Un posto di lavoro per ricominciare a vivere. La seconda opportunità offerta ai detenuti di Giada Valdannini spazio50.org, 20 ottobre 2023 Grazie agli sgravi fiscali previsti dalla legge Smuraglia, Seconda Chance opera nei penitenziari mettendo in contatto imprenditori e persone recluse. La storia di chi ha trovato una nuova strada. “La possibilità di una vita differente, io credo che la meritiamo tutti”. Gabriella Cucchiara non ha dubbi. Ha scelto di assumere due ragazzi - uno di 30 e l’altro di 46 anni - e di dare loro una seconda opportunità: quella di ripartire da sé, dal lavoro, dalla propria autonomia. Un’occasione tanto più formidabile se si pensa che questi due uomini - uno di Roma, l’altro di Catania - vengono diretti dal carcere Petrusa, a Favara. Quando la raggiungiamo, Gabriella è al lavoro nel suo ristorante. Si tratta de La Promenade, nel bel mezzo della Valle dei Templi: è ad Agrigento. Gabriella ha fatto una scelta orientata da una profonda empatia e non trattiene una certa emozione nel raccontarci di come sia arrivata all’assunzione di questi due lavoratori. “Quando ho avuto il colloquio con loro in carcere, mi sono sentita piccola - dice -. Ho sentito chiaramente come per loro fossi un’ancora, la possibilità di costruire un futuro altrove. D’altronde, senza una seconda chance, come ci si può riscattare? Senza il lavoro non si può fare nulla”. E Seconda Chance è proprio il nome dell’Associazione non profit del Terzo Settore - firmataria di un protocollo di collaborazione con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria -, grazie alla quale tutto ciò è stato possibile. Fondata a luglio dello scorso anno, è frutto di un lavoro tenace e ostinato di Flavia Filippi - giornalista del Tg La7 - che, nel solo arco di un anno, è riuscita a trovare un impiego a oltre duecento persone tra detenuti, ex detenuti, familiari di detenuti. E il numero degli occupati è in costante aumento, anche mentre scriviamo. “Ho sempre avuto questa attrazione per le persone che non si possono difendere - ci racconta Flavia -, per quelli che non hanno le forze, anche la forza economica di scegliersi un buon avvocato o che sono emarginati. Ce l’ho sempre avuta, fin da bambina”. E forse è proprio questa la molla che spinge questa donna a impegnarsi senza risparmiarsi, con l’obiettivo - chiaro - di rendere l’attività di Seconda Chance sempre più capillare. Nel caso dell’incontro con Gabriella - che da dieci anni è presidente provinciale della Fipe (Federazione Italiana Pubblici Esercizi) e fa parte del direttivo nazionale delle Donne Imprenditrici della Confcommercio - tutto è avvenuto durante un’assemblea di categoria in cui Flavia ha presentato il programma dell’associazione nel tentativo di individuare sempre più imprese disposte ad aderire al progetto. Gabriella non se l’è fatto ripetere: “Sono rimasta colpita dal video con la testimonianza di un ragazzo che aveva trovato lavoro tramite Seconda Chance e ho deciso di mettermi in gioco, di fare ciò che era nelle mie possibilità”. Dopo l’incontro in carcere, infatti, ha avviato le procedure per l’assunzione dei ragazzi che infatti sono entrati a far parte della sua brigata. Uno aveva esperienza nella ristorazione perché lavorava nel bar del carcere e l’altro era invece più esperto di manutenzione. Entrambi si sono messi all’opera nel ristorante della Valle dei Templi e, racconta ancora Gabriella: “Non smettono mai di ringraziarci per l’opportunità e portano con loro lo stupore intatto di chi, per anni, è stato di fatto tagliato fuori dalla vita oltre il carcere”. Ci spiega meglio: “Ogni gesto anche scontato - come la torta di compleanno per festeggiare uno di loro - viene accolta con grande emozione e persino la tecnologia che per tutti noi è ormai un alleato, per chi ha passato anni in un penitenziario può essere motivo di incredibile stupore”. Gabriella questa sua scelta la ripeterebbe ancora mille volte e non fa che proseguire il suo tam tam affinché anche nuovi colleghi facciano la scelta di assumere dal carcere. Come ciò sia possibile ce lo spiega Flavia Filippi: “La legge Smuraglia (193/2000) offre sgravi fiscali e contributivi a chi assuma, anche part time o a tempo determinato, detenuti in articolo 21 O.P. (legge 354/75) cioè persone ammesse al lavoro esterno”. Seconda Chance svolge perciò un’attività molto simile a un’agenzia di collocamento perché , come racconta Flavia: “Se un ristoratore chiama e dice di aver bisogno di un cuoco, mi attivo affinché magari un ex detenuto che ha lasciato il carcere due giorni prima - e mi ha scritto disperato perché si trova fuori, ma senza lavoro - possa fare un colloquio e ricollocarsi”. Sì, perché ciò che stupisce di questa associazione è proprio l’idea di tessitura, la grossa rete messa in campo che tiene assieme il personale dei penitenziari, le persone che scontano la pena, coloro che hanno finito il loro cammino in carcere e le loro famiglie. E non stupisce che gli stessi detenuti e i loro familiari intrattengano un rapporto di riconoscenza e aggiornamento con chi ha permesso loro di immaginare e costruire un nuovo percorso. Fuori dalle mura del carcere. Le imprese, per parte loro, oltre ad aderire a un progetto sicuramente incentivante possono trarne il vantaggio di sgravi fiscali e agevolazioni su questo genere di assunzioni. Un lavoro - pensateci - poderoso, nato per dare risposte ai detenuti ma che pure fa i conti con non poche difficoltà dal momento che Seconda Chance - pur avendo vinto due bandi di gara con la Regione Lazio e con la Fondazione Cassa di Risparmio di Firenze, e avendo ricevuto anche piccoli contributi che sono sicuramente ottimi segnali di incoraggiamento - non può basarsi soltanto sul volontariato e cerca, dunque, chi la sostenga e l’aiuti fattivamente. Adesso per Cospito l’addio al 41 bis è vicino di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 20 ottobre 2023 Nell’udienza di ieri, giovedì 19 ottobre, la Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo insieme agli organi centrali di polizia ha chiesto la revoca del regime del 41 bis per Alfredo Cospito. La notizia è stata confermata dal suo avvocato, Flavio Rossi Albertini. Questo non è un fatto da poco. La Dna ha sottolineato davanti ai giudici del tribunale di Sorveglianza di Roma di avere una sezione specifica che si occupa del terrorismo di matrice anarchica. Diversi pubblici ministeri che hanno seguito le vicende che hanno dato origine al 41 bis concordano nel ritenere che non sussistano più le condizioni per continuare con questa misura restrittiva. L’ufficio della direzione nazionale concorda con questa linea, pertanto ha ribadito la necessità della revoca. Questa valutazione è di vitale importanza, visto il contesto da cui proviene. La decisione finale spetterà ai giudici nei prossimi giorni, ma questa volta sembrano esserci buone speranze per Cospito. L’udienza di ieri era stata fissata dopo una istanza dell’avvocato Albertini a seguito dei rigetti da parte del ministro della Giustizia Carlo Nordio di due richieste di revoca anticipata del regime del carcere speciale a cui è sottoposto Cospito che nei mesi scorsi, ricordiamo, ha messo in atto un lungo sciopero della fame. A dicembre dello scorso anno, ricordiamo, sempre il Tribunale di Sorveglianza di Roma aveva confermato la sua reclusione nel regime del 41 bis. Questa decisione era stata attesissima e, purtroppo, il suo esito era prevedibile per chi aveva seguito il caso. Fatto il ricorso, c’era una flebile speranza per la decisione della Cassazione, soprattutto perché l’udienza era stata anticipata a causa dello sciopero della fame. Ma non c’è stato nulla da fare. I giudici della Corte Suprema hanno confermato la decisione. Come riportato nel verdetto 13258 depositato dalla Prima sezione penale a marzo di quest’anno, se Cospito fosse stato sottoposto a un regime ordinario, avrebbe potuto continuare a essere un punto di riferimento e una fonte di indicazioni per le attività criminali dei suoi sostenitori all’interno della Federazione Anarchica Informale. A causa della sua presunta pericolosità persistente, la Cassazione ha deciso di mantenere il regime del 41 bis per Cospito, confermando l’ordinanza del Tribunale di Sorveglianza di Roma. Tuttavia, la battaglia legale di Cospito non riguardava solo l’esecuzione della pena. La Corte di Cassazione, confermando le condanne di primo e secondo grado, aveva chiesto di rideterminare la pena in modo da adeguarla al reato di “strage contro la personalità interna dello Stato”, previsto dall’articolo 285 del codice penale e punibile con l’ergastolo (Cospito era stato condannato per tentata strage). La gravità del reato - non applicato nemmeno per le stragi di Capaci e di Via D’Amelio - aveva reso probabile anche l’applicazione dell’ergastolo ex ostativo, che rende difficile ottenere benefici come la liberazione condizionale, il lavoro all’esterno, i permessi premio e la semilibertà. Questa era un’altra delle ragioni per cui Cospito aveva iniziato lo sciopero della fame. Quindi, è stato istituito un nuovo processo davanti alla Corte d’Assise d’Appello di Torino, in cui le difese degli imputati avevano invocato l’applicazione della circostanza attenuante di cui all’art. 311 c. p. La valutazione della lieve entità del fatto così devoluta alla cognizione della Corte d’Assise d’appello, non coperta da giudicato e strettamente correlata alla quantificazione della pena da comminarsi, ma svuotata della propria portata attenuante in ragione della caratterizzazione del Cospito quale recidivo reiterato, ha determinato il collegio giudicante a sollevare questione di legittimità costituzionale. La Corte Costituzionale ha deciso che la norma censurata era contraria al principio di uguaglianza e alla determinazione di una pena proporzionata, idonea a tendere alla rieducazione del condannato. Quindi, Cospito avrebbe potuto beneficiare di uno sconto di pena, eliminando così la norma che avrebbe imposto alla Corte di Appello di Torino di condannarlo all’ergastolo per l’attentato alla Scuola allievi carabinieri di Fossano. Così, nel giugno scorso, nonostante la richiesta dell’ergastolo da parte della procura generale, i giudici di Appello hanno condannato Cospito a 23 anni di carcere, applicando l’attenuante della “lieve entità” del fatto e evitandogli l’ergastolo previsto per il reato di strage politica di cui era accusato. Eppure, nonostante questa decisione, il regime del 41 bis è rimasto in vigore. Ciò è sorprendente perché, come abbiamo sottolineato in passato, non è chiaro come mai Cospito sia stato sottoposto a questa misura, pensata per prevenire che un boss o un terrorista trasmetta messaggi criptati alla propria organizzazione. Le comunicazioni di Cospito, anche se farneticanti, erano pubbliche e non erano rivolte a un’organizzazione criminale, ma a individui nel mondo anarchico. Inoltre, un elemento fondamentale che il suo avvocato aveva presentato, e purtroppo ignorato, era che la Federazione Anarchica Informale (Fai) non esiste come associazione o organizzazione. Questo non è un dettaglio insignificante, poiché il 41 bis, come stabilito dalla legge che lo ha istituito, è finalizzato a impedire che i boss o i terroristi impartiscano ordini a una organizzazione ben strutturata. Questo non è il caso di Cospito. Questa situazione è stata ulteriormente confermata dalle motivazioni della sentenza di assoluzione nel processo Bialystok, che coinvolgeva 6 anarchici accusati di vari reati. L’ipotesi investigativa alla base dell’operazione Byalistock aveva presupposto l’esistenza di un gruppo criminale della Federazione Anarchica Informale (Fai) con base a Roma presso il Bencivenga occupato, gruppo che si sarebbe mosso secondo le indicazioni di Cospito. Tuttavia, questa sentenza ha escluso l’esistenza di questa presunta cellula affiliata alla Fai. Ogni azione non poteva essere ricondotta alla Fai come associazione e organizzazione, ma piuttosto alla Fai come metodo. In altre parole, è emersa chiaramente una distinzione tra Fai come metodo e Fai come associazione. Ogni singola azione era attribuibile al “metodo Fai”, ovvero al fenomeno di cooperazione di persone nei reati specifici, ma non poteva essere collegata a un’ipotesi associativa. Anche per questo motivo, la necessità del regime del 41 bis per Cospito non è chiara. Ora anche la Direzione Nazionale Antimafia ha chiesto la sua revoca. Cospito, la Direzione nazionale antimafia: “Stop al 41 bis” di Eleonora Martini Il Manifesto, 20 ottobre 2023 La richiesta avanzata insieme agli organi di polizia, davanti al Tribunale del riesame di Roma, per il detenuto anarchico. Per gli avvocati, è “ridimensionata l’enfatizzazione della sua caratura criminale”. È ora di revocare il 41 bis al detenuto anarchico Alfredo Cospito, recluso nel carcere di Sassari. A chiederlo questa volta è la stessa Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo che ieri, insieme ad alcuni organi di polizia, nel corso dell’udienza davanti al Tribunale di sorveglianza di Roma ha di fatto accolto le istanze dei difensori, gli avvocati Flavio Rossi Albertini Rossi e Margherita Pelazza, che hanno sottolineato come sia cambiata la condizione del 57enne abruzzese che per sei mesi ha portato avanti con varie modalità uno sciopero della fame contro il regime di “carcere duro” cui è costretto dal maggio 2022. Il tribunale si è riservato di prendere una decisione nei prossimi giorni. Due, i fatti accaduti negli ultimi mesi che permettono di rivedere il profilo del detenuto Cospito, riconosciuto come uno degli ideologi del Fai-Fri (Federazione anarchica informale - Fronte rivoluzionario internazionale), e il tenore delle sue attuali relazioni con l’organizzazione di appartenenza, in nome della quale gambizzò a Genova nel 2012 l’allora amministratore delegato di Ansaldo Nucleare, Roberto Adinolfi. Il primo fatto è la sentenza con cui ad aprile scorso la Corte costituzionale ha dichiarato illegittimo l’automatismo di negare le attenuanti della “lieve entità”, nei reati per i quali è previsto l’ergastolo, se commessi da recidivi. Decisione che ha permesso poi, a giugno, alla Corte d’Assise d’Appello di Torino di ricalcolare in 23 anni di carcere la pena dell’ergastolo richiesta dalla procura generale per “strage” in relazione all’attentato commesso da Cospito e dalla sua compagna Anna Beniamino nel 2006 contro la Scuola allievi carabinieri di Fossano (senza vittime, malgrado i due ordigni esplosi a distanza di tempo l’uno dell’altro). Questi due fatti, secondo la memoria depositata in Tribunale dagli avvocati Rossi Albertini e Pelazza dopo che le richieste di revoca anticipata del regime di 41 bis inviate al ministro Nordio non avevano ricevuto risposta, “ridimensionano, depotenziandola notevolmente, l’enfatizzazione della figura del Cospito, dello spessore e della caratura criminale”. Non solo: se “il presupposto del 41 bis è stato espressamente individuato nella necessità di interrompere l’attività comunicativa dello stesso, al fine di sanzionare l’istigazione ravvisata nel suo contenuto”, scrivono i difensori dell’anarchico, va tenuto conto che “per due volte il Tribunale del Riesame ha escluso che le esternazioni del Cospito siano idonee ad istigare o che le stesse rappresentino indicazioni idonee ad indirizzare i soggetti presenti all’esterno a determinarsi