Garante dei detenuti, al Senato il M5S vota con la maggioranza e scoppia la polemica di Valentina Stella Il Dubbio, 19 ottobre 2023 La posizione di Italia Viva: “Quando c’è in ballo una poltrona aiutano il governo”. Ira di Pd e Avs, che lasciano l’aula. Via libera ieri dalla commissione Giustizia del Senato alle proposte di nomina del Governo per il collegio del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale. In particolare è arrivato l’ok, con i voti favorevoli della maggioranza e del M5S, alla nomina a presidente di Felice Maurizio D’Ettore e di Irma Conti e Mario Serio come componenti del collegio. L’avvio per la procedura di nomina di D’Ettore, Conti e Serio era stato deliberato lo scorso 25 settembre in Cdm, su proposta del ministro Nordio. Se dai pentastellati è arrivato l’ok perché hanno trovato l’accordo sul nome di Mario Serio, non hanno partecipato al voto Azione, Italia Viva, Avs e Pd. “È inaccettabile e intollerabile - hanno scritto in una nota i membri dem della commissione Giustizia a Palazzo Madama, Bazoli, Rossomando, Mirabelli e Verini il metodo che la maggioranza e il governo hanno adottato per la designazione dei candidati al ruolo di garante dei detenuti. Si tratta di un organo di garanzia particolarmente delicato, che ha il compito di verificare la condizione delle persone private della libertà personale, di monitorare che sia salvaguardata la loro dignità personale, di segnalare eventuali abusi. Compiti molto rilevanti, che attengono al delicato rapporto tra la potestà punitiva dello Stato e i cittadini, ancora più rilevanti in questo momento nel quale ben sappiamo quali sono le condizioni disastrose nelle quali si trovano i nostri penitenziari e i centri di accoglienza dei migranti. Per questo la legge istitutiva chiede che i candidati al ruolo siano indipendenti ed esperti nel campo dei diritti umani. I candidati scelti della maggioranza, per quanto degne persone, non hanno alcuna esperienza nel campo, e per quanto riguarda il candidato presidente non hanno neppure le caratteristiche di indipendenza necessarie. In tutto ciò la maggioranza, con un atto di arroganza finale, ci ha persino negato la possibilità di audire le persone candidate in commissione”. Molto duro Ivan Scalfarotto (Az- Iv): “Giorgia Meloni non ha nulla da temere: quando è il momento di votare, se c'è in ballo qualche poltrona, il M5S non manca mai. Dopo l'accordo in Commissione di Vigilanza Rai, mentre tutte le altre opposizioni decidevano di non partecipare al voto, i componenti grillini della commissione Giustizia hanno votato compatti per i candidati del governo al Collegio del Garante. Anche il senatore Scarpinato, in teoria il più acerrimo e inossidabile rivale del dichiarato garantismo delle destre, è prontamente venuto in soccorso della maggioranza ratificando senza fiatare i tre candidati che la maggioranza ha imposto, al di là del dubbio possesso dei requisiti previsti dalla legge e in assenza anche di audizioni che permettessero di verificare le competenze dei prescelti” . Ad opporsi alle modalità del Governo sulla gestione di questo dossier ci hanno pensato anche 15 associazioni (Asgi, Naga, LasciateCientrare, Oxfam Italia, ActionAid, Arci, Commissione Migrantes/ Gpic Missionari Comboniani Italia, Casa dei Diritti Sociali, Senzaconfine, Cnca, Refugee Welcome, Rete Europasilo, A Buon Diritto Onlus, Acat Italia, Unire): “Le modalità fin qui adottate dal Governo non assicurino l'indispensabile indipendenza di un ente di garanzia. Servono persone che abbiano già maturato un'importante esperienza nel campo della tutela dei diritti umani nell'ambito della privazione della libertà personale e delle correlate attività di monitoraggio”. Pertanto le associazioni “fanno appello a tutte le istituzioni coinvolte affinché possano modificare, almeno in parte, la scelta dei soggetti designati in modo da giungere alla nomina di professionisti che abbiano già maturato un'importante esperienza nel campo della tutela dei diritti umani nell'ambito della privazione della libertà personale e delle correlate attività di monitoraggio”. Dalla Camera, dove pure alcune opposizioni avevano chiesto di sentire i tre designati, arriva una dichiarazione di Devis Dori e Federico Gianassi, capigruppo di Avs e Pd nella commissione Giustizia: “Apprezziamo l'apertura del presidente Maschio di chiedere una proroga del termine per esprimere il parere sui Garanti, anche con l'obiettivo di valutare lo svolgimento delle audizioni dei candidati. È una scelta importante e va ponderata adeguatamente”. Intanto il ministero continua a glissare su due domande: abbiamo certezza che Rita Bernardini, presidente di Nessuno Tocchi Caino, abbia fatto un colloquio con il capo di Gabinetto Rizzo. Lo hanno fatto anche i tre designati? Come è arrivato Nordio a sceglierli? Da Via Arenula ci dicono che la norma istitutiva del Garante non prevede audizioni e non esiste una procedura specifica richiesta. Perché allora non chiarire? Garante dei detenuti, al Senato i 5 Stelle votano con la maggioranza: via libera alle nomine di Carmine Di Niro L'Unità, 19 ottobre 2023 Dopo la Rai è il turno della commissione Giustizia del Senato. I rapporti di “amicizia” tra la destra di governo e il Movimento 5 Stelle sulle nomine pubbliche si spostano infatti dal CdA di viale Mazzini a Palazzo Madama, in occasione del voto per la nomina dei vertici del Garante dei detenuti, o più tecnicamente del Garante delle persone private della libertà. Le opposizioni, composte dagli esponenti di Partito Democratico, Alleanza Verdi-Sinistra e Italia Viva, hanno lasciato l’aula criticando la decisione della maggioranza di non aver voluto neanche ascoltare i tre candidati scelti dal governo. Si tratta, come noto da tempo, dell’ex deputato di Forza Italia Felice Maurizio D’Ettore, professore di Diritto privato all’Università Firenze che a ridosso delle scorse elezioni politiche si era spostato in Fratelli d’Italia. Con lui nella “terna” ci sono l’avvocata romana Irma Conti, indicata dalla Lega e Mario Serio, professore ordinario di Diritto privato comparato nell’Università di Palermo, in quota 5 Stelle. Un metodo, quello utilizzato dalla maggioranza, che i membri Pd della commissione Alfredo Bazoli, Anna Rossomando, Franco Mirabelli e Walter Verini hanno definito “inaccettabile e intollerabile”, decidendo di non partecipar al voto. I quattro senatori Dem sottolineano anche come i candidati scelti dal governo “per quanto degne persone, non hanno alcuna esperienza nel campo, e per quanto riguarda il candidato presidente non hanno neppure le caratteristiche di indipendenza necessarie”. Il riferimento è al possibile ostacolo per la nomina di D’Ettore: secondo le regole istitutive del Garante non può essere scelto un dipendente dalla pubblica amministrazione negli ultimi cinque anni, ma D’Ettore ha un incarico universitario da professore di Diritto privato a Firenze. I senatori Dem denunciano poi che la maggioranza “con un atto di arroganza finale ci ha perfino negato la possibilità di audire le persone candidate in commissione”. Stessa posizione tenuta anche da Ivan Scalfarotto, capogruppo di Azione-Italia Viva in commissione Giustizia al Senato, che sottolinea come dal governo siano stati proposti “due professori di diritto privato (tra cui un ex parlamentare) e una penalista esperta di diritto penale societario. Persone degnissime, ma un’esperienza notevole di carceri e in particolare di diritti umani, dai curricula certamente non emerge”. Ma soprattutto Scalfarotto sottolinea come il governo di Giorgia Meloni “non ha nulla da temere” perché “quando è il momento di votare, se c’è in ballo qualche poltrona, il Movimento 5 Stelle non manca mai”. A votare la terna sono stati i 12 senatori di maggioranza spalleggiati dai tre del Movimento 5 Stelle. “Anche il senatore Scarpinato, in teoria il più acerrimo e inossidabile rivale del dichiarato garantismo delle destre, è prontamente venuto in soccorso della maggioranza ratificando senza fiatare i tre candidati che la maggioranza ha imposto, al di là del dubbio possesso dei requisiti previsti dalla legge e in assenza anche di audizioni che permettessero di verificare le competenze dei prescelti. Quando si tratta, insomma, di ottenere delle cariche - che sia una vicedirezione di rete o un garante dei detenuti la questione non cambia - il Movimento 5 Stelle non manca mai. Se qualcuno cercava in questa legislatura la stampella del governo, direi che possiamo dichiarare la ricerca ufficialmente terminata”, denuncia Scalfarotto. Per il via libera definitivo alla terna bisognerà comunque attendere il voto della Camera: a Montecitorio la commissione Giustizia non ha ancora dato il via libera, ma anche lì la maggioranza ha già bocciato l’idea di ascoltare i tre candidati. Detenuti, il nuovo Garante. Le associazioni: “Manca competenza specifica” redattoresociale.it, 19 ottobre 2023 Il nome scelto dal ministro della Giustizia è quello di Felice Maurizio D’Ettore. 