Gli anni passano anche dietro le sbarre di Valerio Urru spazio50.org, 1 ottobre 2023 Non solo sovraffollate, ora anche tra le più anziane in Europa. Nelle carceri italiane cresce la popolazione di età pari o superiore ai 50 anni. Secondo l’ultimo rapporto Space del Consiglio UE rappresentano il 28% dei detenuti, la percentuale più alta. È un primato al “negativo” che non ha nulla a che vedere con quello guadagnato della longevità. L’età media della popolazione carceraria italiana sale, ma è un frutto avvelenato, una distorsione figlia dei tempi in cui viviamo e di una disfunzione che attraverserebbe il rapporto tra sistema carcerario e applicazione della giustizia. È cresciuta nel corso degli anni e, al 31 gennaio del 2022, secondo i dati dell’ultimo Rapporto Space - Statistiques Pénales Annuelles du Conseil de l’Europe ovvero le Statistiche Penali Annuali del Consiglio d’Europa pubblicate a giugno - risulta essere tra le più alte del resto dell’Unione: 42 anni. Peggio di noi fa solo la Georgia con 44 anni, mentre siamo tallonati da Portogallo con 41 e da Estonia e Spagna, ex aequo con 40. Nonostante il nostro tasso di popolazione carceraria non risulti tra i più elevati (abbiamo circa 90 detenuti ogni 100mila abitanti, abbastanza distanti dall’attuale media europea tra 104 e 117), un altro dato colpisce da subito: abbiamo la percentuale più alta (28%) di detenuti con un’età pari o superiore ai 50 anni. Ci seguono Comunità Autonoma di Spagna (25%), Portogallo e Norvegia (entrambi al 24%). Così come il tasso di detenuti con o più di 65 anni resta elevato (4,7%), sebbene più basso rispetto a Macedonia del Nord (8,3%), Repubblica Serba di Bosnia-Erzegovina (6,6%) e Bulgaria (5,6%). In carcere si invecchia sempre di più - Secondo i dati del Rapporto Space, in media il 16,5% circa dei detenuti in Europa ha 50 anni o più e il 3% ne ha 65 o più. Il maggiore invecchiamento nelle nostre carceri è quindi evidente. Un’evidenza, a detta dello stesso Consiglio d’Europa, dovuta a due fattori: la struttura generale della nostra popolazione carceraria; il fatto che molti detenuti di età pari o superiore ai 65 anni appartengano a specifiche categorie di delinquenti, come ex boss mafiosi condannati all’ergastolo. I dati elaborati di recente dall’Osservatorio sulle condizioni di detenzione di Antigone, associazione nata alla fine degli Anni ‘80 per i diritti e le garanzie nel sistema penale, confermano il “passare degli anni” per chi è in carcere. Secondo il XIX Rapporto sulle condizioni di detenzione, infatti, l’età media dei reclusi è salita: a fine 2022 gli over 50 erano il 29%, ma solo dieci anni prima, a fine 2011, erano il 17%. Nello stesso periodo gli over 70 sono passati da 571 (1%) a 1.117 (2%), raddoppiando. Questa situazione rischia di diventare l’incubatore di nuovi problemi. Una popolazione detenuta più anziana da una parte espone ad una più complessa domanda di salute, dall’altra ad isolamento sociale, a maggiori difficoltà di reinserimento, in particolare nel mercato del lavoro. L’attesa di giudizio e il rischio di affollamento - A incidere sulla vita in carcere sono i “tempi” della macchina della giustizia e della detenzione. L’Italia, abbiamo detto, presenta un’età media dei detenuti più elevata, nonché la più alta percentuale di quelli con un’età pari o superiore ai 50 anni. Ma la stessa cosa accade in Spagna e Portogallo con cui abbiamo in comune un altro elemento: la durata media della detenzione, più lunga rispetto al resto d’Europa. Nel nostro Paese è di 18 mesi, in Spagna di 20,5 e in Portogallo di quasi 31. Se paragonati agli 11 della media europea, molte cose cominciano ad essere più chiare. È soprattutto il problema dei “tempi di attesa”, pertanto, a creare un paradosso: abbiamo carceri più affollate persino dinanzi una minore incidenza di reati. Secondo i dati del Rapporto Space, infatti, il 30% dei 54.372 detenuti censiti a fine gennaio 2022 non stava scontando una pena definitiva. Attendeva invece il giudizio di terzo grado, quindi la scarcerazione o il prolungamento della detenzione. A questo si aggiunge che, tra il 2021 e il 2022, la fine delle misure restrittive imposte a causa del Covid-19 ha fatto salire in tutta l’UE il tasso mediano di detenzione a +2,3%. L’Italia, purtroppo, fa parte di quei Paesi con densità carceraria superiore a 100 detenuti per 100 posti: 107 circa. Un sovraffollamento “grave” che corrisponde a 1,7 detenuti per cella. Ancora una volta i dati elaborati nel XIX Rapporto sulle condizioni di detenzione dell’Associazione Antigone confermano una tendenza al sovraffollamento: dal 30 aprile dello scorso anno la capienza ufficiale sarebbe cresciuta dello 0,8% contro un +3,8% di presenze. La popolazione detenuta sarebbe aumentata soprattutto in Trentino-Alto Adige (+11,7%), Calabria (+9%) e Lazio (+7,5%), e ad oggi le regioni con i sistemi carcerari più ingolfati, a fronte del tasso medio di affollamento, risulterebbero essere Puglia (137,3%), Lombardia (133,3%) e Liguria (126,5%). Una popolazione carceraria che torna a crescere - Per il Rapporto di Antigone la risalita della popolazione carceraria si lega a doppio filo ad un andamento più articolato delle pene detentive. Sono aumentati soprattutto i reclusi in carcere per quelle brevi: le condanne ad un anno sono passate dal 3,1% del 2021 al 3,7% del 2022; le condanne fino a tre anni dal 19,1% al 20,3%. Nel 2011 entrambi i valori erano più alti (rispettivamente il 7,2% ed il 28,3%), poi sono scesi grazie anche alle misure restrittive e di divieto di circolazione dovute alla pandemia. Anche nel resto d’Europa, secondo i dati del Rapporto Space, c’è la medesima tendenza (vedi sopra) con un tasso mediano di detenzione in aumento. Da una parte l’incremento sancisce un ritorno alla “normalità” nel funzionamento dei sistemi di giustizia penale dopo la parentesi Covid; dall’altra, il tasso di detenzione europeo nel 2022 è rimasto inferiore rispetto a quello pre-Covid, con alcune amministrazioni penitenziarie che hanno attuato una significativa diminuzione. Si tratta di Bulgaria (-8%), Estonia (-6,3%) e Germania (-5,5%). C’è da considerare inoltre che l’Italia fa parte di quei Paesi del Consiglio d’Europa in cui l’ergastolo è piuttosto duro. In Svizzera, ad esempio, un detenuto condannato a tale pena è idoneo alla libertà condizionata dopo 10 o 15 anni in base alla situazione. Nel nostro Paese, invece, dopo 21 o 26 anni; in Francia dopo 18-22 anni, in Spagna si va dai 25 ai 35 anni, mentre in Belgio il periodo può essere di 15, 19 o 23 anni. Sul lungo periodo, anche questo può avere un effetto sulla densità della popolazione carceraria. Segnali allarmanti cresce il tasso di suicidi - Il 2022 è stato l’annus horribilis delle carceri italiane per numero di suicidi: 85 episodi, il tasso più alto mai registrato negli ultimi dieci anni. Segno certo che qualcosa non va se un detenuto ogni quattro giorni si è tolto la vita. Un numero così elevato da spingere il Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà ad avviare e pubblicare uno studio, per un’analisi dei suicidi negli Istituti penitenziari. E la Corte Europea dei Diritti Umani ad emettere due condanne verso l’Italia: una per mancanza di misure per evitare il suicidio di un carcerato con disturbi psichici, la seconda per i tempi troppo lunghi per trasferire in una Rems (Residenza per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza) un altro detenuto con disturbi simili. Il fenomeno è ancora più allarmante se rapportato alle statistiche della popolazione reclusa: rispetto al 2012 ci sono ben 11.687 detenuti in meno ma abbiamo 23 suicidi in più, se paragonati allo stesso anno. Il “tasso di suicidi” nel 2022 è salito a 15,4 casi ogni 10.000 detenuti, il valore più alto di sempre (nel 2001 si era attestato al massimo a 12,5 casi ogni 10.000 persone). Quasi la metà dei suicidi aveva alle spalle storie di fragilità personale e sociale, difficoltà di reinserimento, percezione dello stigma del carcere. Tra coloro che hanno deciso di togliersi la vita lo scorso anno c’era anche un uomo di 83 anni. Avrebbe terminato di scontare la sua pena nel 2030, l’ha fatta finita invece mentre era in isolamento per Covid. “In carcere più poveri che criminali” di Anna Grazia Concilio spazio50.org, 1 ottobre 2023 Mauro Palma, Presidente del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale svela lo stato di salute delle carceri italiane: “Occorrono strutture sociali di supporto”. Oltre cinquanta suicidi dall’inizio dell’anno nelle carceri italiane. Un dato drammatico che racconta sofferenza, disagio e disperazione. Qual è lo stato di salute dei penitenziari del nostro Paese? Lo abbiamo chiesto a Mauro Palma che dal 2016 - anno di istituzione della carica - è Presidente del garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale. Alla fine degli Anni 80, Palma ha fondato l’Associazione “Antigone per i diritti e le garanzie nel sistema penale”. Nel 2014, è stato eletto Presidente del Consiglio europeo per la cooperazione nell’esecuzione penale del Consiglio d’Europa. Oltre al sovraffollamento e all’arretratezza strutturale degli istituti, cosa raccontano, oggi, le carceri italiane? Intanto, va detto che negli anni recenti si è accentuata una connotazione di minorità sociale, i detenuti provengono più dalla povertà che dalla criminalità. Basti pensare che in Italia sono circa 4mila le persone condannate a una pena inferiore ai due anni, circa 1.500 le persone condannate a una pena inferiore a un anno. Parliamo, quindi, di reati minori che appartengono al disagio sociale, alla tossicodipendenza. Si tratta, inoltre, di persone con problemi di ordine psichiatrico che non trovano strutture intermedie a fare da controllo e da supporto. Non funzionano più altri sistemi di regolazione sociale a cominciare dall’istruzione. Non è pensabile che nel carcere ci siano persone che non hanno l’obbligo scolastico, abbiamo ancora analfabeti dentro le carceri e questo fa diminuire la possibilità di trovare un lavoro. Sono vite su cui bisognava e bisogna intervenire. Quale potrebbe essere la soluzione? L’investimento in altre strutture territoriali che siano di controllo ma anche di supporto, in caso di pene brevissime. Bisogna evitare che il tempo speso in carcere sia un tempo vuoto, quindi, investire su attività formative che siano spendibili per i detenuti e che gli permettano di trovare un lavoro. Il carcere, oggi, pensa sempre a come far trascorrere il tempo qui e oggi piuttosto che domani e fuori. Le segnalazioni che arrivano ai suoi uffici? I detenuti lamentano la grande carenza dei legami con la famiglia. Durante il periodo Covid (quando le visite in carcere erano sospese, ndr), sono state concesse le videochiamate ma con la fine della pandemia vengono progressivamente tolte. Che storia ha il nuovo Garante dei detenuti di Luca Sofri ilpost.it, 1 ottobre 2023 Felice Maurizio D’Ettore è di Fratelli d’Italia, non ha mai avuto grossi incarichi legati al carcere e ha una sensibilità diversa dal suo predecessore. A inizio settimana il Consiglio dei ministri ha deciso i nuovi componenti del Garante dei detenuti, l’autorità indipendente che ha il compito di controllare che vengano rispettati i diritti delle persone detenute e vigilare sulle condizioni degli istituti in cui si trovano. Anche se il nome potrebbe indurre a credere che si tratti di una sola persona, il Garante dei detenuti è un organismo formato da tre membri: il governo ha scelto come presidente Felice Maurizio D’Ettore, avvocato ed ex deputato di Fratelli d’Italia, mentre gli altri due sono l’avvocata Irma Conti, indicata dalla Lega, e l’avvocato Mario Serio, indicato dall’opposizione in quota Movimento 5 Stelle. Quando si fa riferimento al Garante nazionale dei detenuti però si parla solitamente del presidente, in questo caso D’Ettore. La nomina di D’Ettore ha già ricevuto qualche contestazione, principalmente per due motivi: il primo è che la sua esperienza nei partiti di destra e centrodestra non lo renderebbe adatto al ruolo, che dovrebbe essere di garanzia e indipendenza proprio dal potere politico e dai governi di turno. Il secondo è che non avrebbe l’esperienza adeguata, perché non ha mai avuto incarichi in cui si occupasse direttamente di carceri e questioni relative. La deputata Debora Serracchiani del Partito Democratico ha anche fatto notare che la nomina di D’Ettore non sarebbe compatibile col suo ruolo di professore di diritto privato all’università di Firenze: per legge infatti i componenti del Garante non possono essere dipendenti pubblici, come sono i professori delle università statali. Il problema comunque dovrebbe essere facilmente risolvibile con una rinuncia di D’Ettore al suo incarico in università. La sua appartenenza a Fratelli d’Italia invece non è incompatibile con il ruolo di Garante, almeno secondo le norme. La legge stabilisce che i componenti del Garante non possano “assumere cariche istituzionali, anche elettive”, oppure “incarichi di responsabilità in partiti politici”. D’Ettore non ha incarichi istituzionali né un ruolo dirigenziale all’interno del suo partito, Fratelli d’Italia. Molte autorità amministrative indipendenti italiane, quelle che talvolta chiamiamo “garanti”, hanno un problema di rapporti ambigui con la politica, intricato da risolvere: la loro caratteristica principale infatti dovrebbe essere l’indipendenza, ma la loro nomina spetta sempre alla politica. Sta al buonsenso di chi li sceglie mantenere una distanza e nominare figure autonome, e ai garanti stessi svolgere il proprio ruolo senza farsi condizionare. D’Ettore ha 63 anni, è giurista e professore universitario. Aderì a Forza Italia già dal 1994, cioè quando il partito fu fondato. Fu due volte consigliere comunale nel paese di Bucine, in provincia di Arezzo, e nel 2007 divenne coordinatore provinciale del partito ad Arezzo. Mantenne l’incarico fino a che non lasciò Forza Italia nel 2021, per passare brevemente al piccolo partito di centrodestra Coraggio Italia. Dal 2022 è in Fratelli d’Italia. È stato parlamentare una sola volta, come deputato, tra il 2018 e il 2022. Dal 2011 al 2013 fu anche vicepresidente dell’agenzia sanitaria regionale della Toscana. Il suo predecessore Mauro Palma, prima di diventare Garante, era stato fondatore e presidente per 8 anni dell’associazione Antigone, che si occupa dal 1991 della tutela dei diritti dei detenuti. Si era dedicato alle carceri per decenni, occupandosi di contrasto al sovraffollamento per diversi ministri della Giustizia, ed era stato a lungo membro e poi presidente del Comitato europeo per la prevenzione della tortura (un organo del Consiglio d’Europa). Attualmente Palma è considerato uno