a specifiche condotte criminose, ritenendo al contrario che le medesime si sostanzino nella manifestazione del pensiero politico del suo autore”. Da ricordare che, come sempre più spesso accade, il regime penitenziario di 41 bis è diventato un vero e proprio “carcere duro”, contrario ai principi costituzionali, con eccessi che esulano dall’intento di recidere i legami del detenuto con le organizzazioni criminali, mafiose o terroriste di appartenenza. A Cospito venne negato anche il diritto di tenere in cella le fotografie dei familiari e alcune cartoline illustrate che gli erano state inviate in carcere. A settembre il Tribunale di Torino decise di restituirgliele. “Stefano Dal Corso pestato e strangolato in cella”: l’audio che rivela un altro caso Cucchi di Andrea Ossino La Repubblica, 20 ottobre 2023 Il quarantaduenne romano è stato trovato impiccato nel penitenziario Massama di Oristano il 12 ottobre del 2022. La sorella: “Le nuove prove dicono che non fu suicidio. Ora subito l’autopsia”. “Sicuramente ha preso qualche pugno. Comunque alla fine è stato strangolato e hanno fatto come se si fosse suicidato”. Dopo un anno qualcuno ha parlato. E ha spiegato che dietro alle strane coincidenze che ruotano intorno alla morte di Stefano Dal Corso c’è un altro scenario. Una visione finora offuscata da indagini lacunose che non permettono di affermare con certezza cosa sia accaduto al detenuto romano trovato impiccato nella cella numero 8 del carcere Massama di Oristano, il 12 ottobre del 2022. Una verità che la sorella del 42enne, Marisa Dal Corso, e l’avvocata Armida Decina hanno da sempre sospettato: Stefano Dal Corso non si è suicidato. Non lo dice l’inchiesta archiviata dai magistrati sardi senza neanche fare un’autopsia. E non ne parla il fascicolo appena aperto dagli stessi pm, ancora contro ignoti e senza ipotesi di reato. Che Stefano Dal Corso sia stato ucciso lo dicono nuove testimonianze e un audio. Prove che hanno permesso di riaprire l’indagine e che, se dovessero rivelarsi veritiere, racconterebbero la storia di un nuovo “caso Cucchi”. Sulla morte di Stefano Dal Corso ora ci sono persone diverse che narrano la stessa vicenda e parlano di pestaggi, punti di sutura, lividi e strangolamenti. In particolare c’è la registrazione di una telefonata ricevuta da Marisa Dal Corso: “Tu devi andare avanti. Devi fargli fare l’autopsia, assolutamente. Gliela devi far fare!”. A parlare è una persona ben informata. Non è una chiamata anonima ma al testimone va garantito l’anonimato per proteggerlo. Perché tra le mura del penitenziario sardo, dove la vittima era appena stata trasferita per assistere a un’udienza, potrebbe essere accaduto qualcosa di grave. Qualcuno ha aggredito Stefano Dal Corso e poi l’ha strangolato “con un lenzuolo”, viene rivelato. Dopo “è stata inscenata l’impiccagione”, dice la persona che parla al telefono con Marisa Dal Corso. Non è l’unica testimonianza. Lo scorso marzo due finti fattorini Amazon hanno bussato a casa della famiglia Dal Corso e hanno consegnato un libro con due capitoli evidenziati: La morte e La confessione. Per i magistrati si trattava di un “macabro scherzo”. Probabilmente non lo era. Come non erano suggestioni gli altri elementi evidenziati dall’avvocata Decina. Le testimonianze contrastanti, acquisite in ritardo o mai raccolte. Oppure i guasti alle telecamere di sicurezza del reparto di infermeria del penitenziario. O le mancate autopsie e le parole dei medici di fiducia che spiegano che i segni sul collo della vittima potrebbero essere compatibili con uno strangolamento. Ma per la procura l’autopsia non s’ha da fare. Bastano le relazioni di servizio. Quelle emerse dopo mesi, quelle che dicono che Dal Corso si sarebbe impiccato quando mancavano poche settimane alla sua libertà, dopo aver detto alla figlia e alla compagna di voler ricominciare una vita insieme. Lo avrebbe fatto appendendo un pezzo di tela alla grata di una finestra piuttosto bassa. Un cappio ricavato dal lenzuolo di un letto che tuttavia era perfettamente rifatto, con un taglierino che l’avvocata Decina non ha mai potuto vedere. Sui tanti punti oscuri oggi è previsto un incontro a Montecitorio con il deputato di Iv Roberto Giachetti che ha presentato un’interrogazione a Nordio. “Siamo a una svolta - dice la penalista Armida Decina - Le testimonianze da sole però non bastano a dimostrare qualcosa. Chiediamo l’autopsia: un esame capace di appurare la verità per la stessa tutela dello Stato”. Il Pd attacca Nordio: “Fa l’opposto di quello che ha sempre teorizzato” di Liana Milella La Repubblica, 20 ottobre 2023 E sulla prescrizione: “Non si torni indietro”. Dura conferenza stampa al Senato dei dem: “La Cartabia sta funzionando e ha ridotto del 30% i tempi dei processi in Appello”. A tutto campo il Pd al Senato contro il governo sulla giustizia. I meloniani? Non sono “garantisti”, vedi caso Apostolico. Non sanno fare le riforme, tolgono l’improcedibilità di Cartabia quando sta riducendo i tempi dei processi in Appello e rispetta le previsioni del Pnrr. Non sono capaci di scegliere un Garante dei detenuti, come dice Alfredo Bazoli, all’altezza di quello uscente, Mauro Palma, “il Garante dei garanti”. Mentre il Guardasigilli - accusa la responsabile Giustizia dei Dem Debora Serracchiani - “non sappiamo neppure dov’è, visto che tutto quello che sta avvenendo sulla giustizia è l’esatto opposto di quello che lui ha sempre detto proprio sulla giustizia”. Le riforme meloniane? Per usare le parole della vice presidente del Senato Anna Rossomando siamo “all’archeologia giudiziaria”. Mentre Walter Verini, sul caso Cospito, parla di un atteggiamento “farisaico” di Nordio, visto che avrebbe potuto sospendere quel 41bis già a gennaio. No del Pd a cambiare l’improcedibilità di Cartabia - Potrebbe apparire una contraddizione, ma non lo è. I Dem non vogliono cancellare l’improcedibilità dell’ex Guardasigilli Marta Cartabia - il processo in Appello può durare solo due anni, altrimenti “muore” - perché i dati dimostrano che sta funzionando alla grande. E non vogliono tornare a quella che assomiglia solo alla legge dell’ex Guardasigilli Andrea Orlando che la varò nel 2017, ma in realtà è la proposta dell’ex presidente della Consulta Giorgio Lattanzi, che la ipotizzò quando era presidente della commissione istituita da Cartabia per preparare gli emendamenti alla riforma penale. I Dem citano e mostrano una tabella dello stesso ministero che rivela - come Repubblica ha già raccontato - che c’è un netto miglioramento sui tempi dei processi rispetto alla tagliola del Pnrr che imponeva una riduzione del 25% nel penale e del 40% nel civile per poter incassare 2,3 miliardi di euro per la sola giustizia. Rispetto alla proposta della maggioranza sulla prescrizione, firmata dal forzista Pietro Pittalis con i deputati di Lega e FdI, su cui è d’accordo anche il relatore di Azione Enrico Costa, ecco il giudizio di Serracchiani: “Perché cambiare se l’improcedibilità di Cartabia sta funzionando come rivelano i dati? Questa maggioranza ha le idee confuse, e poi propone un testo che non è quello di Orlando, ma dell’ex presidente della Consulta Lattanzi”. E ancora: “È una questione di metodo”. Come dice il capogruppo in commissione Giustizia alla Camera Federico Gianassi “la destra ha già dimostrato una mentalità antiscientifica sui vaccini, e ora fa lo stesso sulla giustizia, i dati sull’improcedibilità non contano niente per loro, vogliono solo piantare bandierine ideologiche”. Ma è dirimente il giudizio di Bazoli: “Le riforme stanno producendo risultati eccezionali e clamorosi e la riduzione dei tempi avviene nel primo semestre 2023”. Insomma, non c’è nessuna necessità di tornare indietro. Il Garante lottizzato mentre le carceri scoppiano - Sul tavolo c’è la contestata scelta del nuovo vertice del Garante delle persone private della libertà. Via Palma, di cui scadono i sette anni, arrivano il meloniano Felice Maurizio D’Ettore, l’avvocata proposta dalla Lega Irma Conti e il civilista Mario Serio indicato da M5S. In commissione la maggioranza nega le audizioni. “Non avevamo chiesto posti, ma personalità che fossero all’altezza” dice Serracchiani. “Nessuna delle tre indicate è esperta di diritti umani” secondo Bazoli. Tant’è. Il governo va avanti. Ma è proprio sulle carceri che il Pd lancia un ulteriore allarme alla luce dei nuovi reati decisi dal governo. “Siamo molto, molto preoccupati - dice Bazoli - perché stiamo esaminando il decreto Caivano e il Garante uscente Palma ci ha fornito un dato inquietante in quanto, proprio con il ripristino della detenzione per i reati di lieve entità legati agli stupefacenti, che era stata soppressa nel 2013, i detenuti sono destinati ad aumentare del 20%. Abbiamo chiesto i dati, ma non li hanno. Fanno una riforma come questa senza sapere che impatto avrà”. Bazzoli spiega che con la soppressione del reato nel 2013 l’ingresso in carcere era diminuito di 8mila persone all’anno. Quindi l’impatto oggi, con il nuovo reato, “potrebbe essere di migliaia di detenuti”. Rossomando, gli interventi “contraddittori” di Nordio - Da Anna Rossomando ecco un’altra pesante critica al Guardasigilli e al governo sulla giustizia. “Nordio si definisce liberale e garantista ma è alla bancarotta e al fallimento, perché i suoi sono interventi contraddittori, come per il decreto Caivano che chiede più carcere per tutti, anche per i minorenni”. La vice presidente del Senato ricorda che nell’unico ddl Nordio in lettura al Senato, c’è il collegio di tre giudici che dovranno pronunciarsi su una richiesta di arresto “che neppure si sa quando sarà applicato perché non ci sono né magistrati, né risorse disponibili”. Il giudizio politico? Si tratta di “interventi spot, senza un titolo, ma con l’unico obiettivo di riaccendere il conflitto tra politica e giustizia, all’insegna del populismo penale a buon mercato”. “La giustizia di Cartabia va e Nordio vuole sabotarla” di Valentina Stella Il Dubbio, 20 ottobre 2023 Serracchiani: “Ora riabilitano la legge del nostro Orlando sui tempi di estinzione dei reati, ma all’epoca la avversarono”. Rossomando: “Il ddl penale è velleitario”. I dem contro il ministro della Giustizia: i processi accelerano grazie alla Cartabia, lui li vuole stravolgere. C’è un allarme giustizia: a sostenerlo è stato ieri il Partito democratico, in una conferenza stampa che già dal titolo, “La giustizia in ginocchio ai tempi della destra”, si annunciava come un attacco alle politiche della maggioranza e del governo, a partire dal dossier prescrizione. Le riforme approvate nella scorsa legislatura funzionano, hanno detto i parlamentari dem Debora Serracchiani, responsabile Giustizia del partito, i capigruppo nelle commissioni Giustizia di Camera e Senato Federico Gianassi e Alfredo Bazoli, il capogruppo in commissione Antimafia Walter Verini e la vicepresidente del Senato Anna Rossomando. Il riferimento è a una tabella dati dello stesso ministero della Giustizia, illustrata da Bazoli: “Le statistiche sono clamorose, perché ci dicono che rispetto al problema numero uno della giustizia italiana, cioè l’efficienza e la durata dei processi, le riforme fatte nella scorsa legislatura stanno producendo effetti straordinari. Secondo i dati del ministero della Giustizia, che sono passati sottotraccia, risulta al momento che, considerato il 2019 come punto di riferimento, il processo penale in Italia ha ridotto i tempi di quasi il 30%, e la variazione più significativa si è avuta nel primo semestre di quest’anno”, ossia dall’entrata in vigore della riforma Cartabia. Occorre ricordare, ha detto ancora Bazoli, che “il Pnrr assegna all’Italia l’obiettivo di ridurre i tempi del 25% entro il 2026: quindi stiamo facendo addirittura meglio”. Riguardo al settore civile, “i processi si sono ridotti del 20%, qui non abbiamo raggiunto il target che è 40%, ma siamo già a metà”. Come ha ribadito Serracchiani, “la riforma sull’improcedibilità sta funzionando e i dati sono inequivocabili. E se si sono raggiunti questi numeri è sicuramente per la credibile riorganizzazione e per la capacità che hanno avuto i magistrati: voglio precisare che non è scattata neanche una improcedibilità, ovviamente perché è troppo presto. E allora, se è stato raggiunto l’obiettivo prefissato da Italia e Unione europea per ottenere i fondi del Pnrr, perché dobbiamo metterlo in discussione?”. Anche Gianassi si è detto convinto che la riforma del 2021 stia producendo “dati positivi, e significativi. Ma alla mentalità scientifica si preferisce”, secondo il capogruppo Giustizia del Pd a Montecitorio, “il furore ideologico”. Ma perché dire no al ritorno alla Orlando? La risposta l’ha fornita sempre Serracchiani: a destra “non sbandierino in modo inappropriato il nome del ministro Orlando, perché la riforma del 2017 è stata un’ottima riforma avversata da coloro che oggi utilizzano impropriamente quel nome. Oggi siamo nel 2023 e c’è il Pnrr da rispettare: non facciano finta di non sapere che il Piano richiede il rispetto di quei numeri che abbiamo già abbondantemente raggiunto, quindi perché tornare indietro?”. I rappresentanti del Pd hanno quindi rivolto un appello alla premier Meloni e al ministro Fitto: “Viste le difficoltà nel raggiungere gli obiettivi del Pnrr, perché si vuole intervenire proprio lì dove abbiamo già raggiunto risultati?”