15 associazioni scrivono alle istituzioni: “Esprimiamo il timore che le modalità fin qui adottate dal Governo non assicurino l'indispensabile indipendenza di un ente di garanzia”. Si avvicina la nomina del nuovo garante delle persone private della libertà che dovrà sostituire Mauro Palma. Il nome proposto dal ministro della Giustizia Carlo Nordio è quello di Felice Maurizio D’Ettore, che sarà affiancato da Irma Conti, indicata dalla Lega e da Mario Serio in quota opposizione. La nomina spetta ora al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Ma la triade che dovrebbe costituire il nuovo collegio di garanzia non rassicura le associazioni. “Esprimiamo il forte timore che le modalità fin qui adottate dal Governo non assicurino l'indispensabile indipendenza di un ente di garanzia” scrivono in una nota 15 organizzazioni (Asgi, Naga, Lasciatecientrare, Oxfam Italia, ActionAid, Arci, Commissione Migrantes/Gpic Missionari Comboniani Italia, Casa dei Diritti Sociali, Senzaconfine, Cnca, Refugee Welcome, Rete Europasilo, A Buon Diritto Onlus, Acat Italia, Unire). “Servono persone che abbiano già maturato un'importante esperienza nel campo della tutela dei diritti umani nell'ambito della privazione della libertà personale e delle correlate attività di monitoraggio”, aggiungono. Secondo le organizzazioni la scelta è “ricaduta su professionisti di grande esperienza ma estranei alla specifica competenza nella tutela dei diritti umani nell'ambito della privazione della libertà personale e al suo monitoraggio. Proprio il requisito della competenza specifica assicura all'istituzione di poter svolgere il suo ruolo di garanzia in modo indipendente e dunque proficuo”. Le associazioni fanno dunque appello a tutte le istituzioni coinvolte affinché possano modificare, almeno in parte, la scelta dei soggetti designati in modo da giungere alla nomina di professionisti che abbiano già maturato un'importante esperienza nel campo della tutela dei diritti umani nell'ambito della privazione della libertà personale e delle correlate attività di monitoraggio. Colloqui al 41 bis, la svolta: “Senza vetro divisorio anche con i 14enni” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 19 ottobre 2023 Il magistrato di sorveglianza consente a un detenuto di parlare liberamente col nipote, nonostante abbia compiuto il quattordicesimo anno: la decisione è supportata da una pronuncia della Consulta. Il detenuto al 41 bis può ancora svolgere un colloquio visivo senza vetro divisorio con il nipote, anche se quest'ultimo ha compiuto il quattordicesimo anno di età. Dopo un iter travagliato e, soprattutto, dopo la pronuncia della Corte Costituzionale che ha sottolineato la possibilità di autorizzare tali colloqui senza vetro divisorio anche con minori sopra i dodici anni, purché vi siano motivazioni opportunamente motivate, il magistrato di sorveglianza di Spoleto, Fabio Gianfilippi, ha accolto l'istanza dell'avvocata Barbara Amicarella del foro de L'Aquila. La sentenza della Corte Costituzionale del 6 aprile 2023 - Nel reclamo presentato, il detenuto ha sollevato dubbi sulle modalità con cui l'istituto penitenziario gli consentiva di incontrare i propri nipoti senza l'ausilio del vetro divisorio. Secondo le disposizioni previste nell'articolo 41 bis comma 2 quater dell'ordinamento penitenziario e nella circolare ministeriale del 2 ottobre 2017, i colloqui visivi con i familiari, inclusi i nipoti, devono svolgersi in locali appositamente attrezzati con il vetro a tutta altezza per impedire il passaggio di oggetti non consentiti. Tuttavia, la questione centrale sollevata dal reclamo riguardava il divieto di colloqui senza vetro divisorio con i nipoti che avessero superato il dodicesimo anno di età. Il detenuto lamentava il divieto di abbracciare suo nipote, che aveva già compiuto tredici anni, a causa delle restrizioni legate al Covid-19, che avevano temporaneamente sospeso i colloqui senza vetro divisorio. Il detenuto sosteneva che il suo diritto fondamentale di mantenere un legame fisico con il proprio nucleo familiare, specialmente con i nipoti minori, fosse stato compromesso. Il reclamo del detenuto è stato valutato in base all'articolo 35 bis e all'articolo 69 comma 6 lett. b) dell'ordinamento penitenziario. La Corte Costituzionale, in una sentenza del 6 aprile 2023, aveva già stabilito che il vetro divisorio non doveva essere considerato l'unica soluzione per i colloqui visivi, specialmente quando coinvolgevano minori ultraquattordicenni. La Consulta ha chiarito come una disciplina che escluda completamente la possibilità di mantenere un contatto fisico durante i colloqui visivi con i familiari, incluso con quelli in età più giovane, sarebbe certamente in contrasto con quanto stabilito dall'articolo 27 della Costituzione. Ma tale esclusione, sulla carta, non esisterebbe. La Corte ha evidenziato che i colloqui con i familiari rappresentano un momento a rischio per l'obiettivo del regime detentivo differenziato, ovvero impedire i collegamenti tra i detenuti appartenenti alle organizzazioni criminali e i membri di tali organizzazioni che sono liberi. Pertanto, durante i colloqui, è legittimo adottare misure rigorose per impedire il passaggio di oggetti. Tuttavia, il legislatore non ha specificato le soluzioni tecniche pertinenti, limitandosi a richiedere che i locali destinati ai colloqui siano “attrezzati” per prevenire tale passaggio. La Consulta ha quindi chiarito che l'utilizzo del vetro divisorio, sebbene sia la soluzione più idonea per raggiungere l'obiettivo di legge, non è imposto esplicitamente dal testo della disposizione. Di conseguenza, non è illegittima la circolare dell'amministrazione penitenziaria che consente colloqui senza schermatura con i familiari minori di dodici anni. Nel contempo, ci tiene a sottolineare che l'indicazione contenuta nella circolare non impone una scelta rigida che potrebbe non essere adeguata alle specifiche esigenze di ogni singolo caso. Il magistrato di sorveglianza ha tenuto conto anche dell’emergenza Covid - Nel caso specifico, ora accolto dal magistrato di sorveglianza di Spoleto, nonostante il nipote del detenuto avesse già compiuto tredici anni, non erano emerse criticità nei colloqui svolti senza vetro divisorio. L'istituto penitenziario aveva anche adottato misure di sicurezza rigorose, tra cui la videoregistrazione, l'ascolto e il controllo visivo durante i colloqui. Pertanto, la magistratura di sorveglianza ha deciso di accogliere il reclamo del detenuto presentato dal suo legale Barbara Amicarella. Gli è stato consentito di svolgere un solo colloquio visivo senza vetro divisorio con il nipote, nonostante avesse raggiunto il quattordicesimo anno di età. Questa decisione è stata presa considerando le circostanze particolari e le precauzioni adottate dall'istituto penitenziario per garantire la sicurezza durante il colloquio. Basti pensare, come si legge nell'ordinanza, che il detenuto viene sottoposto a controllo con ausilio di metal detector prima e dopo la fruizione dei colloqui. Anche per i detenuti in alta sicurezza (AS), al termine del colloquio, oltre il controllo strumentale, ove vi siano fondati sospetti circa la presenza di passaggi non consentiti, si provvede a perquisizione manuale. Non solo. Nel caso specifico, dall'istruttoria non sono emersi elementi di criticità riferibili ai colloqui svolti dall'interessato, ed in particolare a quelli svolti con il nipote (che era ancora infradodicenne quando sopravvenne il Covid), anche senza vetro divisorio, finché gli è stato consentito. Sempre nell'ordinanza, si evidenzia che, a fronte di questo elemento, occorre tener conto della singolare e dolorosa situazione in cui il detenuto (condannato alla pena dell'ergastolo) si è venuto a trovare a causa del Covid-19 e delle cautele conseguenti, non essendogli stato consentito di svolgere, con la modalità senza vetro, almeno ancora un colloquio in cui abbia potuto abbracciare il nipote e prepararlo al nuovo tempo in cui non gli sarebbe più stato consentito quel contatto fisico. Ecco perché il magistrato di sorveglianza accoglie il reclamo volto alla possibilità di effettuare ancora un colloquio visivo senza vetro divisorio con il nipote, anche se questi ha compiuto il quattordicesimo anno di età. Ovviamente con le speciali precauzioni che l'istituto penitenziario ha già dato atto di prendere per ogni colloquio senza vetro divisorio che si svolga con i minori infradodicenni e salva la facoltà di interrompere immediatamente il colloquio ove dall'osservazione a vista che viene effettuata emergano elementi di criticità che lo impongano. Per La Consulta c’è la discrezionalità della magistratura di sorveglianza - Questa decisione è di vitale importanza, perché ha implicazioni che vanno oltre il singolo caso, poiché stabilisce un importante precedente in merito all'equilibrio tra i diritti dei detenuti e le necessità di sicurezza stabilite dal 41 bis. La magistratura di sorveglianza ha sottolineato l'importanza di valutare attentamente ogni situazione e adottare misure proporzionate per garantire che i diritti fondamentali dei detenuti (ma soprattutto