dei maggiori esperti di lotta alla tortura a livello internazionale. Sulle consuetudini e sul funzionamento del Garante dei detenuti non c’è molto da dire, perché è un’autorità istituita piuttosto di recente. Fu creata con una legge del 2013, ma divenne operativa solo tre anni dopo: Palma è stato il primo e finora unico Garante dei detenuti. Il mandato dura cinque anni in teoria senza proroga, anche se già per Palma ne venne fatta una nel 2021, di due anni. Da quando è al governo, il partito di D’Ettore ha più volte approvato leggi per introdurre nuovi reati e inasprire le pene già esistenti. Ha sempre appoggiato misure detentive anche per chi commette reati lievi, mostrandosi meno aperto alle pene alternative, alla rieducazione delle persone condannate e al loro reinserimento in società. Per risolvere l’annoso problema del sovraffollamento delle carceri, per esempio, il ministro della Giustizia Carlo Nordio un mese e mezzo fa si era impegnato ad aumentare il numero delle strutture di detenzione, non contemplando la possibilità di aumentare i percorsi di recupero fuori dalle carceri. D’Ettore parlò pubblicamente di carceri qualche mese fa per commentare la vicenda di Alfredo Cospito, il detenuto anarchico che per quasi sei mesi aveva praticato uno sciopero della fame per protestare contro il regime detentivo a cui è sottoposto, il 41-bis. Il regime del 41-bis è da tempo al centro di estesi dibattiti, e molti ritengono che la sua applicazione sia di dubbia costituzionalità perché non tenderebbe alla rieducazione del condannato, come invece prevede la Costituzione per tutte le pene. In quell’occasione D’Ettore scrisse che il 41-bis era una misura adeguata e che lo Stato non avrebbe dovuto cambiare idea su Cospito nonostante il suo sciopero della fame. Stando alla sua appartenenza politica e alle sue poche uscite pubbliche in tema carceri, insomma, è possibile che D’Ettore sarà un Garante poco dalla parte dei detenuti, come richiederebbe il ruolo, e più in linea con l’approccio del governo in carica. Tra le cose di cui dovrà occuparsi ci sono anche i CPR, i centri di detenzione amministrativa per le persone migranti in attesa di essere espulse. Da anni sono duramente criticati dalle associazioni che si occupano di diritti umani per le condizioni disumane e degradanti in cui si trovano le persone detenute. Di recente il governo ha esteso a 18 mesi il limite massimo di permanenza nei CPR. Oltre alle carceri e ai CPR il Garante dei detenuti ha compiti di vigilanza anche sulle REMS (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza), cioè le strutture che hanno sostituito i vecchi ospedali psichiatrici giudiziari. In generale il Garante si occupa di verificare che lo stato della detenzione in Italia rispetti le leggi nazionali, la Costituzione, i trattati internazionali sui detenuti e il rispetto dei diritti umani. Gli uffici si trovano all’interno del ministero della Giustizia e ci lavorano al massimo 25 persone (più i tre membri del Garante). Solitamente vengono scelte persone con competenze specifiche per seguire alcuni temi: c’è per esempio un responsabile della privazione della libertà in ambito penale, un altro che si occupa delle persone migranti, un esperto di relazioni internazionali. Il principale potere del Garante è che può visitare gli istituti detentivi quando vuole e senza bisogno di autorizzazioni, chiedere fascicoli sui detenuti e avere colloqui con loro senza limiti di tempo. Questi ultimi possono inviare al Garante reclami scritti, anche in busta chiusa, per denunciare problemi e disagi. A questi compiti collabora una rete a livello locale di cui il Garante nazionale coordina il lavoro. Concretamente però il Garante non può fare molto, al di là di denunce pubbliche o raccomandazioni ai singoli istituti. Ogni anno consegna al parlamento una relazione su ciò che ha fatto e sui problemi individuati. L’ultima trovata di Carlo Nordio? Un decreto che rende ancora più ingarbugliata la giustizia di Sergio Rizzo L’Espresso, 1 ottobre 2023 Il provvedimento del ministro detta le regole formali che gli atti giudiziari devono rispettare. Un’ossessione burocratica che cozza con i veri problemi del sistema. Dall’arretrato alla carenza d’organico. Mentre in via Arenula proliferano gli incarichi nel gioco della spartizione politica. Il caldo, sappiamo, può giocare brutti scherzi. Sarà pure per questa ragione che alcune fra le migliori stravaganze burocratiche prendono forma sotto la canicola. L’ultima trovata del ministero della Giustizia, per dirne una. Ora, che sia un problema per la giustizia italiana il disordine nel modo in cui molti avvocati presentano i loro ricorsi al giudice, nessuno può negarlo. Ma era proprio necessario che il ministro Carlo Nordio facesse un decreto per stabilire come devono essere scritti e quanti caratteri possono avere? Decreto 7 agosto 2023, numero 110: “Regolamento per la definizione dei criteri di redazione, dei limiti e degli schemi informatici degli atti giudiziari con la strutturazione dei campi necessari per l’inserimento delle informazioni nei registri del processo”. Si dirà che la cosa è funzionale alla digitalizzazione della giustizia, certamente in favore dell’agilità dei processi. E Dio solo sa se ne avrebbe bisogno il nostro polveroso sistema giudiziario. Che, nonostante le innovazioni informatiche introdotte nei tempi più recenti, è ancora lontano dagli standard accettabili per un Paese civile. Diversamente, i finanziamenti europei dell’ormai famoso Pnrr non sarebbero condizionati a un drastico taglio dell’arretrato, che dovrebbe essere ridotto del 90 per cento entro l’orizzonte finale del programma comunitario, ossia il giugno del 2026. Con un passaggio intermedio al 31 dicembre 2024, quando le pendenze più vecchie di tre anni nei tribunali e di due anni nelle corti d’appello dovrebbero ridimensionarsi rispettivamente del 65 e del 55 per cento. Dopodomani, praticamente. Sarebbe ingeneroso non ammettere che qualche progresso è stato fatto, ma siamo ancora decisamente lontani dall’obiettivo. Dicono le rilevazioni ufficiali pubblicate all’inizio di agosto che nel primo trimestre di quest’anno le “pendenze totali” nel settore della giustizia civile si sono ridotte dell’1,6 per cento. Ma il numero rimane esorbitante: le cause civili pendenti in Italia sono ancora due milioni 813 mila 983. Niente a che vedere con il record dei 5,7 milioni del 2009, certo. Sapere, però, che qui ci sia una causa civile aperta in tribunale ogni 20 abitanti, neonati compresi, fa una certa impressione. Soprattutto in confronto a ciò che accade negli altri Paesi. In Francia sono a meno della metà e in Germania addirittura a un quinto del nostro Paese, in rapporto alla popolazione. Non tutti i tribunali, evidentemente, hanno gli stessi problemi. Uno studio del Sole 24 Ore, per esempio, ha accertato che sui 140 tribunali italiani i problemi più grossi delle liti giudiziarie con oltre tre anni di età riguardano 17 sedi. E che oltre il 40 per cento dell’arretrato civile con stagionatura ultrabiennale in corte d’appello è colpa di Roma e Napoli. Quanto alla giustizia penale, le cose andrebbero un po’ meglio a giudicare dal fatto che nel primo trimestre di quest’anno il calo dei procedimenti pendenti è stato del 3,2 per cento. Anche in questo caso, tuttavia, i numeri lasciano interdetti. I procedimenti pendenti sono 1.387.080: esattamente come vent’anni fa, quando erano 1.397.928. Oggi, proprio come nel 2003, in media un cittadino italiano ogni 40 circa è invischiato in un procedimento penale di qualche tipo. Mentre tocca ascoltare le sacrosante lamentele del procuratore generale di Torino, Francesco Enrico Saluzzo, che dopo la strage di Brandizzo ha denunciato la situazione di “illegaltà”, parole sue, nella quale versa la Procura di Ivrea, priva di uomini e risorse. Ed è oggettivamente complicato non rilevare il contrasto fra la sua clamorosa denuncia e le ossessioni burocratiche del ministero. Leggetelo, quel decreto del 7 agosto. C’è scritto che gli atti di citazione e i ricorsi per le cause di valore inferiore a 500 mila euro non possono superare 80 mila caratteri; le memorie e le repliche non devono oltrepassare i 50 mila; invece le note si devono contenere entro i 10 mila. Spazi esclusi, ovviamente. Il tutto, inoltre, va scritto in corpo 12, con interlinea di 1,5 e margine orizzontale e verticale di 2,5 centimetri. Non uno di più, non uno di meno. Va detto che in via Arenula, a Roma, dove ci sono gli uffici del ministro Nordio, non sono impazziti. Il decreto del 7 agosto è un atto dovuto: la conseguenza di un articolo, esattamente il numero 46, delle disposizioni per l’attuazione del Codice di procedura civile. L’articolo prevede che il ministero, dopo aver sentito il Csm e gli avvocati, definisca appunto con decreto “gli schemi informatici degli atti giudiziari con la strutturazione dei campi necessari per l’inserimento delle informazioni nei registri del processo e stabilisca i limiti degli atti processuali, tenendo conto della tipologia, del valore, della complessità della controversia, del numero delle parti e della natura degli interessi coinvolti”. Fondamentale, con i problemi della giustizia italiana. E se finalmente lo stesso decreto del 7 agosto prescrive (articolo 7) che anche il giudice “redige i provvedimenti in modo chiaro e sintetico”, non poteva mancare alla fine l’istituzione di un nuovo organismo a valle di tutto ciò. Un “Osservatorio permanente sulla funzionalità dei criteri redazionali e dei limiti dimensionali stabiliti dal presente decreto al rispetto del principio di chiarezza e sinteticità degli atti del processo”. La nuova struttura sarà gestita dall’ufficio legislativo del ministero e avrà fra i componenti, “nominati dal ministro”, anche “esperti di linguistica giudiziaria” e avvocati. Gratis, ovviamente. Ma sono pur sempre altri incarichi, per gli apparati di un ministero che mai come in passato sta accogliendo figure professionali esterne con ecumenica (e politica) disponibilità. L’ultima nomina in ordine di tempo, quella di Paola Balducci nella commissione incaricata di riformare la procedura penale. Avvocata, ex deputata dei Verdi e successivamente componente laica del Consiglio superiore della magistratura, eletta dal Parlamento nel 2014 in quota Sinistra ecologia e libertà “durante la consiliatura - ha sottolineato il Riformista di Matteo Renzi - nella quale Luca Palamara spadroneggiava senza freni”. Non l’unica, al ministero, in ottimi rapporti con l’ex presidente dell’Anm: al posto di vicecapo del dipartimento dell’organizzazione giudiziaria, cuore del dicastero di via Arenula, Nordio ha collocato la presidente della Corte d’appello di Potenza, Rosa Patrizia Sinisi, che con Palamara condivideva una chat poi finita agli atti dell’inchiesta che ha travolto quel magistrato. Ma di sicuro Balducci è la sola, fra i personaggi provenienti dalla politica ingaggiati da Nordio, come l’ex onorevole di Forza Italia, Giusi Bartolozzi, oggi suo vicecapo di gabinetto, ad averne percorso il firmamento da sinistra a destra. Da Sinistra ecologia e libertà, di cui è stata esponente negli anni di Nichi Vendola, ora è portavoce di “Verde è popolare”, movimento politico ecologista fondato da Gianfranco Rotondi: democristiano a trazione integrale, ex ministro dell’ultimo governo di Silvio Berlusconi e ora deputato di Fratelli d’Italia. Per inciso, “Verde è popolare” figura nell’elenco dei finanziatori del partito di Giorgia Meloni. Cinquemila euro appena, nel 2022. Ma è il gesto che conta. Spazi esclusi. Giustizia, riforme e carriere separate: Nordio conferma le scelte e trova il gelo dei magistrati di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 1 ottobre 2023 Il ministro al congresso delle “toghe rosse” a Palermo. Albamonte, segretario uscente di Area: l’accusa finirà per dipendere dall’esecutivo. Il sostegno di Schlein e Conte alla corrente progressista (ma loro quasi si ignorano). La battuta d’esordio l’aveva preparata da giorni: “Mi è venuto in mente quello che De Gasperi disse al Conferenza di Parigi dopo la guerra: “Qui dentro tutto sembrerebbe ostile tranne la vostra personale cortesia”; spero che non sia così”. È un auspicio ambizioso, quello del ministro della Giustizia Carlo Nordio che interviene al congresso di Area, la corrente che insieme a Magistratura democratica rappresenta la sinistra giudiziaria: il cuore dell’opposizione togata alle politiche del governo in materia di giustizia, che il Guardasigilli rivendica in quanto espressione del mandato popolare esercitato da chi ha vinto le elezioni. Lui, pubblico ministero in pensione, ha partecipato all’ultima competizione chiamato in Parlamento da Giorgia Meloni che l’ha scelto come ministro. Però dice: “Sono ancora convinto di sentirmi la toga addosso”. Da ex magistrato ribadisce che l’obiettivo del governo è “dare efficienza alla giustizia”, e sulla separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri - contenuta nel programma di governo e osteggiata da pressoché tutte le toghe - rivolge quasi una preghiera all’assemblea: “Per me sarebbe una bestemmia e un’eresia pensare che la magistratura, sia giudicante che inquirente, possa un domani finire sotto il controllo del potere esecutivo o di altri poteri estranei alla sua indipendenza. Vi supplico di considerare sincera questa assicurazione”. Applauso più cortese che convinto, poi il ministro saluta e se ne va, ha un aereo che l’aspetta. C’è appena il tempo per una dichiarazione davanti alle telecamere: “Cerchiamo di mettere in evidenza le cose che ci uniscono rispetto a quelle che ci dividono”. Le risposte dei magistrati arrivano in assenza del ministro, tutte dello stesso segno. Eugenio Albamonte, pm a Roma e segretario uscente di Area, replica lontano dalla tribuna: “Il problema è di sostanza, non di forma. Si può anche lasciare il simulacro formale dell’indipendenza del pm, ma una volta separate le carriere e i Consigli superiori, tanto più con l’aumento della componente politica rispetto a quella togata, a chi risponderanno i rappresentanti dell’accusa? O all’esecutivo o alla polizia, che a sua volta dipende dall’esecutivo. Difficile immaginare altre possibilità. E questo ci preoccupa, perché mette in discussione principi costituzionali come l’obbligatorietà dell’azione penale e l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge”. Sul palco del congresso, giudici e pm si alternano per ripetere gli stessi concetti, con accenti più o meno forti: dall’ex consigliere del Csm Giuseppe Cascini, procuratore aggiunto a Roma, al procuratore di Palermo Maurizio de Lucia; dal presidente dell’Anm, e giudice di Cassazione Giuseppe Santalucia, all’ex procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati. Fino agli esponenti delle altre correnti, dai centristi di Unicost ai “conservatori” di magistratura indipendente. Parlano anche dei danni alle viste con altri disegni di legge in via di approvazione - dall’abuso d’ufficio, alle intercettazioni, alla prescrizione -, e mettono in guardia dalla “madre di tutte le riforme”. Sostenuta solo dal presidente delle Camere penali, l’avvocato Gian Domenico Caiazza. Il quale insiste sulla separazione delle carriere con l’indipendenza del pm scolpita nella riscrittura nella Costituzione, ma poi invita i magistrati a “non sprecare il patrimonio” di chi conosce davvero i problemi della giustizia e sa come risolverli, provando a mettere in mora la politica con proposte comuni: depenalizzazione e sostanzioso aumento dei riti alternativi. Tutti argomenti su cui la politica al governo sembra sorda. Quella d’opposizione, invece, si schiera dalla parte dei magistrati: il leader Cinque Stelle Giuseppe Conte e la segretaria del Pd Elly Schlein quasi si ignorano in sala ma entrambi (come Debora Serracchiani e Anna Rossomando, sempre a nome del Pd) sottolineano i pericoli per la giurisdizione che arrivano dalle riforme in cantiere. E difendono i giudici dagli attacchi governativi; giusto ieri ne sono arrivati altri per un provvedimento emesso a Catania. Gli applausi che accolgono i loro interventi sembrano indicare che almeno in tema di giustizia il “campo largo” Pd-M5S potrebbe avere un futuro, sebbene contrapposto al “campo larghissimo” del centrodestra più l’ex Terzo polo di Renzi e Calenda, costante puntello della maggioranza su questi temi. Destinati ad alimentare il conflitto politico e quello tra politica e giustizia, come conferma il confronto in casa delle “toghe rosse”. Nordio: “Le intercettazioni su mafia e terrorismo non si toccano”. Ma Conte lo punzecchia di Valentina Stella Il Dubbio, 1 ottobre 2023 Il Ministro della Giustizia ha aperto i lavori al Congresso di Area Dg dopo il duro intervento di ieri di Eugenio Albamonte. Enrico Costa (Azione) attacca l’associazione di sinistra della magistratura italiana: “Da corrente si è trasformata in partito”. Un numeroso gruppo di politici dell’opposizione è intervenuto stamattina al Congresso di Area Dg in corso a Palermo. Ma ad aprire i lavori è stato il ministro della Giustizia Carlo Nordio, contro cui ieri la relazione del Segretario Eugenio Albamonte era stata molto dura. Ma il Ministro è venuto in pace: “Vorrei iniziare dicendo una cosa e ho già ripetuto ma non è mai stata riportata dai giornali. La prima parte è quella direi maggioritaria del programma che io ho enunciato alle Camere e alle commissioni riguardo alla giustizia civile, meglio ancora riguardo all’efficienza della Giustizia. E questo è un tema che dovrebbe essere condiviso e spero sia condiviso perché da un lato l’emergenza economica oggi è la maggiore emergenza in Italia e la lentezza dei processi ci costa due punti di PIL, e questo lo sappiamo. E quindi la necessità di rendere processi più veloci è stata ed è anche se non sembra perché, io capisco che i giornali facciano polemica perché certi argomenti sono più sensibili di altri, però vi assicuro che la gran parte delle nostre energie sono state dedicate proprio all’efficientamento della Giustizia soprattutto in funzione dell’attuazione del PNRR che per noi è vincolante. Se poi sono stati fatti degli accordi di difficilissima attuazione come lo smaltimento del 90% degli arretrati dei processi, questa è una cosa che noi stiamo affrontando con grande preoccupazione ma anche con grande determinazione, per certi aspetti anche con la fantasia. Ed è qui che noi vorremmo avere il contributo di tutti i colleghi perché nessuno meglio di noi sa quali siano le difficoltà di smaltimento di questo arretrato tenuto conto della mancanza di risorse umane finanziarie e logistiche”. In terra di mafia non poteva mancare un appunto: “Colgo l’occasione -non si ripeterà mai abbastanza- che quando io ho parlato e parlo di intercettazioni, non solo lascio sempre da parte il problema della delinquenza organizzata, terrorismo e mafia, sulla quale non solo non si tocca nulla ma proprio con Melillo, procuratore nazionale antimafia, stiamo progettando tutta una serie di interventi nuovi perché la delinquenza organizzata oggi, la grande delinquenza, non comunica con i mezzi tradizionali. Quando ho detto una volta alla Camera che la mafia non parla per telefono, ed è stata una specie di rivoluzione: dice ‘Nordio fa un favore alla mafia’, alludevo al fatto che noi sappiamo perfettamente che oggi le grandi organizzazioni criminali comunicano con dei mezzi che noi non siamo in grado di intercettare perché costano tanti soldi e soltanto alcuni organismi internazionali - cui ovviamente non faccio riferimento- con forti spese sarebbero in grado di captare e noi invece questa capacità non l’abbiamo. Magari spendiamo milioni di euro per altre cose ma non siamo in grado di intercettare le comunicazioni della grande delinquenza organizzata”. Poi sulla separazione delle carriere: “A sentire molti colleghi la separazione delle carriere sarebbe disastrosa per la democrazia; a sentire le Camere penali sarebbe la panacea di tutti i mali. Ognuno la vede sotto una diversa prospettiva. Compito della politica è quella da un lato di comporre questa esigenza ma anche di dare attuazione a quello che è il mandato popolare, e su questo io mi permetto di citare quello che ha detto il presidente Mattarella all’inaugurazione del corso della scuola di magistratura pochi mesi fa: “La Costituzione definisce con puntualità l’ambito delle attribuzioni che sono affidate agli organi giudiziari così come i compiti e le decisioni che appartengono invece ad altri organi titolari di altri poteri. Questo riparto va rispettato nel quadro degli equilibri costituzionali i giudici sono appunto soltanto soggetti soltanto alla legge il che realizza l’unico collegamento possibile in uno stato di diritto tra il giudice non elettivo né politicamente responsabile e la sovranità popolare di cui la legge, opera di parlamentari eletti dal popolo e politicamente responsabili, è l’espressione primaria”. Questo ha detto Mattarella, questa è la costituzione e questa è ovviamente la mia idea. Detto ciò, finisco con un’assicurazione. Io ho fatto il magistrato, ho esercitato questa nobile professione e se tornassi indietro la rifarei. Dopo 5 anni di decantazione ratione etatis sono ancora convinto di sentirmi con la toga addosso. L’assicurazione che posso darvi è che quali che siano le riforme per me sarebbe una bestemmia un’eresia una cosa metafisica pensare che la magistratura sia giudicante, sia quella inquirente potesse un domani finire sotto il controllo del potere esecutivo o di altri poteri estranei all’indipendenza della magistratura”. Poi è intervenuto Giuseppe Conte, leader del M5S: “Credo che il ministro Nordio abbia una postura sbagliata nei confronti della magistratura e sorprende perché avviene da parte di un ex magistrato di lungo corso. Di tutto l’Italia ha bisogno tranne che di alimentare un nuovo scontro tra politica e magistratura. Questa nuova stagione di tensione è ancora una volta fondata su un falso concettuale. C’è un fronte politico - aggiunge - che con molta astuzia e furbizia vuole alimentare una falsa dicotomia del tutto fuorviante tra un presunto scavetto garantista e un presunto scavetto giustizialista”. Intervenuta poi la segretaria del Pd, Elly Schlein: “Nordio ha più volte annunciato un cantiere di riforme organiche, ma alle parole non sono seguiti i fatti, e vedendo l’approccio della maggioranza verrebbe da dire per fortuna. Abbiamo assistito a spot, decisioni di corto respiro, dannose, provvedimenti di bandiera e propagandistiche, senza una visione complessiva, senza organicità”. Ha poi aggiunto: “Dopo un anno di governo qualcosa emerge con chiarezza: l’esistenza di una postura animata da pulsioni, da un approccio muscolare e aggressivo verso la magistratura per limitarne e gli spazi di autonomia e indipendenza”. Bacio e stretta di mano tra Elly Schlein e Giuseppe Conte prima di lasciare il congresso. Il leader del M5s e la segretaria del Pd si sono salutati, scambiandosi una breve battuta. Tra i politici intervenuti anche Anna Rossomando, vice presidente del Senato: “Ho sempre difeso l’autonomia e l’indipendenza della magistratura pensando che quando parliamo di questo parliamo in realtà del rapporto tra libertà, potere e diritti, che è tutto l’impianto della nostra Costituzione. E quindi quando parliamo del rapporto tra politica e magistratura ai tempi dei sovranisti e dei nazionalismi siamo già oltre quella discussione che facemmo anni fa quando si parlava di riforme all’interno di un sistema maggioritario. Già allora avvertimmo l’esigenza di riequilibrare pesi e contrappesi della nostra Costituzione nati in un sistema proporzionale. E figuriamoci oggi discutendo di maggioritarismo, è ben altra cosa. Quando noi parliamo di difesa della giurisdizione va inquadrata in un sistema odierno diverso da quello di dieci anni fa. C’è una teoria per cui se hai il consenso, rappresenti quel popolo e gli altri restano fuori. In questo ambito mi sono chiesta perché si è sentito il bisogno di ritornare su alcune riforme approvate a larga maggioranza. C’è purtroppo un furore ideologico che mette da parte il merito e a cui interessa riaprire il conflitto tra politica e magistratura”. Critico sull’iniziativa invece il deputato Enrico Costa di Azione: “Da corrente a partito. La trasformazione di Area è compiuta e con il congresso di Palermo si iscrive al ‘campo largo’ con la benedizione di Conte e Schlein. Un’evoluzione preoccupante. Non hanno voti, ma armi non convenzionali”. Giustizia, la trincea dei giudici: dal congresso di Area nuovo attacco a Nordio di Giuseppe Salvaggiulo La Stampa, 1 ottobre 2023 “Non siamo esecutori della volontà del governo. Noi rispondiamo solo alla Costituzione”. “Se ne facciano una ragione - sospira Giuseppe Santalucia, presidente dell’Associazione nazionale magistrati, dopo aver letto le furiose reazioni governative ai primi provvedimenti giudiziari che vanificano il decreto immigrazione. Noi non siamo funzionari esecutori della volontà dell’esecutivo, ma giudici che rispondono alla Costituzione. I diritti, e soprattutto la libertà personale, non si cancellano a colpi di maggioranza”. Al congresso palermitano di Area, la principale corrente progressista della magistratura, doveva essere ed è stato il giorno delle star della politica, dal ministro della giustizia Carlo Nordio ai leader dell’opposizione Giuseppe Conte ed Elly Schlein. Ma la vera protagonista, alla fine, è risultata l’ignota giudice catanese Iolanda Apostolico. Non perché presente, né in quanto “toga rossa” (non risulta in alcun modo colorata). Ma perché le sue ordinanze - oggettivamente, al di là delle intenzioni - sono state catapultate nel dibattito politico come primo atto di quella “resistenza alla tirannia della maggioranza e difesa dell’indipendenza della giurisdizione” che è il fulcro del congresso. E così una giornata aperta dal ministro Nordio citando De Gasperi alla conferenza di Parigi del 1946 (“Sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me”) si chiude con l’invocazione del mugnaio di Bertold Brecht: “C’è un giudice a Berlino, anzi a Catania”. A pronunciarla Ciccio Zaccaro, ex componente del Csm e segretario in pectore della corrente. Che denuncia l’ipocrisia di un governo che “tutela la riservatezza di chi è sottoposto a un’indagine e se ne frega della libertà di un migrante che chiede protezione”, rivendicando perciò “il dovere per i giudici di farsene carico anche se la maggioranza non è d’accordo”. Vista da qui, l’ira del governo contro la giudice catanese è comprensibile. Alcuni magistrati impegnati nelle sezioni civili che decidono i ricorsi dei richiedenti asilo hanno tracciato il quadro dei recenti interventi del governo (decreto Cutro, decreto Lampedusa) alla luce delle norme europee e internazionali. La collisione è inevitabile, e il caso Catania è solo l’antipasto. Spiegano che il governo ha voluto imporre una stretta estendendo la procedura accelerata di respingimento oltre i casi per cui era prevista in origine, ovvero le richieste di asilo strumentali in prossimità della frontiera. La norma si basa su una lista di “Paesi sicuri” individuata dallo stesso governo, per consentire di detenere negli hotspot (come Pozzallo) o nei Centri di permanenza i migranti che da lì provengono. “Ma alla prima prova di convalida giudiziaria, il meccanismo è saltato”. Altre pronunce seguiranno nei prossimi giorni. Poi, quando le richieste di asilo saranno decise (e presumibilmente bocciate) dalle commissioni prefettizie, i giudici dovranno valutare la credibilità della lista governativa dei “Paesi sicuri”. Tra cui il governo ha inserito, per esempio, la disastrata Tunisia sotto il giogo di Saied. Per non dire della Nigeria, definita al contrario “Paese insicuro” dall’Agenzia europea sul diritto di asilo. Dunque mentre Nordio predicava la necessità di “attuare il mandato popolare” e intimava ai magistrati di non invadere il campo della politica, una giudice disapplicava un decreto del governo considerandolo contrario al diritto europeo. E dal congresso delle toghe progressiste si levava un coro di rifiuto di una concezione del giudice come “passacarte”. “Noi non partecipano all’indirizzo politico e governativo, facciamo giurisdizione - argomenta Santalucia -. È fisiologico che ci possano essere provvedimenti dei giudici che vanno contro alcuni progetti e programmi di governo. E questo non deve essere vissuto come una interferenza, questa è la democrazia”. Molto atteso nella “tana del lupo” (visita accuratamente preparata dagli sherpa), Nordio è stato abile a evitare i temi più spinosi, dall’abuso di ufficio alla separazione delle carriere. Ha parlato venti minuti e poi è andato via, senza nemmeno incrociarsi con Conte e Schlein. I quali, invece, si sono fermati un paio d’ore, ascoltandosi reciprocamente e ascoltando alcuni interventi dei magistrati. Non li hanno fatti sedere vicini, e così sono apparsi “perfetti sconosciuti”, salvo una stretta di mano finale. La “collaborazione competitiva” si è manifestata negli interventi: entrambi contrari alle riforme del governo, stigmatizzandone con medesime parole la “postura punitiva nei confronti della magistratura”, ma con impostazioni radicalmente diverse. Conte ha rivendicato le riforme dei suoi governi (anche quello gialloverde) in una logica schiettamente legalitaria, contestando l’abrogazione della legge Bonafede sulla prescrizione come “uno