. Poi è intervenuta la vicepresidente del Senato Rossomando: “Questo governo di destra continua a parlare di riforme della Giustizia, ma siamo in presenza di archeologia giudiziaria perché vengono ripescati elementi di polemica del passato. Le riforme che abbiamo approvato nella scorsa legislatura avevano delle cifre, soprattutto quella del processo penale puntava su tempi ragionevoli del processo e potenziamento delle garanzie, con attenzione al tema della pena, che non può e non deve essere solo carceraria. Questo ministro invece, che tutti i giorni si autodefinisce liberale e garantista, è alla bancarotta e al fallimento: non viene fatto niente e gli interventi fatti sono contraddittori. Nel cosiddetto ddl Nordio, ad esempio, si propone il collegio cautelare che sarà applicato non si capisce quando, perché non ci sono magistrati disponibili né risorse. Non c’è una direzione delle riforme, solo interventi spot. Si vuole solo riaccendere il conflitto tra politica e magistratura, che non fa fare un passo avanti. E poi si illudono che con provvedimenti ispirati al populismo giudiziario si riesca a suscitare consenso a buon mercato. Noi siamo per le riforme: per continuare a farle e per difendere quelle che sono state fatte”. A proposito di rapporti tra politica e magistratura, abbiamo chiesto ai rappresentanti dem se confidano che il ministro Salvini venga in Parlamento a rispondere in merito al video postato lo scorso 5 ottobre in cui compare Iolanda Apostolico, la giudice del Tribunale di Catania che non ha convalidato il trattenimento nel Cpr di Pozzallo di migranti tunisini sbarcati a Lampedusa. La domanda nasce dal fatto che, fino ad ora, dinanzi a tutti gli atti di sindacato ispettivo proposti in materia né i sottosegretari né lo stesso ministro Piantedosi hanno fornito risposte esaurienti. “La speranza è l’ultima a morire - ci ha risposto Serracchiani - purtroppo le interrogazioni non hanno un tempo perentorio per la risposta. Però riteniamo che per questo caso sia utile e opportuno che un ministro nella posizione di Salvini risponda su una vicenda del tutto inusuale e anomala per come si è svolta. Noi abbiamo presentato delle interrogazioni perché convinti che un attacco della politica alla funzione giudiziaria non solo non serva ma sia pericoloso, e penso a regimi come l’Ungheria”. Nordio avvisa i suoi: sulla prescrizione deciderò io di Errico Novi Il Dubbio, 20 ottobre 2023 Il guardasigilli riapre i giochi sulla riforma che manderà in archivio le leggi di Bonafede e Cartabia: settimana prossima vertice a Via Arenula con Sisto, Delmastro e Ostellari per perfezionare il testo, poi il via libera in commissione. Paura di sbagliare? Sindrome dell’ultimo miglio? “No, casomai desiderio di non lasciare nulla al caso. Di assicurare a magistrati, avvocati e cittadini una riforma della prescrizione che duri, che non sia destinata a repentini stravolgimenti. Il ministro Nordio ci tiene molto e non intende assistere da spettatore ai lavori del Parlamento su una materia così delicata. Ecco perché convocherà un vertice, da tenersi a breve, con il viceministro Sisto e i due sottosegretari, Ostellari e Delmastro”. Chi ha avuto modo di parlarne nelle ultime ore col guardasigilli, spiega così l’ultima mossa sulla prescrizione: a fronte di un’intesa già siglata dai partiti di maggioranza in commissione Giustizia alla Camera, con un emendamento pronto e condiviso anche da Azione e Italia viva, Carlo Nordio preferisce fermare un attino le macchine e mettere personalmente le mani sul dossier. Tradotto: all’inizio della settimana prossima, a via Arenula si terrà un vertice decisivo tra il ministro, il suo vice Francesco Paolo Sisto, di Forza Italia, e i sottosegretari alla Giustizia Andrea Delmastro, di FdI e Andrea Ostellari, della Lega. Obiettivo: concordare ulteriori affinamenti al testo messo a punto a Montecitorio. Migliorare, perfezionare la legge sulla prescrizione. Che sarà dunque anche la riforma Nordio. Ma non si tratta, assicurano le fonti vicine al guardasigilli, di una narcisistica volontà di controllo. Il punto è che il ministro ha ben chiaro il rischio a cui è esposta qualsiasi riforma della prescrizione, e cioè che venga rimessa in discussione nel giro di pochi anni. Vuole dunque arrivare al miglior testo possibile. Blindarlo in modo da non offrire spiragli utili a chi volesse riaprire il vaso di Pandora. Ma cosa potrebbe avvenire nel summit in programma a via Arenula? Le indiscrezioni che filtrano appena dal ministero danno per certo che non si tornerà indietro rispetto alla direzione di marcia scelta dai deputati. Si lavorerà, in linea di massima, sul testo integrato dall’emendamento di Pietro Pittalis (FI), Ingrid Bisa (Lega) e Carolina Varchi (FdI), che prevede di innestare sulla legge ex Cirielli la proposta della commissione Lattanzi. E quindi, non cambierà l’impostazione di base, che prevede un termine di estinzione dei reati ricavato dal massimo edittale aumentato di un quarto (anziché della metà, come sanciva la riforma Orlando). Sullo schema di partenza, l’emendamento concordato dai tre partiti di maggioranza inserisce una sospensione di 18 mesi dopo l’eventuale condanna in primo grado e un’altra sospensione di 12 mesi se arriva la condanna in appello. Si aggiunga che, sempre in base a questo modello, il tempo in cui il decorso del termine è rimasto sospeso viene rimesso nel conto della prescrizione qualora la sentenza non sopraggiunga prima che lo stesso “bonus” sia trascorso del tutto. Ecco, il tessuto è questo. Viene mutuato dal lavoro di una Commissione ministeriale di altissimo profilo, che, nominata da Marta Cartabia, fu guidata nel 2021 dal presidente emerito della Consulta Giorgio Lattanzi. Cosa cambierà? Si potrebbe leggermente rimodulare la durata delle sospensioni, innanzitutto, fino a renderla perfettamente sovrapponibile alla proposta della Commissione di studio, che dopo la condanna in primo grado prevedeva una sospensione di 24 anziché 18 mesi. E poi ci sarebbe da fare un lavoro sui dettagli, sulle norme che individuano i passaggi a partire dai quali far partire la sospensione. Sono ipotesi, ma la prospettiva è in ogni caso quella di lavorare sulla traccia aperta in commissione a Montecitorio. Sembra escluso invece che Nordio possa rimettere sul tavolo l’altra opzione valutata, inizialmente, proprio da Sisto, Delmastro e Ostellari: uno stop definitivo al decorso della prescrizione dopo l’eventuale condanna in appello. L’ipotesi è stata subito giudicata irricevibile ad esempio dall’Unione Camere penali, che vi ha colto una riproposizione della legge Bonafede, emendata solo da uno slittamento del “blocco” dalla sentenza di primo grado a quella di appello. In realtà questa proposta Sisto-Delmastro-Ostellari (che comunque avevano messo sul tavolo innanzitutto la soluzione poi fatta propria dai deputati del centrodestra) avrebbe anche contemplato modifiche al meccanismo dell’ammissibilità in Cassazione, che oggi rende la prescrizione irraggiungibile nella maggior parte dei casi. D’altra parte, Nordio sembra interessato a una riforma che dia certezza chiara, all’imputato e in generale ai cittadini, sui tempi di estinzione del reato. È il motivo per cui, fin dal primo momento, sia il sottosegretario Delmastro sia lo stesso guardasigilli hanno sempre guardato al superamento dell’improcedibilità, cioè della cosiddetta prescrizione processuale introdotta da Cartabia. Sebbene sia innegabile come quel meccanismo avesse già disinnescato il paradosso del “fine processo mai” targato Bonafede, l’improcedibilità produrrebbe, secondo il ministro, un’eccessiva variabilità del tempo a disposizione delle Corti d’appello e della Cassazione, in relazione al tipo di reato e alla complessità della vicenda processuale. Fino a rendere difficilmente prevedibile, per ciascun procedimento, il limite oltre il quale non si sarebbe potuti andare. Ecco, su questo, chi ha ascoltato il punto di vista di Nordio spiega: “I tempi devono essere certi, chiari, sempre comprensibili e non esposti alla specificità del singolo caso. Su questo il ministro ha le idee molto chiare”. A questo punto la road map della commissione Giustizia potrebbe cambiare, seppur di poco: martedì, sulla carta, dovrebbe cominciare l’esame degli emendamenti, ma visto che la riunione tra Nordio, il suo vice e i sottosegretari dovrebbe tenersi proprio martedì o mercoledì prossimi, è possibile che via Arenula chieda al presidente della commissione Giustizia di Montecitorio Ciro Maschio di far slittare il tutto di uno o due giorni. Anche perché Nordio pare intenzionato a tradurre le limature da apportare al testo dei deputati non in un emendamento governativo, ma in una richiesta di riformulazione (a cui sarebbe subordinato il parere positivo del governo). E questo per evitare che l’articolato prodotto dalla rielaborazione di via Arenula sia a propria volta subemendabile. La meta, certo, è vicina. Ma Nordio intende arrivarci in modo da poter ragionevolmente sperare che la riforma della prescrizione targata centrodestra abbia una vita assai più lunga rispetto alle riforme dei predecessori. “La Giustizia riparativa per i minori non è uno sconto di pena” di Paolo Fruncillo La Discussione, 20 ottobre 2023 L’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza, Carla Garlatti, presentando un’indagine sulla Giustizia riparativa ha ripetuto che “non è uno sconto di pena,” “funziona” e “favorisce la ricostruzione della coesione sociale.” L’indagine dell’Autorità ha preso in considerazione i 36 enti, pubblici e privati, attivi in questo campo in Italia. Ne è emerso che dei 782 programmi di Giustizia riparativa, portati a termine nel 2021, il 75,8% è costituito da mediazioni penali, seguono poi i “circle” (17,4%) e le conference (6,8%). Un altro aspetto che si ricava dall’indagine è che si ricorre ai programmi di Giustizia riparativa prevalentemente nei casi di “messa alla prova.” Altra ipotesi ricorrente è l’accesso allo strumento nel corso delle indagini preliminari o dell’udienza preliminare. Meno frequente, infine, l’inserimento nella fase esecutiva della pena. Quanto all’accesso ai percorsi di Giustizia riparativa da parte dei minorenni non imputabili, questo avviene oggi in 13 distretti di corte d’appello (Torino, Milano, Brescia, Trento, Bolzano, Bologna, Sassari, Cagliari, Salerno, Lecce, Catanzaro, Reggio Calabria e Palermo). Se ne occupano i privati - Dei 36 centri oggetto dell’indagine oltre il 70% appartiene a una cooperativa o a un soggetto del privato sociale. Quelli istituiti dalla pubblica amministrazione sono composti per la quasi totalità da personale dell’ente e da mediatori penali privati in convenzione. Sono 15 i distretti di corte d’appello con due o più centri di Giustizia riparativa minorile, mentre ne hanno uno soltanto 13 distretti (il dato di Campobasso non è stato rilevato). Nella maggioranza dei casi (77,8%) il servizio è disponibile per l’intero territorio di competenza del Tribunale per i minorenni. Aiuta anche le vittime - “La Giustizia riparativa produce effetti positivi - sia rispetto alla considerazione che si ha di sé sia in termini di relazione con l’altro e con la giustizia - nella vittima, in chi viola la legge, nelle famiglie coinvolte e nella comunità”, spiega l’Autorità garante Carla Garlatti. “Da un lato, attraverso l’incontro con l’altro, il ragazzo che sbaglia prende consapevolezza dell’errore commesso e questo contribuisce a evitare che lo ripeta in futuro. Dall’altro, la vittima che sceglie di partecipare trova finalmente un suo spazio, si sente ascoltata e compresa e questo può aiutare il suo percorso di recupero. In termini più generali, poi, si favorisce la ricostruzione della coesione sociale e si contribuisce ad aumentare il senso di sicurezza nella comunità”. Molti Tribunali mancano all’appello - Secondo le conclusioni dell’indagine occorre estendere il ricorso ai programmi di giustizia riparativa per gli autori di reato che non sono imputabili perché questo “è il modo per far prendere consapevolezza anche a chi ha meno di 14 anni dell’azione compiuta.” In Italia già accade, si legge nel Rapporto dell’Autorità, ma non in tutti i tribunali per i minorenni. Le rilevazioni dicono che se nel 2018 ciò avveniva in 8 distretti di Corte d’Appello, nel 2021 è accaduto in 13: ne mancano ancora 9 e per i restanti 7 il dato non è disponibile”. Dunque bisogna “aumentare il numero dei centri” per agevolarne l’accesso, anche da parte delle vittime e non solo dell’autore del reato, e inoltre si permetterebbe di realizzare la maggior parte degli incontri in presenza, evitando il ricorso all’online che rende meno efficace l’incontro.” Va diffusa la cultura della “Giustizia riparativa” e bisognerebbe promuovere la mediazione scolastica quale strumento di risoluzione dei conflitti.” Poi coinvolgere le famiglie che hanno “un ruolo fondamentale”: la ricerca, infatti, mostra come questo abbia un evidente effetto moltiplicatore dell’efficacia del percorso e della soddisfazione di chi vi ha preso parte. Sostituire la mediazione penale - Insomma sarebbe opportuno, secondo l’Autorità garante dell’infanzia e e adolescenza, diffondere il ricorso ad altri strumenti di Giustizia riparativa, diversi dalla mediazione penale. Sul totale di 782 programmi di giustizia riparativa portati a termine nel 2021, più di tre quarti (75,8%) è costituita da mediazioni penali. “L’indagine, invece, sottolinea l’utilità di ricorrere ad altri strumenti, come il circle e il dialogo riparativo, vale a dire la community conference (mediazione di comunità) e la family group conference (mediazione estesa ai gruppi parentali)”. Quasi inutile aggiungere che andrebbero incrementare le risorse; “servono finanziamenti adeguati a formare i mediatori, diffondere la conoscenza dello strumento tra operatori e istituzioni e realizzare programmi che coinvolgano direttamente la comunità”. Sui reati minorili non è sufficiente la leva giudiziaria di Paola Balducci L’Espresso, 20 ottobre 2023 Insieme con interventi di tipo sanzionatorio e repressivo è necessario investire nella prevenzione e nel recupero. Serve agire sulle famiglie fragili e col supporto delle scuole. L a devianza minorile e, nello specifico, la criminalità giovanile rientra tra le problematiche che destano maggiore preoccupazione a livello sociale. Negli ultimi tempi abbiamo assistito a eventi tragici di fronte ai quali è nostro dovere chiederci quali siano le lacune da colmare. Sicuramente appare necessario pensare a sanzioni ad hoc per i minori, differenti da quelle per gli adulti, che tengano in considerazione la condizione evolutiva e ne accompagnino uno sviluppo adeguato. È fondamentale promuovere forme di giustizia riparativa che permettano di far acquisire al minorenne coscienza e consapevolezza del disvalore arrecato alla vittima, indirizzandolo verso una maggiore responsabilizzazione e rappacificazione con la società. La previsione di nuove norme è importante, ma non è sufficiente. Accanto ad interventi di tipo sanzionatorio e repressivo è necessario investire nella prevenzione e nel recupero. Più spazio, infatti, andrebbe riservato al rafforzamento di strumenti educativi. La famiglia, come luogo dove si sviluppa la personalità del minore, e la scuola, dove si apprendono le prime regole della convivenza sociale, hanno un ruolo fondamentale nell’educazione delle nuove generazioni. Tuttavia, assistiamo ancora oggi ad un fenomeno, quello della dispersione scolastica che continua a destare preoccupazione. I dati presentati dalla Relazione al Parlamento 2022 dell’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza, sono allarmanti. Insieme con interventi di tipo sanzionatorio e repressivo è necessario investire nella prevenzione e nel recupero. Serve agire sulle famiglie fragili e col supporto delle scuole ficate o che sono disoccupati. Tra gli studenti stranieri il tasso di abbandono è risultato tre volte maggiore di quello degli italiani, con pesanti divari tra il Settentrione e il Meridione. In ragione di ciò, è necessario investire risorse per rendere eccellenti le scuole e i servizi frequentati dai minori che vivono in condizioni di particolare vulnerabilità. Inoltre alle famiglie più fragili dovrebbero essere offerti interventi su misura da parte di équipe multidisciplinari. Per combattere il dilagare della devianza minorile, è imprescindibile l’intervento congiunto e sinergico di tutti i protagonisti della nostra società, istituzionali e no, finalizzato ad eliminare ogni singolo fattore che contribuisca a creare i presupposti per lo sviluppo del fenomeno. Sarebbe opportuno - e questo è un lavoro che deve essere svolto a livello Istituzionale - promuovere iniziative didattiche, culturali, sociali improntate alla valorizzazione della cultura della legalità in ogni ambito del vivere civile. Sul punto, è fondamentale dirottare i fondi del Pnrr non solo in impianti edilizi ed informatici, bensì nella costituzione di istituzioni socio-sanitarie formate da un maggior numero di psicologi e psicoterapeuti che siano in grado di gestire le innumerevoli problematiche che caratterizzano gli adolescenti di oggi. Essenziale, altresì, sarebbe la previsione di équipe multidisciplinari formate da dirigenti scolastici, assistenti sociali, giudici minorili, psicologi, educatori di strada e di