l’affettività e quindi il diritto dei figli minorenni) siano rispettati, anche in situazioni complesse come quella descritta in questo caso specifico. Da ricordare nuovamente che la stessa Consulta ha evidenziato che la magistratura di sorveglianza ha questo potere di discrezionalità, quindi di poter stabilire il colloquio senza vetro divisorio anche per i minori che hanno raggiunto il 14° anno di età. Il momento del colloquio visivo è l'unico in cui il rapporto con il genitore può esprimersi, specialmente se il genitore è detenuto e ancora di più se si trova al 41 bis. In questo contesto, soprattutto quando il minore è ancora un bambino o si trova nelle fasi dello sviluppo, il contatto fisico con il genitore assume un ruolo centrale, non sostituibile da un dialogo che può essere ostacolato dal vetro o inefficace nel creare un rapporto umano già compromesso dalla situazione di detenzione. Tutto ciò è garantito da un accurato sistema di controllo imposto appunto dal particolare regime detentivo. Cospito, la Direzione nazionale antimafia chiede la revoca del 41 bis di Giulia Merlo Il Domani, 19 ottobre 2023 Nel corso dell’udienza davanti al tribunale di sorveglianza di Roma, la Dna ha chiesto la revoca del regime di carcere duro per l’anarchico Alfredo Cospito, condannato per strage. Il tribunale si è riservato di decidere. Nel corso dell’udienza davanti al tribunale di sorveglianza di Roma, la Direzione nazionale antimafia (titolare di chiedere al ministero che formalmente lo dispone, il 41 bis per i detenuti) ha chiesto la revoca del 41 bis per Alfredo Cospito. L’anarchico è stato al centro di una lunga vicenda sia processuale sia mediatica, perché ha trascorso molti mesi in sciopero della fame proprio contro il 41 bis. Il tribunale di sorveglianza si è riservato di decidere. In ogni caso, è significativo che la richiesta sia arrivata dalla Dna, dopo le ripetute richieste, tutte rifiutate, avanzate dalla difesa di Cospito, sostenuta dall’avvocato Flavio Rossi Albertini. Il 24 febbraio scorso il collegio della Corte di cassazione aveva rigettato il ricorso della difesa che chiedeva appunto la revoca del 41bis. L’anarchico era in sciopero della fame da 126 giorni contro il regime di carcere duro e solo dopo lo ha interrotto, nonostante la permanenza del regime detentivo. La vicenda processuale - Nei mesi scorsi si è concluso anche l’ultimo processo per cui Cospito era imputato e la corte di assise d'appello di Torino ha ricalcolato in 23 anni di carcere la pena per strage, dopo una sentenza della Corte costituzionale che lasciava discrezionalità al giudice di valutare le attenuanti anche nel caso di pena edittale fissata con l’ergastolo. La procura generale, infatti, aveva chiesto l'ergastolo e l'isolamento diurno per 12 mesi per aver piazzato due ordigni davanti a una caserma alle porte di Torino, che tuttavia non avevano provocato morti. Revoca del 41bis a Cospito, dopo il no di Nordio parola al tribunale di Sorveglianza di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 19 ottobre 2023 È fissata per oggi l'udienza davanti al tribunale di Sorveglianza di Roma a cui si è rivolta la difesa di Alfredo Cospito contro i rigetti da parte del ministro della Giustizia Carlo Nordio di due istanze di revoca anticipata del regime detentivo speciale del 41 bis a cui è sottoposto l'anarchico. Nel ricorso presentato dal difensore di Cospito, l'avvocato Flavio Rossi Albertini, si ricorda che “il presupposto applicativo del regime differenziato adottato” nei confronti dell'anarchico “è stato espressamente individuato nella necessità di interrompere l'attività comunicativa dello stesso, al fine di sanzionare l'istigazione ravvisata nel suo contenuto'“ e che per due volte il Tribunale del Riesame “ha escluso che le esternazioni del Cospito siano idonee ad istigare, ovvero che le stesse rappresentino indicazioni idonee ad indirizzare i soggetti presenti all'esterno a determinarsi a specifiche condotte criminose, ritenendo al contrario che le medesime si sostanzino nella manifestazione del pensiero politico del suo autore”. Un fatto, questo che “rappresenta un indubbio e scardinante elemento di novità che doveva necessariamente condurre il Ministro ad una rivisitazione urgente e non differibile del regime differenziato in esecuzione”, sottolinea il difensore. Per tutto questo, secondo Rossi Albertini, “risulta incontestabile l'illegittimità del silenzio rifiuto serbato dal Ministro rispetto agli elementi di novità addotti dalla difesa (…) nell'ambito della valutazione in alcun modo politica, bensì squisitamente giuridica allo stesso demandata” dal momento che “non si rinvengono più gli elementi normativamente richiesti per il mantenimento del regime differenziato a carico” di Cospito. Lo scorso giugno Cospito è stato condannato a 23 anni dalla Corte di Assise di Appello di Torino per l’attentato all'ex scuola allievi carabinieri di Fossano. L’accusa aveva chiesto l’ergastolo e isolamento diurno di dodici mesi, ma i giudici torinesi, chiamati solo a rideterminare la pena, si sono mossi nel solco della decisione della Corte costituzionale, che aveva aperto la strada a uno sconto di pena. Dunque l’anarchico ha evitato l’ergastolo, rimanendo al carcere duro, misura contro la quale ha protestato con un lungo sciopero della fame. Per la revoca del 41 bis la difesa è ricorsa anche alla Cedu, che però non si esprimerà prima di due o tre anni. Modificare il reato di tortura renderebbe l’Italia il primo Paese a fare dietrofront di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 19 ottobre 2023 Come proprio questo giornale ha reso noto alcuni giorni fa, sembra sia intenzione del governo quella di mettere mano alla norma che oggi permette di non lasciare nell’impunità le violenze illegittime perpetrate da appartenenti alle forze dell’ordine. Sto parlando del reato di tortura, introdotto nel codice penale italiano solamente nel luglio 2017, a seguito di vari interventi della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo tra cui ovviamente quelli relativi ai fatti di Genova 2001. Erano passati quasi trent’anni dalla ratifica da parte dell’Italia della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, che impone l’introduzione del reato. Trent’anni che rischiamo oggi di ripercorrere all’indietro in un solo momento. Mai nessun paese al mondo ha fatto passi indietro sulla criminalizzazione della tortura dopo averla introdotta. Ma non sorprende che possa essere proprio questo governo a guadagnarsi l’inedita medaglia. Poco più di un anno fa, alla vigilia della vittoria elettorale, Giorgia Meloni indirizzava una lettera a un Sindacato di Polizia nella quale si lamentava che “troppe volte si è avuta l’impressione di trattamenti addirittura penalizzanti, delegittimanti e criminogeni nei confronti degli operatori di Polizia” e dunque si sosteneva l’importanza di “abolire il reato di tortura come reato proprio delle forze dell’ordine” nonché di “far sparire una volta per tutte dall’agenda politica temi come l’introduzione dei numeri alfanumerici identificativi per gli operatori”. Ma cosa c’entra la possibilità di identificare gli operatori di polizia con la loro penalizzazione o delegittimazione? Il poter riconoscere un eventuale poliziotto violento significa sottoporlo a un trattamento criminogeno? Mi pare una davvero strana idea di giustizia. Per non parlare ovviamente dell’alleato di governo Matteo Salvini, di cui ricordiamo tutti la visita al carcere di San Gimignano per portare la propria solidarietà aprioristica agli agenti torturatori. Gli eventi, per i quali la condanna è passata in giudicato lo scorso marzo, riguardavano un brutale pestaggio avvenuto nell’ottobre 2018 ai danni di un ragazzo condannato per fatti legati alla droga mentre pacificamente stava recandosi a fare la doccia. Nessuna necessità di difendersi, prevenire una fuga o altro. Ma per Salvini un ragazzo in carcere aprioristicamente non merita di avere giustizia di fronte a dei poliziotti, qualunque cosa sia accaduto. Nei tentativi di delegittimare il reato non c’è al fondo altro che questo: una visione illiberale dell’organizzazione statale, per cui chi difende un ben poco chiaro concetto di sicurezza può non essere soggetto allo stato di diritto. In questi anni il resto di tortura ha condotto le iniziali imputazioni a scenari variopinti. In ambito penitenziario ci sono state alcune condanne (per quanto accaduto appunto a San Gimignano, ma anche a Ferrara), alcune assoluzioni (per quanto accaduto a Torino, nel giudizio abbreviato), alcune riqualificazioni del reato in fattispecie differenti (come per quanto accaduto a Monza). È assurdo anche solo pensare che vi sia una qualche volontà automatica da parte della magistratura di punire le forze dell’ordine. Vi è casomai la volontà opposta da parte del governo. La modifica del reato nella direzione anticipata farebbe ad esempio con ogni probabilità crollare l’intero processo per l’efferato pestaggio di massa avvenuto nel 2020 nel carcere campano di Santa Maria Capua Vetere. Abbiamo visto tutti