schiaffo alle vittime dei reati”. Nessun cenno al tema dell’immigrazione. Schlein ha detto “qualcosa di sinistra”, legando la questione giustizia al “disagio sociale che non può essere affrontato solo in chiave repressiva”. Ha parlato di sanità, diritti civili, femminicidi e del decreto Cutro, denunciando “l’ossessione del governo per l’immigrazione e la compressione del diritto di asilo come nelle democrazie illiberali”. Elly ha conquistato i giudici progressisti, che l’hanno più volte interrotta con applausi e all’uscita fermata per complimentarsi. E lei, che al momento dell’invito aveva a lungo titubato, ne è uscita confortata. Conte e Schlein al congresso di Area, anche sulla giustizia due idee diverse di Mario Di Vito Il Manifesto, 1 ottobre 2023 Freddezza tra il leader 5S e la segretaria Pd. Interviene Nordio: “Le intercettazioni? Su terrorismo e mafia non si tocca nulla”. Concordi sul fatto che il governo Meloni stia mostrando una certa ostilità verso la magistratura, ma per il resto Giuseppe Conte ed Elly Schlein sembrano avere due idee abbastanza diverse di giustizia, forse non del tutto incompatibili tra loro, anche se è ancora presto per dirlo. Al congresso palermitano di Area Democratica per la Giustizia il leader del M5s e la segretaria del Pd arrivano in due momenti diversi della mattinata e si salutano in maniera piuttosto formale con un bacio e una stretta di mano. Tutto qui. Che sia in atto uno scontro (per ora a bassa intensità) tra governo e magistratura è un fatto che non avrebbe bisogno delle conferme di Schlein e Conte, in ogni caso questa evidenza fornisce a entrambi una base comune: è il vantaggio di stare all’opposizione. Ha poco senso, dunque, l’uscita di Enrico Costa (Azione) che parla di trasformazione di Area da corrente della magistratura a partito del prossimo venturo campo largo, che ancora non c’è e certo non si è saldato a Palermo. Conte, nel suo intervento, è andato giù duro come uno schiacciasassi contro Meloni, difendendo il suo esecutivo (il secondo, quello giallorosso) e rilanciando alcuni temi classici del pensiero grillino in materia di giustizia. “Credo che il ministro Nordio abbia una postura sbagliata nei confronti della magistratura e sorprende perché lui è un magistrato di lungo corso. Questa nuova stagione di tensione è ancora una volta fondata sul falso concettuale”. Da qui l’elenco: “Il governo vuole colpire l’obbligo dell’azione penale”, “gli esperti hanno smentito quello che dice il governo sulle intercettazioni” perché “spesso quelle irrilevanti sono decisive in un’indagine” e cambiarle significa “schiaffeggiare i diritti delle vittime”. E ancora: “vogliono abolire l’abuso d’ufficio per alterare le maglie dei controlli”, “nella legge di bilancio non c’è nemmeno un euro per rafforzare gli uffici giudiziari” mentre “mancano almeno 1.500 magistrati”. Applausi dalla platea. “Questa maggioranza mostra insofferenza verso tutto ciò che non controlla - ha detto la segretaria del Pd -. Nordio ha più volte annunciato un cantiere di riforme organiche, ma alle parole non sono seguiti i fatti, e vedendo l’approccio della maggioranza verrebbe da dire per fortuna. Abbiamo assistito a spot, decisioni di corto respiro, dannose”. E, al momento del climax ascendente di questioni sul tavolo, i magistrati di Area hanno più volte interrotto Schlein con i loro applausi: dal caso Regeni (“Politica e diplomazia non sono riuscite o forse non hanno nemmeno provato a portare a processo gli assassini”) fino alle ultime sentenze sulla strage di Bologna (“Non accetteremo mai che qualcuno provi a riscrivere la storia”), passando per la definizione di un governo “duro con gli ultimi e lassivo verso i reati dei colletti bianchi” e per il tema della violenza maschile contro le donne, con il Pd che sarebbe anche disposto a discutere con la maggioranza. Il refrain, scandito più volte, ha puntato sulla “torsione autoritaria” con cui il governo condisce ogni suo provvedimento: “Si insiste sempre sulla repressione e per nulla sulla prevenzione”. E se Conte è andato via dal congresso a metà mattinata, Schlein si è trattenuta fino all’ora di pranzo, scambiando chiacchiere con i magistrati e sfuggendo di continuo al codazzo di cronisti che l’ha inseguita sin quasi dentro al bagno di Palazzo Chiaramonte-Steri. Prima del confronto a distanza tra Pd e 5s, è intervenuto anche il ministro Nordio, con un discorso che, per lunghi tratti, è andato avanti a braccio, tra riferimenti ad Anatole France (autore molto caro al guardasigilli, che infatti lo cita di continuo), la difesa dei provvedimenti del governo e una serie di rassicurazioni che non hanno convinto granché i convitati di Palermo. “Per me sarebbe un’eresia pensare che la magistratura possa finire sotto il controllo del potere esecutivo”. Infine l’ennesimo annuncio: “Le intercettazioni? Su terrorismo e mafia non si tocca nulla, anzi stiamo progettando una serie di interventi perché oggi le organizzazioni criminali comunicano con mezzi che non siamo in grado di intercettare”. Il progetto di riforma - che prima o poi forse arriverà - comincia ad assumere i contorni dell’Everest, con una quantità incredibile di idee, spunti e ipotesi di lavoro al suo interno. La risposta a questo gigantismo la dà a un certo punto il procuratore di Palermo Maurizio de Lucia: “Sono anni che assistiamo a riforme della giustizia. Credo che qualunque sistema abbia bisogno di assestarsi prima di cambiare per l’ennesima volta. Servirebbe una sorta di fermo biologico”. Il congresso di Area andrà avanti ancora nella giornata di oggi con la definizione delle varie mozioni. Nei prossimi giorni, infine, i magistrati iscritti alla corrente si esprimeranno attraverso il voto telematico. Torino. Emergenza suicidi in carcere, sit-in davanti al tribunale di Giulia D’aleo La Repubblica, 1 ottobre 2023 “Le lungaggini burocratiche sono strumenti di tortura. L’estate di quest’anno al carcere delle Vallette è stata all’insegna dell’emergenza suicidi” ricordano le donne dell’associazione “Mamme in piazza per la libertà di dissenso”, che questa mattina hanno deciso di ribadirlo davanti al Tribunale di sorveglianza di Torino. Davanti a loro, circa 40 persone in tutto, ci sono 35 poliziotti schierati. “Oggi ci troviamo qui davanti - dichiarano - perché il Tribunale ha la responsabilità e il potere di decidere in merito alla misure alternative al carcere, ma spesso impiega mesi per prendere decisioni fondamentali per la vita di un detenuto. I ritardi, le lungaggini, le mancate risposte, sono anche questi strumenti di tortura per le persone e accentuano il senso di disperazione”. Elencando al microfono i nomi di chi ha perso la vita quest’anno, “Graziana, Angelo, Susan, Azzurra”, denunciano come le vittime provenissero da condizioni di disagio psicologico, esacerbate dalla detenzione in uno degli istituti più affollati d’Italia. “Graziana doveva scontare una pena breve, ma aveva una dipendenza dall’alcol. Il suo avvocato aveva chiesto il reinserimento in comunità, ma non c’era posto. Così si è tolta la vita poco prima della scarcerazione” spiegano. Susan, donna nigeriana di 43 anni, chiedeva di poter vedere il figlio, poi ha smesso di mangiare e di bere fino a lasciarsi morire. In mancanza di un numero adeguato di psicologi nella struttura, “esiste un abuso nella somministrazione di psicofarmaci, come denunciato anche da Antigone”. Presente al presidio anche il referente piemontese dell’associazione “Sbarre di zucchero”, nata lo scorso anno dopo il suicidio una ragazza di 27 anni nel carcere di Verona. “Stiamo cercando di portare avanti una battaglia perché vengano concesse più telefonate ai detenuti. Spesso possono salvare la vita, ma dipendono molto dalla discrezionalità dei direttori”. La responsabilità dei suicidi, aggiunge, “non può essere degli operatori di polizia penitenziaria, che vivono anche loro in condizioni difficili”. Verona. Il carcere di Montorio? “È diventato un ricovero per sbandati” di Annamaria Schiano Corriere di Verona, 1 ottobre 2023 I medici delle dipendenze: “Inasprire le pene? Sbagliato”. Sullo spaccio in carcere a Montorio di metadone e psicofarmaci intervengono Camillo Smacchia e Fabio Lugoboni, esperti di medicina delle dipendenze. “C’è una violenza diffusa tra giovani fuori controllo che superano i propri limiti all’ennesima potenza, a causa anche dell’uso spropositato di droga e alcol”, è l’allarme lanciato dal direttore centrale Anticrimine della Polizia di Stato, Francesco Messina. E nei giorni scorsi è arrivata la denuncia anche del deputato di Forza Italia Flavio Tosi sul “mercato nero di metadone e psicofarmaci” all’interno del carcere di Montorio, dove le celle sono per lo più piene di giovani che hanno commesso reati per consumo e spaccio di sostanze stupefacenti, o di immigrati irregolari che, poi, in molti casi vengono arruolati dalla criminalità organizzata. Fuori dalle mura carcerarie, invece, poco più che bambini, ragazzi, o giovani adulti, consumano la loro crescita con reati sempre più feroci, la cui repressione si contempla con pene più dure. Dunque, come si “cura” questo male profondo? E il carcere è la ricetta giusta? Ne abbiamo parlato con il direttore dei centri dipendenze della Provincia dell’azienda socio sanitaria scaligera, Camillo Smacchia, già direttore della sanità penitenziaria nel carcere di Verona (dal 2018 al 2020) e con il professore Fabio Lugoboni, responsabile della Medicina delle Dipendenze dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata di Verona. “Sono tra il 25 e il 30 per cento i detenuti per spaccio di sostanze. Riempiono le celle di Montorio che ha una capacità di 335 posti letto, ma con la presenza media oltre le 500 persone. Anche l’altro giorno ce n’erano 540. Si aggiungono letti a castello, quindi se sono previsti 14 metri quadrati per detenuto, alla fine possono anche diventare 3 o 4 mq a persona in una cella. Inoltre, circa il 65% dei detenuti sono stranieri, sui quali essendo irregolari per lo più, non si possono nemmeno fare progetti riabilitativi come ad esempio mandarli in comunità terapeutiche”, aggiunge il dottor Smacchia. In carcere si sta sempre peggio. “Ormai è un luogo di detenzione sociale per le sacche di emarginazione. E aumentano anche i suicidi o gli atti di autolesionismo, che diventano forme di protesta e di ritorsione. La carenza di personale generico e specialistico, di polizia penitenziaria, e il sovraffollamento carcerario sono le criticità perenni”. A Verona da giugno è stato inserito anche il settore per i detenuti psichiatrici, e già in poco tempo si sono verificate aggressioni a psichiatri e ispettori penitenziari. Come si può intervenire? “Una parte di detenuti condannati per le sostanze hanno anche problemi psichiatrici, poiché essere tossici significa avere problemi comportamentali. Il carcere è diventato anche un ricovero o un grande ospedale per persone in giro per la città. C’è un servizio di medicina delle dipendenze all’interno di Montorio, un’unità multidisciplinare composta da un medico, un assistente sociale, un educatore e un psicologo, che raccolgono le richieste dei detenuti che chiedono una misura alternativa al carcere, che può essere ad esempio la comunità terapeutica o la messa in prova a servizi sociali, con il Sert che controlla settimanale l’astensione alle droghe”, conclude Smacchia. “Ci sono due ordini di cose da valutare - spiega Lugoboni - Sul piano politico la scelta di inasprire le pene è una pessima maniera per farvi fronte. Dare risposte spot su fenomeni così complessi per fatti di cronaca, seppur feroci, è demenziale. Le leggi ci sono già. Ed è soprattutto il piano psicoterapeutico che non funziona: l’adolescente non ha il senso della legalità, è nella sua natura la tendenza a fare cose rischiose in gruppo, perché la parte impulsiva del loro cervello funziona in modo predominante rispetto alla parte riflessiva dell’adulto. In galera i giovani escono perfetti criminali, quando, in altro modo si sarebbe potuto recuperarli. Faccio un esempio: nelle scuole superiori ci sono moltissimi ragazzi che consumano cannabinoidi, ma dopo i 25 anni c’è un drastico calo di consumo”. Ivrea (To). Carcere, l’edificio ha grossi problemi: troppo caldo d’estate e troppo freddo d’inverno quotidianocanavese.it, 1 ottobre 2023 Raffaele Orso Giacone è stato confermato Garante dei detenuti a Ivrea. Il Consiglio comunale gli ha rinnovato la fiducia all’unanimità dopo due anni di intenso lavoro all’interno della casa circondariale. Al centro delle cronache giudiziarie per due inchieste sui presunti pestaggi subiti da alcuni detenuti, il carcere d’Ivrea è stato al centro dell’ultimo Consiglio comunale della città, dal momento che il parlamentino eporediese ha dovuto scegliere il nuovo garante dei detenuti. Nuovo almeno nella forma dal momento che, a fronte di tre candidature, maggioranza e opposizione hanno scelto di dare continuità alla figura del garante: Raffaele Orso Giacone, il garante uscente, è stato confermato nel ruolo, preferito alle candidature di Oscar Argentero e Mariano Turigliatto. Prima della riconferma, il Garante ha relazionato al Consiglio sull’attività di questi due anni, segnalando diverse criticità e qualche importante passo avanti. “Ho effettuato in questi mesi almeno una visita a settimana con una decina di colloqui ogni volta, oltre a quelli con il personale. E tra le azioni ricorrenti, oltre ai rapporti con gli altri Garanti, segnalo il lavoro svolto con i volontari, fondamentali per la ripresa delle attività post Covid: corsi di formazione, incontri, laboratori e spettacoli teatrali”. Sulle presunte violenze (scoperte a seguito delle denunce di alcuni detenuti e dalle relative indagini delle procure di Torino e Ivrea), Orso Giacone ha confermato di essersi costituito parte civile, così come hanno fatto i suoi predecessori. Ma gli episodi, che vedono tra gli indagati anche funzionari e agenti della polizia penitenziaria, sono ormai datati nel tempo: “Tra poco inizieranno i processi - ha spiegato il garante - ma devo dire con forza che, fin qui, da quando ho questo ruolo, non ho ricevuto denunce in merito”. Sul personale, il Orso Giacone ne ha sottolineato la professionalità, “l’impegno e la disponibilità ad offrire relazioni umane”. Soprattutto sui ruoli apicali (direttore, comandante ed ispettori) sono aumentate le presenze e le attività. Preoccupa di più, caso mai, lo stato della struttura e la difficoltà ad attivare corsi di formazione, avviamenti al lavoro e progetti di reinserimento che, sulla carta, sono alla base delle attività del carcere. “In quanto alla struttura non è cambiato molto: d’estate fa troppo caldo, d’inverno fa troppo freddo. Ci sono