comunità che dovrebbero trovare soluzioni all’interno di un progetto condiviso in un’ottica sanzionatoria - per fornire la percezione del limite - ed educativa per offrire al minore un esempio di buone prassi e comportamenti per vivere in modo costruttivo all’interno della società. Bisogna agire oggi, prima che sia troppo tardi, con la consapevolezza che i minori sono i protagonisti del futuro. *Avvocata, componente della Commissione per la riforma del processo penale Caso Apostolico: per i giudici Pinelli si ispira allo zar di Filoreto D’Agostino Il Fatto Quotidiano, 20 ottobre 2023 Il sottosegretario Alfredo Mantovano e il vicepresidente Csm Fabio Pinelli hanno sostenuto recentemente in un convegno, che “la credibilità del giudice passa dal grado di fedeltà alla lettera della legge in grado di frenare ogni impulso creativo” (Pinelli) e tale criterio opera anche in sede di disapplicazione di una norma, sulla quale non devono incidere opinabili interpretazioni tra l’ordinamento nazionale e quello comunitario (Mantovano). Traduzione per i non addetti ai lavori: i giudici catanesi avrebbero dovuto attenersi all’interpretazione letterale della norma del decreto Cutro (Pinelli) e non disapplicarla per un opinabile collegamento con la normativa europea (Mantovano). In altre parole: un altolà ai giudici a usare criteri interpretativi diversi da quello letterale. Nessuno nega l’indispensabile priorità dell’interpretazione letterale o grammaticale. In una notevole casistica (basta pensare solo alle sanzioni per la circolazione stradale) è sufficiente questo approccio per giungere alla concreta applicazione della norma. L’uso di diverse forme e mezzi d’interpretazione, tuttavia, non si risolve in un impulso creativo, come sembra ritenere l’avvocato Pinelli, ma fornisce al giudice gli strumenti utili per decidere una vertenza. La ricerca di quei mezzi e la loro concreta applicazione potrebbe determinare una decisione sbagliata, ma questo non felice risultato va considerato frutto di un impulso creativo solo nell’ipotesi (tutta da dimostrare) di un’abnorme sconnessione della pronuncia dal dato normativo. L’apprezzamento interpretativo, salve le ipotesi di abnormità del giudizio, rimane pur sempre vincolato alla linea di coerenza logica insita nell’ordinamento giuridico (Betti). L’interpretazione “crea” comunque diritto. Ciò è pacifico nei Paesi di Common law, in sostanziale continuazione del diritto romano nel quale la sentenza poteva adeguare antiche regole all’evoluzione socio-economica (c.d. giurisprudenza pretoria), ma è acquisito anche nel nostro sistema, che conosce il “diritto vivente”, creato dal consolidamento della giurisprudenza su alcune importanti questioni. Limitare la credibilità del giudice alla lettura della norma e alla pedissequa applicazione significa creare una cesura irrazionale in quel processo intellettivo, con esplicita sconfessione del lavoro della giurisprudenza. Le aspirazioni di Pinelli a frenare ogni impulso esegetico del giudice furono codificate nell’articolo 65 delle “leggi fondamentali del 1832” di Russia, che vincolava i tribunali all’interpretazione letterale. Leggi emanate da Nicola I, zar assolutista e nemico della libertà di pensiero, come ebbero a subire Gogol, Puskin e Turgenev. Considerazioni analoghe valgono per la tesi del sottosegretario Mantovano in tema di disapplicazione e interpretazione letterale. La disapplicazione è una tecnica giuridica che richiede cenni chiarificativi per i non addetti. È di comune acquisizione che compete ai giudici del Tar e del Consiglio di Stato annullare gli atti amministrativi ritenuti illegittimi e lesivi d’interessi e diritti. Ciò presuppone, peraltro, che quella magistratura sia competente a decidere della relativa controversia. Vi sono, tuttavia, atti amministrativi che operano in materie attribuite ai tribunali ordinari, i quali diversamente dal giudice amministrativo, non possono annullarli. Se un atto amministrativo illegittimo incide o lede i diritti di un soggetto che si è rivolto al tribunale ordinario, la risposta dell’ordinamento non può limitarsi a una dichiarazione d’impotenza rivolta a chi reclama tutela. Per questo, il giudice ordinario, pur non potendo annullare l’atto illegittimo, impedisce che lo stesso produca effetti nella vertenza ovvero non lo applica al caso concreto: è come se l’atto illegittimo e lesivo di diritti non esistesse. Questa è la disapplicazione. Annullamento e disapplicazione consentono, pertanto, la tutela integrale rispetto all’atto amministrativo illegittimo e, per questa loro attitudine alla completezza del presidio giuridico, sono insieme richiamati nelle pronunce della Corte costituzionale. Proprio la comune funzione conseguente all’integrazione di tutela implica che, nell’annullamento e nella disapplicazione, l’approccio al giudizio d’illegittimità sia eguale, diversamente dalla tesi del sottosegretario Mantovano, per il quale la disapplicazione sarebbe consentita solo dall’immediato e diretto contrasto tra due norme. Quella opinione, infine, è smentita dalla Corte costituzionale (sent. n. 275/2001) secondo la quale la disapplicazione comprende “tutti i vizi di legittimità senza che sia possibile operare distinzioni tra norme sostanziali e procedurali” di modo che allo stesso giudice ordinario “resta affidata la pienezza della tutela estesa a tutte le garanzie procedimentali”. È quindi perfettamente ammissibile, quantomeno sotto il profilo metodologico, che nell’esplorare la legittimità dell’atto, il giudice s’interroghi sulla conformità dello stesso a quelle norme per decidere se le stesse siano state violate o eluse in modo obliquo. La conclusione è imbarazzante. Se per salvaguardare una supposta credibilità del giudice s’intende limitare l’interpretazione a quella letterale, si corre il rischio di finire in un contesto simile alla Russia del 1832, con uno zar dispotico e zero garanzie democratiche. Non proprio un risultato di cui andare fieri. Il decreto Cutro va in Cassazione. Ecco cosa potrebbe succedere di Vitalba Azzollini Il Domani, 20 ottobre 2023 La Corte potrebbe confermare le pronunce dei giudici o ritenerle del tutto infondate, chiudendo così le vicende giudiziarie. Ma potrebbe anche procedere al rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea, per verificare la conformità del diritto interno a quello europeo; oppure sollevare la questione di legittimità costituzionale dinanzi alla Consulta. Si stanno succedendo pronunce giudiziarie di mancata convalida del trattenimento di richiedenti asilo, mediante la disapplicazione del cosiddetto decreto Cutro. Il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, continua ad annunciare ricorsi alla Corte di Cassazione. In attesa delle decisioni, può essere utile esporre le diverse opzioni percorribili dalla Corte. Le decisioni - Preliminarmente, serve ricordare le motivazioni delle citate pronunce. Secondo i giudici che non hanno convalidato il trattenimento dei migranti, il questore avrebbe adottato il relativo provvedimento senza una valutazione “su base individuale (...) della necessità e proporzionalità della misura” in relazione alla possibilità di applicare misure alternative. Ciò in quanto il decreto Cutro impone in via automatica il trattenimento di chi arriva da un paese inserito nell’elenco di quelli “sicuri” ed è privo di documenti, assoggettandolo a una procedura accelerata “di frontiera”, nel presupposto che sia comunque destinato al rimpatrio. Ma la mera provenienza di un migrante da un Paese sicuro non può portare a tale automatismo, escludendo il suo diritto a entrare nel territorio dello Stato per chiedere asilo, ai sensi dell’art. 10, comma 3, della Costituzione. Tutto ciò contrasterebbe col diritto europeo come interpretato dalla Corte di giustizia dell’Ue (Cgue): una misura restrittiva dei diritti, qual è il trattenimento, non può essere adottata senza che ne sia adeguatamente valutata e garantita la proporzionalità. Inoltre, il citato decreto non prevede la fideiussione come misura da valutare dopo la decisione sul trattenimento, e in alternativa ad esso, in conformità alla disciplina Ue; ma come requisito da considerare già prima della decisione stessa, in mancanza del quale scatta il trattenimento. Peraltro - secondo l’orientamento della Cgue - un richiedente asilo non può essere “trattenuto per il solo fatto che non può sovvenire alle proprie necessità”, cioè non dispone della somma indicata per la cauzione. Somma che peraltro è fissa, e non modulabile in relazione alla condizione del migrante, come dovrebbe essere in ossequio al principio di proporzionalità. Tale principio sarebbe violato anche in quanto la garanzia finanziaria non è prevista congiuntamente alle altre possibili misure alternative al trattenimento di cui alla direttiva 2013/33/Ue, cioè “l’obbligo di presentarsi periodicamente alle autorità, la costituzione di una garanzia finanziaria o l’obbligo di dimorare in un luogo assegnato”, con la conseguenza che, per chi sia impossibilitato a prestare la garanzia, il trattenimento non può essere comunque evitato mediante il ricorso a una delle altre misure. Per questi motivi, in sintesi, il trattenimento di alcuni richiedenti asilo non è stato convalidato. Le possibilità - La Corte di Cassazione potrebbe reputare fondate le pronunce dei giudici che non hanno convalidato il trattenimento dei migranti per evidente contrasto delle disposizioni interne con la normativa europea e per la possibilità di applicare direttamente queste ultime invece delle prime. A questo riguardo, va chiarito che i regolamenti Ue hanno efficacia diretta negli ordinamenti nazionali, mentre le direttive necessitano di recepimento. La disapplicazione di una norma interna - come hanno fatto i giudici con il decreto Cutro - è possibile se la norma della direttiva con cui quella interna confligge sia chiara, precisa e incondizionata, quindi immediatamente applicabile, e non sia stata recepita o lo sia stata in modo errato. Ma la Corte potrebbe anche reputare che - pur essendoci un’eventuale incompatibilità tra la norma del decreto Cutro e la norma dell’Ue (art. 15 della direttiva 33/2013/Ue) - la disapplicazione non fosse consentita, non ricorrendo i casi sopra indicati. In questo caso, la Cassazione dovrebbe rimettere la valutazione circa la sussistenza del contrasto alla Consulta, sollevando la questione di legittimità costituzionale per violazione dell’art. 117 Cost., nella parte in cui impone al legislatore il rispetto dei “vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario”. Spetterebbe così alla Corte costituzionale la decisione sull’eventuale annullamento della disposizione interna non conforme al diritto dell’Ue. Ma potrebbe anche verificarsi che la Corte di Cassazione non riesca a raggiungere un convincimento circa il conflitto tra la disposizione interna e quella dell’Ue. In questo caso, essa deve rimettere la questione alla Cgue attraverso un rinvio pregiudiziale, affinché quest’ultima verifichi la conformità della normativa nazionale al diritto dell’Unione. La decisione della Corte di Giustizia vincola non solo il giudice che le ha rivolto l’istanza, ma anche gli altri giudici nazionali che affrontino medesime questioni. Una sentenza della Cgue del 2022 emessa a seguito di un rinvio pregiudiziale - i cui princìpi sono quindi da applicare in ogni questione giudiziaria dello stesso tipo - è stata posta a fondamento dei provvedimenti dei tribunali che hanno disapplicato il decreto Cutro. L’incompatibilità - C’è ancora un’ulteriore possibilità, e cioè che la Corte di Cassazione reputi che la disposizione interna presenti profili di incompatibilità sia con le norme dell’Unione sia con la Costituzione. Del resto, le pronunce di mancata convalida del trattenimento dei richiedenti asilo rilevano profili di contrasto del decreto Cutro, oltre che con la normativa dell’Ue, anche con la Costituzione. In questo caso, che si definisce come “doppio contrasto” o “doppia pregiudizialità” e che darebbe teoricamente luogo al rinvio sia alla Cgue sia alla Corte costituzionale, si deve ricorrere solo a quest’ultima. Infine, la Cassazione potrebbe decidere che le decisioni di mancata convalida da parte dei giudici sono infondate, reputando che la normativa nazionale sul trattenimento e sulla garanzia finanziaria sia conforme a quella europea, e annullare le decisioni stesse. Insomma, la questione è destinata a evolversi in una delle direzioni indicate, e sarà interessante continuare a seguirne lo svolgimento. Caso Cavallotti, la Cedu: le misure di prevenzione sono applicate in base a una legge “prevedibile”? di Fabrizio Costarella e Cosimo Palumbo* Il Dubbio, 20 ottobre 2023 Con l’ordinanza resa nel caso Cavallotti/ Italia, la Corte Edu pone al governo italiano, tra gli altri, un quesito che amplia il senso di un analogo interrogativo, rimasto inevaso dopo la sentenza De Tommaso/Italia, ripresa e in qualche modo superata dalla pronuncia n. 24/19 della Corte Costituzionale. I giudici europei, infatti, chiedono di sapere se le misure di prevenzione italiane, in special modo quelle patrimoniali, siano applicate in base a prove (e non a semplici sospetti); vogliono sapere se queste misure abbiano una sufficiente base legale e, ancora più in particolare, se siano consacrate in una legge “prevedibile”. Il tema della prevedibilità non è nuovo, dal momento che esso incrocia i principi della tassatività e determinatezza della fattispecie, che a loro volta costituiscono postulati del principio di legalità formale. Ad esempio, la Cedu, nel caso Contrada/ Italia, aveva avuto modo di affermare, richiamandosi ai suoi precedenti, che “la legge deve definire chiaramente i reati e le pene che li reprimono” essendo tale requisito soddisfatto se “la persona sottoposta a giudizio può sapere, a partire dal testo della disposizione pertinente, per quali atti e omissioni ad un consociato viene attribuita una responsabilità penale e di quale pena è passibile per tali atti”. La Corte Costituzionale, dal suo canto, già con la assai risalente sentenza n. 2/56 aveva avallato una maggiore latitudine del principio di legalità, censurando l’art. 157 Tulps in quanto contenente ipotesi di limitazione del diritto di circolazione costituenti “un’infinità di casi difficilmente prevedibili”, in contrasto con l’art. 16 della Costituzione. Il concetto di prevedibilità, anche nella sua accezione di “accessibilità” del precetto normativo oltre che di prognosi della sanzione, era già “entrato” nella materia di prevenzione con la pronuncia EDU De Tommaso/ Italia, che aveva affermato il principio generale per il quale l’espressione “prevista dalla legge” esige non solo che la misura contestata abbia qualche base nel diritto interno, ma si riferisce anche alla qualità della legge in questione, esigendo che essa debba essere accessibile alle persone interessate e che i suoi effetti debbano essere prevedibili. Con la sentenza 24/19, la Corte Costituzionale - premesso che la riserva di Legge assoluta e rinforzata, di cui all’art. 13, comma 2 della Carta fondamentale, potesse essere declinata con diverso rigore nella materia non penale - aveva ritenuto ammissibile la funzione di integrazione del precetto normativo, attribuito alla produzione giurisprudenziale di prevenzione. Tuttavia, mentre il principio di