanto per ricordare un episodio noto, con la sua condotta avesse voluto agevolare la criminalità organizzata. “Tutto ciò senza contare che, con l’abolizione del reato di abuso di ufficio, tutte le condanne ai sensi dell’articolo 323 del codice penale dovrebbero essere revocate in applicazione dell’articolo 673 del codice di procedura penale recante disposizioni per la revoca della sentenza per abolizione del reato”, ha quindi proseguito l’ex procuratore generale di Palermo. In sintesi, l’abrogazione dell’abuso d’ufficio rappresenterebbe un messaggio di “resa dello Stato e di assoluta perdita di credibilità delle sue istituzioni”. Per Scarpinato, il moderno Stato di diritto nasce proprio con la regolamentazione del conflitto di interessi attraverso la separazione dei beni del Re da quelli della collettività. Il nucleo dello Stato liberale è infatti la difesa dei cittadini contro qualunque abuso di potere e la loro possibilità di ricorrere alla giustizia: “Tanto ciò è vero che persino i sindaci rappresentati dall’Anci hanno raccomandato, nella memoria inviata alla Commissione, di mantenere il reato di abuso di ufficio e, di converso, di modificare gli articoli del testo unico sugli enti locali in modo da prosciugare l’area di responsabilità amministrativa dei sindaci e, di conseguenza, anche quella penale”. Per concludere, “il governo ha scelto la scorciatoia dell’abolizione del reato che non risolve i problemi ma che, unitamente alla modifica del reato di traffico di influenze, rappresenta la discesa agli inferi dell’etica pubblica”. Come se non fosse già sufficiente, anche la modifica del reato, quanto mai evanescente a detta di tutti i giuristi, di traffico di influenze illecite, legalizzerebbe “il lobbysmo mercenario finalizzato all’abuso d’ufficio, uccidendo la credibilità dello Stato”. Parole che, certamente, non sono il miglior viatico per una pacata discussione sul punto ma che, al contrario, mostrano una contrarietà precostituita nei confronti di qualsiasi proposta di riforma che non sia di stampo manettaro e forcaiolo. Oristano. I tanti dubbi sulla morte in carcere di Stefano Dal Corso di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 21 ottobre 2023 Era stato ritrovato impiccato un anno fa nella cella dell’istituto penitenziario sardo di Oristano. Sembrava un caso chiuso. Uno dei tanti suicidi che avvengono con un ritmo inquietante nelle nostre patrie galere. Ma ora la Procura, dopo una strenua battaglia legale, ha riaperto le indagini. Parliamo di Stefano Dal Corso, un detenuto trasferito temporaneamente dal carcere di Rebibbia in vista di un’udienza importante. Il 12 ottobre 2022 è stato trovato così morto nella sua cella. Sebbene ufficialmente sia stato dichiarato un suicidio, i dettagli circostanziali e le domande che aleggiavano nell’aria hanno sollevato una serie di interrogativi inquietanti. L’uomo era stato ritrovato un anno fa impiccato nella sua angusta cella, usando il suo stesso lenzuolo, abilmente legato a una grata della finestra. Tuttavia i dubbi hanno iniziato a sorgere quando i suoi familiari hanno cominciato a porre delle domande. I parenti del defunto hanno segnalato stranezze sospette che circondavano la sua morte, sospettando che ci fosse molto di più dietro questa apparente tragedia autoinflitta. Questi dubbi hanno trovato ulteriore supporto in una strana telefonata registrata da Marisa Dal Corso, sorella di Stefano. Un anonimo interlocutore, apparentemente ben informato, ha esortato la famiglia a non accettare la spiegazione ufficiale. Questa voce misteriosa ha affermato che il fratello era stato strangolato e che l’impiccagione era stata solo una macabra messinscena. “Stefano non avrebbe mai compiuto un atto del genere; aveva una figlia di sette anni e mancava poco alla fine della sua pena”, ha dichiarato la sorella. “Ritengo importante che si effettui l’esame autoptico per chiarire ogni dubbio, nell’interesse di tutti”, le parole di Irene Testa, da pochi mesi insediata in Sardegna come garante delle persone private della libertà. Dopo una strenua lotta, tra richieste e archiviazioni, la procura ha deciso di riaprire le indagini Ma la battaglia non si è esaurita qui. Ieri, a Montecitorio, si è svolta una conferenza che ha fatto luce sul misterioso decesso di Stefano Dal Corso e ha sollevato gravi interrogativi sullo stato delle carceri italiane. L’evento è stato organizzato da Roberto Giachetti, deputato di Italia Viva, con la partecipazione di Rita Bernardini, presidente di Nessuno Tocchi Caino, Marisa Dal Corso, sorella di Stefano, e l’avvocata Armida Decina, rappresentante legale della famiglia. È stato ricordato che, sin dall’inizio, la Procura ha negato l’autopsia sul suo corpo, dichiarando con certezza che la morte era dovuta a un suicidio per impiccagione. Tuttavia, la sorella di Stefano, Marisa, ha espresso fin da subito dubbi sulla veridicità di questa versione ufficiale. Ha fatto riferimento a una serie di elementi incongruenti, sia prima che dopo la tragica morte del fratello, che hanno sollevato sospetti sulla natura reale del decesso. L’avvocata Armida Decina, incaricata dalla famiglia Dal Corso, ha perseverato nella ricerca di giustizia nonostante le ripetute archiviazioni da parte della Procura relative alle richieste di eseguire l’esame autoptico sul corpo di Stefano. L’assenza di filmati delle telecamere di sicurezza nell’infermeria, il luogo stesso in cui è avvenuta la tragedia, è stata giustificata con comodi “problemi tecnici”, sollevando dubbi sulla scrupolosità dell’indagine. Solo pochi giorni fa, grazie alla sua instancabile determinazione, è riuscita a ottenere la riapertura delle indagini, aprendo così la possibilità per la verità di emergere. Rita Bernardini, presidente di Nessuno Tocchi Caino, ha fornito dati raccapriccianti sulle morti in carcere e sulle condizioni di detenzione in Italia. Questi dati sottolineano l’urgente necessità di riforme nel sistema carcerario italiano e sollecitano una riflessione approfondita sulla gestione dei detenuti e sulla loro sicurezza. Roberto Giachetti ha richiamato l’interrogazione parlamentare rivolta al ministro della Giustizia Nordio, chiedendo risposte concrete sul caso di Stefano Dal Corso e sollevando dubbi sul comportamento della Procura riguardo alle richieste di autopsia. L’interrogazione parlamentare di Giachetti ha gettato luce su questa situazione sconcertante. Il parlamentare ha posto domande dirette e incisive al ministro della Giustizia, chiedendo spiegazioni su ogni aspetto oscuro del caso. Il 4 ottobre 2022 Dal Corso era stato trasferito dall’Istituto Penitenziario di Rebibbia a quello di Oristano, in vista di un’udienza fissata per il 6 ottobre. Ma il 12 ottobre 2022, è stato trovato senza vita nella sua cella. L’orario della morte, le 15, è stato comunicato alla sorella, Marisa Dal Corso, dal parroco del carcere. Tuttavia, le circostanze della morte del detenuto hanno sollevato significativi dubbi. Secondo quanto riportato dall’ex compagna di Dal Corso, Giada Murgia, l’infermiera del reparto, dottoressa Faa, ha dichiarato che Stefano sarebbe morto suicida e che non avrebbe sofferto, in quanto nel cadere si era spezzato l’osso del collo, causandone la morte immediata. Tuttavia, la sorella di Dal Corso non ha mai accettato questa versione ufficiale, sottolineando una serie di dettagli incoerenti raccolti prima e dopo la tragica morte del fratello. Nella sua interrogazione, Giachetti ha evidenziato che le richieste di giustizia della famiglia e del difensore di Marisa, l’avvocato Armida Decina, sono state costantemente respinte dalla Procura di Oristano. Nonostante le continue richieste di un’indagine accurata e di un’autopsia, queste sono state sempre archiviate. Anche le richieste di ottenere i filmati delle telecamere dell’infermeria del carcere di Oristano sono state respinte, con l’argomentazione di un presunto malfunzionamento delle apparecchiature. L’interrogazione parlamentare di Giachetti ha sollevato domande dirette al ministro della Giustizia sulle circostanze della morte di Dal Corso. In particolare, il deputato ha chiesto se l’amministrazione penitenziaria fosse a conoscenza delle irregolarità segnalate e se fosse vero che le telecamere dell’infermeria non avessero funzionato quel giorno, comprese le stanze detentive. Il deputato di Italia Viva ha anche chiesto l’implementazione di misure che garantiscano l’acquisizione immediata dei filmati in caso di morte di un detenuto, al fine di fornire prove utili per tutte le parti coinvolte. Inoltre, ha domandato se ci fossero casi noti nel 2023 in cui le autorità giudiziarie non avessero disposto l’autopsia in caso di decesso di un detenuto, senza fare distinzioni tra suicidio e morte per altre cause. Questa interrogazione ha messo in evidenza non solo il caso di Stefano Dal Corso, ma anche l’urgente necessità di una revisione trasparente e completa dei protocolli che circondano le morti dei detenuti nelle carceri italiane. Il sistema carcerario è ora sotto stretta osservazione, e la comunità si attende risposte chiare e azioni decisive per garantire che situazioni come questa non si ripetano mai più. La ricerca della verità e della giustizia continua, sia per Stefano Dal Corso che per tutte le persone coinvolte in queste tragiche circostanze. Oristano. Riaperte le indagini sulla morte in carcere di Stefano Dal Corso di Giansandro Merli Il Manifesto, 21 ottobre 2023 Per i familiari non si è suicidato: “Il giorno prima pestato dalle guardie penitenziarie”. L’uomo è stato ritrovato senza vita nell’istituto di Oristano a ottobre dell’anno scorso. Sempre negata l’autopsia. Il corpo è in una cella frigo del cimitero di Prima Porta. Da un anno c’è un corpo chiuso in una bara di zinco nella cella frigorifera del cimitero romano di Prima Porta. È il cadavere di Stefano Dal Corso. Oggi avrebbe avuto 43 anni e tra 10 giorni avrebbe finito di scontare la sua pena. Invece il 12 ottobre del 2022 è morto nel carcere di Oristano. Un suicidio secondo i pm che hanno indagato sul caso e la gip che il 3 luglio scorso ha archiviato il caso. Per la sorella Marisa