ambienti umidi dove le grate sono opprimenti e i serramenti non adeguati. Mancano i sanitari e in molti casi le celle, progettate per una sola persona, ospitano almeno due detenuti. Il sovraffollamento non è diminuito. Qualche passo avanti, però, c’è stato: dai lavori di ritinteggiatura alla riapertura del campo sportivo, sistemato grazie all’intervento di una ditta che ha donato due camion di terra”. Tra gli aspetti che sono migliorati anche la presenza costante di un medico, la possibilità di ottenere visite specialistiche, l’arrivo di due dentisti che si occupano dei detenuti. “C’è però ancora molto da fare perché, ad esempio, non sono risolti i problemi di salute mentale e di dipendenza dai farmaci, anche per l’utilizzo forse eccessivo di psicofarmaci, a volte non regolari”. Agrigento. Un posto di lavoro per ricominciare a vivere. La seconda opportunità per i detenuti di Giada Valdannini spazio50.org, 1 ottobre 2023 Grazie agli sgravi fiscali previsti dalla legge Smuraglia, Seconda Chance opera nei penitenziari mettendo in contatto imprenditori e persone recluse. La storia di chi ha trovato una nuova strada. “La possibilità di una vita differente, io credo che la meritiamo tutti”. Gabriella Cucchiara non ha dubbi. Ha scelto di assumere due ragazzi - uno di 30 e l’altro di 46 anni - e di dare loro una seconda opportunità: quella di ripartire da sé, dal lavoro, dalla propria autonomia. Un’occasione tanto più formidabile se si pensa che questi due uomini - uno di Roma, l’altro di Catania - vengono diretti dal carcere Petrusa, a Favara. Quando la raggiungiamo, Gabriella è al lavoro nel suo ristorante. Si tratta de La Promenade, nel bel mezzo della Valle dei Templi: è ad Agrigento. Gabriella ha fatto una scelta orientata da una profonda empatia e non trattiene una certa emozione nel raccontarci di come sia arrivata all’assunzione di questi due lavoratori. “Quando ho avuto il colloquio con loro in carcere, mi sono sentita piccola - dice -. Ho sentito chiaramente come per loro fossi un’ancora, la possibilità di costruire un futuro altrove. D’altronde, senza una seconda chance, come ci si può riscattare? Senza il lavoro non si può fare nulla”. E Seconda Chance è proprio il nome dell’Associazione non profit del Terzo Settore - firmataria di un protocollo di collaborazione con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria -, grazie alla quale tutto ciò è stato possibile. Fondata a luglio dello scorso anno, è frutto di un lavoro tenace e ostinato di Flavia Filippi - giornalista del Tg La7 - che, nel solo arco di un anno, è riuscita a trovare un impiego a oltre duecento persone tra detenuti, ex detenuti, familiari di detenuti. E il numero degli occupati è in costante aumento, anche mentre scriviamo. “Ho sempre avuto questa attrazione per le persone che non si possono difendere - ci racconta Flavia -, per quelli che non hanno le forze, anche la forza economica di scegliersi un buon avvocato o che sono emarginati. Ce l’ho sempre avuta, fin da bambina”. E forse è proprio questa la molla che spinge questa donna a impegnarsi senza risparmiarsi, con l’obiettivo - chiaro - di rendere l’attività di Seconda Chance sempre più capillare. Nel caso dell’incontro con Gabriella - che da dieci anni è presidente provinciale della Fipe (Federazione Italiana Pubblici Esercizi) e fa parte del direttivo nazionale delle Donne Imprenditrici della Confcommercio - tutto è avvenuto durante un’assemblea di categoria in cui Flavia ha presentato il programma dell’associazione nel tentativo di individuare sempre più imprese disposte ad aderire al progetto. Gabriella non se l’è fatto ripetere: “Sono rimasta colpita dal video con la testimonianza di un ragazzo che aveva trovato lavoro tramite Seconda Chance e ho deciso di mettermi in gioco, di fare ciò che era nelle mie possibilità”. Dopo l’incontro in carcere, infatti, ha avviato le procedure per l’assunzione dei ragazzi che infatti sono entrati a far parte della sua brigata. Uno aveva esperienza nella ristorazione perché lavorava nel bar del carcere e l’altro era invece più esperto di manutenzione. Entrambi si sono messi all’opera nel ristorante della Valle dei Templi e, racconta ancora Gabriella: “Non smettono mai di ringraziarci per l’opportunità e portano con loro lo stupore intatto di chi, per anni, è stato di fatto tagliato fuori dalla vita oltre il carcere”. Ci spiega meglio: “Ogni gesto anche scontato - come la torta di compleanno per festeggiare uno di loro - viene accolta con grande emozione e persino la tecnologia che per tutti noi è ormai un alleato, per chi ha passato anni in un penitenziario può essere motivo di incredibile stupore”. Gabriella questa sua scelta la ripeterebbe ancora mille volte e non fa che proseguire il suo tam tam affinché anche nuovi colleghi facciano la scelta di assumere dal carcere. Come ciò sia possibile ce lo spiega Flavia Filippi: “La legge Smuraglia (193/2000) offre sgravi fiscali e contributivi a chi assuma, anche part time o a tempo determinato, detenuti in articolo 21 O.P. (legge 354/75) cioè persone ammesse al lavoro esterno”. Seconda Chance svolge perciò un’attività molto simile a un’agenzia di collocamento perché , come racconta Flavia: “Se un ristoratore chiama e dice di aver bisogno di un cuoco, mi attivo affinché magari un ex detenuto che ha lasciato il carcere due giorni prima - e mi ha scritto disperato perché si trova fuori, ma senza lavoro - possa fare un colloquio e ricollocarsi”. Sì, perché ciò che stupisce di questa associazione è proprio l’idea di tessitura, la grossa rete messa in campo che tiene assieme il personale dei penitenziari, le persone che scontano la pena, coloro che hanno finito il loro cammino in carcere e le loro famiglie. E non stupisce che gli stessi detenuti e i loro familiari intrattengano un rapporto di riconoscenza e aggiornamento con chi ha permesso loro di immaginare e costruire un nuovo percorso. Fuori dalle mura del carcere. Le imprese, per parte loro, oltre ad aderire a un progetto sicuramente incentivante possono trarne il vantaggio di sgravi fiscali e agevolazioni su questo genere di assunzioni. Un lavoro - pensateci - poderoso, nato per dare risposte ai detenuti ma che pure fa i conti con non poche difficoltà dal momento che Seconda Chance - pur avendo vinto due bandi di gara con la Regione Lazio e con la Fondazione Cassa di Risparmio di Firenze, e avendo ricevuto anche piccoli contributi che sono sicuramente ottimi segnali di incoraggiamento - non può basarsi soltanto sul volontariato e cerca, dunque, chi la sostenga e l’aiuti fattivamente. Ferrara. Un anno di volontariato ambientale da detenuti periscopionline.it, 1 ottobre 2023 È stato festeggiato giovedì 28 settembre, nella pausa pranzo dopo la consueta attività di manutenzione del verde pubblico, il primo anno di esperienza di volontariato ambientale vissuto da tre detenuti in regime di semi-libertà del carcere di Ferrara. Grazie a Progea, una delle associazioni firmatarie della convenzione - stipulata tra la direzione del Carcere e il Comune di Ferrara - i volontari detenuti si sono visti offrire, insieme agli altri, un pranzo presso il ristorante “Al Volo”, in luogo del consueto pranzo presso la mensa di Viale K, come prevede la convenzione. Un momento conviviale cui hanno partecipato gli artefici del progetto, ovvero le associazioni ambientaliste che tre volte la settimana gestiscono la manutenzione di alcune aree verdi in accordo con l’Ufficio verde di Ferrara, presente al pranzo nelle figure dell’assessore Maggi e della funzionaria Rita Berto. L’idea di coinvolgere i detenuti è nata all’interno del gruppo di volontari che autogestiscono con piantumazioni, pulizia e manutenzione alcune aree verdi pubbliche tra le quali il bosco di via Marconi, il parchetto della Cappella Revedin, il parco Giordano Bruno vicino all’ex mutua, il giardino Ilaria Alpi. I gruppi di volontari appartenenti a La voce degli alberi, Green Team, Fare Verde, Difesa ambientale estense, Plastic Free, Ferrara Progea, supportati da Rete Lilliput per l’acquisto delle tute da Lavoro, da Zerbini Garden per i guanti e gli attrezzi, dalla Cooperativa Sociale Il Germoglio per la messa a disposizione delle biciclette e appunto da Viale K per l’accoglienza in mensa, hanno firmato una convenzione di due anni che ha portato i detenuti alla prima uscita nel 31 luglio 2022, con inizialmente una sola giornata di intervento. Data la positività dell’esperienza e la siccità dell’estate 2023, le uscite sono diventate tre alla settimana. Il pranzo offerto da una socia di Progea ha voluto essere il ringraziamento non solo alle istituzioni, che hanno permesso l’esperienza, ma soprattutto ai detenuti che hanno sviluppato passione e competenza in tutte le giornate di intervento e che hanno permesso a tutti i volontari ambientali di abbattere il pregiudizio sulla condizione di detenuto. L’esperienza continua ogni martedì, giovedì e sabato e sono benvenute tutte le persone che si vorranno unire a noi. Roma. Visto da dentro: le notizie scritte dai detenuti di Stefano Liburdi spazio50.org, 1 ottobre 2023 Con un corso di giornalismo e la pubblicazione di articoli di attualità, i detenuti del penitenziario di Rebibbia hanno trovato il modo di dare un senso al loro tempo. “Dentro questa cella capisco sempre che ore sono: se aprono i cancelli, le 8.30. Passa il vitto, è quasi mezzogiorno e così via, fino alle 20.00, quando richiudono le porte. Riconosco i giorni della settimana dai prodotti che arrivano con la spesa e da come si comportano le persone”. Luca, in un articolo uscito sul quotidiano Il Tempo, descrive così il trascorrere di minuti, ore, giorni, mesi e anni della sua detenzione. Il carcere è il luogo del tempo, dove questo si misura ogni giorno, ogni istante. Ma può essere anche il luogo senza tempo, dove ci si abbandona all’ozio e all’indifferenza: uno spazio temporale da far trascorrere al più presto, per tornare dopo alla vita come prima che spesso, purtroppo, riporta in carcere. La vera sfida che si combatte nei penitenziari è dare valore al tempo, dargli un significato, utilizzarlo. Far diventare la detenzione uno spazio da riempire, magari avviando un programma di reinserimento culturale e di formazione utile per progettare il futuro in carcere e fuori, proprio come detta l’articolo 27 della nostra Costituzione. In quest’ottica si inserisce l’iniziativa de Il Tempo che ha deciso di pubblicare articoli scritti dai detenuti in una pagina settimanale a loro riservata. In “Visto da dentro” gli autori degli articoli non raccontano solo la loro vita detentiva ma affrontano, da una diversa prospettiva, i temi che più fanno discutere l’opinione pubblica. “I detenuti del carcere di Rebibbia Nuovo Complesso raccontano i principali fatti di attualità. Lo sguardo sul mondo di chi da quel mondo è escluso”, recita infatti l’introduzione della pagina. Così, nei mesi scorsi, hanno scritto di guerra, di cambiamento climatico, di comunicazione, della nuova social card per le famiglie bisognose, di Intelligenza Artificiale, di cinema e di sport. A impreziosire la pagina, le immagini dei dipinti realizzati dai ragazzi del laboratorio di pittura “Rebibbia Digital Art”, organizzato da La Ribalta Centro Studi Enrico Maria Salerno. Gli autori degli articoli sono i detenuti che frequentano il corso di giornalismo che già da qualche anno si svolge all’interno del carcere romano, un corso voluto dalla direttrice Rosella Santoro e da Mauro Pellegrini, da molti anni impegnato nella formazione dei detenuti a un lavoro spendibile anche quando avranno terminato di scontare la loro pena. È durante queste lezioni di giornalismo, fatte di confronti sempre vivi e mai banali, che nascono le idee e poi gli articoli che andranno a comporre la pagina del quotidiano. Passione, riscatto e voglia di sentirsi parte di un “qualcosa”, sono sempre presenti durante gli incontri di giornalismo, esattamente come il familiare e tranquillizzante suono della moka che preannuncia l’uscita dell’immancabile caffè che, all’interno di queste mura, sembra più buono che mai. Varese. Una nuova vita dopo il carcere: tutti insieme per dare speranza varesenoi.it, 1 ottobre 2023 Al Centro Congressi Ville Ponti la charity dinner della Valle d’Ezechiele ha visto emergere storie e sforzi positivi. Si è tenuta venerdì nella splendida cornice del Centro Congressi Ville Ponti a Varese la Prima Charity Dinner della cooperativa sociale La Valle di Ezechiele. L’iniziativa nasce come prosieguo del convegno “Carcere e lavoro” dello scorso 29.05, sempre a Ville Ponti, indetto dal Prefetto di Varese, Salvatore Pasquariello, insieme a Mauro Vitiello, Presidente della Camera di Commercio di Varese. Presenti entrambi all’evento della nostra cooperativa, che si occupa di dare nuova vita alle persone uscite dal carcere, la serata ha avuto come madrina la conduttrice TV Adriana Volpe e dietro i fornelli lo chef stellato Silvio Salmoiraghi, con la troupe de “L’acquarello”, il suo ristorante a Fagnano Olona. A lui la sfida di cucinare coi prodotti di economia carceraria, con cui si compongono gli ormai celebri “Cesti di Natale”, il cui nuovo catalogo è stato presentato proprio ieri sera (ed è disponibile online, con ordinativi possibili fino al 30.10.23 e ritiro o spedizione entro l’8.12). La Sala è stata allestita con la competenza di Ethicatering, il primo servizio di catering con prodotti di economia carceraria, la cui titolare, Beatrice Busi Deriu era presente in sala. A dare il via alle danze, la neo eletta Presidente de ‘La Valle di Ezechiele’, Anna Bonanomi che ha presentato il progetto, oggetto della raccolta fondi della serata, dal nome ‘Su da terra’: una piccola azienda agricola, di quasi 10.000 metri quadri a un km dal penitenziario di Busto Arsizio, su un terreno che il comune sta valutando di affidare alla cooperativa in comodato d’uso. Presenti la direttrice della Casa Circondariale, Maria Pitaniello, e la Dirigente dell’Istituto Verri, Barbara Pellegatta, che offre corsi di formazione in agraria, per le persone detenute, hanno entrambe apprezzato l’iniziativa, che potrebbe diventare il naturale esito professionale di un percorso di studi intramurario. Non dimentichiamolo: lo scorso anno scolastico si è chiuso con diplomato in agraria con 100/100! C’è della stoffa! Giuliano Bossi, direttore di Confagricoltura Varese, ha assicurato la partecipazione all’impresa, anche a nome del Presidente Giacomo Brusa, assente per altri impegni lavorativi.Lungo la serata, testimonianze di percorsi “riusciti”: Luis, che ha lavorato in cooperativa grazie alla collaborazione con la Fondazione Oratori Milanesi per la distribuzione delle magliette degli oratori estivi e