legalità formale ha tra i suoi postulati anche quello della irretroattività, si ritiene che le misure di prevenzione possano essere applicate anche a condotte commesse prima della loro previsione legislativa, in analogia la disciplina delle misure di sicurezza. La premessa di tale ragionamento è il collocamento della prevenzione fuori dalla materia penale e sottratta alle sue garanzie. Ma, di recente, le Sezioni Unite della Cassazione (4145/ 23) hanno avuto modo di estendere la portata della prevedibilità anche al “diritto penale materiale”, ossia a quelle norme che, pur non essendo collocate nel diritto sostanziale, concorrano a definire i casi e i modi di irrogazione di una sanzione. E le misure di prevenzione, se pure non vengono ritenute pene, sono sicuramente sanzioni conseguenti alla inosservanza di un precetto che, essendo punitivo, deve essere prevedibile. Non pare corretto, allora, postulare una applicazione frazionata del principio di legalità formale, che si vorrebbe cogente per la tassatività e determinatezza, ma non per la retroattività. Le ragioni di carattere sistematico che confermano tale conclusione (e che si basano sulla latitudine del generale principio di irretroattività di cui all’art. 12 delle Preleggi) sono ora avallate dall’ordinanza “Cavallotti”, che chiede di sapere se le misure di prevenzione patrimoniali siano previste da una legge prevedibile, per come disposto dall’art. 1 del primo protocollo addizionale Cedu. Il richiamo a tale ultima disposizione non potrà né dovrà passare inosservato al governo, al momento di dare le risposte che l’Europa chiede, dato che il protocollo addizionale fissa il principio della riserva di legge anche per le limitazioni al diritto di proprietà. La riserva di legge garantisce la base democratica del corpo istituzionale, cui spetta regolare le limitazioni della libertà; assicura inoltre la conoscibilità generale e preventiva delle regole. Le norme debbono declinare una disciplina chiara, precisa e determinata: se le norme non hanno questi requisiti non possono essere considerata una “legge”. Se questo è vero, non resta che concludere che il sistema della prevenzione non ha, né probabilmente mai potrà avere, le caratteristiche per essere “legge”. *Avvocati penalisti Sicilia. Oltre 2 milioni per i progetti di reinserimento al lavoro dei detenuti palermotoday.it, 20 ottobre 2023 Il programma prevede la collaborazione con gli istituti penitenziari dell’Isola. Possono presentare la domanda per partecipare gli enti locali, oltre che i servizi sanitari territoriali e specialistici, imprese profit, fondazioni e patronati. Saranno duecento le persone, detenute o sottoposte a misure e sanzioni di comunità, coinvolte in un progetto per la realizzazione di percorsi di inclusione sociale o di inserimento lavorativo. L’assessorato regionale della Famiglia e delle politiche sociali ha emanato un avviso rivolto agli enti del terzo settore interessati a partecipare alla partnership per l’attuazione degli interventi e dei servizi. Il progetto, presentato dalla Regione Siciliana che ne è anche capofila, è stato approvato dalla Cassa ammende, ente vigilato dal ministero della Giustizia, e avrà una durata complessiva di 18 mesi. L’importo totale è di 2,6 milioni di euro: due milioni finanziati dalla Cassa delle ammende e 600 mila dalla Regione. “Con questo progetto - dice l’assessore Nuccia Albano - il governo Schifani vuole favorire l’inclusione sociale delle persone detenute o soggette a sanzioni penali, anche attraverso percorsi che ne facilitino l’inserimento lavorativo e l’acquisizione di competenze, per ridurre il rischio di recidiva. La detenzione deve necessariamente avere un fine rieducativo, così come sancito dalla nostra Costituzione. Il carcere non può e non deve essere solo il luogo in cui scontare una pena, ma quello dove realizzare un cambiamento attraverso il lavoro, che dà non solo dignità ma anche motivazioni”. Il progetto prevede la collaborazione degli istituti penitenziari dell’Isola, per il tramite del Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria, del Centro per la giustizia minorile per la Sicilia e degli uffici di esecuzione penale esterna. L’avviso pubblico, predisposto dal dipartimento della Famiglia e delle politiche sociali, è rivolto a enti terzi in grado di supportare la progettazione e la successiva attuazione delle singole attività dell’iniziativa. In particolare, possono presentare la domanda per partecipare al progetto, gli enti locali, i servizi sanitari territoriali e specialistici, la Protezione civile regionale, i consorzi, i patronati, le fondazioni, le imprese profit nella qualità di struttura ospitante nel caso di attivazione di tirocinio. L’avviso e la modulistica sono disponibili sul portale istituzionale della Regione Siciliana a questo indirizzo: https://www.regione.sicilia.it/istituzioni/servizi-informativi/decreti-e-direttive/avviso-pubblico-manifestazione-interesse-associata-partecipare-alla-partnership-progetto-percorsi-inclusione-sociale-eo-inserimento-lavorativo-0 Cuneo. Trasferiti i detenuti che hanno denunciato le violenze nel carcere di Barbara Morra La Stampa, 20 ottobre 2023 Nell’inchiesta per torture, lesioni e abuso di potere in cui sono indagati 23 agenti della polizia penitenziaria in servizio a Cuneo si attende che il giudice per le indagini preliminari fissi la data dell’incidente probatorio. Quest’ultimo è un istituto previsto dal codice che permette di fissare una prova senza dover attendere il dibattimento. È utile quando c’è ragione di temere che la prova, in qualche modo possa, nel tempo, venir meno. La richiesta avanzata dal pubblico ministero Mario Pesucci riguarda l’audizione come testimoni delle persone offese che si ipotizza siano state percosse, minacciate e insultate da alcuni dei poliziotti in servizio al carcere Cerialdo. Si tratta di sette persone, cinque di origini pakistane e due nordafricani, trasferite per precauzione in altri penitenziari. Trattandosi di cittadini stranieri il timore degli inquirenti è che una parte di questi, una volta usciti dal carcere possa decidere di tornare nel proprio Paese d’origine e far perdere le tracce. La speranza di chi fa e coordina le indagini è che l’incidente probatorio venga fissato entro novembre. Le accuse riguardano fatti che sarebbero avvenuti da ottobre 2021 sino alla scorsa estate, in particolare nella notte tra il 20 e 21 giugno nella cella 417 del padiglione “Gesso” dove c’erano quattro pakistani, che sarebbero stati picchiati, e poi in una stanza vicino all’infermeria. I quattro sarebbero successivamente stati messi in isolamento senza una ragione formale, evitando la visita medica. Le indagini sono state condotte dal Nucleo investigativo centrale della polizia penitenziaria, che opera all’interno del dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria. Le perquisizioni di inizio ottobre hanno portato al sequestro dei telefoni cellulari degli indagati, che ora vengono analizzati degli inquirenti. Nei giorni scorsi cinque avvocati che sono tra i difensori dei 23 agenti hanno scritto una lettera a La Stampa ricordando che si tratta soltanto di ipotesi investigative e che i loro assistiti negano ogni addebito. I legali sono critici nei confronti della diffusione della notizia con nomi degli indagati. “Ci chiediamo quale sia l’utilità, sotto il profilo del reale esercizio di cronaca, della pubblicazione dei nomi, che nulla aggiunge e nulla toglie alla comprensione dei fatti oggetto della notizia, già pubblicata nei giorni precedenti con dovizia di particolari - scrivono Alessandro Ferrero, Paolo Dotta, Susanna Battaglia, Luisa Rosso e Leonardo Roberi-. Ciò risulta inutile e fuori luogo anche e soprattutto a fronte delle espressioni di cautela sulla fondatezza dei fatti pronunciate da parte dello stesso procuratore della Repubblica di Cuneo e della circostanza, non secondaria, che gli indagati non sono stati attinti da alcun provvedimento cautelare, né giudiziale né amministrativo, a differenza di quanto avvenuto per casi analoghi verificatisi in altri penitenziari”. Monza. Arriva il no ufficiale al dibattito elettorale dietro le sbarre Il Giorno, 20 ottobre 2023 Il provveditorato regionale lombardo per l’amministrazione penitenziaria ha negato la richiesta di un dibattito tra i candidati alle elezioni suppletive nel carcere di Monza, limitando così i diritti politici e di parola dei detenuti e dei candidati. La richiesta era partita dalla direttrice del carcere. “Apprendiamo con sgomento” che il provveditorato regionale lombardo per l’amministrazione penitenziaria “e quindi il ministro hanno risposto no alla richiesta del dibattito nel carcere di Monza” tra i candidati alle elezioni suppletive. Lo dice Alessandro Giungi, consigliere comunale del Pd a Milano e vicepresidente della sottocommissione carceri di Palazzo Marino. “Tutto ciò senza uno straccio di motivazione, nonostante così si limitino i diritti politici e di parola dei detenuti e degli stessi candidati”. La richiesta era partita, sulla base di un interessamento di diverse forze politiche, dalla direttrice del carcere di Monza, Cosima Buccoliero. A seguito della mancata risposta era nata una catena di scioperi della fame a staffetta. Milano. Far vivere la cultura in carcere e far nascere l’idea del ricominciare di Lisa Ginzburg Avvenire, 20 ottobre 2023 Volto e voce dell’informazione italiana, a lungo corrispondente televisivo dagli Stati Uniti, Paolo Aleotti da quasi dieci anni lavora come volontario nel carcere milanese di Bollate. Conduce assieme a dei detenuti, donne e uomini, un laboratorio dedicato al lavoro televisivo e radiofonico, dal nome “Teleradioreporter”. Nella speranza di restituire sulla pagina la polifonia di voci che contraddistingue il lavoro, Aleotti ha deciso di raccontare la sua esperienza in un libro corale (Che sapore hanno i muri, Casa Sirio, pagine 344, euro 20,00). Vi racconta del proposito iniziale che ha fatto da spinta al lavoro (“fare radio, televisione e informazione sul metodo Bollate. Con le luci, e senza nascondere le ombre”). Anche, racconta che cosa significhi incontrare settimanalmente dei detenuti, ascoltare le loro storie di vita, le loro testimonianze, confessioni, riflessioni. Uomini e donne italiani e stranieri, persone dalle vite segnate per sempre, e che tuttavia, corroborati dalla sensibilità d’ascolto del loro interlocutore d’eccezione, riescono a trovare le parole per dire pieni e vuoti di quelle stesse vite che si svolgono “dentro”. A leggere le tante storie, una volta di più ci si sofferma a pensare quanta forza di resilienza sia necessaria a sopravvivere in carcere, un luogo dove si è autentici, ma sempre nella consapevolezza che per resistere bisogna anche saper indossare una maschera. Risultato è un diario di lavoro, svolto insieme a persone che hanno sì commesso reati, ma le quali con ostinazione si rifiutano di essere additate come “reati che camminano”. Le loro voci possiedono l’umiltà di volere spersonalizzarsi, perdere la singolarità del loro timbro e farsi invece di tutti, rivolte a tutti. Parole mai gridate, ma cariche di una forza che fa sì che oltrepassino muri, sbarre, grate, e raggiungano il mondo “fuori”. Tanto da dare senso rinnovato alla informazione stessa, come quando un detenuto, parlando della trasmissione che va costruendo sotto la guida di Aleotti, dice: “La radio, che di per sé dovrebbe essere soprattutto rumore, diventa invece qualcosa che porta armonia, che porta qualcosa di intelligente. Qualcosa che struttura”. Grazie alla trascrizione dei molti e molto variegati interventi, quei detenuti ci sembra di ascoltarli dal vero. Intanto riflettendo su quale grado di valore, quanto vitale e costruttivo, pertenga a un lavoro culturale denso e densamente condotto dentro alle carceri. Luoghi dove, scrive l’autore del libro, “non si finisce, ma si ricomincia” (e qui la citazione è dal Cardinal Martini: “Dopo la sentenza, comincia un’altra storia”). Storie di rinascita. Che pulsano vita, quella vita che, una detenuta dichiara, “diventa anche più bella perché l’hai pagata cara”. Che la cultura debba trovare strade per farsi intervento, azione, lo sappiamo in astratto, ma è utilissimo realizzarlo nel concreto. Quando la stessa cultura la si riesce a portare lì dove non c’è, il sapere di cui essa è messaggera cambia di segno: diviene condiviso. Anche benefico: “Il concetto dominante nella nostra società è che i detenuti, che hanno fatto del male, devono stare a loro volta male, anzi, devono stare un po’ peggio di noi perché ci hanno fatto del male”, riflette l’autore. Ma ecco, grazie all’attività del laboratorio, il male sovvertirsi in altro, piccole epifanie di positiva costruttività prendere forma. A fronte della soddisfazione personale di costruire un’esperienza del genere, la soddisfazione provata in tanti anni di lavoro come autore radiotelevisivo e corrispondente dall’estero svanisce, impallidisce. Vince la densità delle cose. Infranto l’isolamento della reclusione, nel costruire tutti insieme nuovi format di informazione in carcere ci si coltiva, si impara, si dialoga. Si vive. Modi di fare cultura ancora troppo rari nel nostro Paese, e che dovrebbero moltiplicarsi. Investimenti preziosi, come i risultati che nella durata sanno dare. Padova. Lavoro e carcere, i giovani avvocati di Aiga: “Opportunità da incentivare” padovaoggi.it, 20 ottobre 2023 Il Presidente Nazionale Aiga avv. Francesco Paolo Perchinunno, il sen. Avv. Andrea Ostellari, il direttore della casa di reclusione “Due Palazzi” di Padova dott. Claudio Mazzeo e del dott. Nicola Boscoletto, presidente e fondatore della Cooperativa Sociale Giotto ne hanno discusso in convegno tenutosi presso la sala della Scuola della Carità di via San Francesco. “Lavoro e Carcere: la testimonianza degli operatori, l’impegno di politica e associazioni”: è questo il titolo dell’incontro, tenutosi ieri, giovedì 19 ottobre, presso la bellissima sala della Scuola della Carità di via San Francesco, organizzato dalla sezione padovana dell’Associazione Italiana Giovani Avvocati e che ha visto la partecipazione del Presidente Nazionale AIGA avv. Francesco Paolo Perchinunno, del sen. Avv. Andrea Ostellari, del direttore della casa di reclusione “Due Palazzi” di Padova dott. Claudio Mazzeo e del dott. Nicola Boscoletto, presidente e fondatore della Cooperativa Sociale Giotto. La moderazione dell’incontro è stata delegata all’avv. Jacopo Al Jundi, vicepresidente Aiga Padova. L’avv. Alessia Casotto, presidente Aiga Padova: “Parte da Padova un nuovo stimolo per garantire lavoro e dignità alla popolazione carceraria.In Italia solo il 5% della popolazione carceraria ha un’occupazione lavorativa. La quasi totalità dei detenuti che ha lavorato durante l’esecuzione della pena non commette più reati. Le opportunità lavorative rappresentano dunque il più grande strumento per realizzare la finalità rieducativa della pena garantita dalla Costituzione”. L’evento è stato aperto dalla relazione del sen. Avv. Andrea Ostellari, Sottosegretario al Ministero della Giustizia con delega al sistema carcerario: “È necessaria e fondamentale la collaborazione con il Terzo Settore e agevolare l’ingresso delle imprese nel carcere per ampliare le opportunità lavorative”. Il Presidente nazionale Aiga avv. Francesco Paolo Perchinunno