e la legale Armida Decina, però, ci sono troppi elementi oscuri che vanno chiariti. Per questo durante gli ultimi dodici mesi si sono battute per ottenere l’autopsia e poter finalmente dissipare ogni dubbio. Non ce l’hanno ancora fatta, ma sono riuscite a non far calare il silenzio sulla vicenda: il 4 ottobre le indagini sono state ufficialmente riaperte. Riavvolgiamo il nastro. Dal Corso, una vita complicata segnata dalla dipendenza da crack ed eroina, nel 2021 viene condannato a meno di due anni di carcere. È recidivo e sta scontando la pena a casa della sorella. Ad agosto dello scorso anno viola i domiciliari e finisce nel carcere di Rebibbia. Contro di lui è in corso anche un altro processo. È prevista un’udienza a Oristano. Lì vicino vive sua figlia. Chiede il trasferimento nell’istituto penitenziario sardo, invece di farsi sentire da remoto, per avere la possibilità di vedere la bambina. Arriva nel carcere di Massama, frazione della cittadina sarda, il 4 ottobre. Dovrebbe tornare nella capitale il 13 del mese. Alle 14.50 del giorno precedente, invece, viene ritrovato senza vita nella cella dell’infermeria dove era recluso, da solo. Nelle foto allegate al fascicolo l’uomo è vestito di nero, ha un segno rosso scuro intorno al collo. C’è un pezzo di tessuto bianco vicino al cadavere e un altro pezzo pende dalle sbarre della finestra, sotto la quale è posizionato il letto. L’assistente di polizia penitenziaria che per primo è arrivato sulla scena dichiara di aver visto il detenuto vivo 10 minuti prima del rinvenimento. La sua testimonianza sulla fase dei tentati soccorsi converge con quelle del personale sanitario accorso nella cella. Dicono di aver tentato la rianimazione per 40 minuti, che il corpo era caldo e non presentava segni che potessero far pensare a una colluttazione (o all’iniezione di qualche sostanza). Su questa base il pm ha chiesto l’archiviazione e il gip l’ha disposta ritenendo “possibile escludere senza ombra di dubbio che la morte di Dal Corso possa essere stata causata da un terzo” ed escludendo responsabilità dell’amministrazione penitenziaria relative alla custodia del detenuto. Nessuno ha voluto accogliere la richiesta dell’autopsia. L’esame del cadavere necessario a dissipare ogni dubbio. “Il fascicolo sulla morte di Stefano è vuoto, povero. Le foto sono incomplete. Il corpo è vestito”, ha dichiarato ieri l’avvocata Decina in una conferenza stampa alla Camera a cui hanno partecipato la sorella della vittima, il deputato di Italia Viva Roberto Giachetti e Rita Bernardini, presidente di Nessuno Tocchi Caino. Ci sono due perizie medico-legali a sostenere quantomeno la richiesta di un esame autoptico. La prima, richiesta dal Garante nazionale dei detenuti a dicembre scorso, è firmata dalla dottoressa Cristina Cattaneo. La seconda, prodotta dalla famiglia, ha il nome di due luminari della medicina legale: il professor Claudio Buccelli e la professoressa Gelsomina Mansueto. Gli esperti concordano su un fatto: dalle foto non è possibile capire se il solco attorno al collo “sia l’esito dell’impiccamento o di un precedente strangolamento cui è seguita una simulazione di impiccamento”. Ad aggiungere dubbi e tormenti ai familiari ci sono poi tre testimonianze raccolte nel corso dei mesi. Per proteggere le persone coinvolte non sono rivelati i nomi. Un detenuto ha raccontato che il giorno prima del decesso Dal Corso era intervenuto a sostegno della sua richiesta di ricevere i farmaci per curare il diabete, rimediando un pestaggio dalle guardie penitenziarie. L’uomo è stato trasferito poche ore prima del ritrovamento del corpo. Un’altra persona, ben informata sui fatti e ritenuta attendibile dalla difesa, ha telefonato a Marisa invitandola ad andare avanti perché “l’hanno strangolato e hanno fatto come se si fosse impiccato”. Un ulteriore mistero riguarda un libro consegnato a casa della sorella a marzo di quest’anno. Il titolo è “Fateci uscire da qui!”. Nell’indice erano cerchiati i capitoli “La morte” e “La confessione”. Marisa non è riuscita a vedere il corriere, né a parlarci dopo averlo richiamato. Con la riapertura delle indagini la donna spera finalmente di ottenere l’autopsia sul corpo di quel fratello, ultimo di dieci figli, che ha cresciuto come un figlio. “La nostra non era una famiglia agiata e ho dovuto lasciare le scuole per stargli dietro”, dice provando a trattenere le lacrime e spiegando che il suo dolore è ancora tutto lì, ma è cambiato: è più rabbioso. La spinge a cercare la verità. “Sin dall’inizio mi è sembrato incredibile che non venisse autorizzata l’autopsia”, dice il Garante dei detenuti Mauro Palma, ancora in carica in attesa che il presidente della Repubblica nomini il suo successore. Palma, che è stato sentito nel procedimento per la riapertura delle indagini e dunque non può fornire dettagli, afferma che: “C’è un senso di giustizia da soddisfare, anche per rispetto del dolore dei parenti”. Oristano. “Pestato in cella”. L’ombra di un nuovo caso Cucchi La Stampa, 21 ottobre 2023 Il detenuto romano aveva 42 anni ed era padre di una bimba, è morto il 12 ottobre del 2022 nel penitenziario di Oristano. “Voglio le prove. Mio fratello ha sofferto nella sua vita, ma non si è ucciso. Dovete indagare e lo dico a testa alta, davanti a tutti”. Marisa Dal Corso, la sorella di Stefano Dal Corso, il detenuto romano morto nel carcere di Oristano il 12 ottobre 2022 - dove era stato accompagnato per assistere a un’udienza che lo riguardava - in circostanze poco chiare, non si dà pace. E con lei l’avvocato di famiglia Armida Decina: “Ci troviamo a combattere per capire cosa sia realmente accaduto”, ha detto in una conferenza stampa alla Camera, dove il deputato Roberto Giachetti, assieme all’associazione Nessuno tocchi Caino e all’esponente radicale Rita Bernardini, ha presentato una interrogazione al ministro Nordio. “Le prove che a noi sono state fornite sono insufficienti - ha sottolineato Decina -, non possiamo accontentarci di quello che ci viene detto. Quando richiesi il fascicolo, io mi sono trovata una cartellina vuota: foto totalmente incomplete mentre è necessario vedere se sul corpo di Stefano non ci fossero altri segni. Mi si dice che accanto al corpo di Stefano c’era un taglierino, ma ancora oggi non ho alcuna immagine di quel taglierino...”. Il caso era stato archiviato come un suicidio nonostante non sia stata fatta un’autopsia. Adesso però è stata aperta una nuova inchiesta sulla base di nuove testimonianze. Stefano Dal Corso, 42 anni, romano, è il più piccolo di una famiglia di dieci fratelli e sorelle. Tutt’altro che benestanti, quando Stefano nasce ci si pone il problema di come mettere insieme il pranzo e la cena. Sua sorella Marisa mette da parte gli studi per accudire l’ultimo arrivato, ma a quattro anni Stefano viene messo in un istituto. Uscito 7 anni dopo, gira attorno agli stupefacenti. “L’unica direzione è stata la strada”. È Marisa stessa raccontare la loro storia tra le lacrime in conferenza stampa. Legge una lettera, scritta in prima persona dal fratello quando era in in cella a Rebibbia - indirizzata al responsabile di una comunità terapeutica - in cui chiede di essere trasferito dal carcere alla comunità e ripercorre le sue vicende legate all’uso di droga. Stefano racconta di aver conosciuto l’eroina in carcere e di averne fatto uso regolarmente per i quattro anni passati dietro le sbarre. Quando ne è uscito, ha cercato lavoro e ha lavorato per due anni. “Il periodo più bello della mia vita: lavoravo con i miei fratelli, facevo imbianchino e muratore”, si legge nella missiva. Poi la marcia indietro. Il giovane comincia a fumare il crack e nella lettera ammette di “non riuscire a pensare ad altro, perdendomi le cose più belle della vita”. Quando, anni dopo, tornano a cercarlo, Stefano non fa nulla per evitare l’arreso. “Non lotta contro lo Stato”, racconta Marisa. Il 12 ottobre del 2022 Stefano viene trovato morto nella sua cella nel carcere di Oristano. Suicidio, fu la prima tesi della Procura, che ottenne l’archiviazione del caso. Ma adesso le indagini sono riaperte, anche grazie all’insistenza e alle denunce della sorella di Stefano Dal Corso, Marisa. “Quando mio fratello ha fatto i suoi errori, pagandoli sulla sua pelle, la legge non ha dovuto combattere per arrestarlo. Perché io devo combattere per avere la mia giustizia? - dice oggi Marisa - Perché la mia parola viene sempre messa in discussione e io non posso mettere in discussione la loro parola? Lui non si sarebbe mai tolto la vita, per il suo carattere e per sua figlia”. A spiegare cosa non torna nella versione dell’istituto di pena è l’avvocata Armida Decina: “Il fascicolo che mi hanno presentato era vuoto. Non c’erano i video delle telecamere e le foto mostravano il corpo di Stefano vestito. Impossibile appurare se ci fossero segni di percosse”, spiega il legale. Non solo. “Non è mai stata eseguita autopsia su quel corpo”. La famiglia di Stefano ha chiesto e ottenuto che il corpo non venisse tumulato, ma conservato in una cella refrigerata. Lo scopo è ottenere dal Tribunale il via libera all’autopsia. Anche perché la ricostruzione che parla di “impiccaggione” contrasta con la perizia del medico legale della famiglia che ritiene le lesioni al collo di Stefano siano compatibili con lo strangolamento, come spiega ancora la legale. “Stefano è morto suicida? Nella relazione dei nostri medici legali, nominati successivamente, c’è scritto che dalle immagini si deduce che “l’imbrattamento ematico presente sul mezzo lesivo suggerisce uno strangolamento piuttosto che un impiccamento” - prosegue Marisa -. E allora come si fa ad accogliere una richiesta di archiviazione quando ci sono tre medici legali che dicono che bisogna andare avanti? Perché ad occhio nudo non si può dire che la causa del decesso è stata la rottura dell’osso del collo”. Oggi anche la garante dei detenuti in Sardegna, Irene Testa, ha scritto al procuratore di Oristano per chiedere che sia effettuata l’autopsia sul corpo di Stefano. A tutto questo si aggiunge la testimonianza del detenuto nella cella davanti a quella di Stefano che parla