ora è stato assunto nella Fonderia Caprioli, di Fagnano Olona. Cosimo, che lavora alla CalloniTex di Arconate a fare i sacchi in juta per i nostri cesti di Natale, assunto a tempo indeterminato e ora con un ruolo di responsabilità, nella produzione. Presente don Stefano Guidi, originario di Marnate e direttore della Fom, ha preso parola Simone Frigerio, della Frigerio Viaggi: da lui provocato, ha preso a lavoro una persona in detenzione domiciliare, all’Acquatica Park di Milano, con un risultato così soddisfacente, che ora sta facendo di tutto per assumerlo nella manutenzione, durante il periodo invernale. I fratelli Barone, titolari di The Wall: il birrificio che ha preso a lavoro Antonio, da cui il nome della prima “Prison Beer: la birra che detiene la bontà”; marchio brassicolo de La Valle di Ezechiele. Tante voci di speranza! Presente l’onorevole Maria Chiara Gadda, sempre attenta al mondo carcere, che ha ricordato agli amministratori presenti le potenzialità nella digitalizzazione della nostra cooperativa. Il Sindaco di Varese, Davide Galimberti ha ricordato la recente esperienza di assunzione in comune di persone in detenzione e Marco Baroffio, sindaco di Fagnano Olona, che potuto certificare una numerosa e importante presenza dei suoi cittadini alla serata, segno di una sensibilità viva e preziosa. Verso il finire della serata hanno preso parola Sabrina Gaiera, di cooperativa Intrecci, agente di rete presso il penitenziario bustocco e operatrice nel Dormitorio Sant’Anna, per ricordare i tratti dell’impegno professionale di chi cerca di tutelare i diritti delle persone considerate “ai margini” della collettività; l’avvocato Genoni, Presidente della Camera penale di Busto Arsizio, che non ha mancato di elogiare l’impegno della cooperativa nell’opera di ‘reinserimento sociale’ di chi esce dalla galera; il Questore di Varese, Michele Morelli, che ha annotato come il vero poliziotto non si accontenta di fermare una persona che ha commesso un reato, ma è contento se lo vede rinascere in una vita nuova e onesta. Siamo profondamente grati a Mauro Vitiello, che ci ha gratuitamente ospitato nella location più glamour della provincia. Al Prefetto, Salvatore Pasquariello: senza la sua intraprendenza nell’indire il convegno di fine maggio, tutto questo non sarebbe mai accaduto. A Silvio Salmoiraghi, le cui magie culinarie hanno reso lo stare a tavola un vero piacere. Al Gruppo Scout Busto 3, che si è prodigato con autentico spirito di servizio, come ha ricordato Giulia, la responsabile, con camerieri di altissimo profilo e una macchia di colore azzurro, davvero piacevole. Un samaritano tra gli uomini senza dimora di Alessandro Beretta Corriere della Sera, 1 ottobre 2023 “I sopravviventi”, di Girolamo Grammatico (Einaudi). L’autore dedica l’esordio al mondo degli homeless, che conosce bene. Centonovanta ospiti e quattro operatori, a Roma vicino alla stazione Termini, in un centro accoglienza senza finestre sono il luogo in cui si muove l’io narrante de I sopravviventi, primo romanzo di Girolamo Grammatico, nel mondo dell’assistenza ai senza dimora negli anni Zero. A loro è dedicato il titolo, perché “I senza dimora sono sopravviventi. Sopravvivono alla miseria. Non sono morti e non sono vivi”. Italiani, afghani, siriani, romeni, senegalesi, per dirne solo alcuni, senza più niente ed esclusi dalla società: “Perché è costume definire una persona per ciò che non possiede, la casa, e non per ciò che è”. Girolamo ha lavorato 17 anni nel campo e ricostruisce tante vicende del suo primo periodo da operatore, arrivato da Trapani a Roma per frequentare Sociologia, con una formazione cristiana nell’Azione Cattolica e una famiglia complicata alle spalle. Un memoir in 24 capitoli dal passo narrativo personale e corale, per la capacità di osservazione, segnato nella Nota dell’autore da un’idea: “Questo è l’unico contributo che uno scrittore che parte dalla vita può portare: trasformare i fatti in storie”. Sono vicende spesso tragiche, dure per la realtà in cui sono immerse, come quella in apertura di libro in cui Condorelli muore per una crisi epilettica, mentre altre mostrano gli sforzi e la speranza degli operatori per dare dignità alle persone, dall’offrire un letto a chi non l’ha, a difficili ricongiungimenti familiari o far trovare un lavoro. A indirizzare gli episodi, come argini di un fiume utili ad arricchire lo stile realistico del racconto, sono temi e immagini ricorrenti. La prima, concreta, è quella che definisce i ruoli: “Le chiavi erano l’amuleto. I senza dimora non hanno le chiavi di casa, le chiavi della macchina, le chiavi del loro destino, non hanno le chiavi di nulla. Gli operatori hanno le chiavi”. Un’altra, fondamentale, è la parabola evangelica del buon samaritano con una rilettura fisica della “misericordia”: “Il Nuovo Testamento usa il termine esplanchniste, che ha un significato preciso, materico, vivo. Il samaritano non provò compassione: gli si mossero le viscere dentro. Alla vista del dolore altrui, il nostro corpo reagisce e ci guida”. Infine, vi è il continuo ragionare sulla “dimora”, dall’aspetto pratico - gli immobili disabitati che potrebbero accogliere gli homeless - a quello psicologico, la casa come identità: “Senza oggetti nostri, scelti da noi o da qualcuno per noi, non abbiamo la creta per modellare il nostro io”. Non ci sono critiche dirette al sistema che crea l’esclusione, ma inviti a riplasmare il pensiero e la pratica: “Il nostro welfare vede solo pezzi, organi, fa fatica a vedere gli organismi”. Quindi, ogni servizio di inclusione sociale ha un suo linguaggio, ufficio e burocrazia: “Sei alcolista, schizofrenico, diabetico, zoppo, ex detenuto. E se sei più cose insieme è un guaio, nessuno riesce ad aiutarti”. Al contrario Grammatico, rischiando per primo di rompersi tra “i fallimenti di centinaia di sconosciuti”, illumina chi si trova ai margini restituendogli unità e umanità. La storia di Valter di Cera: la mano di Dio nella vita dell’ex Br di Angelo Picariello Avvenire, 1 ottobre 2023 Le scelte di Valter Di Cera fra brigatismo, Carabinieri, Cl, Focolari, un mancato omicidio e tante vite salvate aprono a osservazioni sul ruolo della Provvidenza nella fine della lotta armata. Pubblichiamo parte della prefazione di Angelo Picariello al volume di Valter di Cera “L’infiltrato di Dio - Dalle Brigate Rosse alla conversione. La storia di uno straordinario viaggio di fede” (Tau Editrice). Valter Di Cera rappresenta un incrocio fra un uomo e un film che ha cambiato la storia italiana. Un preciso copione scritto da qualcuno, probabilmente con la Q maiuscola, non avendo mai rivestito, Valter, incarichi di notorietà né da giovane apprendista della lotta armata, né poi di visibilità sul versante opposto - da collaboratore, a lungo celato, della Sezione speciale anticrimine dei Carabinieri... Dopo la disfatta delle Brigate rosse, il suo apporto evolve negli Organismi della Presidenza del Consiglio dei ministri per contribuire all’opera di prevenzione del rischio di recrudescenza del fenomeno eversivo interno. Ero rimasto colpito dalla sua deposizione all’ultima commissione Moro presieduta da Beppe Fioroni in cui spiegava le ragioni, in realtà difficilissime da spiegare, per cui al “battesimo del fuoco” che sarebbe dovuto avvenire per lui a Roma in via Metronia, il 24 settembre 1979, non aveva obbedito all’ordine di Prospero Gallinari di uccidere, evitando di sparare a dei poliziotti. A seguito di questa mancata “copertura” Gallinari venne arrestato… Una scena molto precedente lo aveva visto impegnato, a 14-15 anni nel raggio della nascente Comunione e liberazione a partecipare alla “caritativa” per dare una mano ai baraccati, a cantare le canzoni di Claudio Chieffo che meglio di ogni altra cosa descrivono l’ansia esistenziale di quel tempo. Ebbene, alla commissione Moro lui spiegò quel suo sottrarsi all’obbligo del brigatista come una sorta di “ritorno di fiamma” di quella sua militanza cattolica, ereditata dalla famiglia, in particolare dal papà, impegnato nella sezione delle Acli di Don Bosco, poi passato, dopo la scissione, al Movimento cristiano lavoratori. Il comportamento di Valter accese in alcuni dirigenti brigatisti il sospetto che egli potesse essere un “infiltrato” di cui sarebbe stato meglio liberarsi al più presto. Il film invece lo vede partire per una caserma del Friuli, il più lontano possibile da Roma, dove ormai la sua stessa vita era a rischio per i sospetti dei militanti clandestini. Addosso a Gallinari furono rinvenuti degli appunti dettagliati di una operazione che si stava organizzando al super-carcere dell’Asinara in cui erano detenuti i vertici delle Brigate rosse. Quel progetto di evasione di massa, con la carneficina che prevedeva di agenti in servizio, a seguito dell’arresto del suo ideatore non verrà più portato a compimento, e alcuni brigatisti detenuti negli anni successivi, trasferiti al carcere di Nuoro iniziarono pian piano un percorso di recupero e poi anche di riconciliazione con le vittime andato a buon fine. Per Valter invece iniziò un percorso di collaborazione con gli stessi carabinieri che erano andati ad arrestarlo in Friuli, che credettero nella sincerità di quel suo consegnarsi e mettersi a disposizione dello Stato. Nacque così la Squadra acchiappi, che condusse nel corso degli anni Ottanta fino agli anni Novanta a una serie di imponenti operazioni antiterrorismo che portarono di fatto a sgominare del tutto il progetto eversivo delle Brigate rosse… Interessante ciò che scrive il giudice antiterrorismo milanese Armando Spataro nel suo libro Ne valeva la pena (uscito per Laterza nel 2011). “Alcuni collaboratori erano disposti a girare nelle auto-civetta, opportunamente resi irriconoscibili, per guidarli nei quartieri e presso i luoghi normalmente usati per i loro incontri con i “compagni”, nella speranza di incontrare qualcuno ancora latitante. Ci sembrava un’idea un po’ balzana, ma non vi era ragione per opporsi. Bene, sembra incredibile, ma un buon numero di pericolosi latitanti cadde in quel modo... Qualcuno si scandalizza? Io assolutamente no - conclude Spataro -, specie se penso alle vite umane salvate e agli assassini catturati in quel modo”… Il racconto di L’Infiltato di Dio, coincide, a livello fattuale, con quello del capo della Sezione, l’allora capitano, poi divenuto colonnello al comando della Ssa, Domenico Di Petrillo nel libro Il lungo assedio. Quest’ultimo attribuisce il merito degli “acchiappi” al metodo dei “rami verdi”, ereditato dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Il racconto di Valter Di Cera, invece, ricostruisce tutto all’interno di un disegno provvidenziale di cui lui è stato consapevole strumento. Va segnalato il ruolo fondamentale che ebbe il movimento dei Focolari, attraverso Graziella De Luca. Furono loro, insieme ai Missionari Oblati e a quei due grandi apostoli della riconciliazione che furono padre Adolfo Bachelet e suor Teresilla Barillà ad accompagnarlo, a incoraggiarlo in questo cammino, a pregare per lui. Non solo. Questa Chiesa viva e coraggiosa si occupò anche di ospitarlo nei conventi quando ci fu bisogno di trovare un luogo nascosto e protetto per consentirgli di continuare la sua meritoria opera. Tanti clamorosi arresti poterono avvenire senza bisogno di usare le armi del nemico: né violenza, né tortura e pochissimo spargimento di sangue. L’ultima scena del film ritrae Valter a Roma, all’inizio del 1988 nei pressi della basilica di Santa Maria Maggiore, che riconosce un pericoloso latitante, forse il più pericoloso e sanguinario in quel momento, Antonino Fosso detto il Cobra. La sorte di Valter sembrava segnata essendo Fosso armato e intento a impugnare l’arma per fare fuoco contro di lui, ma anche qui Qualcuno con la Q maiuscola sembra averci messo la mano. Una regia insondabile volle che, all’indomani mattina, “il Cobra” fosse riconosciuto dal colonnello Di Petrillo e dal maggiore Cataldi, fermo alla fermata di un bus. Un’operazione brillantissima e coraggiosa, ma anche Di Petrillo, autore materiale dell’arresto ha ammesso, in una intervista che gli ho fatto per “Avvenire” che era stato decisivo l’allarme lanciato la sera prima da Di Cera, il che consentì di sventare un attentato all’allora segretario della Dc Ciriaco De Mita, senza riuscire a impedire - il suo grande cruccio - che con una mossa vigliacca i brigatisti di lì a qualche mese ripiegassero su Roberto Ruffilli, l’uomo-riforme di De Mita, ucciso nella sua casa a Forlì nell’aprile del 1988. Volontariato mordi e fuggi? di Beppe Severgnini Corriere della Sera, 1 ottobre 2023 Nelle emergenze, se c’è da aiutare o spalare, la gente accorre. Soprattutto i ragazzi. Chiedere un impegno regolare è più complicato. Anche a causa della burocrazia. Compiere un gesto generoso è facile, essere generosi è difficile. Potrei suggerirlo come motto all’Abio, Associazione per il Bambino in Ospedale. Fondata nel 1978, assiste i piccoli ricoverati e le famiglie. Ieri ha festeggiato la giornata nazionale in molte piazze d’Italia. Un aiuto prezioso, un servizio formidabile. Ma la preoccupazione si sente. Di Abio, da anni, sono testimone (oggi affiancato dalla nipotina Agata, diciotto mesi, fuoriclasse del video). Ieri sono stato a Magenta. La locale associazione stenta: si sono informati in 60, all’incontro preliminare erano in 25, sono rimasti in tre. Perché tante rinunce? Perché il servizio ai bambini in ospedale - mi ricordava ieri il presidente Abio, Giuseppe Genduso - richiede preparazione: sanitaria, psicologica, pedagogica, legale. Le norme sulla protezione dei dati (Gdpr) sono complesse (fin troppo). La contabilità dev’essere rigorosa. Il servizio preciso, continuo, regolare. Tutto ciò richiede impegno e fatica. La stanchezza è diffusa. In un paese vicino Crema, il servizio di soccorso dispone di tre ambulanze: ora rischia di chiudere per mancanza di volontari. Ma il fenomeno è nazionale. Il numero di volontari è calato del 15% rispetto al 2015 (dato Istat), tranne nelle regioni del Sud. La Stampa, in maggio: “Lavoro precario e burocrazia, meno giovani fanno volontariato: spariti in 900 mila”. Avvenire, in giugno: “Oltre la solidarietà spontanea che viene fuori con le emergenze, come in Emilia-Romagna, la realtà comunica un disimpegno simile alla partecipazione politica”. Elisabetta Soglio, che per prima ne ha parlato su Buone notizie del Corriere, conferma: “In un’emergenza, se c’è da aiutare o spalare, la gente accorre. Soprattutto i ragazzi. Chiedere un impegno regolare è più complicato: obblighi scolastici e di lavoro, vita sociale, imprevisti. Per non parlare della burocrazia, esiste anche nel volontariato”. Che fare? Be’, le regole potrebbero