il video di quel giorno drammatico. In rete resteranno le immagini di quanto accadde, nelle aule di tribunale non resterà più niente. *Coordinatrice Associazione Antigone Governo, Azione e Iv uniti pure sui tempi del processo di Errico Novi Il Dubbio, 19 ottobre 2023 La soluzione di “diritto sostanziale” piace al calendiano Costa come al renziano Bonifazi: l’addio a Bonafede e Cartabia sarà meno attaccabile dai giustizialisti. Non è una rivoluzione. È la più semplice delle vie d’uscita. Con la proposta della maggioranza sulla prescrizione, sostenuta anche da Azione e Italia viva, si cancellano 5 anni di iperboli giustizialiste, e si vira su un sistema molto simile alla legge Orlando, l’ultima versione non indigesta di questo cardine del diritto penale. Ed è singolare, certo, che a ripristinare un modello nato e faticosamente cucito con la supervisione di un guardasigilli del Pd sia il centrodestra. Così come è singolare, ancor di più, che lo stesso Pd sia piuttosto orientato a difendere l’improcedibilità introdotta con Marta Cartabia, anziché valorizzare il testo concordato dai deputati Pittalis (FI), Bisa (Lega) e Varchi (FdI). Non è il caso di dilungarsi sulle minime differenze fra la soluzione individuata dalla coalizione di governo, grazie al confronto con via Arenula e in particolare con il viceministro Francesco Paolo Sisto, e la riforma Orlando del 2017. A voler essere precisi, FdI, Lega e FI hanno optato per la soluzione indicata dalla Commissione Lattanzi, cioè dai saggi nominati dalla stessa guardasigilli, Cartabia, che poi fu costretta appunto al compromesso della “prescrizione processuale”. Ed è giusto, magari, segnalare anche che i dem, attraverso gli emendamenti depositati lunedì e passati ieri in commissione Giustizia al setaccio delle ammissibilità, proveranno a riavvicinare il testo Lattanzi alla Orlando. Ma in realtà, a parte le inevitabili complicazioni dettate, nel caso del Pd, dal ruolo dell’opposizione, il dato rilevante è che il sostegno alla linea scelta dal centrodestra viene assicurato, anche stavolta, dall’ormai ex Terzo polo, cioè da Azione e da Italia viva. È la seconda volta. È già successo sugli emendamenti garantisti con cui Forza Italia è riuscita a bilanciare, in materia di intercettazioni, il decreto 105, nato sotto la spinta della Dna. Anche in occasione del non semplice confronto tra le forze di maggioranza scatenato da quel provvedimento, calendiani e renziani si sono schierati con le scelte garantiste proposte alla Camera dagli avvocati azzurri della commissione Giustizia, ossia Annarita Patriarca, Tommaso Calderone e Pietro Pittalis. E anzi, lo stesso centrodestra ha dato l’ok a un emendamento presentato da Enrico Costa di Azione, che costringerà tutti i pm a indicare i costi di ciascun singolo ciclo di intercettazioni. Si dirà: sulla giustizia, come sul resto, il centrodestra è perfettamente in grado di fare da solo. Non ha bisogno né di Renzi né di Calenda, e apparentemente neppure del sempre attivo e competente Costa o del deputato che rappresenta Italia viva in commissione Giustizia, Francesco Bonifazi. Certo, è così. Ma la politica non è fatta solo di numeri. Si gioca anche sul merito, sui contenuti. E il fatto che, sul diritto penale liberale, la maggioranza trovi puntualmente un’altra area politica pronta a convergere - pur in assenza di qualsiasi legame politico generale con la maggioranza Meloni -, be’, un peso lo ha. Quella convergenza rafforza la qualità delle scelte. Assicura un consenso largo, dimostra una volta per tutte che il garantismo del centrodestra non c’entra più nulla con la nostalgia per Berlusconi. Contribuisce cioè a demolire l’idea secondo cui il diritto penale liberale sarebbe una furbata a tutela dei potenti, come avvenne, sulla carta, con il Cavaliere. E naturalmente, il sì di Azione e Italia viva sulle intercettazioni o sulla prescrizione sostanziale dà forza alla linea del guardasigilli Carlo Nordio e alla agguerrita pattuglia di Forza Italia. Non si può certo dire che è grazie a Renzi o a Costa se le soluzioni più restrittive, care magari o Fratelli d’Italia o alla Lega, non sempre prevalgono. E anzi, proprio sulla prescrizione è noto come la scelta del ritorno a una norma di diritto sostanziale, affrancata sia dal “fine processo mai” di Bonafede sia dalla controversa toppa dell’improcedibilità, fosse stata preannunciata, prima ancora delle Politiche, 2022 da Andrea Delmastro, oggi sottosegretario a via Arenula e già all’epoca plenipotenziario di Meloni sulla giustizia. Stavolta, davvero, anche senza l’appoggio del Terzo polo si sarebbe tranquillamente arrivati alla soluzione su cui hanno lavorato Sisto, Delmastro, il sottosegretario leghista Andrea Ostellari e, ovviamente, i già ricordati rappresentanti del centrodestra in commissione. Di più: si potrebbe notare che in questo caso non solo l’ex Terzo polo, ma persino il deputato di Alleanza Verdi Sinistra Devis Dori, pure lui avvocato, ha espresso condivisione: “È positivo aver sventato il rischio di un ritorno alla peggiore norma”, ha commentato, in riferimento alla legge ex Cirielli, da cui la maggioranza è partita come testo base. Tutto vero: mai come stavolta il consenso sulla soluzione trovata è così solido che non è proprio il caso di scomodare il pallottoliere. Ma sul garantismo, si sa, il vero problema non è trovare i numeri in Parlamento, ma il consenso diffuso nell’opinione pubblica. Lì è la vera sfida, ed è la più difficile, come ha ricordato ieri in un’intervista al Dubbio Gaetano Pecorella. E considerato che veniamo da anni di scelte giustizialiste - e che anzi la linea “general preventiva” continua a far capolino nell’attuale maggioranza, dai “rave” al decreto Caivano - avere una massa critica più forte sul versante opposto serve eccome. Che poi questo possa bastare a voltar pagina, a cambiare la testa degli italiani sul diritto penale, è tutto da vedere. Ma solo fino a due anni fa, per immaginare che i 5 Stelle si sarebbero trovati in netta minoranza sulla giustizia, e che del loro blocca- prescrizione sarebbe scomparsa ogni traccia, ci sarebbe voluto un notevole sforzo di fantasia. “Prescrizione usata come vessillo, l’errore del centrodestra” di Valentina Stella Il Dubbio, 19 ottobre 2023 Federico Gianassi, capogruppo Pd in commissione Giustizia alla Camera, al Dubbio: “Prima hanno rispolverato la ex Cirelli, ora propongono il testo Lattanzi, che è senz'altro migliore”. Com’è noto la maggioranza ha trovato un accordo sulla riforma della prescrizione tramutato in un emendamento alla proposta di legge ora all’esame della commissione Giustizia di Montecitorio. Un emendamento firmato da tutti i capigruppo del centrodestra nell’organismo presieduto da Ciro Maschio: Carolina Varchi (FdI), Ingrid Bisa (Lega) e Pietro Pittalis (FI). Ne parliamo con il capogruppo del Pd nella stessa commissione Federico Gianassi, secondo il quale la maggioranza, in materia di giustizia, porta avanti un metodo “confusionario e contraddittorio”. E poi “è pericoloso”, secondo il deputato dem, “fare della prescrizione una bandiera politica”. Intanto il partito di Elly Schlein ha convocato per le 12 di oggi una conferenza stampa a Palazzo Madama dal titolo “La giustizia in ginocchio ai tempi della destra”. Onorevole, partiamo dal merito: cosa ne pensa dell’emendamento della maggioranza sulla prescrizione? L’emendamento delle destre mette in campo una delle ipotesi formulate dalla Commissione Lattanzi. È certamente un passo in avanti rispetto all’ipotesi disastrosa della ex Cirielli che avevano messo in campo solo dieci giorni fa. Ma non so se questa sarà la loro ultima posizione. Ci hanno ormai abituati, su questo tema, a continui cambi in corsa. In queste ultime settimane sono state formulate diverse possibili soluzioni, sulla prescrizione. A un certo punto era spuntata anche una ipotesi Nordio. Che idea si è fatto di questo dibattito interno alla maggioranza? La maggioranza si è attivata con cinque diverse proposte di legge. Si è poi vociferato del ritorno alla Orlando, ma hanno votato in Commissione la ex Cirielli. Si è parlato di un lodo Sisto per una Bonafede 4.0, ora la Lattanzi. Domani chissà. È un comportamento schizofrenico, un modo di procedere confusionario e alimentato da ideologismo. Obiettivo è cambiare per cambiare, poco importa come, perché della prescrizione si fa una battaglia simbolica. Vi è stato fatto notare che state difendendo la riforma di mediazione Cartabia, ossia l’improcedibilità, anziché convergere su una legge simile a un modello di prescrizione “intestata” a un vostro ex ministro, Orlando. Cosa risponde? È falso. La legge Orlando è stata un’ottima riforma della prescrizione, lo abbiamo sempre detto e lo diciamo anche oggi. È curioso invece che la destra, dopo averla duramente criticata, oggi al governo riconosca finalmente che le riforme fatte dal Pd erano le migliori. Ne siamo contenti, meglio tardi che mai. Tuttavia, prima avevano detto di valutare il ritorno alla Orlando, però poi hanno votato in commissione la ex Cirielli. Ora mettono in campo una