ha infine anticipato l’imminente pubblicazione del Libro Bianco delle Carceri italiane, stampato proprio all’ interno del carcere di Genova, frutto di un’approfondita indagine effettuata grazie all’accesso degli avvocati in numerose carceri italiane. Parma. “Per una giustizia che salva”: incontro martedì 24 ottobre all’Università parmadaily.it, 20 ottobre 2023 Si svolgerà martedì 24 ottobre all’Università di Parma un dibattito sull’importanza della formazione in carcere. Ne parleremo con Vincenza Pellegrino e Veronica Valenti e Barbara Cusi. La nostra Costituzione all’articolo 27 precisa che la funzione della pena è di rieducare il condannato, affidando agli elementi del trattamento definiti dall’ordinamento penitenziario - l’istruzione, il lavoro, la religione, le attività culturali, ricreative, sportive, i contatti con l’esterno ed i rapporti con la famiglia - le basi per la costruzione di un nuovo progetto di vita della persona condannata. Indubbiamente il “motore” del cambiamento, in particolare per quei casi legati alla devianza e alla marginalità, è l’istruzione, indifferentemente intesa come “scolarizzazione” o come formazione professionale, vista soprattutto come scoperta della conoscenza, come superamento di quegli orizzonti sconosciuti o velati da una vita “sbagliata”. La scuola, lo studio in carcere è quindi una opportunità unica per lo sviluppo cognitivo e il recupero sociale di soggetti ormai adulti, ma non per questo da buttar via, perché l’educazione può cambiare radicalmente la persona, così come è dimostrato non solo dalle ricerche empiriche in ambito psico-socio-pedagogico ma anche dalle neuroscienze attraverso gli studi sulla plasticità cerebrale. Nel carcere di Parma è attivo da diversi anni un polo formativo che vede la presenza di più scuole e percorsi che aprono anche all’Università, che in questo caso vede coinvolti non solo i docenti ma anche gli studenti della nostra università. Il Polo Universitario di Parma fa parte della rete dei Poli esistenti in alcuni Atenei italiani, i quali negli anni hanno avviato progetti analoghi per garantire il diritto allo studio universitario a studenti detenuti e oggi sono riuniti in una Conferenza nazionale (la Conferenza Nazionale dei Delegati dei Rettori per i Poli Universitari Penitenziari - Cnupp) istituita presso la Crui. La specificità del Polo Universitario di Parma è quella di accogliere studenti detenuti in regime di alta sicurezza, presentandosi quindi come una sfida particolare nel panorama nazionale. Oltre agli esami, alle sedute di laurea e agli incontri con i docenti, all’interno dell’Istituto Penitenziario si tengono incontri di orientamento e brevi cicli di lezioni in presenza di studenti detenuti e non, sempre nel pieno rispetto delle condizioni che permettano la sorveglianza. Per accompagnare gli studenti-detenuti nel percorso di studio e assisterli nell’espletamento di tutte le attività connesse alla carriera universitaria, è prevista la presenza di tutor, studenti iscritti all’Università alle lauree magistrali o a Corsi di Dottorato. Trieste. Il basket entra nelle carceri: nascerà una “nazionale” dei detenuti di Flavio Vanetti Corriere della Sera, 20 ottobre 2023 Il progetto “The Cagers” voluto fal governo, si svilupperà a Trieste, dove una squadra di detenuti si allenerà per un anno agli ordini di quattro ex cestisti di alto livello. Si chiamerà “The Cagers” - il nome, come vedremo, ci riporta proprio agli albori della pallacanestro - ed è un progetto che ha il sostegno di due Ministeri, quello della Giustizia e quello per lo Sport e i Giovani. Si svilupperà a Trieste, dove una squadra di detenuti si allenerà per un anno agli ordini di quattro ex cestisti di alto livello (due uomini e due donne) che dovranno renderla pronta a scendere sul parquet. I coach che formano questo staff tecnico di alto livello sono Federica Zudetich, Stefano Attruia, Donato Avenia e Francesca Zara. I primi tre si occupano di visionare e arruolare gli aspiranti Cagers, mentre Francesca curerà la preparazione atletica. I quattro hanno già iniziato a girare le carceri italiane alla ricerca di detenuti/giocatori in grado di “fare squadra”, come si dice in gergo. Tutti gli istituti di pena hanno ricevuto una comunicazione per aprire le porte a questo nuovo progetto inclusivo, di alto spessore sociale che sta coprendo l’Italia, da Nord a Sud, passando per le isole. I primi allenamenti si sono svolti nelle carceri di Piazza Armerina, Caltagirone, Enna, San Cataldo, Vibo Valenzia, Augusta, Catania, Napoli, Volterra, Gorgona, Civitavecchia. E si va avanti con nuove tappe in altri istituti di pena. Qual è la missione? Da un lato portare una ventata di libertà, ma dall’altro - ed è la componente educativa del piano - ricordare che il rispetto delle regole è la base della sua esistenza. Il basket sotto questo aspetto è l’ideale per divulgare il messaggio: è infatti lo sport nel quale il “noi”, inteso come coesione del gruppo, deve sempre essere anteposto all’ “io”. Se alla fine prevarrà la voglia di riscatto di fronte a una sconfitta, quando le porte del carcere si riapriranno anche lo sport avrà contribuito al reinserimento sociale di persone a quel punto completamente nuove. Sarà Trieste, dicevamo, la sede scelta per la nuova avventura dei Cagers. E di Trieste è proprio Stefano Attruia, 54 anni, uno dei quattro allenatori. “Una volta ero in visita ai detenuti della casa circondariale - racconta l’ex playmaker che ha militato in 14 squadre, tra queste il Real Madrid, e che vanta pure 3 presenze nella Nazionale A - e ad un certo punto ho sentito una voce che mi chiamava: “Stefano!”. Mi giro e incontro un volto inaspettato con gli occhi di sempre, gli occhi di quando eravamo bambini. Ci siamo tuffati nei ricordi della nostra pallacanestro, le prime partite e i primi ritiri di preparazione in montagna. Il nostro abbraccio muove una sensazione: portare la palla oltre il muro per avvicinare questo contesto alla comunità sociale è una naturale conseguenza. Quello che possiamo fare noi allenatori, dentro e al di là del muro, è metterci al servizio degli altri portando tutto l’amore che abbiamo per questo sport”. Ci saranno altre storie simili, una volta completati gli innesti, che si aggiungeranno a questa. E gli allenatori dovranno anche battere timidezze e scetticismo. Ma una volta costituita, la squadra vivrà un anno senza sconti, con i ritmi tipici di una realtà professionistica: tolta la ruggine alle articolazioni, potenziati i muscoli, imparati gli schemi, dovrà dimostrare di saper stare in campo. Dicevamo all’inizio che questo progetto ci riporta agli albori del basket. Dopo che James Naismith lo aveva inventato (21 dicembre 1891), le prime sfide furono disputate in una gabbia, in inglese cage. I giornalisti parlavano appunto di “the Cage Game”, “il Gioco della Gabbia”, perché lo scopo delle recinzioni era di proteggere gli sportivi dal lancio di oggetti da parte del pubblico, molto più vicino al campo rispetto ad altri sport (volavano bottiglie, monete, sedie…). Ma la gabbia serviva anche a tutelare i tifosi da giocatori più grandi e grossi del normale e pronti a rispondere alle provocazioni. Vabbé, i tempi sono cambiati e nel caso di questa iniziativa la parola cage si riferisce solo allo stato di reclusione dei giocatori. Ma con la prospettiva, come detto, che anche il basket contribuisca alla loro futura libertà. Nuoro. Il Cammino di Bonaria come messa alla prova per i detenuti ansa.it, 20 ottobre 2023 L’esperienza del Cammino di Bonaria entra nel carcere di Badu e Carros, a Nuoro, con i rappresentanti dell’omonima associazione che avanzeranno una proposta: utilizzare il Cammino come strumento di “messa alla prova” per la rinascita sociale di alcuni detenuti laddove la normativa lo consenta. Si parte con i reclusi minorenni, ma successivamente si avanzerà la richiesta anche per i detenuti adulti. Sull’esempio del Cammino di Santiago, l’associazione ha pensato di confrontarsi con i detenuti di Badu ‘e Carros per raccontare e raccontarsi e per proporre il Cammino come occasione di rinascita e ripartenza. Per questo sabato 21 ottobre, alle 9, lungo la Statale 129 all’altezza della rotonda che porta al carcere, si terrà la cerimonia di posa della pietra del Cammino di Bonaria con la scritta Siste Viator (fermati pellegrino per un momento di riflessione). Poco dopo all’interno del carcere, il cappellano don Giampaolo Muresu celebrerà la santa messa cui parteciperanno i detenuti. Seguirà un dibattito con la direttrice del carcere Patrizia Incollu, la garante dei detenuti Giovanna Serra, il sindaco di Nuoro, Andrea Soddu e il presidente dell’associazione Cammino di Bonaria Antonello Menne. “Sull’esempio della realtà veneziana “Lunghi cammini” - spiega Menne - la nostra associazione intende proporre il Cammino per i progetti dei servizi sociali di messa alla prova nel processo minorile, che prevedono la sospensione del processo stesso e l’affidamento del minore a esperienze a forte impatto rieducativo, con l’obiettivo di evitare la sentenza di condanna. Sull’esempio di progetti già realizzati a Santiago, il Cammino di Bonaria vuole dare concretezza a questi percorsi di riabilitazione volti a evitare la detenzione e a proporre una esperienza di rinascita sociale”. L’idea è nata l’estate del 2022 quando un gruppo di pellegrini guidati da Antonello Menne ha percorso l’intero tracciato per verificarne gli aspetti tecnici e nella tappa all’altezza della rotonda che porta al carcere, c’è stata una sosta per un momento di meditazione. Il mondo dilaniato dei bambini di Anna Oliverio Ferraris La Stampa, 20 ottobre 2023 “Quando la violenza diventa una costante nella vita quotidiana la mente dei più piccoli entra in confusione: perché tanto odio”. Le guerre sono un enorme disastro per tutti. Sia dal punto di vista fisico che psicologico. Sappiamo che anche i soldati subiscono traumi psichici sul terreno di guerra i cui effetti possono manifestarsi anche a distanza di tempo, quando si è tornati a casa, come nel film di Clint Eastwood “Gran Torino” in cui un veterano non riesce a controllare la propria aggressività in un ambiente assai diverso dal fronte. Le scene di violenza, gli orrori, le esplosioni, i morti, i feriti riemergono sotto forma di flash back improvvisi e persecutori (sindrome post traumatica da stress) con tutta la loro carica di emozioni, di paura, di angoscia, di ingiustizia, di sensi di colpa che spesso finiscono per sfociare in violenze verso sé stessi o i propri familiari. Se questo succede ai soldati, che pure hanno armi per difendersi, cosa può succedere a dei bambini in zone di guerra che si trovano impotenti al centro di bombardamenti, incendi, esplosioni, cadaveri, sangue, ululati di sirene, sentono gli adulti urlare e li vedono piangere? Che ne restino segnati è inevitabile. A parte le paure in sé che lasciano tracce nella memoria e nel sistema nervoso, a volte per tutta la vita, e che possono riemergere sotto forma di incubi in qualsiasi momento, e a parte anche i danni che può subire il loro sistema immunitario (danni a cui in genere non si presta la necessaria attenzione ma che rendono le persone più fragili e più inclini ad ammalarsi), ciò che più colpisce un bambino è rendersi conto che gli adulti, non solo non sono in grado di proteggere lui, i suoi fratelli, gli amici e i compagni di scuola, ma che hanno completamente perso il controllo delle proprie vite. Esplodono le case, gli ospedali, le scuole ma esplode anche tutto quel sistema di regole che gli adulti insegnano ai bambini, tra cui quelle di non aggredirsi e di fare la pace dopo che si ha litigato. Di fronte alla dissoluzione fisica e psicologica prodotta dalla guerra, la mente di un bambino entra in confusione. Di chi potrà fidarsi? Chi lo proteggerà d’ora in avanti? Chi gli farà da guida in un mondo così ostile? Perché tanto odio? Per un bambino il senso di protezione da parte dell’adulto, in particolare i suoi genitori e familiari, rappresenta la base sicura su cui sviluppare la propria emotività, la propria socialità, la propria vita. Quando lo stato di precarietà e di violenza diventa una costante della vita quotidiana, una possibile evoluzione negativa, con la crescita, è quella di perpetrare le stesse violenze di cui si è stati vittime e a cui si è assistito: una sorta di coazione a ripetere legata non soltanto alla volontà di rivalsa ma anche a un orientamento della personalità in senso ostile. È così che i conflitti tendono a perpetuarsi da una generazione all’altra, per cui ad essere stravolti non sono soltanto gli individui ma tutta la collettività che sprofonda in uno stato di lutto permanente e irrimediabile. “Prima gli italiani”, l’ossessione sovranista che premia la destra di Iuri Maria Prado L’Unità, 20 ottobre 2023 La legge che impone la sanità a pagamento ai neri non è la prima legge razziale: prima ci sono stati i decreti sicurezza di Conte e Salvini, per non parlare delle tutele differenziate per i lavoratori di colore. Non sono una novità, in Italia, le leggi fondate su discriminazione etnico-razziale. E non ci riferiamo a quelle approvate durante il Ventennio, ma a quelle allegramente introdotte ben dentro il periodo repubblicano (naturalmente senza una rubrica esplicita che ne avrebbe denunciato in modo più plateale il carattere discriminatorio). Avevano quella tempra i cosiddetti “Decreti sicurezza”, sia nella versione originaria - mantenuta in purezza, per un annetto, dal governo grillin-progressista - sia nella versione edulcorata che toglieva qui e là qualche virgola al generale impianto che costruiva un diritto speciale per chi - a patto che fosse povero e nero - approdava da noi. Ma già prima avevano il medesimo contenuto di selezione geografico-cromatica le normative apprestate in certi settori, vedi per esempio quello del lavoro domestico, nei quali per puro caso il dimezzamento della tutela sindacale e previdenziale è concomitante con la presenza in stragrande maggioranza di addetti immigrati. Anche i ristori al tempo del Covid erano ragionevolmente negati ai collaboratori domestici rimasti senza lavoro, non ostante si trattasse di una delle categorie inevitabilmente più colpite dalle regole di isolamento e profilattico-sanitarie e ancora una volta, guarda caso, nel ricorso della statistica che registra appunto in quel comparto una prevalenza degli stranieri. E fa riflettere, questa situazione, alla luce della retorica che vorrebbe rimesso in sesto il Paese tramite il ripristino (ma quando c’è mai stata?) della cultura “meritocratica” e la riaffermazione di politiche (ma quando mai ci sono state?) che tornino una buona volta a premiare il merito individuale. Qui una graduatoria di merito c’è, con gli immigrati che non meritano trattamento uguale perché hanno il demerito di essere immigrati, e con gli italiani che stanno sopra (prima, anzi: “prima gli italiani”) perché hanno il merito dell’italianità. L’ugualitarismo costituzionale, secondo cui la Repubblica ha il dovere di rimuovere gli ostacoli “di ordine economico e sociale” che impediscono il pieno sviluppo della persona umana, in ottica liberale è piuttosto discutibile: ma occorre riconoscere che qui si assiste a qualcosa di peggio rispetto alla povertà e al basso rango quali ostacoli alle ambizioni di vita e di benessere