di un pestaggio che sarebbe avvenuto all’interno della cella di Dal Corso. Il detenuto, poche ore prima che Stefano morisse, era stato trasferito in un altro penitenziario. Parla di ciò che è accaduto il giorno prima, l’11 ottobre: racconta di aver richiesto medicinali, che gli sarebbero stati negati. Stefano sarebbe intervenuto in sua difesa. “Le urla di dolore di Stefano si sentivano per tutta la sezione dove era recluso. Mio fratello, la sera prima del 12 ottobre del 2022, quando venne trovato morto in cella, subì un pestaggio da parte delle guardie. Alcuni detenuti hanno assistito ad un passaggio che noi riteniamo fondamentale. Dopo la lite con altri detenuti, avvenuta l’11 ottobre, ci raccontano i testimoni in un file audio, le guardie entrarono in cella e dalla cella provenivano grida di dolore”, dice Marisa Dal Corso nella conferenza stampa a Montecitorio. “Le testimonianze che abbiamo avuto dai detenuti (una prova agli atti, ndr) sono molto diverse dalle relazioni che sono state fatte sulla morte di Stefano finora. La mia personale idea è stata sempre la stessa che mio fratello non è morto per mano sua”, aggiunge la sorella. “Oggi siamo venuti in Parlamento perché dopo un anno sono venuta a conoscenza di quello che realmente è accaduto in carcere, ho dovuto tacere per tutelare gli altri detenuti che esplicitamente hanno detto di avere paura. Ho sperato fino all’ultimo nell’autorizzazione all’autopsia senza dover ricorrere a queste testimonianze ma purtroppo le cose sono andate diversamente... ecco perché siamo qui”. Da qui l’interrogazione di Giachetti: “Questo caso, a nostro avviso, non può essere liquidato in quattro e quattro otto. Ho presentato interrogazione al ministro della Giustizia perché è necessario fare luce, a cominciare dalla decisione di non fare l’autopsia”, spiega il parlamentare- “I detenuti sono affidati allo stato nel momento in cui entrano in carcere e allo stato spetta il dovere di proteggerli. Il lavoro fatto dall’avvocato ha fatto fare passi avanti. Insieme all’inquietudine che fanno emergere questi avvenimenti c’è l’inquietudine dovuta all’inattività del governo e del parlamento”. La sorella Marisa: “Restituire dignità a mio fratello” - Marisa Dal Corso, nel frattempo, stringe i pugni per trattenere le lacrime. “Qualche mese fa abbiamo fatto la prima conferenza stampa, con un dolore indescrivibile. L’ho fatta con lo sguardo basso, la testa bassa. Oggi no. Oggi voglio guardare in faccia tutti. Perché umanamente parlando mi chiedo come si faccia a non dare voce a un familiare, a un marito, a un figlio. La mia vita si è fermata con quella telefonata”. La telefonata ricevuta dal cappellano del carcere che le comunicava la morte del fratello. “Ma per me non è morto un fratello, è morto un figlio. Perché mio fratello me lo sono cresciuto. È un diritto, il mio, sapere come è morto mio fratello, se ha sofferto, quanto è stato in agonia. Lo deve sapere anche la figlia di Stefano, una bambina di sette anni che è seguita da uno psicologo perché non dorme più. Voglio restituire dignità a mio fratello”. Oristano. Marisa Dal Corso, la sorella del detenuto morto in cella: “Abbiamo diritto alla verità” di Andrea Pasqualetto Corriere della Sera, 21 ottobre 2023 “Sono certa che non si suicidò”. Il racconto: “Un testimone dice che fu aggredito e poi venne inscenata l’impiccagione. E ci sono molte stranezze”. “Sono convinta che mio fratello non si sia suicidato. Per varie ragioni: perché non è mai stato depresso, per la dinamica dei fatti e perché ci sono dei testimoni che raccontano un’altra verità e il loro racconto mi sembra molto credibile”. Marisa Dal Corso come Ilaria Cucchi. Lei, con l’avvocata Armida Decina che l’assiste, e la battaglia per il fratello Stefano, trovato senza vita il 12 ottobre del 2022 nel carcere di Oristano. La magistratura archiviò il caso per suicidio: si sarebbe impiccato nella sua cella. Marisa non ha mai creduto a questa fine, ha fatto così la sua inchiesta e alla fine ha ottenuto la riapertura del caso da parte della procura di Oristano che al momento indaga contro ignoti. Qual è quest’altra verità? “Il giorno prima di morire Stefano ha avuto una brutta discussione con alcuni operatori del carcere. Voleva difendere un detenuto al quale venivano negate le cure. Gli operatori hanno chiuso la porta e qualcuno ha sentito le sue urla”. Questo il giorno prima però. “Il giorno dopo hanno udito altri lamenti: aveva dei dolori e gli impedivano di parlare con lo psicologo. Voleva anche telefonare a me e a sua figlia ma gliel’hanno negato. Diceva “fatemi chiamare mia sorella e mia figlia”. Ma io non l’ho proprio sentito. E dopo l’hanno trovato morto”. Cosa intende per operatori, agenti di polizia penitenziaria? “Non voglio dire cosa intendo per operatori ma naturalmente si tratta di chi ha in mano le chiavi delle celle”. Come arriva a questa ricostruzione e come può esserne sicura? “Io ho una sola certezza, che mio fratello non si è suicidato. Ci arrivo attraverso due testimoni che non si conoscono fra di loro e che hanno sentito quelle urla. Secondo uno di questi Stefano sarebbe stato aggredito e poi avrebbero inscenato l’impiccagione. Mi ha detto di andare avanti, di chiedere l’autopsia. I racconti dei due coincidono. Ma al di là di queste testimonianze ci sono altre stranezze”. Cioè? “Sei mesi dopo la morte ho ricevuto un libro, che era indirizzato a lui. All’indice erano sottolineati e cerchiati due capitoli, La morte e La confessione. Io l’ho interpretato come un segnale: qualcuno mi spingeva a cercare la verità, come se ci fossero delle persone che potevano parlare, confessare qualcosa. E infatti poi abbiamo trovato i testimoni”. Solo questo? “No, c’è dell’altro. Il nostro medico legale ritiene che le lesioni sul collo siano compatibili con lo strangolamento. Il corpo sarebbe stato poi trovato con una gamba sul letto e una fuori, una posizione innaturale per un suicida. La grata della finestra dove si sarebbe appeso con un cappio di stoffa ricavata dal lenzuolo era un po’ troppo bassa. E il taglierino usato per il lenzuolo non l’abbiamo mai potuto vedere. Mi sembra che ci siano abbastanza stranezze per tornare a indagare sul caso, non crede?”. Cosa chiedete agli inquirenti? “Il primo passo è l’autopsia. Anche questa decisione presa a suo tempo di non cercare le cause della morte mi ha lasciato perplessa: come mai non è mai stata fatto questo esame?”. Da quant’era in carcere suo fratello? “Ha fatto quindici anni di detenzione, seppure intervallati, entrava e usciva per periodi anche lunghi. Era dentro soprattutto per cose di droga... è diventato tossicodipendente in carcere, a Rebibbia”. Aveva dei sogni? “Stefano si era preso diversi attestati, quello alberghiero, quello di giardiniere... Aveva dei progetti anche perché si stava avvicinando la libertà e non vedeva l’ora di aprirsi un ristorante, era entusiasta e guardava al futuro. Nelle ultime lettere diceva di non inviare più la posta al carcere di Oristano perché stava per tornare a Rebibbia, dove avrebbe scontato gli ultimi mesi. Pensi che due giorni prima della morte la psicologa aveva fatto una relazione nella quale l’aveva descritto reattivo, simpatico, scherzoso. Insomma, Stefano non voleva morire ma rinascere”. Roma. Si sente male in carcere e muore. La denuncia della figlia: “Per ore senza assistenza” di Alessia Truzzolillo Corriere della Calabria, 21 ottobre 2023 La giovane si è rivolta all’autorità giudiziaria per avere verità sulle responsabilità dei medici di Rebibbia e del pm che non ha disposto l’autopsia. Quello che lei sa è che suo padre, già malato, si è sentito male ma per ore nessuno è intervenuto. Chiede chiarimenti, chiede di conoscere la verità sulla morte di suo padre avvenuta in carcere, a Rebibbia, il 14 ottobre scorso. Chiede il sequestro della cartella clinica. Per fare in modo che le sue richieste non cadano nel vuoto Emanuela Leonetti si è rivolta ai carabinieri della Stazione di Cirò Superiore per sporgere una denuncia querela. Dal 14 ottobre la ragazza ha acquisito solo preoccupanti informazioni sulla morte del genitore, detenuto con l’accusa di associazione mafiosa, in qualità di appartenete del locale di Cirò, e tratto in arresto nell’ambito dell’operazione “Ultimo Atto” del 16 febbraio 2023. Rosario Leonetti, 58 anni, era cardiopatico e avrebbe dovuto essere sottoposto a un intervento chirurgico fuori dalle mura di Rebibbia. Tra le altre cose, per non incorrere in apnee notturne, dormiva attaccato a un macchinario fornito dall’amministrazione penitenziaria. Nessuna risposta dopo la morte - “So che anche mio padre, preoccupato per la propria situazione, tramite il proprio avvocato chiedeva al carcere copia della cartella clinica”, dice la ragazza ai carabinieri e aggiunge che subito dopo la morte del 58enne ha chiesto per giorni dove si trovasse la salma del genitore “ma nonostante le sollecitazioni inviate anche tramite pec, non ricevevo alcuna risposta”. Neanche la Dda di Catanzaro “era a conoscenza del luogo ove era custodito il corpo”. Solo dopo tre giorni si viene a sapere che “la salma si trovava presso il policlinico universitario di Roma la Sapienza” e non poteva essere toccata perché “era stata posta sotto sequestro da parte dell’autorità giudiziaria e che da lì a breve si sarebbe certamente effettuato l’esame autoptico così come richiesto in sede di denuncia”. “Per ore senza ausilio medico” - Il pm di Roma incaricato delle indagini decide, martedì 17, che non si sarebbe proceduto al sequestro della salma. Dunque nessuna autopsia per verificare le cause della morte. Oltre al danno la beffa: ad oggi la famiglia non ha ancora riavuto il corpo del defunto. “Mi sento smarrita ed impotente. Il suo processo non era ancora iniziato ma noi abbiamo già perso tutti i nostri diritti”, dice Emanuele Leonetti ai carabinieri. “Temo - dice ancora il 19 ottobre - che dietro la sua morte prematura possano celarsi delle responsabilità e pertanto insisto affinché l’autorità giudiziaria - provveda senza ulteriore indugio a sequestrare la cartella clinica custodita presso il carcere di Rebibbia-nuovo