nuova e diversa proposta recuperata dalla Commissione Lattanzi. Noi li sfideremo in aula con gli emendamenti, ma qui c’è un problema di metodo e di sostanza grande come una casa e che non si vuole affrontare. È in vigore da due anni la riforma Cartabia, i tempi dei processi in appello secondo i dati del ministero si stanno riducendo. Insomma sembra funzionare: e allora perché cambiare senza una linea precisa e senza valutare attentamente gli effetti della riforma a cui sono, peraltro, agganciate le risorse Pnrr? Davvero serve la quarta riforma della prescrizione in sei anni? Davvero possiamo mettere a rischio i fondi del Pnrr per il comparto giustizia? La soluzione dell’improcedibilità si è resa necessaria politicamente, ma tecnicamente persino Giorgio Lattanzi non l’avrebbe certamente preferita. Perché allora scommetterci sopra? I dati danno ragione alla riforma. Meno procedimenti e tempi ridotti, il che contraddice le dichiarazioni del relatore Pittalis. Avevamo chiesto alla maggioranza di approfondire i dati in possesso del ministero, ma ci è stato risposto negativamente. Non c’è volontà di approfondire, per loro non è una questione di merito. Sull’improcedibilità si sono trovati d’accordo accademia, avvocatura e magistratura nel criticarla. Invece di rendere efficiente il sistema lo avrebbero complicato. Che dice su questo? Si è trattato di una rivoluzione copernicana ed è comprensibile che si siano confrontati punti di vista diversi. Ogni posizione è rispettabile e merita di essere ascoltata, ma i fatti dicono che questo intervento sta funzionando in relazione all’obiettivo della riduzione dei tempi del processo, riduzione che si sta verificando già prima che la riforma abbia pienamente dispiegato i propri effetti. È malizioso ritenere che dietro il vostro voto contrario si celi la volontà di mantenere aperto un filo di comunicazione sulla giustizia con il M5S? E se sì, ha senso preoccuparsi di questo nel momento in cui i pentastellati rappresentano un concorrente piuttosto che un vostro alleato? Sì, è molto malizioso ritenerlo, e chi vuole sostenerlo deve sforzarsi di cercare altri esempi, certamente non questo sulla prescrizione. Noi sosteniamo che è opportuno difendere la riforma Cartabia, i cinquestelle invece dicono che è opportuno tornare alla legge Bonafede con cui cancellarono la nostra riforma, la Orlando. Dove sarebbe la sudditanza del Pd? Semplicemente non esiste. In generale secondo lei la maggioranza e il governo come si stanno comportando in tema di giustizia? Campioni negli annunci, bocciati nei fatti. Avevano promesso meno reati e meno intercettazioni e dopo un anno di governo ne abbiamo molti di più. Su interventi di sistema siamo a zero o quasi. E i pochi interventi sono per lo più animati da furore ideologico. È sbagliato quando la politica ideologizza le questioni anziché stare sul merito, ma diviene addirittura pericoloso quando lo fa utilizzando il sistema penalistico. Tre voci importanti del suo partito, la segreteria, Serracchiani e Rossomando, hanno partecipato qualche settimana fa al congresso di Area. Proprio per quella partecipazione qualcuno ha sostenuto che quella corrente di magistrati si è iscritta al campo largo con la benedizione di Conte e Schlein. Che ne pensa? Polemica strumentale e smentita ovviamente dai fatti. Dove siamo invitati e c’è occasione di confrontarci noi andiamo. La partecipazione a un congresso o a un convegno costituisce un momento utile di approfondimento e di scambio. Ovviamente ruoli e responsabilità restano ben diversi e ciascuno custodisce gelosamente, come è giusto che sia, le proprie idee e le proprie prerogative. “Contro la giudice Apostolico un verminaio politico con l’intento di intimidire” di Annalisa Cuzzocrea La Stampa, 19 ottobre 2023 Il costituzionalista Zagrebelsky: “Sono da temere di più i magistrati di cui non si conoscono le idee. La cauzione per evitare i Cpr è una confessione: quei Centri per migranti sono carceri. Gustavo Zagrebelsky ha sulla scrivania un libro di Giorgio Agamben, Homo Sacer, aperto al capitolo Opus Dei. Archeologia dell’ufficio. L’appuntamento con il giurista, presidente emerito della Corte Costituzionale, era fissato per parlare degli attacchi di queste settimane alla giudice Iolanda Apostolico, accusata da pezzi di maggioranza e di governo di aver disapplicato con un’ordinanza il decreto Cutro per ragioni ideologiche, non in base alla legge. Cosa c’entra l’”ufficium” con tutto questo? “L’invenzione dell’ufficium ha un’importanza centrale nella cultura moderna: un atto, religioso o civile, vale (o non vale) indipendentemente dalle qualità personali di chi lo compie. Il prete, per quanto miscredente o corrotto sia, celebra validamente i misteri della fede se rispetta le norme della liturgia. Un giudice decide validamente, che sia amico o nemico d’una parte in causa, se la sentenza è esente da vizi, cioè da violazioni della legge. Dove condurrebbe l’esame della vita privata se si volesse trarne conseguenze sulla validità degli atti compiuti? Il mescolamento del pubblico e del privato travolgerebbe tutto, non solo nella sfera della giustizia”. Hanno tirato fuori un video di cinque anni fa che mostra la magistrata a una manifestazione sul molo di Catania durante il blocco illecito della nave italiana Diciotti, con a bordo 137 migranti. Adesso l’attaccano perché il figlio è stato denunciato durante una manifestazione. Secondo lei tutto questo ha un intento intimidatorio? “Sembra evidente. Questi attacchi personali non riguardano direttamente il provvedimento, che avrà una storia a sé e si vedrà. Riguarda piuttosto la tranquillità, la serenità di questo e di qualunque altro giudice in decisioni “sensibili” per gli interessi del governo. Servono a dire: tu magistrato magari anni fa hai fatto qualche cosa di cui potresti vergognarti. Attento, perché posso tirarla fuori”. L’accusa è di aver partecipato a una manifestazione di carattere politico, contro un atto governativo. La massima più ripetuta in queste ore è che il giudice deve non solo essere, ma apparire neutrale... “Sì, è un argomento molto spesso ripetuto e ha, dalla sua, tra altre, l’autorità d’un Piero Calamandrei. Essere e apparire: che groviglio! Si può essere indipendenti e non sembrare, e si può sembrare indipendenti e non esserlo. La massima che lei ha ricordato, se non proprio una sciocchezza, mi pare un’ipocrisia. Aggiungo: c’è una componente autoritaria nel valorizzare l’apparenza. L’apparenza coincide con il “prestigio” esteriore, formale. Nel campo della giustizia la protezione di questo “prestigio” di facciata è molto presente”. Ci spiega meglio? “Poiché i giudici non sono “esseri inanimati”, pure e semplici “bocche della legge”, come voleva Montesquieu - su questo siamo tutti d’accordo, non è vero? - e dunque hanno le loro idee, i loro orientamenti, le loro preferenze, davvero è buona cosa che tutto ciò resti nell’ombra? Non è forse vero il contrario? Mi permetta di osare un’autocitazione da uno scritto di cinquant’anni fa, cioè di un tempo non sospetto. Riguarda la “responsabilità disciplinare” dei magistrati ed è pubblicato nella Rivista di diritto processuale. Vi è espressa un’idea che oggi mi pare di approvare, forse con maggiore convinzione di allora. Le tendenze alla “messa in riga” (la Gleichshaltung, così si diceva nella Germania degli Anni ’30: si può vedere con Google) sono più chiare oggi di allora. Proprio la vicenda da cui siamo partiti mi sembra eloquente”. Ma quindi, nel 1975, cosa scriveva? “Che a chi fa parte dell’ordine giudiziario sono riconosciuti i diritti costituzionali come agli altri cittadini. Solo l’iscrizione a un partito politico può essere vietata, ma non perché renderebbe trasparenti le idee del giudice, bensì perché implicherebbe una disciplina incompatibile con l’indipendenza del magistrato. Ma da questo non si può trarre motivo per inibire ai magistrati altre forme di esercizio dei loro diritti”. Non crede che al magistrato di cui si conoscono gli orientamenti, le “visioni del mondo”, sia preferibile il magistrato anonimo, di cui non si sa nulla? “C’è differenza tra un magistrato grigio, opaco, e un magistrato neutrale. Non c’è bisogno di avere una grande esperienza nel mondo giudiziario per temere molto più certi magistrati che non quelli di cui si conoscono le idee”. Perché? “I grigi, gli opachi, gli scialbi sono spesso i più proni. Si possono nascondere. Non è forse vero che il conformismo è spesso l’anticamera della corruttibilità?”