delle persone. Qui, più gravemente, l’ostacolo è la razza e la provenienza geografica, vale a dire condizioni ben più intime e irrevocabili rispetto alla pura scarsità di mezzi e all’appartenenza alla fascia meno privilegiata della società. Poi si può far finta che non sia così, si può ricoprire il profilo discriminatorio di queste normative con il velo di assoluzione adibito a manifesto delle esigenze di sicurezza, dell’eccezionalità del momento, delle priorità di cui tenere conto quando la coperta del bilancio pubblico è troppo corta: ma una sicurezza garantita dalla segregazione non ha mai portato nulla di buono, le follie normative in nome dell’emergenza dovremmo conoscerle e, soprattutto, in un sistema civile non dovrebbe avere posto una politica che, per tutelare i diritti di alcuni, li toglie agli altri in una specie di redistribuzione per titoli epidermici. In Italia 1,6 milioni di migranti vivono in povertà assoluta di Angela Stella L’Unità, 20 ottobre 2023 Il rapporto Caritas-Migrantes: su 5 milioni di residenti (il 9% degli italiani) un terzo non ha da mangiare: essere neri è garanzia di indigenza. Mentre ieri alla Camera era in corso l’informativa urgente del Governo in ordine “all’eccezionale incremento del fenomeno migratorio, con particolare riguardo alla situazione presso l’isola di Lampedusa” l’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza Carla Garlatti, ascoltata sempre in mattinata in audizione, ha ribadito alla Commissione affari istituzionali della Camera le raccomandazioni sui diritti dei minori stranieri non accompagnati. Quel che assolutamente non deve accadere è che i minori vengano ospitati, seppure temporaneamente, nelle stesse strutture degli adulti. A questo principio generale non si può derogare neanche in caso di emergenza, soprattutto se i criteri per individuarla non sono chiari. “La promiscuità - ha detto la Garante - tra minori e adulti è molto pericolosa: mettere questi ragazzi assieme ai maggiorenni porta i minorenni ad acquisire informazioni e un modus operandi che non è adatto a loro. I minori sono persone in formazione e devono avere dei centri educativi che siano dedicati esclusivamente a loro”. L’Autorità garante ha sconsigliato infine di ricorrere a forme accelerate di verifica dell’età, che non facciano ricorso al metodo multidisciplinare utilizzato fino a oggi, che affianca agli accertamenti sanitari anche quelli psicologici e sociologici. “Consentire che in fasi emergenziali - la cui sussistenza di fatto è rimessa alla discrezionalità degli operatori di polizia - si possa derogare a questa procedura potrebbe comportare un’incertezza sulla determinazione della maggiore o minore età, anche in considerazione del fatto che i margini di errore sono dell’ordine dei due anni di età. Inoltre si rischia di esporre il minorenne al grave pregiudizio della convivenza con adulti se non a quello dell’espulsione, quando è invece vietato il respingimento delle persone di minore età”, ha concluso Garlatti. Nelle stesse ore veniva diffuso il XXXII Rapporto Immigrazione 2023 Caritas-Migrantes, al titolo “Liberi di scegliere se migrare o restare”. È emerso il fatto che “In Italia, secondo l’Istat, vivono in uno stato di povertà assoluta un milione e 600 mila stranieri residenti, per un totale di oltre 614 mila nuclei familiari. Le famiglie immigrate in povertà costituiscono circa un terzo delle famiglie povere presenti in Italia, pur rappresentando solo il 9% di quelle residenti. La percentuale di chi non ha accesso a un livello di vita dignitoso risulta essere tra gli stranieri cinque volte superiore di quella registrata tra i nuclei di italiani”. “Tale svantaggio - si legge nel Rapporto - rafforzatosi a partire dal 2008 (anno della grave crisi economico-finanziaria), ha oggi raggiunto livelli ancora più preoccupanti e strutturali a seguito della pandemia da Covid19. Da un anno all’altro peggiora in modo preoccupante la condizione dei disoccupati: tra loro risulta povera quasi una persona su due; solo un anno fa toccava circa una persona su quattro”. “Accanto poi alle fragilità - si legge ancora -, in qualche modo prevedibili, di chi è senza un impiego, si aggiungono quelle di chi un lavoro lo possiede: il fenomeno della in-work poverty, ormai noto nel nostro Paese, ha registrato una forte recrudescenza negli ultimi anni, tra stranieri e non. Secondo le ultime stime Istat, il 7% degli occupati in Italia vive in una condizione di povertà assoluta, percentuale che sale al 13,3% tra i lavoratori meno qualificati, come gli operai o assimilati; e se a svolgere tali occupazioni sono persone di cittadinanza straniera il dato schizza al 31,1% (tra gli italiani è al 7,9%)”. “Un ultimo elemento di criticità - aggiunge il Dossier - è infine quello legato ai minori: si contano 1 milione 400 mila bambini poveri e un indigente su quattro è un minore. Se si considerano le famiglie di stranieri con minorenni i dati appaiono davvero drammatici: tra loro l’incidenza della povertà raggiunge il 36,2%, più di 4 volte la media delle famiglie italiane con minori (8,3%). L’analisi dei bisogni complessivi, raccolti da volontari e operatori (nel 2022 le persone straniere incontrate nei soli Centri di Ascolto e servizi informatizzati Caritas sono state 145.292, su un totale di 255.957 individui), conferma per il 2022 una prevalenza delle difficoltà di ordine materiale, in linea con gli anni precedenti”. Dai Cpr si rimpatriano quasi solo migranti tunisini di Lidia Ginestra Giuffrida Il Manifesto, 20 ottobre 2023 Lo studio di ActionAid e dipartimento di Scienze politiche dell’università di Bari. Una radiografia del sistema detentivo per stranieri. “Gli unici ad avere una significativa probabilità di essere rimpatriati sono gli uomini di nazionalità tunisina, che nel periodo 2018-2021 rappresentano il 50% degli uomini in ingresso in un Cpr e quasi il 70% dei rimpatri effettivamente eseguiti. Le altre nazionalità hanno probabilità maggiori di rimanere in detenzione fino a decorrenza dei termini di trattenimento a causa della scarsa probabilità di essere rimpatriati o rilasciati per provvedimento dell’autorità giudiziaria”, si legge nel rapporto Trattenuti. Una radiografia del sistema detentivo per stranieri. Lo studio sui Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr) italiani è stato pubblicato martedì da Actionaid, in collaborazione con il dipartimento di Scienze politiche dell’università di Bari, ed esamina i dati su queste strutture detentive nel periodo che va dal 2014 al 2021. L’analisi mostra come i Cpr si siano progressivamente trasformati in uno strumento per l’esecuzione dei rimpatri accelerati dei cittadini di nazionalità tunisina. Questo, oltre a sollevare diversi interrogativi circa l’effettività dell’accesso al diritto d’asilo e la qualità della tutela giurisdizionale, mette in dubbio il rapporto tra tempi di permanenza nei Cpr, efficacia dei rimpatri e quantità di persone effettivamente riportate nel paese d’origine (dato che i tunisini rappresentano solo l’8% delle persone sbarcate in Italia nel 2023). “L’investimento nei Cpr non ha portato ai risultati annunciati, al contrario la percentuale di persone rimpatriate rispetto al numero degli ingressi è in chiara decrescita: dal 55,1% del periodo 2014-2017 si passa al 48,3% nel 2018-2021. A ciò deve aggiungersi che il calo nella percentuale dei rimpatri eseguiti si registra in un periodo in cui aumentano i tempi di permanenza medi. Ciò dimostra che all’aumentare dei tempi di detenzione non corrisponde una maggiore probabilità di rimpatriare”, si legge ancora nel rapporto. Alla luce dello studio è quindi di dubbia efficacia il decreto Immigrazione di settembre scorso che aumenta la permanenza massima nei Cpr da 3 a 18 mesi. Inoltre sembra esistere una correlazione diretta tra il prolungamento dei tempi di trattenimento e la crescita delle spese per il mantenimento delle strutture detentive. Secondo ActionAid “nel 2018 a 27 giorni di permanenza media in un Cpr corrispondono 1,2 milioni di euro per costi di manutenzione straordinaria; nel 2020, a fronte di 41 giorni di permanenza media i costi erano balzati a 4,1 milioni”. Costi che si sommano a quelli medi di ciascuna struttura: un milione e mezzo l’anno, circa 21 mila euro a posto. Un altro elemento interessante che emerge nel rapporto è quello relativo all’analisi dei dati dei singoli Cpr, dai quali si può trarre una diversificazione di fondo nel sistema detentivo per stranieri: “da un lato i centri di frontiera che a tempi di permanenza più corti della media associano un’elevata incidenza dei rimpatri eseguiti (Caltanissetta, Trapani). Dall’altro i Cpr che funzionano come propaggini del carcere, caratterizzate da tempi di permanenza piuttosto lunghi e bassa incidenza di rimpatri (Torino e Brindisi)”. La specializzazione delle strutture sembra corrispondere a un disegno di progressiva ibridazione del sistema detentivo con quello di prima accoglienza per richiedenti asilo destinato alla gestione delle procedure d’asilo accelerate e di rimpatrio dalle “zone di frontiera” (in questo senso il nuovo centro di Modica, con una parte hotspot e una destinata al trattenimento, potrebbe rappresentare un prototipo). Il che rischia di portare a una moltiplicazione di strutture detentive non censite, situate in luoghi non idonei e non sulle frontiere geografiche, all’interno di aree militarizzate lontane dagli occhi della società civile. “Il pericolo - conclude il rapporto - è quello di una ulteriore riduzione della trasparenza e dell’accessibilità di luoghi dove, è bene ricordarlo, le persone vengono private della libertà personale senza aver violato la legge penale”. Migranti. Trattenimenti a Lampedusa, tre condanne Cedu contro l’Italia di Giansandro Merli Il Manifesto, 20 ottobre 2023 I casi risalgono al periodo 2017-2019. Le azioni legali firmate dalle avvocate dell’Asgi. La Corte europea dei diritti umani (Cedu) ha condannato l’Italia per il trattenimento e le condizioni di vita nell’hotspot di Lampedusa affrontate da tre cittadini tunisini finiti nella struttura tra il 2017 e il 2019. Le sentenze sono arrivate ieri, proprio mentre il presidente della Repubblica Sergio Mattarella riceveva al Quirinale la presidente della Cedu Síofra O’Leary, e riguardano tre procedimenti distinti firmati dalle avvocate Lucia Gennari, Loredana Leo e Anna Maria Brambilla. Le legali fanno parte dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi). I giudici di Strasburgo hanno ritenuto che le persone sono state sottoposte a “trattamenti inumani e degradanti” e sono state “private della libertà personale in modo arbitrario”, in violazione degli articoli 3 e 5 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. A ognuno l’Italia dovrà versare 5mila euro per danni non pecuniari e 4mila per le spese legali. Le decisioni seguono l’analoga sentenza di marzo scorso in cui la Corte, facendo lo stesso ragionamento giuridico, si era espressa a favore di altri quattro cittadini tunisini trattenuti nell’hotspot dell’isola tra il 15 e il 26 ottobre 2017. Il governo aveva tre mesi per presentare appello, ma ha rinunciato: il 30 giugno il pronunciamento è dunque diventato definitivo. Nei casi trattati più recentemente il trattenimento era durato molto di più: da 17 giorni a quattro mesi. Un ragazzo, infatti, è stato rinchiuso nel centro tra il 15 gennaio e il 20 marzo 2018 (anche se dodici giorni prima un incendio avesse danneggiato la struttura). Trasferito a Torino è stato addirittura riportato “nell’hotspot di Lampedusa e ci è rimasto per più di due mesi”. “La decisione di presentare una serie di ricorsi, in totale una decina, veniva dal fatto che il trattenimento prolungato nella struttura di Lampedusa continuava a ripetersi uguale nonostante si trattasse di una forma di detenzione informale e le condizioni all’interno del centro, spesso sovraffollato, fossero pessime”, spiega l’avvocata Gennari. “Ad alcuni gruppi nazionali, come i tunisini, non venivano poi fornite informazioni adeguate, né l’effettiva possibilità di accedere alla procedura d’asilo. A meno che non intervenissero dei legali. Verso Tunisi abbiamo documentato negli anni molti rimpatri in violazione delle garanzie dei richiedenti. Non si trattava di eventi occasionali, ma di una gestione strutturale del fenomeno che non rispettava i diritti fondamentali”. Rispetto al periodo 2017-2019 nell’hotspot di Contrada Imbriacola ci sono stati dei cambiamenti. Quest’anno la gestione è passata alla Croce rossa italiana e la capienza è stata portata da 400 a 640 posti. L’aumento degli sbarchi, che hanno toccato quota 140mila, e l’assenza di un dispositivo istituzionale di ricerca e soccorso, oltre ai tanti ostacoli burocratici alle attività delle Ong, hanno moltiplicato gli arrivi sulla piccola isola. Solo “dal primo giugno al 30 settembre abbiamo trasferito 64.051 persone”, ha detto martedì in un’informativa alla Camera il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi. Dopo l’indizione dello stato emergenza il 24 aprile scorso e la prima sentenza Cedu del 30 marzo il governo ha messo a punto un “dispositivo ibrido” per accelerare lo svuotamento della struttura di Contrada Imbriacola. Ne fanno parte navi militari, traghetti civili e voli dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim). Questo non ha impedito il tilt in cui è finita l’intera isola con gli oltre 11mila sbarchi in circa una settimana che si sono avuti a metà settembre. A ottobre, invece, il numero degli arrivi via mare si è fortemente ridotto. Ieri, dopo tanto tempo, l’hotspot era quasi vuoto: al suo interno soltanto sei persone. Lampedusa: “Hotspot disumano”: l’Italia condannata sui diritti dei migranti di Francesco Grignetti La Stampa, 20 ottobre 2023 La Corte europea sul ricorso di tre profughi trattenuti nel centro siciliano. Ennesima condanna per l’Italia da parte della Corte europea per i diritti dell’Uomo, con sede a Strasburgo: a Lampedusa si violano i diritti umani. Un migrante tunisino ha fatto ricorso perché in due occasioni, nell’ottobre 2017 e nel marzo 2018, ha tentato di entrare in Italia con i barconi. La prima volta lo tennero chiuso nel centro di Lampedusa per ventidue giorni, dal 30 ottobre al 20 novembre 2017; la volta seguente per diciassette giorni, dal 10 al 27 marzo 2018. Lo rispedirono entrambe le volte in Tunisia. E ora il migrante ha ottenuto una sentenza a suo favore da parte della Corte di Strasburgo perché i giudici hanno riconosciuto che nel primo episodio ebbe informazioni troppo generiche sul suo diritto all’asilo politico, e che sempre le condizioni di detenzione erano state miserrime (oltretutto aggravate da un incendio che aveva da poco semidistrutto il centro), era stato costretto a dormire all’addiaccio e usare bagni di fortuna. Questi sono “trattamenti inumani”, secondo la Corte di Strasburgo. Ed è già molto grave. Ma fin qui potrebbe essere un caso singolo. Il cuore del ragionamento giuridico, però, colpisce al cuore uno dei pilastri della politica del Viminale e in particolare quanto prevede il decreto Cutro, quello che è stato considerato “illegittimo” e “contrastante con la giurisprudenza europea” da parte della giudice Iolanda Apostolico. Ebbene, la Cedu condanna l’Italia a pagare 5000 euro di danni al migrante tunisino perché “arbitrariamente privato della