complesso, nonché la salma di mio padre che in questo momento dovrebbe essere trasportata presso il cimitero di Cirò Marina entro la giornata odierna; così da accertare le reali cause del decesso”. Querela contro i medici di Rebibbia e il pm di Roma - Quello che la ragazza ha saputo e intende accertare, se confermato sarebbe gravissimo. Rosario Leonetti era detenuto nel settore infermeria, insieme ad altre persone, e la notte in cui si è sentito male per ore è stato chiesto aiuto ma “mio padre è stato per ore senza ausilio medico seppur richiesto e, pertanto, quando i sanitari sono finalmente intervenuti, non era rimasto loro altro da fare se non costatarne l’avvenuto decesso”. Per questa ragione Emanuela Leonetti, assistita dall’avvocato Antonio Lomonaco, ha presentato una formale “denuncia-querela nei confronti di tutto il personale medico della casa circondariale di Rebibbia-nuovo complesso, che ha avuto in cura mio padre sino al momento del decesso”. L’ipotesi di reato avanzata dal legale è di omicidio colposo. Ma la denuncia querela si estende anche al magistrato romano “in servizio presso la Procura della Repubblica di Roma per le ipotesi che l’autorità giudiziaria vorrà ravvisare in merito a mancato sequestro della salma e della documentazione sanitaria al fine dell’espletamento dell’esame autoptico”. Nella denuncia-querela si assicura che coloro che erano detenuti insieme al padre “sono tutti pronti a testimoniare sulla circostanza che mio padre è stato per ore senza ausilio medico”. Poteva essere salvato Rosario Leonetti? È stato fatto il necessario per lui? Perché si è deciso di non procedere all’autopsia e al sequestro della cartella clinica? Sono domande per le quali una figlia cerca uno spiraglio di luce e verità. Bologna. Tunisino portato in caserma muore poche ore dopo. Il fratello: “È stato picchiato” di Filippo Fiorini La Stampa, 21 ottobre 2023 Sei carabinieri indagati a Modena per il decesso di un trentenne. Dai primi esami non risultano segni di percosse sul corpo dell’uomo. L’ultima notte di Taissir Sakkra è stata turbolenta e tragica. È incominciata sabato scorso in un circolo Arci a Ravarino, nella bassa modenese, dove questo trentunenne tunisino ha consumato troppe bevute insieme al fratello Mohammed. Facevano casino, hanno litigato con un gruppo di altri avventori. Sono arrivati i carabinieri e li hanno portati in caserma in città. Ora, sei di questi agenti sono indagati a vario titolo per morte in conseguenza di altro reato, lesioni e minacce. Li ha denunciati Mohammed, che dice di essere stato picchiato a sua volta. Il corpo del fratello è stato trovato domenica mattina in un parcheggio accanto alla stazione. Da subito, amici e parenti della vittima hanno contestato la versione ufficiale. L’autopsia, però, non avrebbe trovato segni di violenza e i militari dell’Arma rivendicano la correttezza del loro operato. La prima notizia sul mistero è del mezzogiorno del 15 ottobre. È un comunicato stampa proveniente dallo stesso comando provinciale dei carabinieri di Modena in cui i fratelli Sakkra sono rimasti fino a mezzanotte circa, in stato di fermo. 18 chilometri dal Circolo Arci in cui hanno dato in escandescenze: li hanno portati lì perché questa è la centrale più vicina, aperta 24 ore su 24. Dista 500 metri dal Bar Tropicana, il dopo lavoro ferroviario che quello stesso giorno ha aperto i battenti trovando il ragazzo riverso nel parcheggio. Il testo diramato ai giornali parla di “accertamenti finalizzati a ricostruire l’esatta dinamica di una possibile caduta accidentale”, su una “persona senza fissa dimora”. Di lì a poco, fonti di stampa scrivono di una “profonda ferita alla testa”, oppure, di un “taglio alla testa”. Hanno intervistato gente che afferma di aver visto il cadavere, ma vuole restare anonima. Col passare delle ore, altri testimoni riferiscono ulteriori dettagli: “Il volto era completamente tumefatto”. Il fratello, Mohammed, spalleggiato da amici e parenti, si trova un avvocato e sporge denuncia. Senza che questi o il suo legale abbiano finora rilasciato dichiarazioni pubbliche, si apprende che nella querela viene accusato un carabiniere per morte in conseguenza di altro reato e minacce. Questo, è riferito a Taissir. Mentre agli altri cinque si contestano le lesioni, che avrebbero però diretto contro Mohammed. La procura apre un’inchiesta e affida le indagini alla polizia. Si tratta di un atto dovuto, così che anche i denunciati possano partecipare all’autopsia con i loro periti. Concluso l’esame, ieri sera, l’avvocato Cosimo Zaccaria, difensore di tre dei sei agenti (tra cui quello accusato dei reati più gravi), afferma che “la tac ha dato esito negativo: non ci sono lesioni” sul corpo di Taissir. Tra chi ha accesso alla morgue di Modena, qualcuno conferma e precisa: il ragazzo ha solo delle escoriazioni sui gomiti. La causa della morte sarebbe naturale o per abuso di sostanze: servono altri esami, in particolare, quelli tossicologici. Per arrivare dove è stato ritrovato privo di vita, Taissir, che aveva precedenti per spaccio, può aver scelto due tragitti. Sebbene il parcheggio sia alberato e buio, di notte è chiuso. Non ci sono automobili, non ci sono telecamere. Tuttavia, ce ne sono molte e ben posizionate attorno e dentro la stazione, che è illuminata. “Le immagini li mostrano camminare insieme tranquillamente”, spiega ancora l’avvocato Zaccaria, in rifiremnto ai fratelli Sakkra. Ecco, come mai è stato un avventore del Bar Tropicana a trovare Taissir di mattina e non suo fratello Mohammed, che pure fino a qualche ora prima era con lui in caserma? I rapporti tra loro sono rimasti buoni dopo il rilascio? Un altro elemento e un’altra testimonianza contribuiscono a ricostruire un quadro ancora frammentato. Il primo è che tempo fa, Taissir aveva abitato, da abusivo, nel palazzo che sta oltre il parcheggio in cui è stramazzato. La seconda è che qualcuno dice di averlo visto correre, quella notte, come stesse scappando da qualcuno o qualcosa. Bologna. Trovato morto nel parcheggio. “L’avevano fermato i carabinieri”: 6 indagati di Valentina Lanzilli Corriere di Bologna, 21 ottobre 2023 Vittima Taissir Sakka, il 30enne tunisino trovato cadavere domenica mattina nel parcheggio del cinema Filmstudio. Sei carabinieri del Nucleo radiomobile di Modena sono indagati per la morte di Taissir Sakka, il 30enne tunisino trovato cadavere domenica mattina nel parcheggio del cinema Filmstudio 7B in via dell’Abate, vicino alla stazione dei treni. Gli avvisi di garanzia sono stati notificati in mattinata, cinque militari dovranno rispondere di lesioni ai danni del fratello della vittima, Mohamed, che aveva sporto denuncia dopo i fatti, mentre il sesto indagato dovrà rispondere di morte come conseguenza di altro reato. È stato proprio il fratello della vittima ad indicare i militari in pattuglia quella notte come responsabili del decesso del 30enne, raccontando di una notte di violenze, da qui l’apertura delle indagini da parte della Procura come atto dovuto. Ricordiamo che l’uomo domenica mattina è stato trovato morto nel parcheggio da un membro del dopolavoro ferroviario che ha sede proprio in via Nicolo dell’Abate. Il suo corpo era riverso a terra, tra due auto parcheggiate, con una profonda ferita alla testa. Poche ore dopo i fatti i Carabinieri in una breve nota avevano spiegato che “i sanitari del 118 si apprestavano a soccorrere un uomo senza fissa dimora constatandone il decesso. In corso accertamenti per ricostruire l’esatta dinamica di una possibile caduta accidentale. La persona la sera prima era stata controllata in stato di ubriachezza in un locale della provincia”. Una versione che non aveva mai convinto parenti e amici della vittima. Tutto era iniziato sabato sera quando Taissir e Mohamed erano rimasti coinvolti in una violenta lite fuori dal circolo Arci di Ravarino, in provincia di Modena. Ad affrontarsi un gruppo di ragazzi residenti in zona e i due fratelli tunisini, come aveva raccontato il responsabile del circolo Arci Luciano Salvi. Una lite che aveva richiesto l’intervento dei carabinieri, che avevano controllato Taissir e lo avevano accompagnato in caserma, in stato di ebbrezza, dove il ragazzo era stato trattenuto per circa 40 minuti insieme al fratello. Le telecamere poi mostrano i due che escono dalla caserma insieme. Resta da ricostruire quello che è accaduto nella notte, dall’una circa fino alla mattina seguente. Da quanto si apprende una pattuglia li avrebbe seguiti, ma non ci sarebbe stato un altro fermo. Intanto le prime risposte informali iniziano ad emergere dall’esame autoptico effettuato venerdì: secondo quanto comunicato dal perito nominato dagli avvocati difensori dei carabinieri l’esame della salma non mostrerebbe segni di traumi. Tre militari sono difesi dagli avvocati Cosimo Zaccaria e Roberto Ricco, mentre gli altri tre sono difesi d’ufficio da Lorenzo Bergami. “Dispiace per la morte del giovane Taissir - ha commentato l’avvocato Zaccaria - Allo stesso tempo preme sottolineare l’innocenza dei miei assistiti i quali hanno agito nella massima trasparenza e correttezza come confidiamo verrà dimostrato. Già dai primi riscontri autoptici effettuati sulla salma, così come dalla Tac, non sono stati riscontrati segni di traumi o percosse. Resta da capire se la morte sia stata causata da un malore o da una caduta. Abbiamo massima fiducia nella giustizia”. Benevento. Processo per la morte in carcere di Agostino Taddeo, depongono i periti del giudice di Enzo Spiezia ottopagine.it, 21 ottobre 2023 Anche con l’arrivo del 118 non è detto che il detenuto si sarebbe salvato. Quella accusata nei giorni precedenti alla mattina del 6 ottobre, quando era stato colpito da un infarto, era probabilmente una forma di angina instabile. E ancora: anche se fosse intervenuto il 118, non si può dire che si sarebbe salvato. Sono state queste, in soldoni, le conclusioni alle quali sono giunti, incalzati dalle domande della difesa - gli avvocati Angelo Leone, Vincenzo Regardi e Fabio Russo- i due specialisti ai quali il giudice Fallarino aveva affidato il compito di eseguire una perizia