. E gli altri? “Gli altri stanno attenti due volte di più a dimostrare nelle loro pronunce l’assenza di preconcetti. Se hai il senso dell’ufficium, ti comporti così. Sai, comunque, che i tuoi provvedimenti saranno guardati con la lente d’ingrandimento. Invece, se sei disposto a vendere una sentenza ai potenti di turno, starai quatto quatto. Proprio chi è esposto sa di dover essere più scrupoloso”. Non è d’accordo con i magistrati che dicono: io, però, non lo avrei fatto? “Guardi: le occasioni in cui si potrebbe dire al magistrato: hai fatto questo, dunque non puoi occuparti di quest’altro o, se te ne occupi, sei sospetto, sono infinite. Supponiamo ch’io partecipi a un gay pride, perché sono gay, per solidarietà o per curiosità. S e io fossi quel magistrato, seguendo il ragionamento-Apostolico, non potrei giudicare in tutte le questioni di omosessualità. Capisce dove si andrebbe a finire: il giudice rintanato, chiuso nella famigerata “torre d’avorio” che tutti deprecano”. E il mistero del video che esce chissà come dopo cinque anni? “Questo è forse ciò che dovrebbe preoccupare, al di là del fatto che si sia trattato d’un magistrato. Un momento di vita personale, sia pure in pubblico, è “tracciato” e memorizzato per essere messo a disposizione di colui o di coloro che al momento buono vogliono usarlo contro un avversario. Questa faccenda mi ha fatto venire in mente la fine della democrazia ateniese. O meglio, la fine dell’epoca d’oro periclea. Un momento storico in cui pullulavano, quasi come professionisti, figure come i sicofanti. Cioè i ficcanaso, i delatori, gli informatori, i calunniatori, in una parola: le spie”. Che cosa facevano? “Raccoglievano notizie e le mettevano a disposizione degli accusatori pubblici quando occorreva. Quando si trattava di condannare qualcuno a morte o all’ostracismo si chiamavano i sicofanti per ottenere i loro pacchetti di informazioni”. È convinto stia accadendo qualcosa del genere? “È qualcosa di inquietante. Non è questione di privacy, ma di libertà tout court. Nelle società libere chiunque può, entro la legalità, fare quello che vuole, nella sicurezza che ciò che fa non diventi ricatto. La cosa più grave non riguarda chi ha fatto le riprese, ma chi le ha chieste sapendo dove e a chi chiederle”. Non è assurdo in un sistema democratico? “È roba da verminaio politico, un metodo violento, uno scandalo. Altro che strumento politico”. Le dico come le risponderebbero: abbiamo il diritto di criticare le sentenze della giudice, proprio in virtù della separazione dei poteri. “Certo: criticare le sentenze. Il resto è verminaio”. Torniamo un attimo al merito del provvedimento. Disapplicare una norma italiana perché confligge con una norma europea è frequente o dovrebbe essere un’ultima ratio? “Quel provvedimento può essere condensato in tre righe: il trattenimento del migrante può avere luogo solo ove necessario sulla base di una valutazione caso per caso, salvo che non siano applicabili efficacemente misure alternative meno coercitive. Questa formula che si trova nel provvedimento di Catania è la riproposizione, parola per parola, di una direttiva europea in vigore”. Quindi? “Quindi ciò che dice la giudice in punto di diritto non è certo una sua invenzione. È la trascrizione di una norma europea che non può essere contraddetta da un Paese-membro”. Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano dice: “Compete alle Corti esprimersi “in nome” del popolo italiano, non “in vece” del popolo italiano. Il parametro per il giudice non è la condivisione dei contenuti della norma che è chiamato ad applicare. Non può esistere una verifica diffusa della conformità delle leggi alla normativa europea”. “Mi dispiace per chi la pensa così, ma non solo può, ma deve esserci. Di fronte a un contrasto tra legge italiana e diritto europeo, si possono fare tre cose. Se c’è un dubbio, ci si rivolge alla Corte Costituzionale o alla Corte di giustizia europea. Se invece il contrasto è chiaro, il giudice deve disapplicare la legge nazionale. È la primauté, la supremazia del diritto europeo. Se la decisione arriverà alla Corte di Cassazione questa, in caso di dubbio, potrà rivolgersi alla Corte del Lussemburgo per avere chiarimenti”. Tutto questo lede la separazione dei poteri? “Oggi le cose, dal tempo di Montesquieu, sono cambiate. I poteri sono di fatto due. All’uno fa capo la politica, all’altro il diritto. Come i giudici non possono dire a un membro del governo: devi dimetterti perché non mi piaci, così non può dire, al contrario, un esponente politico a un giudice. Ci sono regole oggettive che proteggono gli uni dagli altri. Nessun organismo naturale, però, può reggersi su due gambe che vadano ognuna per conto proprio. I conflitti devono risolversi. Come? Nello stato di diritto, a differenza dagli stati autoritari, prevale la legge. La politica deve adeguarsi. A meno che quest’ultima, come ultima ratio, non cambi la legge o, addirittura, la Costituzione. Potrebbe farlo ma sarebbe una pericolosa rottura della legalità”. Cos’ha pensato dell’idea di una cauzione di 4.938 euro per consentire a un migrante di non andare in un Cpr? “Mi è girata la testa, incredulo. L’esempio sono gli Stati Uniti dove, pagando una cauzione, eviti la galera? Ma noi abbiamo una civiltà giuridica molto diversa. Là, ad esempio, c’è la pena di morte. Un buon motivo per noi di fare lo stesso? La cauzione per evitare il Cpr è la confessione, ove ce ne fosse bisogno, che quei centri di raccolta per migranti sono carceri”. Quante sentenze può scrivere in 12 mesi un magistrato? di Paolo Pandolfini Il Riformista, 19 ottobre 2023 La grana dei carichi esigibili e l’attesa per la prima circolare del Csm. L’Anm ha recentemente riscritto in un documento che la natura di limite dei carichi esigibili rimanda all’idea di individuare una soglia di impegno lavorativo oltre la quale si corre il rischio che l’attenzione cali e il lavoro perda di qualità, e che tale soglia non può essere differente da ufficio a ufficio, perché si tratta di un limite intrinseco delle capacità lavorative umane. Quante sentenze può scrivere in un anno un magistrato? Domanda quanto mai pertinente a cui il Consiglio superiore della magistratura si appresta nelle prossime settimane a rispondere con la prima circolare sui carichi “esigibili”. Il tema, va detto, non è nuovo in quanto da anni è oggetto di accese discussioni all’interno della magistratura associata, trovando la condivisione di quasi tutte le correnti dell’Anm. La riforma Cartabia dello scorso anno, a tal proposito, era anche intervenuta modificando la disciplina dei programmi di gestione degli uffici giudiziari, introducendo la nuova figura dei “risultati attesi” che ogni capo dell’ufficio deve fissare annualmente. La recente disciplina distingue, pertanto, i “risultati attesi”, che competono al capo dell’ufficio, dai “carichi esigibili”, che devono essere individuati dal Csm, e che costituiscono un limite al potere del capo dell’ufficio di fissare i risultati attesi. “La natura di limite dei carichi esigibili rimanda all’idea di individuare una soglia di impegno lavorativo oltre la quale si corre il rischio che l’attenzione cali e il lavoro perda di qualità, a tutela della giurisdizione stessa e degli utenti del servizio giustizia, prima ancora che dei magistrati, e tale soglia non può essere differente da ufficio a ufficio, perché si tratta di un limite intrinseco delle capacità lavorative umane”, ha riscritto recentemente l’Anm in un documento sul punto. Premesso che ogni cittadino che si rivolge ad un Tribunale ha il diritto ad avere una pronuncia in tempi rapidi, completa, e corretta in punto di diritto, è di tutta evidenza che la qualità di una sentenza cambia se il giudice è chiamato a scriverne in un anno cento invece che, ad esempio, mille. Argomento quanto mai attuale in questo momento per la giustizia italiana che vede la necessità di abbattere l’arretrato per poter accedere a tanto agognati fondi del Pnrr. C’è il rischio, infatti, che qualche magistrato si faccia “prendere la mano” e punti più alla quantità. L’introduzione dei carichi esigibili nazionali per singolo magistrato ordinario si inserisce nel solco di quanto già previsto nella giustizia amministrativa dove da tempo per assicurare che l’efficienza non comprometta la qualità della giurisdizione, che non può essere ridotta a “sentenzificio”, vengono adottati criteri di questo genere. In via teorica il tema dei carichi esigibili è anche condivisibile. Ma è anche importante rapportarsi con le norme processuali. Come conciliare, infatti, l’esigenza di qualità delle sentenze con il principio costituzionale della giusta durata del processo? La discussione sui carichi esigibili non può non far tornare in mente cosa accadde nella scorsa legislatura quando l’allora ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ipotizzò “un processo completo in quattro anni”, e quindi lo spauracchio di sanzioni disciplinari per le toghe che non avessero rispettato tale cronoprogramma. Se fosse andata all’epoca in porto la proposta dei carichi esigibili, sarebbe stato certamente irrealizzabile il rispetto delle tempistiche volute da Bonafede. Vale solo per le condanne il nuovo rimedio contro le infrazioni ai diritti umani di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 19 ottobre 2023 La misura della riforma non si applica ai verdetti del giudice di sorveglianza. Non può essere utilizzata per rimuovere gli effetti di un provvedimento del tribunale di sorveglianza la nuova norma introdotta dalla riforma del processo penale per neutralizzare gli effetti di decisioni in contrasto con