libertà” e perché trattenuto nell’hotspot “senza una base giuridica chiara e accessibile e in assenza di un provvedimento motivato che ne disponesse la detenzione”. Migranti. Nel miracolo Riace anche la sanità funzionava: un modello di cittadinanza di Roberto Saviano Corriere della Sera, 20 ottobre 2023 La scelta non è tra accogliere e non accogliere. L’unica scelta che abbiamo è tra accogliere bene ed accogliere male. E Mimmo Lucano ci ha mostrato il modo per accogliere bene. I fatti giudiziari sono questi, Mimmo Lucano, al tempo sindaco di Riace, è stato accusato dalla Procura di Locri di associazione a delinquere, peculato e truffa per la gestione del modello Riace. Ma ora sono caduti, uno dopo l’altro, tutti i capi d’imputazione, tanto che dai 13 anni e due mesi si è giunti a una condanna di un anno e sei mesi. La sproporzione è sotto gli occhi di tutti. Resta questo capo di imputazione: aver firmato la determina, propedeutica alla liquidazione in favore dei richiedenti protezione internazionale, dei fondi relativi al semestre luglio-dicembre 2016, attestando falsamente di aver proceduto a effettuare i controlli. Quindi è chiaro a tutti che l’assunto iniziale dell’accusa, che ipotizzava una finalità di arricchimento personale da parte di Mimmo Lucano, non ha e non aveva motivo di esistere. Non ha e non aveva motivo di esistere l’accanimento mediatico che ha, attraverso la demolizione dell’uomo Mimmo Lucano, cancellato ogni possibilità in Italia di continuare il suo esperimento visionario, la sua idea di ripopolamento di un Sud desertificato dall’emigrazione. E farlo praticando solidarietà. Mimmo Lucano in questa foto è con un bambino, nella sua Riace. L’ho scelta perché fanno insieme il segno di vittoria. V per vittoria. Non V per vendetta. Vendetta mai, perché non c’è tempo; adesso è il tempo di ricostruire tutto, di riprovare a mettere in piedi un sistema considerato all’estero e premiato come eccellenza. Il modello Riace ci ha insegnato che l’accoglienza fa bene non solo a chi è accolto ma anche a chi accoglie. Ha rappresentato per anni un’alternativa concreta ai casermoni, alle palestre, agli hotel affittati in cui disperati vengono stipati. Riace ha dimostrato che è possibile accogliere dove gli emigranti hanno lasciato terra abbandonata. Riace è stata la prova provata che accogliere può significare rinascita sociale, economica e anche politica. Nella Calabria della disoccupazione al 20%, con il modello Riace sono state create due cooperative per la differenziata, un asilo nido, i progetti d’accoglienza, il turismo solidale e molto altro. Quando il modello Riace accoglieva “a pieno regime”, in paese lavoravano circa 100 persone, almeno 80 riacesi di nascita: praticamente l’impatto occupazionale della Fiat, in un paese di circa 1.700 abitanti. Nella Riace di Lucano non si pagava l’Irpef comunale e nemmeno l’occupazione del suolo pubblico per le attività commerciali. Lo scuolabus nelle contrade era gratis. La carta d’identità non si pagava (di questo Lucano è stato accusato per danno erariale). Nella Calabria del disastro sanitario, il modello Riace ha portato fin lì un ambulatorio medico al servizio non solo dei beneficiari dei progetti ma di tutto l’hinterland scoperto da qualunque servizio pubblico sanitario. Per tutto questo il modello Riace non lo definirei un modello per migranti; è assai più calzante parlare di “modello di cittadinanza” e non solo quindi di accoglienza. Un modello efficace con cui lo Stato risparmia. Risparmia quando non si pagano affitti esorbitanti per megastrutture in cui depositare persone, come ville e hotel. Risparmia quando non si ricorre alle banche pagando gli interessi per i ritardi ministeriali. Non solo, i “bonus” adottati a Riace per sopperire ai ritardi del ministero, venivano consegnati direttamente ai beneficiari che erano così liberi di fare la spesa loro stessi sul territorio, eliminando l’orribile meccanismo di dipendenza delle buste della spesa che abitualmente gli operatori consegnano ai rifugiati. I famosi 35 euro al giorno (quelli su cui la destra ha costruito tanta propaganda) a Riace non venivano usati in modo assistenziale e parassitario, ma investiti per creare posti di lavoro, istituire borse di lavoro. E questo ha portato una ricaduta sul territorio. Verrebbe da dire, assecondando un luogo comune che vede il Sud sempre ultimo e sempre inefficiente, che se tutto questo è stato possibile a Riace, nell’entroterra calabrese, è possibile ovunque. Questo rendeva il miracolo di Riace così potentemente simbolico, perché riproducibile in moltissime realtà mediterranee. E aver dimostrato che tutto questo è stato ed è possibile ci rende tutti debitori verso Mimmo Lucano, che ci ha regalato un sogno. L’Europa ritorna fortezza per paura del terrorismo di Paolo Delgado Il Dubbio, 20 ottobre 2023 Ben 9 Paesi, tra cui Italia, Germania e Francia, hanno deciso di sospendere il Trattato di Schengen. La decisione di 9 Paesi europei, tra cui Italia, Germania e Francia, di sospendere il Trattato di Schengen non ha fatto notizia più che tanto e lo si può capire. Era già successo 387 volte: se non proprio la norma almeno uno sgarro consueto. Eppure questo caso è diverso dalle centinaia precedenti. Prima di tutto per il numero di Paesi che hanno scelto di ripristinare le dogane soprattutto sui confini est, nel caso italiano quello con la Slovenia. Sulla carta non tutta l’Europa si è blindata ma di fatto quasi sì. Paesi come la Spagna, confinante solo con Portogallo e Francia, non avevano infatti alcuna necessità di ripristinare i controlli sulla cosiddetta “rotta balcanica”. In secondo luogo e soprattutto per gli espliciti connotati che la sospensione della libera circolazione assume in base alle giustificazioni ufficiali che ne sono state date e che chiamano apertamente in causa l’immigrazione. Due articoli diversi regolano la sospensione di Schengen a norma di regole europee. L’art. 25 prevede la comunicazione alla Ue con largo anticipo e riguarda pertanto eventi previsti. L’art 28 formalizza la procedura d’urgenza, con comunicazione motivata a stretto giro, e ne detta le regole. Si parte con una sospensione di 10 giorni, che scatterà oggi, prorogabile poi per periodi di 20 giorni fino a un massimo di due mesi, passati i quali si passa alla procedura ordinaria con un periodo non più prorogabile di 6 mesi. Se e per quanto l’Italia e gli altri Paesi europei decideranno di mantenere le dogane dipenderà dalla situazione in Medio Oriente ma è difficile illudersi che tra 10 giorni sia tornato il sereno. L’allarme sicurezza è reale. Non si tratta solo di un alibi. È un allarme che in Italia viene avvertito meno che altrove: basti pensare che la reggia di Versailles è già stata chiusa tre volte, e che in Francia e Belgio numerosi aeroporti sono stati chiusi due giorni fa. In quei Paesi l’attentato di Bruxelles ha riacceso immediatamente la memoria recente delle stragi dell’Isis. L’Italia è stata uno dei pochissimi Paesi europei non presi di mira, e l’unico tra quelli principali. Merito probabilmente dell’antico rapporto privilegiato con il mondo arabo e con le organizzazioni palestinesi che i governi Dc- Psi avevano costruito nella prima Repubblica, ma si tratta degli ultimi bagliori provenienti da una stella morta, la situazione di oggi non è più quella di allora, e comunque neppure quello scudo metteva al sicuro dai lupi solitari o dalle frange più estreme neppure negli anni della Prima Repubblica. La paura è reale. L’allarme non infondato. Tuttavia anche la tentazione di sfruttare la circostanza per rilanciare o rafforzare la strategia della Fortezza Europa è palese, tanto più dopo la notizia dello sbarco a Lampedusa del terrorista di Bruxelles. Nella lettera con la quale il governo italiano ha comunicato all’Europa la scelta di chiudere il confine con la Slovenia si parla esplicitamente di immigrazione. Il Viminale ha diffuso i dati dei soggetti a rischio entrati da quel confine. Da Chigi ammettono che, in linea di principio, non si può escludere che in futuro la scelta si ripeta a più riprese: sempre in nome della sicurezza ma di fatto prendendo di mira tutta l’immigrazione illegale. Per la premier è un appiglio utile, forse prezioso. La sua strategia sull’immigrazione sta franando. Il Piano Mattei è una chimera, l’accordo con la Tunisa non si è mai concretizzato né da una parte né dall’altra. Sulla carta, è vero, tutti accettano l’impostazione italiana, con lo slittamento dalla gestione dell’accoglienza al chiudere il confine esterno sul Mediterraneo. Ma sono parole perché chiudere quel confine senza scelte estreme che l’Europa non ha alcuna intenzione di assumere è impossibile. Musica per le orecchie di Salvini che concorda con l’alleata sulla Fortezza, molto meno sull’aspettare il resto dell’Europa. Ma se entrasse davvero in ballo la sicurezza, e non in modo effimero ed emergenziale, il discorso cambierebbe perché di fronte alla sicurezza molte delle inconfessate ma strenue resistenze europee alla strategia della premier italiana verrebbero a cadere. “Il diritto internazionale è strumento di giustizia anche per i palestinesi” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 20 ottobre 2023 Intervista a Giuseppe Paccione, esperto di diritto internazionale. Wesam Ahmad, opinionista di Al Jazeera, in merito al conflitto tra Israele e Hamas ha paragonato il diritto internazionale ad uno strumento per imporre la volontà dell’Occidente. Una forzatura che rischia di alimentare le contrapposizioni e di far avvitare la discussione su quanto sta accadendo in Medio Oriente, senza alcuna via d’uscita. Ne abbiamo parlato con Giuseppe Paccione, esperto di diritto internazionale e professore a contratto di Operazioni di pace e intervento umanitario nell’Unicusano. Professor Paccione, cosa pensa delle affermazioni di Ahmad? Non condivido l’opinione di Wesam Ahmad, secondo il quale “dietro il diritto internazionale c’è la volontà dell’Occidente” e che, pertanto, è considerato solo una mera maschera. Ricordo che ciascuna societas possiede una gamma di regole che servono per disciplinare le relazioni fra individui che ne fanno parte. Persino Aristotele, nella sua opera sulla Politica, volle decifrare che l’uomo è per indole destinato a vivere nella comunità umana, costituita per il raggiungimento di un qualche bene. Non è da meno San Tommaso D’Aquino che nella sua famosa opera Summa Theologiae asserisce che il “diritto non è altro che un ordinamento di ragione mirato al bene comune”. In ultimo, come non ricordare che ubi societas, ibi ius, nel senso che il diritto prima di essere norma è un’organizzazione. Ergo, il diritto internazionale non solo può essere considerato il diritto comune dell’intera famiglia umana, ma anche l’ordinamento giuridico della società internazionale caratterizzato da norme giuridiche che sono meccanismi utili per regolare la convivenza della comunità internazionale con la responsabile autorità di governo di ogni Stato. L’opinionista di Al Jazeera si sofferma su un altro fronte che sta incendiando il mondo, quello ucraino. Paragonare la situazione in Ucraina alla crisi israelo-palestinese è appropriato? Per quanto riguarda il paragone fatto da Wesam sul fatto che il diritto internazionale sia stato utilizzato a favore dell’Ucraina e non anche sulla crisi mediorientale, non sono affatto d’accordo. Nella crisi russo-ucraina la Russia è passata dalla minaccia ad aggredire, manu militari, l’Ucraina, violando il diritto internazionale e la Carta delle Nazioni Unite, che obbliga gli Stati ad astenersi dalla minaccia o dall’uso della forza contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato. Su questo punto l’intera comunità internazionale, compresa la Cina, che ha ottimi rapporti con la Russia, ha spesso invitato Putin al rispetto del diritto internazionale. Nel caso della crisi in Medio Oriente, Israele non sta combattendo contro il popolo palestinese, ma contro Hamas, movimento islamico di resistenza, considerato dalla comunità internazionale un attore non statale di matrice terroristica. Il braccio di ferro è tra Hamas e Israele. La popolazione palestinese, succube purtroppo di questo gruppo terroristico, non c’entra nulla. Circa l’occupazione di Israele va precisato che è vero che la Striscia di Gaza, parte integrante del territorio palestinese, è sotto occupazione, ma va pure detto che dal 2005 l’esercito israeliano si è ritirato. Il rischio in questo momento è che il diritto internazionale venga strattonato da una parte e dall’altra per criticare aspramente qualcuno o, peggio, rivolgere delle accuse? Temo di sì. Quando qualcuno considera il diritto internazionale a favore dell’uno e a danno dell’altro, la reputo una cosa davvero inaccettabile. Il diritto internazionale ha considerato l’azione deplorevole di Hamas come atto illegittimo contro Israele. È stato rotto il blocco terrestre della Striscia di Gaza, sono stati massacrati civili inermi, c’è stato il lancio indiscriminato di razzi verso il territorio israeliano, sono stati presi degli ostaggi. Tutte azioni vietate dal diritto internazionale, cioè dal I Protocollo addizionale delle quattro Convenzioni di Ginevra. Queste violazioni danno luogo alla responsabilità di Hamas. I suoi componenti sono responsabili per crimini di guerra e contro l’umanità. Quindi, il diritto internazionale non ammette o legittima quanto è stato compiuto da questa organizzazione di matrice terroristica avverso i cittadini dello Stato d’Israele. In questo contesto non vanno escluse neppure responsabilità della parte israeliana? Il diritto internazionale non fa sconti a Israele che ha violato le norme del diritto d’umanità, quando, dopo l’aggressione violenta di Hamas, decideva l’assedio completo della Striscia di Gaza mediante la politica di bloccare l’entrata di derrate alimentari, cioè portare alla fame dei civili, come metodo di guerra che viene inibito, guarda caso, proprio dal famoso diritto internazionale umanitario. È infatti vietato attaccare beni indispensabili alla sopravvivenza della popolazione civile, come cibo e acqua. Nello Statuto della Corte penale internazionale viene fatto rientrare nella sfera dei crimini di guerra anche affamare intenzionalmente, come metodo bellico, i civili, privandoli dei beni indispensabili alla loro sopravvivenza, compreso il fatto di impedire volontariamente l’invio dei soccorsi previsti dalle Convenzioni di Ginevra. Vi è poi un altro aspetto a mio avviso rilevante. A cosa si riferisce? Israele non può sottoporre l’intero popolo della Striscia di Gaza alla punizione collettiva per un atto commesso solo dal gruppo terroristico di Hamas, come viene sancito nei Regolamenti dell’Aja del 1907 e della IV Convenzione di Ginevra del 1949. Ciò vale anche per le perdite di vite umane e per le strutture civili colpite dai massicci bombardamenti delle autorità israeliane. Tel Aviv deve attenersi ai criteri di precauzione, distinzione e proporzionalità in ogni operazione di tipo militare nella Striscia di Gaza, la cui violazione può portare ad accollarsi la responsabilità individuale per crimini di guerra. Si può infine riscontrare che il diritto internazionale non è lo strumento con due pesi e due misure, ma costituisce la garanzia per evitare che future generazioni finiscano nel flagello di un nuovo conflitto mondiale