nel processo a carico di due medici che, operando presso la casa circondariale di contrada Capodimonte in base a una convenzione con l’Asl, sono stati chiamati in causa nell’indagine sulla morte di un detenuto, Agostino Taddeo, 59 anni, già noto alle forze dell’ordine, avvenuta il 13 ottobre del 2016 al Rummo. Entrambi sono comparsi oggi in aula, al pari di un consulente della difesa, dopo il deposito del loro lavoro, nel quale avevano sottolineato la mancata attuazione di un protocollo entrato in vigore, ha precisato la difesa, nel gennaio del 2022, e “la mancata disposizione del trasferimento del detenuto presso una struttura ospedaliera hanno sottratto al Sig. Taddeo la possibilità di una precoce diagnosi della sindrome coronarica acuta e delle conseguenze emodinamiche e, quindi, di prevenire il decesso con un idoneo approccio terapeutico erogato in tempi adeguati”. Il processo si chiuderà il 19 febbraio con la discussione delle parti e la sentenza. Per i familiari della vittima, parti civili, gli avvocati Vincenzo Sguera e Luca Russo. Salerno. Detenuto 36enne morto nel carcere di Fuorni, scagionati gli agenti La Città di Salerno, 21 ottobre 2023 No all’opposizione all’archiviazione dell’inchiesta sul decesso del detenuto Vittorio Fruttaldo: non c’è prova delle violenze. È stata archiviata definitivamente l’inchiesta sulla morte di Vittorio Fruttaldo, il 36enne originario di Aversa che perse la vita il 10 maggio dello scorso anno mentre era detenuto nel carcere di Fuorni. Il giudice Vincenzo Pellegrino del tribunale di Salerno, infatti, ieri ha rigettato l’opposizione alla richiesta d’archiviazione del procedimento penale (presentata dai familiari del detenuto d’origine casertana e da alcune associazioni) nei confronti di due agenti della polizia penitenziaria (difesi, fra gli altri, dall’avvocato Fiorenzo Pierro) in servizio presso la struttura detentiva di Fuorni, richiesta già formulata lo scorso marzo dal pm titolare del fascicolo che, dopo la morte del 36enne casertano - Fruttaldo era ristretto nella sesta sezione per l’espiazione di un residuo di pena (sarebbe stato liberato nel mese d’ottobre dello scorso anno) per i reati di lesioni personali e rapina - furono messi sotto indagine per omicidio preterintenzionale. Accuse che, adesso, sono definitivamente cadute con il “no” all’opposizione all’archiviazione richiesta dal pm titolare dell’indagine. San Gimignano (Si). Torture nel carcere di Ranza, depositati i ricorsi contro le condanne degli agenti di Laura Valdesi La Nazione, 21 ottobre 2023 L’avvocato Biotti difende 4 agenti della penitenziaria: l’ha depositato ieri alle 16 “In casi più gravi, vedi quello di Sollicciano, reato derubricato in lesioni”. Torture a Ranza, la battaglia giudiziaria continua. Sono stati infatti depositati i ricorsi in appello per i cinque agenti della polizia penitenziaria di San Gimignano accusati, a vario titolo, anche di questo reato introdotto nel 2017 come fattispecie autonoma. Erano stati condannati il 9 marzo scorso a pene che variavano da 5 anni e 11 mesi a 6 anni e mezzo, più il risarcimento del danno. A inizio settembre erano state depositate le motivazioni dello storico pronunciamento declinate in ben 257 pagine. Dove si ribadiva che il detenuto tunisino era stato sottoposto ad un “trattamento inumano”. Nell’ottobre 2018 era stata posta in essere da parte di un nutrito gruppo di agenti, una quindicina, “una spedizione punitiva”. Quattro operatori della penitenziaria sono difesi dall’avvocato Manfredi Biotti che ieri alle 16.10 ha depositato il ricorso di 200 pagine. “Dopo un’attenta lettura delle motivazioni - osserva il legale - a maggior ragione, sono convinto che i miei assistiti non siano responsabili del reato individuato nella sentenza. Confido pertanto nell’ampia valutazione della Corte d’appello di Firenze. Vorrei sottolineare che ci sono due casi, ben più gravi a mio avviso, uno avvenuto a San Vittore e l’altro a Sollicciano, nei quali la sentenza ha configurato l’ipotesi di lesioni, derubricando i reati di tortura”. Un aspetto sul quale le difese hanno battuto forte durante le tante udienze del dibattimento dove a sostenere l’accusa è stato il pm Valentina Magnini. “Abbiamo depositato l’appello giovedì per il mio assistito - osserva l’avvocato Fabio D’Amato che insieme al collega Nicola Anelli si occupava di un ispettore capo -; solitamente non ne facciamo di così corposi, in questo caso oltre cento pagine, ma si è reso necessario per effettuare una giusta critica dei vari passaggi della sentenza. Confidiamo che verrà esaminato con attenzione, ferma restando la possibilità di ulteriori memorie o motivi aggiuntivi prima dell’udienza”. “I tempi? Non prevedo che siano brevissimi per la fissazione dell’udienza, non essendoci una misura cautelare non c’è necessità di fissare entro un anno dal deposito”, conclude Biotti. Tanto che non c’è ancora neppure quella per i dieci agenti condannati nel febbraio 2021 con rito abbreviato, sempre per le presunte torture a Ranza. Salerno. Il carcere di Fuorni scoppia, detenuti allocati anche nel reparto femminile di Gaetano de Stefano La Città di Salerno, 21 ottobre 2023 La Casa circondariale di Fuorni è la più sovraffollata della Campania, tant’è che in qualche caso i detenuti maschi sono reclusi nel reparto femminile per mancanza di posti. E nella struttura di via Del Tonnazzo sono recluse ben 280 persone con sentenza passata in giudicato. A denunciare i “mali” del penitenziario salernitano - dove da qualche settimana c’è stato il passaggio di testimone, con la nuova direttrice Gabriella Niccoli che il 22 settembre scorso ha preso il posto di Rita Romano - sono i sindacati Uspp e dell’Osapp. L’inferno di Fuorni. Dopo un’ispezione dell’Uspp, alla presenza del segretario nazionale Giuseppe Del Sorbo e di quello regionale Ciro Auricchio, sono emerse diverse anomalie, per usare un eufemismo. A partire dal dato di fatto che il tasso di affollamento sia il più alto tra le carceri campane, con 530 detenuti “ospitati”, rispetto ad una capienza effettiva e certificata di 350. E con quasi 9mila congedi arretrati non fruiti da parte del personale di polizia penitenziaria. Perché a fronte dell’abbondanza di detenuti c’è la carenza di personale e, dunque, i baschi blu sono costretti agli straordinari. Sos detenuti violenti. Le criticità, però, sono anche altre. Perché al di là del dato di fatto che oramai la Casa circondariale salernitana possa essere considerata, come ammesso dalla stessa Procura, una “piazza di spaccio”, l’Uspp evidenzia come “siano ancora presenti in istituto i detenuti più facinorosi nonostante siano stati segnalati dalla direzione per l’allontanamento”. In più, mette in risalto il sindacato “i carichi di lavoro sono in più settori insostenibili, e nei turni serali e notturni i livelli di operatività sono alla soglia del minimo”. “La direzione del carcere con il nuovo direttore insediatosi a fine settembre - aggiunge l’Uspp - sta svolgendo con impegno e massima dedizione un lavoro esemplare, ma senza la piena copertura di personale, sia di polizia penitenziaria, sia del comparto funzioni centrali, non può assolvere pienamente la mission affidatale”. Perciò l’Uspp annuncia che “tutto quanto rilevato sarà rappresentato ai vertici dell’amministrazione penitenziaria, sia regionale che centrale, con richiesta di adozione di provvedimenti urgenti”. L’esposto dell’Osapp. Non solo l’Uspp si rivolge ai piani alti dell’amministrazione penitenziaria, perché anche l’Organizzazione sindacale autonoma polizia penitenziaria, attraverso il segretario regionale, Vincenzo Palmieri e il consigliere nazionale Emilio Fattorello, dopo il ricovero urgente di mercoledì di una agente colta da una grave crisi ipertensiva durante il servizio, indirizzano un esposto ai vertici dell’amministrazione per sollecitare un intervento. E segnalano l’anomalia di 280 detenuti, con sentenza passata in giudicato, in una struttura che è Casa circondariale e che, quindi, dovrebbe ospitare prevalentemente imputati in attesa di giudizio. Il sovraffollamento, inoltre, spiega l’Osapp “impedisce anche l’ingresso di nuovi reclusi, a seguito di provvedimenti dell’Autorità giudiziaria”. Palmieri e Fattorello, poi, rivendicano “l’adeguamento della pianta organica nei diversi suoli della polizia penitenziaria, proprio in relazione alle esigenze dovute ad una così alta presenza di utenti”. Detenuti nel reparto femminile. Un sovraffollamento che fa sì che detenuti maschi debbano essere reclusi nel reparto femminile, come rimarca ancora l’Osapp che, proprio per questo, chiede “l’adeguamento della struttura ad ospitare le diverse tipologie e circuiti detentivi presenti, che vedono addirittura assegnare detenuti maschi nel reparto femminile tra l’altro anche in isolamento sanitario” e la “predisposizione dell’infermeria dell’Istituto a poter avere camere di degenza al fine di garantire una adeguata assistenza sanitaria per una così alta popolazione detenuta”. Catanzaro. I Garanti Muglia e Marziale scrivono a Nordio: “Potenziare organico dell’Ipm” rainews.it, 21 ottobre 2023 Secondo i Garanti regionali delle persone detenute e per l’Infanzia e l’adolescenza, la situazione richiede un “celere” aumento di personale. “In conseguenza dei lavori di ampliamento di 20 posti, in aggiunta ai 16 della sezione preesistente, l’Istituto penale minorile di Catanzaro registra una serie di problematiche, alcune delle quali già poste all’attenzione del capo dipartimento della Giustizia minorile ed in parte risolte”. Così i garanti regionali delle persone detenute, Luca Muglia, e per l’Infanzia e l’adolescenza, Antonio Marziale, in una lettera al ministro per la Giustizia Guido Nordio, e ad altre autorità istituzionali di competenza. “Nello specifico - evidenziano i due garanti - e? stata colmata la grave carenza di organico di Polizia Penitenziaria nell’unico Ipm calabrese, anche se rimane da affrontare la parimenti importante mancanza di organico dei funzionari del comparto centrale, ossia di professionalità pedagogica, che allo stato sono soltanto 2 a fronte degli 8 previsti in