pronunce della Corte dei diritti dell’uomo. Interpretando per la prima la disposizione la Cassazione, sentenza n. 39801 della Quinta sezione penale, osserva che la richiesta per l'eliminazione delle conseguenze pregiudizievoli delle decisioni adottate in violazione della Convenzione dei diritti dell'uomo può avere per oggetto solo giudizi di condanna, sentenze o decreti penali, mentre il rimedio è inapplicabile con riferimento ad un provvedimento di competenza del Tribunale di sorveglianza, al quale semmai l'interessato può sottoporre la questione, con una nuova domanda. La sentenza della Corte riguarda il caso, piuttosto noto, di Marcello Viola, il detenuto all'ergastolo ostativo la cui detenzione era stata, nel giugno 2019, considerata inumana dalla Corte europea dei diritti dell'uomo. Ora la difesa di Viola ha chiesto alla Cassazione la riconsiderazione, alla luce anche del nuovo quadro normativo introdotto dalla riforma, del giudizio negativo del tribunale di sorveglianza de L'Aquila sulla richiesta di liberazione condizionale. La Corte osserva che la nuova norma, articolo 628 bis del Codice di procedura penale, ha certo una struttura “aperta” nell'ammettere per la Cassazione l'adozione dei provvedimenti necessari per cancellare i pregiudizi derivanti dalle violazioni accertate dalla magistratura europea di tutela dei diritti umani, ma, tuttavia, non può essere dimenticato che il riferimento è sempre ai provvedimenti condanna, sentenze o decreto che siano. La violazione della Convenzione ha prodotto, in altri termini, una condanna ingiusta, già passata in giudicato, e altrimenti intoccabile. Se invece il provvedimento viziato, quello sul quale la violazione della convenzione ha avuto un'effettiva incidenza, è impugnabile oppure ne è possibile una nuova emissione, allora è evidente che il nuovo rimedio non è utilizzabile. E il caso ora esaminato dalla Cassazione ne è un esempio, visto che si tratta di un provvedimento del Tribunale di sorveglianza, che sono adottati, nella lettura della procura generale, “rebus sic stantibus” dando vita a un giudicato aperto. Tanto è vero che lo stesso Viola, ricorda la sentenza, può presentare una nuova richiesta di liberazione condizionale che potrà sorreggersi sul nuovo quadro normativo che, anche per quanto riguarda la liberazione condizionale, considera la condanna per reati ostativi in assenza di collaborazione non più preclusiva in termini assoluti, ma solo relativi. Lucera (Fg). Detenuto si impicca nel carcere (ma lo scopriamo solo per caso!) di Riccardo Arena* Ristretti Orizzonti, 19 ottobre 2023 “Cara RadioCarcere, vi informo che qui nel carcere di Lucera c’è stato l’ennesimo suicidio di cui però nessuno ha parlato. Ed infatti, durante la notte del 26 settembre, si è impiccato un nostro compagno detenuto che era Tunisino e che è stato trovato appeso alle sbarre della cella solo la mattina seguente”. Questa è la lettera che ci ha scritto una persona detenuta nel carcere di Lucera. Lettera grazie alla quale siamo venuti a conoscenza di questo suicidio che altrimenti sarebbe rimasto nascosto. Piero Rossi, garante dei detenuti della Puglia, oltre a confermare la notizia, ha precisato che si trattava di un detenuto Tunisino di 47 anni e di cui si conoscono solo le iniziali: O.M. Inoltre, Rossi, oltre a confermare le circostanze del ritrovamento (avvenuto a distanza di ore dall’impiccagione), ha precisato che questa persona detenuta era tranquilla e non aveva dato segni che potessero far temere per un gesto suicidario. Sarà così, ma ci si domanda: il carcere di oggi è in grado di intercettare i malesseri che portano un detenuto al suicidio? Ha gli strumenti per capire e per arginare il disagio di una persona detenuta, prima che si impicchi? I dati sui suicidi o sui tentativi di suicidio, ci dicono di no. Resta infine irrisolto il dato sulla trasparenza. Senza la lettera scritta da un detenuto, questo suicidio sarebbe rimasto sconosciuto, nascosto, come forse lo sono tanti altri. E non solo. Infatti, come sanno bene gli amici di “Ristretti Orizzonti”, si viene a conoscenza di questi gesti estremi o grazie ai Sindacati della Polizia Penitenziaria o grazie a segnalazioni di parenti dei detenuti, oppure grazie a delle lettere scritte dalle carceri, come in questo caso. Ora, visto che è inaccettabile che in Istituti dello Stato permanga questa omertà, appare evidente la necessità che sia lo stesso Ministero della Giustizia o il Dap a fare ciò che dovrebbe fare. Ovvero: informare su eventi critici tanto gravi quanto emblematici delle condizioni in cui versano le nostre carceri. Il Ministro Nordio ha detto che: “Ogni suicido è una sconfitta per lo Stato, per la giustizia e mia personale”. Bene. E allora perché non essere trasparenti sui suicidi che avvengono nelle carceri? Perché il Ministero non ne dà notizia? Perché queste impiccagioni si continuano a lasciare nell’omertà, che è tipica degli istituti penitenziari? La verità è che, non solo l’Amministrazione penitenziaria non fa nulla per arginare il dramma dei suicidi in carcere, ma non fa nulla neanche per far conoscere questo drammatico fenomeno i cui dati restano “nascosti”. Spesso a RadioCarcere si dice: “In Italia non c’è la pena di morte, ma per una pena si continua a morire o si continua a rinunciare a vivere”. Ed è forse questo che si vuole tenere nascosto. *Direttore di RadioCarcere Oristano. Detenuto romano morto in carcere, la Procura: “È stato pestato” di Andrea Rapisarda ilcorrieredellacitta.com, 19 ottobre 2023 In queste ore, è stato riaperto il dossier legato alla morte di Stefano Dal Corso, ovvero il detenuto morto all’interno del carcere di Oristano. Sono numerose le anomalie che hanno portato, nel recente passato, ad archiviare questa vicenda, a cominciare dalla mancanza di un’autopsia sulla salma dell’uomo. Secondo la Procura, a somma anche delle prove rinvenute, la scena dell’impiccagione sarebbe stata solo una copertura per un’altra vicenda: il pestaggio che ha portato alla morte lo stesso Stefano. Riaperto il dossier su Stefano Dal Corso, il detenuto morto in carcere - Le prove inerenti il pestaggio fatale per Stefano Dal Corso, sarebbero arrivate da un audio ora in possesso della Procura. Nel momento in cui i giudici avevano deciso di archiviare la vicenda misteriosa attorno al detenuto, nuove prove potrebbero riscrivere il decesso di questa persona. Indizi che andrebbero incontro alle richieste dei genitori dello stesso Stefano, che da tempo chiedono un approfondimento del caso e soprattutto si erano battuti per un’autopsia sulla salma del loro figlio. Una prova audio potrebbe riscrivere la storia di Stefano - La vicenda potrebbe vedere un cambio netto della storia, smontando quella morte per impiccagione. Il 12 ottobre 2022, il corpo di Stefano è stato trovato impiccato alla finestra della cella. Una scena che ha gelato il sangue degli agenti penitenziari che l’hanno ritrovato in quello stato, ma che dietro potrebbero vedere tutta un’altra vicenda. Perchè dei preziosi audio, al contrario, potrebbero narrare la storia di un brutale pestaggio al detenuto, che ha conseguito il suo decesso nel giro di poche ore. Una condizione che, negli ultimi mesi, è stata messa all’evidenza del Ministero di Giustizia, chiamato a fare chiarezza sulla morte di Dal Corso. Cosa racconteranno i legali della vittima - La legale che segue la vicenda di Stefano Dal Corso, l’avvocatessa Armida Decina, potrebbe raccontarci una storia fatta di pestaggi, lividi e tentativi di strangolamento. Situazioni che spiegherà bene in una conferenza stampa a Montecitorio nella giornata di domani, 20 ottobre 2023. Livorno. Il Garante: “Nel carcere di ancora vacante la figura dello psicologo del disagio” di Marco Solimano* comune.livorno.it, 19 ottobre 2023 Invito rivolto all'Azienda sanitaria a provvedere celermente alla nomina. “Fra le tante criticità che investono la Casa Circondariale di Livorno mi preme segnalarne una in particolare, la mancanza della figura dello psicologo del disagio, ruolo oramai vacante dal 27 marzo di quest'anno. Lo psicologo del disagio svolge una funzione centrale nel percorso di accoglienza dei nuovi giunti alla prima esperienza carceraria spesso molto giovani o degli arrestati in generale. L'approccio con una istituzione totale come il carcere è di per se un evento fortemente traumatico vista la profonda modificazione della condizione umana ed in questa fase la figura dello psicologo diventa dirimente nell'accogliere questa criticità e nell'orientare il percorso di vita all'interno del carcere. Si tratta spesso di soggetti fragili, per lo più giovanissimi alla prima carcerazione, ad alto rischio di autolesionismo od anche di propositi suicidari che in una presa in carico di qualità ed altamente professionalizzata possano trovare ragioni per definire un percorso positivo e collaborativo con l'area trattamentale che lo accompagni sino alle dimissioni dall'Istituto. E preme ricordare che con la pubblicazione in gazzetta ufficiale, nel 2018, del decreto sui nuovi Livelli Essenziali di Assistenza