essere allentate: il carico amministrativo nel terzo settore sta diventando insostenibile. E i volontari - tutti, non solo quelli dell’Abio - devono convincersi che contano la precisione, l’affidabilità, la costanza. I clown in reparto sono ammirevoli. Ma arrivano e ripartono. La differenza la fa chi resta. Quando inveiamo contro i migranti o invochiamo la pena capitale, dovremmo ricordarci che parliamo di persone di Loredana Lipperini L’Espresso, 1 ottobre 2023 Sui social (e non solo) la tendenza al populismo, alla chiusura delle frontiere, alla sete di giustizia esemplare dilaga. Ma l’oggetto dell’odio non sono numeri o fantasmi. Bensì umani dotati di un corpo. Alla fine del secolo scorso si parlava di smaterializzazione dei corpi in virtù della nascente tecnologia, ma si ragionava graziosamente in astratto: Internet era il mezzo che, sognava il filosofo Pierre Lévy, ci avrebbe resi simili agli angeli tessendo un’intelligenza collettiva che avrebbe accresciuto il nostro sapere e la nostra umanità. Potrebbe andare ancora così, perché siamo solo agli inizi del cambiamento, ma in questi giorni si ha la sensazione che ci sia poco di angelico nella nostra smemoratezza dei corpi. Di quelli degli altri, almeno, perché il nostro è monitorato, accudito, nutrito e curato laddove ci venga offerta la possibilità di farlo. Per esempio: il 13 settembre scorso, quando seimila persone sbarcate a Lampedusa si accalcavano nell’hotspot, una mediatrice si è sfogata dicendo: “Sono stremata, ma non c’è neanche lo spazio per cadere a terra”. Immaginiamo, dunque: un luogo tutt’altro che piccolo dove si è stretti e accaldati e affamati e assetati e disperati e non si può neppure svenire. Perché ciò di cui dovremmo parlare quando si promettono centri per il rimpatrio (ancora più inadeguati degli hotspot a fronte della mutazione storica in corso) è questo: fame, sete, paura, caldo, freddo. Che è quello che provano i possessori di corpi, i quali non sono fantasmi e non sono numeri. O personaggi di Dungeons & Dragons: il popolarissimo gioco di ruolo non viene evocato a caso, dal momento che non solo continua a essere assai amato e praticato, complice l’omaggio di serie televisive come “Stranger Things”, ma si è diffuso anche in carcere. Anzi, nel braccio della morte di Huntsville, Texas. A fine agosto The New York Times ha dedicato un lungo reportage alla storia di due detenuti, Tony Ford e Billy Wardlow, entrambi condannati alla pena capitale per un crimine commesso a 18 anni. Ford era già un Dungeon Master, e sapeva disegnare mappe e personaggi, Wardlow non aveva mai giocato, ma si appassionò subito e inventò un personaggio che nei vent’anni successivi sarebbe diventato leggendario, Arthaxx d’Cannith. Ford e Wardlow sono stati condannati quando erano ragazzini e nessuno di loro avrebbe mai fatto l’esperienza del mondo adulto: sicuramente non Wardlow, che è stato giustiziato nell’estate del 2020, dopo aver immaginato per il suo Arthaxx un’avventura senza via di scampo. E quando pensiamo che è civile e compassionevole permettere di giocare di ruolo nel braccio della morte, ci si dimentica la barbarie della legge che consente di uccidere, non solo negli Stati Uniti (883 esecuzioni in 20 Stati nel mondo nel 2022, dice Amnesty International, con un aumento del 53 per cento rispetto al 2021). La cosa preziosa che dovrebbe far capire che quelle cifre sono esseri umani è un bellissimo romanzo di Michael Bible, “L’ultima cosa bella sulla faccia della terra”, appena pubblicato da Adelphi nella traduzione di Martina Testa. Anche qui c’è un corpo, quello del ragazzo Iggy che consuma l’ultima cena nel braccio della morte, panino con pullet pork e birra ghiacciata, e guarda l’albero del corniolo che, lontano, perde l’ultima fioritura, sapendo che non ne vedrà mai più un’altra. È quel che fa tornare uomo, o donna, un numero, come dovremmo fare tutti, prima di urlare “pena di morte” o “rimandateli a casa loro” su un social, o in una dichiarazione ufficiale. Migranti. Bocciato il decreto Cutro: “È illegittimo trattenere chi sta richiedendo asilo” di Francesco Grignetti La Stampa, 1 ottobre 2023 Accolto il ricorso di quattro tunisini rinchiusi nel centro per le espulsioni facilitate di Pozzallo. FdI: “Muove più sdegno che sorpresa”. Alla prova del giudice, naufraga subito il decreto Cutro. “Illegittimo”, lo definisce Iolanda Apostolico, la magistrata di Catania che esamina i ricorsi dei primi quattro tunisini che sono stati rinchiusi nel Centro per le espulsioni facilitate di Pozzallo, appena inaugurato. Non va la fidejussione per evitare il trattenimento, così come è stata configurata dal governo. Ma è la stessa procedura prevista dal decreto ad essere messa in discussione dalla giudice, in quanto prevede in automatico, non caso per caso, e senza nemmeno adeguate motivazioni, il trattenimento di 30 giorni per chi arriva da un Paese considerato sicuro a priori. Immediatamente si è scatenata la polemica. Nessun si è soffermato su quanto dice il Governatore uscente della Banca d’Italia, Ignazio Visco, che avverte quanto “l’invecchiamento della popolazione ci impone di essere aperti all’immigrazione” e ha ricordato come in “Giappone l’immigrazione era un tabù e ora, da qualche anno, hanno un piano”. No, la sarabanda parte per i quattro tunisini di Pozzallo. “Sbarcato da 10 giorni, e ricorso subito accolto dal Tribunale. Ma aveva l’avvocato sul barcone? Riforma della giustizia, presto e bene”, si fa sentire Matteo Salvini. Commenta il capogruppo FdI Tommaso Foti: “Muove più sdegno che sorpresa”, mentre per Sara Kelany, responsabile immigrazione del partito “spiace dover constatare come ancora una volta si pieghi il diritto all’ideologia”. Il Viminale ha annunciato ricorso. Ed era scontato, perché la decisione presa nel tribunale di Catania è una picconata alle fondamenta della strategia italiana (ed europea) di rimpatriare più migranti possibile, a cominciare dai tunisini. C’è il nodo della fidejussione per evitare il trattenimento, che sarebbe contemplata dalle regole europee, ma nella versione italiana non è “compatibile” con la Direttiva. Già, perché è diabolica: deve essere fatta in banca e soltanto dal diretto interessato, non da terzi. Ma come può un migrante sbarcare da un barcone e avere già il conto corrente? Inoltre, la fidejussione andrebbe valutata individualmente; il governo ha invece fissato la cifra di 5000 euro. C’è poi l’aspetto della “procedura accelerata di frontiera”, che è quanto solitamente accade ai varchi di controllo passaporti qualora uno straniero non abbia il visto di ingresso. Cioè il respingimento senza entrare nel territorio italiano. Per via del decreto, ora si trova ad essere dilatata nello spazio (da Lampedusa dove sbarcano a Pozzallo dove vengono trattenuti) e nel tempo (dalle poche ore per l’esame di un passaporto ai 30 giorni per completare l’esame della richiesta di asilo). Se cade però ogni possibilità di evitare il trattenimento con modalità alternative (e si capisce meglio come e perché è stata pensata questa fidejussione), resta solo il trattenimento. Misura indubbiamente coercitiva. E ciò, come citato dalla giudice Apostolico, va contro la giurisprudenza europea, che nel 2020 ha espressamente escluso che un richiedente asilo “sia trattenuto per il solo fatto che non può sovvenire alle proprie necessità, che tale trattenimento abbia luogo senza la previa adozione di una decisione motivata, e senza che siano state esaminate la necessità e la proporzionalità di una siffatta misura”. Per i quattro giovani tunisini, il provvedimento del questore non è stato convalidato. Ciò a prescindere dalle loro spiegazioni sul perché siano arrivati in Italia. Chi perché inseguito dai creditori. Chi “minacciato dai suoceri” che lo ritengono responsabile della morte della figlia, deceduta in un precedente tentativo di traversata. Chi si dichiarava “perseguitato per le caratteristiche fisiche che i cercatori d’oro del suo Paese, secondo credenze locali, ritengono favorevoli nello svolgimento della loro attività, cioè alcune particolari linee della mano”. Infine il quarto ha detto di essere qui a cercare fortuna perché in Tunisia la sanità costa cara e sua moglie ha bisogno di assistenza al momento del parto. I quattro sono stati immediatamente liberati, salvo uno, arrestato perché già espulso in precedenza, e un altro che nelle stesse condizioni ha preferito tornare in Tunisia. “Ovviamente - spiega Riccardo Campochiaro, direttore del Centro Astalli di Catania, l’istituto dei gesuiti che si occupa di migranti - queste persone sono richiedenti asilo e lo Stato dovrà trovargli un posto in un Centro di accoglienza”. In definitiva, il provvedimento della giudice Apostolico smonta il trattenimento “breve” che il decreto Cutro aveva introdotto per chi proviene da Paesi considerati sicuri. E stavano già sorgendo i Centri di trattenimento da 30 giorni, via di mezzo tra i Cpr e i Centri di accoglienza. Aspetto ben chiaro al ministero dell’Interno, dove si ricorda come la “procedura accelerata di frontiera trova l’unanime consenso dei Paesi europei nell’ambito del costruendo nuovo Patto per le migrazioni e l’asilo”. Migranti. Una lezione di diritto costituzionale per l’esecutivo di Francesco Pallante Il Manifesto, 1 ottobre 2023 I provvedimenti con cui il tribunale di Catania non ha convalidato il trattenimento di tre migranti tunisini presso il centro per i richiedenti asilo di Pozzallo sono una lezione di diritto costituzionale per il governo. A venire in evidenza sono soprattutto due profili: la gerarchia delle fonti del diritto e i rapporti tra diritto statale e diritto europeo. Sembra incredibile doversi soffermare sul primo punto, per ribadire che la Costituzione prevale sulla legge, sugli atti aventi forza di legge, nonché, a maggior ragione, su tutti gli atti subordinati alle fonti legislative (i decreti governativi: siano essi adottati dall’intero governo, dal solo presidente del Consiglio o da uno o più ministri). Se il Governo - che è, oramai, il vero legislatore nel nostro ordinamento di fatto - approva norme contrarie alla Costituzione, allora la magistratura (a seconda dei casi: la Corte costituzione o i giudici) le annullerà. Quanto al secondo punto, occorre ricordare che, in forza dell’articolo 11 della Costituzione, la partecipazione dell’Italia all’Unione europea comporta che, nelle materie affidate alla competenza di quest’ultima, se vi è compresenza di diritto europeo e di diritto italiano, a trovare applicazione sarà il primo, con contestuale disapplicazione del secondo (salvo nell’ipotesi, sinora mai verificatasi, in cui il diritto europeo dovesse porsi in contrasto con i principi fondamentali della nostra Costituzione). In caso di compresenza, non è nemmeno necessario procedere all’annullamento delle norme dell’ordinamento italiano: semplicemente, qualsiasi operatore giuridico - dai giudici alla pubblica amministrazione - applicherà direttamente il diritto europeo e non quello italiano. Dalla combinazione dei due profili deriva che una norma dell’ordinamento italiano che sia in contrasto con il diritto europeo o con la Costituzione o con entrambi non ha alcuna possibilità di trovare applicazione. È quanto già accaduto con i provvedimenti che miravano a impedire alle navi delle Ong di salvare i naufraghi, contro il disposto di una consuetudine internazionale millenaria avente rango costituzionale in forza dell’articolo 10, comma 1 della Costituzione. Ed è esattamente quanto accaduto nel caso deciso dal tribunale di Catania, la cui decisione ha posto nel nulla il decreto interministeriale del 14 settembre 2023 che dispone il trattenimento dei richiedenti asilo privi di passaporto che non prestino la garanzia finanziaria ivi prevista (gli oramai famosi 4.938 euro). Nel merito, a rendere vana l’iniziativa del governo è l’operare: (a) della disposizione costituzionale sul diritto di asilo (art. 10, comma 3), interpretata dalla Corte di Cassazione nel senso che anche i migranti provenienti da paesi considerati sicuri (come la Tunisia) possono comunque entrare nel territorio italiano per richiedere la protezione internazionale; e (b) della direttiva 2013/33/UE, interpretata dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea nel senso che il trattenimento dei richiedenti la protezione internazionale può essere disposto solo nel caso ne siano adeguatamente motivate la necessità e la proporzionalità (mentre, nel caso di specie, il provvedimento di trattenimento non motiva la mancata adozione di misure meno coercitive). Insomma: secondo la Costituzione e il diritto europeo, chi richiede la protezione internazionale ha diritto a entrare in Italia e, salvo motivate esigenze contrarie, a non essere trattenuto nell’attesa di ricevere risposta. Al governo tutto ciò non piace? Se ne faccia una ragione. In un ordinamento costituzionale, nessun potere può tutto quel che vuole: nemmeno il popolo, la cui sovranità, lungi dall’essere illimitata, è sempre vincolata a esprimersi “nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Migranti. Le contromosse del Viminale per difendere le norme ed evitare migliaia di ricorsi di Rinaldo Frignani Corriere della Sera, 1 ottobre 2023 La linea dopo che il Tribunale di Catania ha dichiarato illegittimo il decreto del governo: “Casi singoli con motivazioni dubbie, non farà giurisprudenza”. Ma c’è chi rivede lo spettro dei decreti Sicurezza di Salvini “smontati” dalla Consulta. Il ricorso è già pronto, ma al Viminale assicurano di essere tranquilli: “Questa decisione non fa giurisprudenza, vedremo nei prossimi giorni che cosa accadrà, noi abbiamo già proposto appello”. In realtà lo spettro di quanto accadde con i decreti Sicurezza firmati da Matteo Salvini che furono “smontati” dalla Corte Costituzionale su richiesta di alcuni giudici, comincia ad aleggiare. Perché è vero che la decisione di sabato riguarda un caso specifico ed è soltanto in primo grado. Ma è vero anche che alcune norme appena varate dal governo sono state criticate da numerosi giuristi. Il rilascio ordinato dal tribunale di Catania di Mekri Aymen, tunisino di 37 anni, giunto il 20 settembre scorso a Lampedusa, potrebbe infatti aprire la strada a migliaia di ricorsi. Lui è pregiudicato per furto in Italia, già espulso, poi rientrato nel nostro Paese su un barcone “che rischiava di affondare”, come ha raccontato. Nella video udienza nel nuovo centro di trattenimento a Pozzallo (ne stanno per aprire almeno altri quattro) per richiedenti asilo provenienti da Paesi sicuri, il 37enne, che dalla sua scheda personale risulta in buone condizioni di salute, ha riferito di aver deciso di emigrare perché in Tunisia le cure sono a