pianta organica. Vi è altresì carenza di contabili ed assistenti amministrativi, nonché l’assenza di mediatori linguistico-culturali. L’organico del comparto con funzioni centrali, in altri termini, risulta quasi dimezzato con 10 unità presenti rispetto alle 19 previste”. “Le difficolta? - continuano Muglia e Marziale - non risparmiano nemmeno il Tribunale per i minorenni di Catanzaro, da tempo carente di organico, che sostiene da solo il peso numerico dei procedimenti riguardanti l’esecuzione penale e il settore penitenziario minorile mediante la Sezione di sorveglianza. Da quanto appreso, il Tribunale per i minorenni, costituito dal presidente e 4 giudici, a partire dal marzo 2022 presenta una scopertura dell’organico dei magistrati pari al 25% in ragione della vacanza di un posto di giudice. In realtà l’organico del personale di magistratura era già gravemente sottodimensionato tant’e? che, non a caso, il Consiglio Superiore della Magistratura ne aveva proposto l’aumento, fino ad oggi mai avvenuto. Ed anche la Procura della Repubblica presso il Tribunale per i minorenni non è esente da carenze di organico”. “La situazione richiede un celere potenziamento di organico sia all’Ipm che alla Procura ed al Tribunale per i minorenni”, si legge ancora. Palermo. Progetto di pubblica utilità: 18 detenuti puliscono le ville comunali ansa.it, 21 ottobre 2023 Comune e ministero della Giustizia hanno firmato un protocollo. Diciotto detenuti dell’Ucciardone sono impegnati da oggi in progetti di pubblica utilità a beneficio della città di Palermo. Sono l’avamposto di un drappello di cinquanta ospiti delle carceri cittadine che realizzeranno progetti di pubblica utilità. L’iniziativa è stata presenta stamane, in piazza Antonino Caponnetto, a pochi passi dall’Ucciardone, dal capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Giovanni Russo, dal sindaco Roberto Lagalla, dall’assessore per il Reinserimento sociale dei detenuti Antonella Tirrito, dal presidente del Tribunale di sorveglianza Nicola Mazzamuto, dal Garante regionale dei detenuti Santi Consolo, dal direttore dell’Ucciardone Fabio Prestipino. “Si tratta di una sperimentazione che è civile e educativa sul piano sociale - dice il sindaco Lagalla - il reinserimento dei detenuti è un obiettivo primario di una società evoluta. I detenuti contribuiranno al benessere collettivo perché la città è casa di tutti. Verranno impiegati nella cura e gestione del verde, nel supporto alla custodia dei siti di interesse storico e monumentale, nel supporto alle attività di igiene urbana”. Per il capo del Dap Russo “il modello è costituito da un ambiente penitenziario che formi il cittadino detenuto in maniera che possa rientrare a pieno titolo nella società. Il lavoro è un veicolo indispensabile. I detenuti, che volontariamente hanno aderito a questo progetto, avranno occasione, grazie anche ad un percorso formativo, di prepararsi a rientrare pienamente nella società, rimanendo fuori da quei circuiti che li avevano portati a delinquere”. Vibo Valentia. Accordo con l’associazione Snalp per garantire assistenza fiscale ai detenuti ilvibonese.it, 21 ottobre 2023 Il protocollo d’intesa prevede anche servizi di assistenza sociale come le domande per pensioni di invalidità, assegni di disoccupazione. Nei giorni scorsi, negli uffici della direzione della Casa circondariale di Vibo Valentia, è stato firmato tra la direttrice dell’Istituto, Angela Marcello e Carmen Michienzi, in rappresentanza dell’associazione provinciale Snalp (patronato Epac), un protocollo d’intesa volto a fornire importanti servizi di assistenza sociale (pensioni di invalidità, assegni di disoccupazione, assegni sociale e quant’altro) e di assistenza fiscale (dichiarazione dei redditi, Issee) ai ristretti. L’accordo è stato reso possibile, grazie all’impegno di Natino Crea, dirigente dell’area sanitaria dell’Istituto e al comandante dirigente Salvatore Conti che unitamente al direttore sin dall’inizio del suo insediamento (febbraio 2019), hanno lavorato per migliorare le condizioni detentive dei detenuti in termini di miglioramento dei servizi, di ampliamento delle offerte trattamentali e delle opportunità lavorative grazie al supporto della Capo area educativa, Barbara Laganà. Roma. Presentato il volume sulla detenzione femminile: “Tutte le cose che ho perso” comunicato dell’Associazione Co.N.O.S.C.I. Ristretti Orizzonti, 21 ottobre 2023 Nelle Sale di Palazzo Valentini, ospiti della Città metropolitana di Roma, la scrittrice Katya Maugeri l’11 ottobre ha presentato il suo secondo libro “Tutte le storie che ho perso”. L’autrice ha condiviso con i presenti la sua personale esperienza a contatto con alcune detenute del Carcere femminile di Rebibbia a Roma delle quali, con grande rispetto e partecipazione, ha raccontato le storie di vita, forti e fragili allo stesso tempo, di forte impatto emotivo, spunto per importanti riflessioni sulla realtà carceraria del nostro Paese, troppo spesso rappresentata attraverso la stigmatizzazione della figura del detenuto. Moderatore dell’incontro il Dott. Sandro Libianchi, co-autore di una parte del libro e Presidente dell’Associazione Co.N.O.S.C.I. (Coordinamento Nazionale Operatori per la Salute nelle Carceri Italiane). Nel suo intervento introduttivo Libianchi si è soffermato sul particolare momento storico che stiamo vivendo, caratterizzato da una nuova svolta securitaria tendente a limitare molti interventi, pur se costituzionalmente previsti, volti alla riabilitazione e al reinserimento nella Comunità civile della persona detenuta. L’incontro è stato introdotto dalla Consigliera Dott.ssa Tiziana Biolghini delegata del Comune al settore sociale e alle Pari Opportunità, che ha riportato la sua personale esperienza a contatto con la realtà penitenziaria sottolineando la particolare e drammatica situazione nella quale versa il CPR di Roma, centro nel quale sono custoditi gli immigrati irregolari. Hanno affiancato l’Autrice, in questo incontro romano, la Garante del Comune di Roma per le persone detenute e private della libertà personale, Dott.ssa Valentina Calderone. In particolare, la Garante ha posto all’attenzione dei presenti il tema dell’orientamento di genere all’interno delle strutture carcerarie, a quello dell’affettività e della sessualità che resta un tema delicato soprattutto se si pensa a quella riferita al genere femminile. L’alto tasso di malattie a trasmissione sessuale nelle sezioni femminili testimonia la necessità effettuare screening sanitari periodici e programmati e mettere in atto programmi informativi sulla sessualità per garantire a tutti il diritto alla salute e la libera espressione della propria identità. Un ulteriore momento di riflessione è stato proposto dagli autori e curatori del libro, dedicata alla responsabilità genitoriale, Dott. Marco Patarnello, Giudice del Tribunale di Sorveglianza di Roma e Dott.ssa Patrizia Di Cintio, Pedagogista e Mediatrice del disagio penitenziario. I loro interventi hanno restituito ai presenti un focus particolare sulla detenzione: la responsabilità genitoriale. Le persone detenute affrontano infatti solitamente molte difficoltà che impediscono e limitano fortemente la possibilità di costruire un legame affettivamente valido tra padre/madre detenuti e figlio. Ricostruire legami spezzati, significa offrire possibilità nuove per la persona detenuta in vista di un suo reinserimento, non solo nella società civile ma, soprattutto nella sua famiglia. In chiusura, l’intervento dell’architetto Prof.ssa Posocco. Nelle sue parole il racconto dell’esperienza di come sia possibile costruire uno spazio di qualità per l’incontro madre/figlio all’interno della struttura carceraria. La costruzione presso il carcere di Rebibbia di una “casetta” in legno di 28m2 completa di cucina ha permesso alle detenute di vivere appieno l’esperienza dell’essere madre, almeno per il tempo della visita dei figli. Il feedback estremamente positivo di questa esperienza testimonia l’importanza di quanto l’ambiente, se correttamente strutturato, costituisca un altro tassello fondamentale nel percorso di restituzione di dignità alla persona priva della propria libertà che deve passare necessariamente attraverso la costruzione di un nuovo senso di responsabilità verso sé stessi, verso i propri affetti e verso la comunità tutta. Se la manovra taglia fuori i più poveri di Chiara Saraceno La Stampa, 21 ottobre 2023 Una manovra attenta alle famiglie e ai ceti medio-bassi: così la premier ha presentato la bozza della legge di stabilità. Un’attenzione certo apprezzabile, che va verificata nella sua effettiva sostanza e coerenza. Per i ceti medio-bassi, a prescindere dalla composizione familiare, c’è la proroga del cuneo fiscale, ma solo per un anno e il rifinanziamento della carta acquisti alimentari per famiglie con ISEE fino a 30.000 euro. Carta tuttavia che esclude sia i percettori di indennità di disoccupazione, a prescindere dal loro ISEE, sia i beneficiari del Reddito di cittadinanza e dal 2024 dell’Assegno di inclusione, che per definizione non possono avere un ISEE superiore ai 15.000 euro, sia i percettori del sostegno di inclusione attiva, che devono avere un ISEE ancora più basso. Esclusi, quindi, sono proprio i più poveri i cui bisogni alimentari sono evidentemente valutati come meno consistenti o meno legittimi. Contestualmente, si rimanda sine die la discussione in aula parlamentare del salario minimo, evidentemente considerata questione irrilevante con buona pace di chi ha contratti da 5 euro lordi l’ora. Ed invece si prospetta un ulteriore sconto per gli evasori fiscali. In conclusione, l’attenzione per i ceti economicamente più modesti appare se non altro un po’ contraddittoria, oltre che di breve respiro. Il cosiddetto “pacchetto famiglia” appare a prima vista più coerente, nel senso che appare esplicitamente e sistematicamente orientato a sostenere insieme la fecondità e l’occupazione delle madri: aumento del sostegno economico per il pagamento della retta al nido a partire dal secondo figlio, decontribuzione parziale (per il secondo figlio) o totale (per il terzo) per le madri lavoratrici, aumento dell’indennità del secondo mese di congedo genitoriale dal 30 al 60 per cento, dopo che lo scorso anno era già stata aumentata (all’80 per cento) quella per il primo mese. Anche in questo caso, tuttavia, a guardare bene, il quadro appare non solo meno roseo, ma meno coerente. In primo luogo, aumentare il contributo per la frequenza al nido serve solo a chi è abbastanza fortunato da trovare un posto: una minoranza, dato che in Italia c’è posto in un nido - pubblico, privato, convenzionato - solo per un bambino su tre, quota che nel Mezzogiorno scende a 1 su dieci. In altri termini, non è solo il costo che trattiene dall’usufruire del nido, ma la mancanza di posti, una questione cui il PNRR avrebbe dovuto iniziare a dare un risposta, ma si tratta di uno dei settori su cui è più indietro, sia per responsabilità anche del governo precedente, che ha scelto di utilizzare il sistema dei bandi, lasciando ai comuni la libertà, ma anche la responsabilità, se partecipare o meno, non garantendo così i diritti dei bambini e dei loro genitori, sia a causa di una incomprensibile impuntatura della Commissione, che accetta per il finanziamento solo la costruzione di nuovi edifici e non la ristrutturazione, allargamento, rifunzionalizzazione di edifici già esistenti. Un’altra cosa che getta ombra sulla coerenza ed efficacia del “pacchetto famiglia” rispetto agli obiettivi dichiarati è la concentrazione sui secondi e terzi figli. È vero che chi vuole avere un figlio prima o poi (più spesso poi) lo fa. Ma le difficoltà che incontra nel decidere di farlo (lavoro precario, specie per le donne, difficile accesso ad un’abitazione, mancanza di servizi) oltre a far rimandare la decisione, di fatto riducendo quelle successive, possono diventare anche un potente scoraggiamento. Per sostenere le libere scelte di procreazione nella situazione attuale occorre facilitare già la decisione di avere il primo figlio, anche con una visione lunga, non ferma, per altro inadeguatamente, sui primi anni di vita. La mancanza di una buona scuola a tempo pieno può diventare un deterrente per la decisione di averne un secondo. Aggiungo che i generosi (decontribuzione totale) provvedimenti pensati per le madri che hanno tre figli o più ignorano il fatto che non solo queste sono una piccolissima minoranza sul totale delle madri, ma sono una minoranza ancora più esigua sul totale delle madri lavoratrici proprio per le difficoltà che queste continuano ad incontrare a mantenere una occupazione già con il primo figlio. Un terzo elemento critico del “pacchetto famiglia” è che non prevede nessun incentivo per i padri perché condividano maggiormente le responsabilità di cura. Nell’aumentare da uno a due i mesi di congedo ben indennizzati perché non condizionarne la fruizione alla condivisione tra entrambi i genitori? Se ci sono, naturalmente. Oppure, perché invece non allungare il congedo di paternità oggi fermo a 10 risicati giorni? Si ha l’impressione che invece si ritenga che la cura dei bambini, specie se piccoli, tocchi solo alle madri. Meno male che qualcuno se ne è accorto! Perché questa manovra è stata pubblicizzata come “per i più deboli”, e invece non è vero. Faccio notare che da queste misure sono esclusi pure i pensionati con pensioni basse, pensioni sociali ecc. Insomma, si è fatta una divisione della povertà, privilegiando quelli un pò meno poveri. Mi viene da dire: non è che sono i loro elettori? comunque credo che tutto ciò sia pure anticostituzionale, oltre che rivelare disprezzo e cattiverai per i meno fortunati. Solite critiche noiose. Quanto al mezzogiorno si faccia un’inchiesta sul come mai non c’è richiesta di tempo pieno. I posti al nido sono pochi? Si scoprirà che forse le famiglie non vogliono mandare al nido i figli, e che non vogliono neppure lasciarli al tempo pieno. Migranti. ActionAid: i rimpatri di stranieri calano ma i costi dei Cpr aumentano di Luca Mattiucci La Repubblica, 21 ottobre 2023 A crescere sono i tempi di detenzione media (+1700%) e le manutenzioni straordinarie (15 milioni di euro): un migrante nel ‘98 attendeva 30 giorni, oggi è “detenuto” per 540 giorni. Un sistema costoso e inumano, spesso ingovernabile, che negli anni è divenuto lo strumento per rimpatri accelerati dei cittadini tunisini, che nel solo arco 2018-2021 rappresentano circa il 50% delle persone in ingresso in un CPR e ben il 70% dei rimpatri. Eppure i migranti tunisini sono solo il 18% degli arrivi via mare tra il 2018 e il 2023. Il dossier di ActioAid. È questo il dato emblematico che salta all’occhio scorrendo il report elaborato da ActionAid in collaborazione con il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Bari “Trattenuti. Una radiografia del sistema detentivo per stranieri”: un’analisi dettagliata sul sistema di detenzione dei Centri di permanenza per il rimpatrio dal 2014 al 2021, raccolti grazie a 51 richieste di accesso agli atti a Ministero dell’Interno, Prefetture, Questure e a 30 richieste di riesame. Un lavoro di ricostruzione di informazioni, dal dato complessivo fino alla singola struttura, disponibile in formato accessibile e aperto a tutti sulla Piattaforma Trattenuti. Il fallimento bipartisan. Dal 2017 in poi i diversi Governi in carica hanno scelto di investire nella detenzione amministrativa degli stranieri come efficace politica di rimpatrio con l’obiettivo di istituire un Cpr in ogni regione, 20 in tutto, arrivando ad una capienza di 1395 posti del 2022. Ad oggi ad essere attive sono 10 strutture, di cui solo 9 aperte e funzionanti. Una riduzione dei posti dovuta all’impossibilità di gestire queste realtà: atti di autolesionismo, rivolte, disordini provocati dalle condizioni di estremo disagio e privazione dei diritti più elementari delle persone trattenute senza aver commesso reati, ha portato a continui danni e distruzioni rendendo indisponibili la stragrande maggioranza dei posti. Basti pensare che già dal 2018 l’intero sistema CPR funziona al 50% della sua capacità ufficiale. Si allungano i tempi di detenzione. Ma al diminuire dei posti ad essersi allungati sono i tempi di detenzione: nel 1998 la durata media era di circa 30 giorni mentre nel 2023 i giorni diventano circa 540, senza peraltro che i rimpatri siano aumentati: nel 2014 erano pari al 60%, mentre nel 2021 si sono ridotti al 49%. Uno scenario al collasso che lungo lo Stivale disegna due tipologie di CPR: quelli di frontiera, come Trapani e Caltanissetta, dove i tempi di permanenza sono più brevi ma i rimpatri hanno un’incidenza importante. Dall’altra ci sono quelli ribattezzati “ad estensione carceraria”, come Torino e Brindisi, dove la permanenza si allunga a dismisura, ma i rimpatri sono fermi al palo. 21 mila euro a persona e 36 minuti di assistenza. Alla gestione incontrollata, secondo ActionAid, si somma poi anche un’allarmante confusione amministrativa unita ad un’assenza di trasparenza: “Il caos gestionale emerge fin dalle interlocuzioni con le prefetture. - dichiara Fabrizio Coresi, esperto Migrazioni ActionAid - A Gorizia, Caltanissetta e Brindisi è impossibile distinguere le spese di manutenzione ordinarie del CPR da quelle del centro di prima accoglienza attiguo. Negli ultimi due casi, CPR e CPA sono inoltre gestiti dai medesimi soggetti privati”. I soggetti coinvolti. Ad essere coinvolti nella gestione delle strutture sono cooperative e soggetti for profit, tra cui anche multinazionali. Gestioni che spesso vengono prorogate all’infinito: tra il 2018 e il 2021 in ben sei CPR su dieci sono stati totalizzati circa tremila giorni di proroghe. E se i capitolati di gara sono poco chiari, perché si sovrappongono in quattro macroaree che operano contemporaneamente, generando disparità tra qualità e costi dei servizi offerti, molto più chiari appaiono i costi esorbitanti per un numero decisamente limitato di posti: 53 milioni di euro tra il 2018 e il 2021, con un costo medio per singolo posto di 21mila euro annui. Di questi ben 15 milioni vengono spesi per la manutenzione straordinaria spesso dovuta a danneggiamenti in conseguenza delle lunghe permanenze. Ridicoli i livelli di assistenza. Dall’altra parte invece i servizi di assistenza alla persona risultano al limite del ridicolo: 9 minuti di assistenza legale, 9 minuti di assistenza sociale e 28 minuti per la mediazione linguistica, il tutto su base pro-capite settimanale. “L’investimento nei Cpr ha prodotto una crescita dei costi umani ed economici delle politiche di rimpatrio. Dal 2017 si rimpatria di meno, a costi più alti e in maniera sempre più coercitiva - conclude Fabrizio Coresi - Il ricorso a queste strutture ha già dimostrato di essere fallimentare, tuttavia, si continuano a presentare i Cpr come una soluzione per aumentare il numero dei rimpatri. I dati raccolti, invece, dicono l’esatto contrario. L’analisi presentata impone nuove domande all’esecutivo. Ci auguriamo che il Parlamento voglia usare i dati messi a disposizione per esercitare il ruolo di indirizzo e controllo che gli è proprio, chiedendo al Governo di chiarire il perché, fra le altre cose, si continua ad investire su un sistema fallimentare da ogni punto di vista”. La fiducia perduta in guerra di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 21 ottobre 2023 La “verità” costruita di volta in volta dagli opposti apparati della propaganda finisce sempre per allontanare la possibilità di giungere ad accordi di pace. “Attenzione: maneggiare con cura”. Mai come oggi la scritta stampata sulle casse di tritolo dovrebbe ispirare le notizie sulla guerra. Cos’è successo all’ospedale Al-Ahli di Gaza? È stato “distrutto” o è ancora in piedi? Perché i “471 morti” non vengono ostentati da mille foto? Di chi è stata davvero la responsabilità? Insomma: di chi ci si può fidare? Meglio andarci cauti, dice la storia. Perché, ammonì Francis Bacon, “l’uomo crede più facilmente vero ciò che preferisce sia vero”. E la verità è sballottata da opposte propagande. È sempre andata così. Nei secoli. Da quando Licomede di Mantinea, come racconta Senofonte nelle Elleniche eccitava alla guerra gli Arcadi “affermando che erano gli unici a poter considerare il Peloponneso la loro patria perché ne erano gli unici abitanti autoctoni” fino alla distruzione nel giugno scorso della grande diga Kakhovka imputata dai russi agli ucraini e dagli ucraini ai russi, la verità cristallina, assoluta, incontestabile è sempre stata contestata tra diverse “verità” contrapposte. Spesso senza neppure la pretesa di essere, scusate il bisticcio, veritiere. Basti pensare a una copertina della Domenica del Corriere del 9 gennaio ‘44 quando, sotto il tallone della Repubblica di Salò e dei nazisti, c’era l’immagine di soldati americani che strappavano i figli dalle braccia delle madri con la dida: “Sta per partire dal porto di Siracusa il primo scaglione di bimbi italiani prelevati dalle terre italiane invase e destinati ai cosiddetti istituti di educazione della Russia senza Dio”. Era un’assurdità del tutto “incredibile”? Così è fatta, l’Arma della Persuasione, cui Gorizia dedicò nel 1990 una mostra straordinaria. E quando è martellante, spiega Massimo Chiais in Menzogna e propaganda. Armi di disinformazione di massa (Lupetti editore) raccontando come gli americani furono spinti a entrare in guerra nel 1917, può essere incendiaria. Al punto che il cronista Raymond Fosdick avrebbe scritto in un articolo su un’assemblea di fedeli cristiani: “Uno degli oratori chiese che il Kaiser, una volta catturato, venisse lessato nell’olio bollente e l’assemblea al completo salì sulle sedie per urlar la sua isterica approvazione. (...) Questo era il genere di follia che si era impadronita di noi”. Furono un delirio, le diverse versioni della “nostra” Grande Guerra, riassunte in due vignette: la prima (“telegramma da Parigi”) mostrava il gallo francese trionfante sull’aquila germanica, la seconda (“telegramma da Berlino”) l’aquila germanica trionfante sul gallo francese. I nostri nonni disegnavano l’imperatore Francesco Giuseppe come un porco che grugniva, i tedeschi gettavano dall’alto volantini con scritto: “Soldati italiani! L’assalto a tradimento alle spalle degli alleati di ieri è immorale... La Provvidenza Divina punirà ogni singolo di voi...”. Al che sui giornali di trincea come La Voce del Piave uscivano pezzi tipo questo di D. De Miranda che descrivevano i tedeschi così: “Come miriadi di cavallette furibonde per fame essi offuscarono la luce. Nel profondo buio pauroso creatosi per le ingenti orde sempre sopravvenienti, nel lezzo di cose incadaverite, emanantesi dai loro corpi immondi, nello squallore rosso di incendi interminabili, nella mostruosità, non più umana, dell’avidità sconfinata di sangue e di ferocia, Unni, Attila, Barbarossa, fu il loro nome...”. Odio c’era, tra noi e loro. Un odio che pareva insanabile: “I loro cervelli nutriti di sangue sgorgante da corpi puri sgozzati per essere da essi divorati... La loro crudeltà si è rallegrata nel grido straziante di bimbi che elevano al cielo i moncherini sanguinanti... Nel rossor pieno di lacrime di fanciulle condannate a partorire mostri...”. Parole che a rileggerle oggi, della nostra Europa dai confini di seta a dispetto dei tempi funesti, mettono i brividi. Il Financial Times del 10 giugno 1915 ad esempio, cita ancora Chiais, “non si faceva specie di riportare che il Kaiser aveva “personalmente ordinato di torturare bambini di tre anni, specificando i tormenti da infliggere”“ per non dire di “fonti non precisate secondo le quali i tedeschi avrebbero tagliato le mani ad un bambino aggrappato alla gonna della madre”. Oscenità poi “perfezionata” da La Rive Rouge che pubblicò un disegno “che ritraeva i tedeschi nell’atto di mangiare le mani mozze del povero bambino”. Falsi? Ci scommetteremmo la testa. Come quello fatto girare tanti anni dopo in Vietnam: “I Vietcong si sarebbero recati nei villaggi dove gli statunitensi vaccinavano i bambini, tagliando loro il braccio vaccinato”. Se ne infischia, chi è in guerra (come Bibi Netanyahu quando buttò lì nel 2015 che “fu il mufti palestinese negli anni Trenta, Haj Amin al-Husseini, a persuadere Hitler della necessità di sterminare gli ebrei” o come oggi il leader della jihad islamica palestinese Ihsan Ataya quando sostiene che “la nostra religione non accetta che i civili vengano uccisi”) della “verità” cristallina e condivisa. Gli basta appunto di essere creduto da chi vuol credere alla “sua”. E gli altri? Bah... Esattamente come è accaduto negli ultimi mesi nell’altra guerra ancora aperta. Con gli ucraini da una parte ad esaltare il “Pilota Fantasma di Kyiv”, una specie di Barone Rosso redivivo premiato con una “medaglia postuma” da Volodymyr Zelensky perché capace di abbattere “da solo quaranta aerei russi” e dall’altra Vladimir Putin a sostenere che “l’odierna Ucraina è stata fondata completamente ed interamente dalla Russia”. Vero? Falso? All’una e all’altra parte interessa fino a un certo punto. E questo, certo, non aiuta gli sforzi per la pace. Medio Oriente. Trappola Gaza, bloccati gli aiuti. L’Onu: “Non c’è più tempo” di Nello Del Gatto La Stampa, 21 ottobre 2023 Slitta ancora l’apertura del valico di Rafah. Israele si prepara all’invasione di terra: “Stiamo arrivando”. Ci vorranno ancora uno-due giorni per permettere l’apertura del valico di Rafah agli aiuti umanitari che dovrebbero portare sollievo a Gaza. Lo ha ribadito ieri sera anche il presidente americano Joe Biden, dopo che le Nazioni Unite avevano dichiarato l’impossibilità di entrare soprattutto a causa delle condizioni del posto di confine. Il valico, infatti, è stato fatto oggetto di bombardamenti da parte israeliana e le vie di accesso sono in condizioni pietose, con molti crateri provocati dai colpi degli aerei. Per tutto il giorno, si è lavorato per rimuovere i blocchi di cemento messi per evitare il passaggio e riempire i buchi. I primi 20 camion dovrebbero quindi varcare entro due giorni il valico, oltre 100 quelli che aspettano, più di tremila tonnellate gli aiuti pronti a entrare a Gaza. “Questi - ha detto ieri il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres che ha visitato il valico di frontiera di Rafah tra l’Egitto e la Striscia di Gaza - non sono solo camion, ma un’ancora di salvezza. Sono la differenza tra la vita e la morte”. Effettivamente ormai non si può più perdere tempo, la gente all’interno della Striscia è in condizioni disperate. Non c’è più acqua potabile tanto che molti usano l’acqua del mare. Ma non c’è nemmeno più cibo, pochi quelli che a stento riescono ad accaparrarsi qualche pugnetto di riso o del pane ormai secco. Molte panetterie che lavoravano ancora nei giorni scorsi sono state rase al suolo. L’ingresso degli aiuti quindi è vitale. In diverse zone del centro e del Sud si sono allestite tendopoli per ospitare gli sfollati. Non c’è ancora alcun accordo sull’uscita né degli stranieri che lavorano per le organizzazioni internazionali e quelle non governative, né tantomeno per i palestinesi con doppia cittadinanza. Molti hanno trovato rifugio nelle sedi dell’Onu, altri dormono in macchina. Ed anche per loro sono finite le provviste. Tanti quelli che si sono accampati nei pressi del valico per tentare di uscire non appena c’è uno spiraglio di apertura. L’Egitto è stato chiaro: nessun palestinese da Gaza deve mettere piede nel Sinai. Israele ha continuato sia nella sua azione di bombardamento che in quella di svuotamento della parte Nord della Striscia, attraverso avvisi a sfollare. L’esercito ha annunciato che l’offensiva che sta portando a Gaza è senza precedenti per l’intensità, mentre il ministro della difesa Gallant ha dichiarato che dopo la fase dei combattimenti e della stabilizzazione, ci sarà quella della realizzazione di un regime di sicurezza a Gaza, ribadendo quindi l’intenzione di spazzare via Hamas e aprire un nuovo capitolo per la Striscia. L’ordine di sfollamento è arrivato anche ad uno degli ospedali più grossi della Striscia, l’Al Quds di Gaza City, che, pur se lavora a scartamento ridotto per la mancanza di elettricità, combustibile, acqua, cibo e medicine, ospita oltre 10.000 profughi. Lo stesso ordine era stato dato per tre giorni consecutivi all’altro nosocomio, l’Al Ahli, il cui cortile è stato oggetto di una esplosione, un bombardamento non si sa ancora da parte di chi, che ha provocato diverse vittime. Come per le responsabilità sull’ospedale, sta avvenendo in queste ore uno scambio di accuse tra Hamas e Israele per le 18 vittime alla chiesa greco-ortodossa di San Porfirio. Un proiettile israeliano aveva colpito un incrocio nei pressi della più antica chiesa di Gaza. La struttura ospitava centinaia di rifugiati. Il patriarca greco-ortodosso di Gerusalemme ha parlato di un crimine di guerra perpetrato da Israele, il quale si è difeso in una dichiarazione ribadendo che la chiesa non era l’obiettivo dell’attacco, che invece era una struttura vicina, centro di comando e controllo di un terrorista di Hamas, coinvolto nel lancio di razzi e mortai verso Israele. L’esercito spiega che spesso il gruppo che controlla Gaza utilizza strutture civili o vicine a luoghi ritenuti intoccabili come ospedali, scuole o chiese, per questo aveva chiesto di evacuare la zona. Preoccupazione anche per la chiesa latina, non lontano. “Nella chiesa - ha detto a TV2000 il patriarca di Gerusalemme, Pierbattista Pizzaballa - si sono rifugiate 500 persone e temiamo anche per loro. Molti feriti che erano nel compound ortodosso ora sono venuti da noi perché non hanno un altro posto. Il rischio c’è perché sappiamo che la zona e il quartiere sono obiettivi militari. Gli avvertimenti sono arrivati”. Nonostante le richieste israeliane di sfollare, nessuno, ha detto il cardinale, vuole lasciare la chiesa, “perché dicono che nessun luogo nella Striscia di Gaza è al sicuro”. Restano molto caldi anche gli altri fronti. Dal Libano sono piovuti oltre 30 razzi, con l’esercito israeliano che ha risposto e ha evacuato molte città dal confine. Nei paesi limitrofi e nei territori si attendono grosse manifestazioni per ieri, al terzo giorno di lutto per le vittime dell’attacco all’ospedale e per la chiamata alle armi di Hamas. Migliaia in piazza in Egitto e in Giordania.