pagamento. Motivazione considerata valida ma che il Viminale non ritiene invece fondata. La giudice catanese Iolanda Apostolico ha deciso anche il rilascio di altri due connazionali di Aymen, Miaad Hafed e Amin Drebali, 31 e 23 anni. Anche loro migranti irregolari, sbarcati a Lampedusa a fine settembre e condotti a Pozzallo in attesa che fosse definita la loro posizione, hanno invece riferito di essere stati costretti a lasciare il loro Paese perché minacciati di morte. Per tutti e tre, senza documenti, il Viminale ha disposto le procedure accelerate previste per chi proviene da Paesi inseriti nella lista degli Stati considerati sicuri e contenute dalla direttiva Ue del 2013, al centro anche del nuovo Patto per le migrazioni e l’asilo che sta per essere firmato a Bruxelles. In Italia il provvedimento europeo è disciplinato invece dal decreto Cutro e ribadito anche nell’ultimo decreto legge del 14 settembre scorso. Lo stesso che prevede il pagamento della cauzione da quasi 5mila euro - anch’essa norma europea - da chiedere agli stranieri irregolari che vogliono evitare il trasferimento ai Cpr. Ecco perché l’impugnazione da parte del responsabile del Viminale della decisione dei giudici catanesi potrebbe essere allargata agli altri due casi. E perché - nelle intenzioni del governo - quel ricorso deve diventare un precedente, proprio per evitare un annullamento delle nuove norme che metterebbe in crisi l’intero sistema di gestione dell’immigrazione appena varato dall’Italia. Così come per Aymen, per quanto riguarda il parere negativo espresso dalla giudice Apostolico su Hafed e Drebali, anche loro già espulsi e poi ritornati e adesso rilasciati dal centro di Pozzallo, emergono perplessità sulle motivazioni fornite dai due tunisini per spiegare il perché della loro fuga verso l’Italia. Il primo ha infatti richiesto protezione internazionale in quanto costretto a “fuggire perché perseguitato per caratteristiche fisiche che i cercatori d’oro del suo Paese, secondo credenze locali, ritengono favorevoli delle loro attività (particolari linee della mano)”. Mentre il 23enne ha parlato di “dissidi con i familiari della sua ragazza i quali volevano ucciderlo ritenendolo responsabile del decesso di quest’ultima” annegata a luglio, secondo la versione del tunisino, dopo il ribaltamento dell’imbarcazione sulla quale si trovavano per arrivare con altre decine di profughi sempre in Italia. La rotta balcanica ora è aperta. I muri non fermano i migranti di Maurizio Pagliassotti Il Domani, 1 ottobre 2023 Il percorso che attraversa Ungheria, Croazia, Slovenia fino all’Italia è diventato il simbolo della crudeltà europea. Ma quello che pochi mesi fa era un cammino sbarrato con la guerra ora sembra un’autostrada semi aperta. Dopo anni di chiusura semi totale e gestione dei flussi migratori appaltata dall’Unione europea alle organizzazioni di trafficanti, la rotta dei Balcani è aperta: non ufficialmente, ma chi vuole passa. Quello che fino a pochi mesi fa era un cammino sbarrato dove le varie milizie locali non esitavano a bloccare con violenza selvaggia tutti coloro che non avevano il portafoglio gonfio, oggi appare come un’autostrada semi aperta. Questo nel tempo del trionfo dell’onda bruna che da est si allarga verso l’Italia. I docks di Trieste vicino alla stazione traboccano di giovani uomini e la piazza antistante si riempie ogni notte di nuovi arrivi che scendono dai sentieri che collegano Beka in Slovenia a Dolina in Italia. Sono quasi sempre afghani, iraniani, pakistani, tutti maschi giovanissimi, che dopo qualche giorno si possono incontrare in marcia lungo la rotta alpina che collega Claviere, ultimo paesino della val Susa, Piemonte, a Briançon, primo comune francese dove è possibile prendere un treno che porta a Parigi e poi, meta finale, Berlino. I confini interni dell’Unione europea, nonostante il sempre imponente apparato repressivo, subiscono l’onda che arriva dalla apertura dei confini esterni: Turchia - Grecia, Bosnia - Croazia, Serbia - Ungheria. Questi tre negli ultimi anni hanno funzionato da trincee fortificate dove non passava nulla. La piena - “Un torrente in piena”: con queste parole Silvia Maraone delle Acli di Milano, operatrice presso il campo di Bihac (Bosnia Erzegovina) descrive la rotta dei Balcani nel settembre 2023. Lei, che vive e lavora a un passo dalla Croazia nota per controlli spietati, racconta di passaggi come non si vedevano da anni. Il cuore di questo movimento di massa in marcia verso l’Europa sarebbe al confine tra Serbia e Ungheria, nella zona pesantemente militarizzata che corre tra Sombor, Subotica e Maidan, cittadine serbe che vivono placidamente a due passi dalle gigantesche barriere difensive alzate dal governo nazionalista di Viktor Orbán. Oltre le quali vivono e governano capobanda della lotta alla migrazione, come László Toroczai, un sindaco serbo ungherese - uno dei tanti che sguazzano nell’onda nera dei Balcani - che ha fatto della lotta ai migranti una guerra. Lui, che è la voce dell’Ungheria più tragica e famosa, lo dice chiaramente nei video che posta su YouTube: “Voi che arrivate dalla Serbia e volete andare a Berlino, non passate dalle mie parti”. Seguono immagini di militari, pensionati di pattuglia, cani sguinzagliati, pick up che pattugliano il confine. Questo confine terribile oggi sarebbe aperto e le guardie che pattugliano armi in pugno sul lato ungherese prodigiosamente distratte. Al punto che le quotazioni della piazza di Belgrado sulle varie rotte - gli agent si trovano en plen air di fianco alla stazione oppure su Telegram dove c’è ampia offerta pubblicitaria - quotano la Belgrado Berlino mille euro, contro i cinquemila di fine 2021. L’Italia non fa prezzo per eccesso di ribasso. Spinta incontrollabile - Nelle settimane passate, di fronte al massiccio flusso su Trieste e Lampedusa, rotta orientale e centrale, il nostro governo ha vagamente adombrato complotti contro l’Italia volti a tentativi di destabilizzazione e altre amenità. Senza alcun dubbio il migrante è un’arma biopolitica che gettata in pasto a opinioni pubbliche aizzate genera tensione sociale. Ma il confine tra Slovenia e Austria racconta altro. Secondo l’assistente legale Petra Leschanz di Border Monitor Crossing e Push back Alarm Austria “è massiccio il movimento alla frontiera austro-ungherese. La gente che arriva tramite l’Ungheria non è diretta solo in Germania ma in tanti posti diversi. Le persone che arrivano in Austria tramite la rotta Slovena al confronto sono molto ma molto di meno. Nel 2022 più di 80 per cento delle persone sono arrivate in Austria tramite l’Ungheria”. Quindi il flusso aperto è rivolto a nord e passa attraverso l’Austria “anche attraverso il Brennero”. Perfino l’inespugnabile trincea croata ha “subito” un aumento del 170 per cento dei passaggi - nessuno vuole fermarsi in Croazia - e vi sono testimonianze secondo cui le fermate degli autobus lungo la statale D1 che porta a Zagabria sono regolarmente frequentate da migranti in attesa. I giornali locali sostengono angosciati che un “centro di registrazione” potrebbe essere aperto nei pressi della cittadina di Krnjak, appena oltre il confine bosniaco croato. Davor Božinovi? è ministro degli interni e vice primo ministro nel governo croato dal 2017, il 9 settembre ha emesso un comunicato stampa che andrebbe bene per un fronte di guerra: “Seicento immigrati illegali sono stati fermati preventivamente dall’entrare in Croazia. Sono numeri senza precedenti”. Ovviamente si tratta di respingimenti illegali verso Bosnia e Serbia che un paese membro Ue rivendica con orgoglio. Ma il messaggio del ministro croato non è rivolto solo al nazionalismo croato, bensì proprio all’Unione europea che deve prepararsi ad aprire le casse. Come sostiene Gianfranco Schiavone, presidente del Consorzio italiano di solidarietà, “siamo di fronte a una spinta incontenibile”. Probabilmente le porte si sono aperte nelle terre di nessuno afgane, pakistane e non solo. Sempre Silvia Maraone a Bihac ha recentemente raccolto la testimonianza di una famiglia iraniana che ha impiegato una settimana per raggiungere la Bosnia: negli anni passati erano necessari viaggi lunghi anni e migliaia di dollari da versare ai vari criminali che gestiscono le rotte che attraversano i Balcani. Liza D., giunta a Stoccolma dopo anni di blocco di Turchia è una siriana di Aleppo - come noto il paese di Erdogan è profumatamente pagato per bloccare tutti coloro che vorrebbero raggiungere l’Europa, siriani compresi - la cui casa è stata ridotta in macerie durante la guerra civile allargata alla Russia e non solo. “Grazie Putin” - Nel 2020 il suo tentativo via mare verso la Grecia si risolse con un abbordaggio di guardie nero vestite, volto coperto da mefisto, che armi in pugno salirono sulla barca, smontarono il motore e lo gettarono in mare. E infine se ne andarono: senza dire una parola. “Putin mi ha distrutto la casa ma mi ha anche fatto arrivare in Europa”: con questa battuta commenta Liza la sconcertante apertura della rotta balcanica che le ha permesso di fuggire da Istanbul e raggiungere in un mese la sua meta. Cosa sta succedendo lungo la rotta dei Balcani? I migranti sono diventati arma nelle mani di chi vuole destabilizzare l’Europa? Nell’ottobre del 2021 sulla piazza di Belgrado per la prima volta fu quotata la rotta che andava verso Minsk, Bielorussia. Costava molto meno della Belgrado-Berlino, o Parigi, e portava in Polonia. Seguì un autunno terribile fatto di pesante repressione polacca al confine, con migliaia di esseri umani fermati sul lato bielorusso nelle foreste, al gelo. Poi è arrivata l’invasione dell’Ucraina e ora, dopo alterne vicende, la rotta dei Balcani che corre lungo l’asse nero dell’Europa si è aperta. Migliaia in piazza: “La libertà di Khaled riguarda tutti noi” di Chiara Cruciati Il Manifesto, 1 ottobre 2023 Mancano pochi minuti all’inizio del presidio romano per Khaled el Qaisi. Un gruppo di genitori dell’Istituto comprensivo Simonetta Salacone si arrampica sugli alberi del piccolo spazio verde che, in via Mazzini, guarda al palazzone della Rai. Appendono uno striscione: “Davanti scuola, non dietro le sbarre”. Le centinaia di persone presenti lo rivogliono a Roma, davanti alla scuola, davanti alla sua università, la Sapienza, per le strade del suo quartiere. Khaled è tante cose, come tutti: è un ricercatore, uno studente, uno traduttore, un padre e un marito. È un italiano ed è un palestinese. Eppure il silenzio che istituzioni e parte dei media nazionali hanno fatto calare sul suo arresto e sulla sua detenzione da parte di Israele (lunga ormai un mese) pare cancellare ognuna di queste identità: “La cittadinanza di Khaled vale la metà - grida dal megafono Arianna Longo di Nonna Roma - La sua vita vale la metà”. È questo il motivo che ha spinto il Comitato #FreeKhaled, lanciato dalla famiglia, a chiamare ieri a presidi di fronte alle sedi Rai di tutta Italia. Se ne sono tenuti in 22 città, da Napoli a Bologna, da Ancona a Cagliari, ricorda dal megafono Vincenzo Migliucci dei Cobas: “La Rai non deve prendere parte per Khaled o per la Palestina, non ce l’aspettiamo, ma deve darne notizia. Non ha ancora trasmesso una comunicazione su questa vicenda”. La mobilitazione dal basso, invece, continua. Ieri all’iniziativa nazionale hanno aderito tante realtà, Flai Cgil, Fiom, Amnesty, Arci, Potere al Popolo, Unione popolare, Giovani palestinesi d’Italia, Bds, il Centro Antiviolenza Donna L.I.S.A., per citarne alcune. E soprattutto ci sono tanti giovani, universitari, studenti medi superiori. Si mescolano ai volti storici dell’attivismo romano per la Palestina. Scandiscono “Khaled libero”, applaudono agli interventi che si alternano dal megafono. “Quello che dalle istituzioni italiane deve emergere è una presa di posizione netta altrimenti come italiani ci troveremo a non poter più viaggiare in paesi ritenuti amici come Israele, dei quali si pensa di non poter interferire nelle questioni giudiziarie”, ci dice Francesca Antinucci, la moglie di Khaled. L’ultima volta l’ha visto il 31 agosto, al valico di Allenby, quando un gruppo di soldati israeliani l’ha ammanettato e trascinato via. “Khaled va raccontato per quello che è, uno studente e un cittadino italo-palestinese. Le istituzioni danno molta importanza al fatto che sia palestinese e nessuna al fatto che sia italiano”. Tanto che il governo continua a non prendere contatti con la famiglia, dalla Farnesina solo silenzio. “Le modalità di detenzione a quanto pare gli sembrano accettabili - continua Antinucci - Non può vedere l’avvocato, ha subito interrogatori almeno fino al 21 settembre, è stato in isolamento fino al 14. Ora è in cella con un altro prigioniero palestinese di Jenin, nel carcere di Petah Tivka, usato in fase investigativa con interrogatori che prevedono privazione del sonno, contenzione in posizioni di stress, offese verbali, minacce psicologiche”. Simonetta Crisci li conosce bene. Da quattro decenni il suo lavoro di avvocata si lega a cause in giro per il mondo: “Khaled è stato arrestato senza che gli fosse comunicato che c’era un’indagine su di lui - racconta al manifesto - Non sappiamo se questa detenzione si tradurrà in detenzione amministrativa come per altri 1.200 palestinesi. La scoprii nel 1989, la prima volta che andai in Palestina. C’era la prima Intifada, andammo a sostenere lo sciopero degli avvocati palestinesi. La detenzione amministrativa in Italia non è mai esistita, ora vogliono introdurla contro migranti e richiedenti asilo”. Battaglie che finiscono per intrecciarsi, insomma. “La storia di Khaled ci deve chiamare tutti alla responsabilità di creare un movimento di opinione e di critica forte che possa incidere per una volta sulla storia di un prigioniero politico palestinese - dice Jacopo Smeriglio di Gaza FreeStyle - La sua detenzione è un monito evidente ai palestinesi in diaspora, a chi di seconda generazione e terza generazione stava ricominciando a tornare in Palestina, a conoscere le proprie radici”. “Per questo - aggiunge Jacopo - abbiamo un dovere nei confronti di tutte le compagne e compagni con cui condividiamo percorsi di strada qui in Italia e che devono poter tornare alle proprie case senza la paura di finire nei gangli del sistema detentivo israeliano. Come italiani che con il proprio privilegio vivono la Palestina e fanno progetti in Palestina è nostra totale responsabilità tutelare questi ragazzi”. La diaspora palestinese che si sente nel mirino. Ahmed gli dà voce: “L’obiettivo di Israele è mettere sotto pressione chiunque sia attivo, politicamente, culturalmente”. Eviterai di tornare in Palestina, allora? “Ovviamente no. Non fermeranno il ritorno nelle nostre case”.