il supporto psicologico diventa un diritto dei cittadini, anche di quelli detenuti. Dal marzo 2023, ed oramai siamo quasi a novembre, questo diritto alla salute anche psichica dei cittadini detenuti è venuto meno e non se ne comprendono le ragioni. Diversi sono stati i solleciti ai vertici aziendali da parte della direttrice del Presidio Sanitario all'interno del carcere così come quelli rappresentati dall'ufficio del Garante Comunale ma a tutt'oggi la questione non è stata ancora definita e continua a permanere una situazione di incertezza che potrebbe incanalarsi in derive pericolose per la salute delle persone. Si sani, dunque, con la massima sollecitudine questo vuoto e si restituisca quanto prima, attraverso la nomina di un nuovo psicologo/a, la pienezza della funzione, centrale nei percorsi di presa in carico, di prevenzione e di tutela della salute delle persone private della libertà”. *Garante dei Diritti delle Persone private della libertà Padova. Col teatro in carcere per non aver paura delle emozioni di Rossana Certini vita.it, 19 ottobre 2023 A ottobre la compagnia Matricola Zero torna nella casa circondariale Due palazzi di Padova con il laboratorio teatrale realizzato nell'ambito del progetto Per aspera Ad Astra - Come riconfigurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza. Il laboratorio è un percorso fatto di conoscenza reciproca che, attraverso il racconto di eventi personali, ricordi e storie, permette ai detenuti di comprendere meglio la loro condizione. Si può cambiare in carcere? Si può modificare il modo di abitare questo luogo? Sono queste alcune delle domande che, ormai da tre anni, i ragazzi della compagnia teatrale Matricola Zero si pongono ogni volta che entrano nella casa circondariale Due Palazzi di Padova per tenere il loro laboratorio di recitazione con i detenuti della sezione di alta sicurezza. Un’esperienza nata nell’ambito del progetto Per aspera Ad Astra - Come riconfigurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza promosso da Acri e sostenuto da alcune fondazioni di origine bancaria. “Appena ci siamo affacciati al mondo dell’alta sicurezza”, spiega Federica Chiara Serpe, una dei soci fondatori di Matricola Zero, “ci è stato subito chiaro che stavamo portando il teatro, dunque la bellezza, in un luogo in cui era non solo utile ma soprattutto necessario. Lo sguardo di chi sconta una pena detentiva molto lunga o un “fine pena mai” porta in sé il pensiero che non possa esserci una via di uscita non solo dalla struttura detentiva ma, anche, dai propri pensieri. Ognuno di loro si ripete in un’auto-narrazione sempre uguale a se stessa, sedimentata nel tempo”. I detenuti della sezione alta sicurezza, condannati per reati di tipo associativo, sono sottoposti a una sorveglianza più stretta rispetto agli altri. A Padova, per esempio, non possono accedere al laboratorio di pasticceria “Giotto oltre la dolcezza” attivo all’interno della casa circondariale. “Ricordo lucidamente la prima volta in cui sono entrata in carcere”, racconta l’attrice Alice Centazzo, “ho provato la sensazione di sprofondare in un abisso. Superare tutti quei cancelli che si chiudevano alle mie spalle. Passare i controlli. Lasciare telefono, documenti ed effetti personali. Entrare in questo luogo altro rispetto a quelli che sono abituata ad abitare, è stato estraniante. Anche se i corridoi che si attraversano sono lunghi e dritti avevo la percezione di andare verso il basso. Come se stessi abbandonando veramente qualcosa fuori per entrare in un luogo da dove, una volta entrata, non sarei riuscita a uscire da sola. Poi l’incontro con i detenuti, con chi abita quelle mura, mi ha fatto cambiare la percezione del luogo”. Il percorso teatrale sviluppato da Matricola Zero, che a ottobre 2023 inizia il suo quarto anno di lavoro laboratoriale con i detenuti, ha tra i suoi scopi quello di trovare una modalità di confronto umano attraverso la recitazione, lavorando sulla creazione di una rete sociale interna alla struttura che permetta ai detenuti di crescere e percepire un cambiamento di identità che passa attraverso il riconoscersi come attori che compiono delle scelte e delle azioni fuori e dentro la scena. “La scorsa estate abbiamo scelto di concludere il laboratorio con uno spettacolo aperto al pubblico esterno dal titolo L’isola”, prosegue Serpe, “un titolo significativo che evoca una terra circondata, chiusa, isolata ma anche un flusso costante dato dall’elemento acquatico, che porta movimento e elementi nuovi sulla riva. L’isola diventa la metafora di una condizione umana. Di uno stare particolare che in carcere, soprattutto per i nostri attori dell’alta sicurezza, si traduce in una solitudine concreta: in questo stato consolidato negli anni, il monologo interiore diventa uguale a sé stesso, molto difficile da disinnescare”. Quando si parla dei detenuti, infatti, si raccontano spesso solo le ragioni per cui sono finiti agli arresti. L’esperienza teatrale permette di avvicinarsi ai racconti del presente di ogni singolo partecipante al laboratorio. Persone spesso recluse da decenni e per questo cambiate nel profondo dalla detenzione. “Lavorando sullo studio del testo per preparare lo spettacolo”, prosegue Serpe, “è stato possibile costruire una relazione attraverso la metafora teatrale. Non sappiamo nulla della vita precedente dei nostri allievi. Sappiamo solo che hanno trascorso gran parte della loro vita in detenzione, alcuni anche al 41bis, e che hanno una grande voglia di raccontarsi e mettersi in gioco. È la fiducia la parola chiave della relazione che abbiamo creato. Costruiamo fiducia mostrando loro che, attraverso la recitazione e il movimento dei corpi, possiamo offrirgli degli strumenti per reggere la durezza della reclusione”. Il laboratorio teatrale è un percorso fatto di conoscenza reciproca che, attraverso il racconto di eventi personali, ricordi e storie, permette ai detenuti di comprendere meglio la loro condizione. Inoltre trasforma in loro l’idea punitiva della reclusione in ricostruzione di vita. “Il percorso teatrale consente di creare relazioni empatiche, spesso rare in quei luoghi”, conclude Centazzo, “abbiamo compreso che qualcosa in loro era cambiato quando durante le repliche pubbliche de L’isola hanno spontaneamente cambiato una parte dello spettacolo. Uno dei detenuti, infatti, è stato operato al ginocchio qualche settimana prima della messa in scena. Ci teneva moltissimo a essere sul palco. Così ha chiesto ai medici di poter uscire prima dall’ospedale. Abbiamo costruito un personaggio addosso a lui. Un protagonista che per tutto lo spettacolo era seduto. A un certo punto il testo prevedeva che gli attori si chiudessero in un unico abbraccio, a formare un grande cerchio, e il personaggio seduto li guardava da lontano e sorrideva. Ma durante la rappresentazione uno degli attori, in autonomia, ha deciso di staccarsi dal gruppo e andare ad abbracciare l’amico seduto. Abbiamo avuto, così, la prova provata che il teatro li ha aiutati a sostenersi a vicenda e a imparare a non avere timore delle loro emozioni. Sono loro che ogni anno ci danno la carica per ricominciare un nuovo laboratorio teatrale insieme”. Milano. Con l’arte il carcere si racconta vita.it, 19 ottobre 2023 Dal 26 ottobre al 5 novembre saranno esposte al foyer dell'auditorium San Fedele di Milano le opere scultoree e pittoriche delle persone detenute a Bollate, Opera, San Vittore e Beccaria, nell'ambito del progetto “Rinascita” del Touring club italiano e dell’associazione Dentrofuoriasrs. La bellezza genera bellezza. È da questa convinzione che si sviluppa “Rinascita”, il nuovo progetto di inclusione e di accoglienza nato per raccontare il carcere nei luoghi dell’arte e della cultura del Touring club italiano e dell’associazione Dentrofuoriasrs, realtà che si occupa di promuovere il reinserimento sociale dei detenuti. Dal 26 ottobre al 5 novembre all’Auditorium San Fedele di Milano sarà aperta a tutti la mostra dedicata alle opere pittoriche e scultoree delle persone detenute degli istituti di pena di Bollate, Opera, San Vittore e Beccaria, che fanno dell’arte uno strumento di speranza e dialogo con la società civile. L’iniziativa, organizzata dall’associazione Dentrofuoriars, vuole evidenziare come una condizione di sofferenza esistenziale della popolazione dei privati della libertà possa trasformarsi in un messaggio di rinascita, ritorno alla speranza che si manifesta con gli strumenti dell’arte visiva. Il Touring Club Italiano, da sempre attento ai temi di inclusione sociale e all’importanza della condivisione della bellezza, con i suoi volontari impegnati nel progetto “Aperti per voi” accoglierà i visitatori alla mostra. La mostra “Rinascita rimarrà” aperta dal mercoledì alla domenica dalle 14 alle 18 presso il foyer dell’Auditorium San Fedele di (con ingresso da Via Hoepli 3/b). L’inaugurazione, a ingresso libero, si terrà di giovedì 26 ottobre alle ore 18.30 alla presenza dei docenti di pittura curatori della mostra che accompagneranno gli ospiti alla scoperta del significato delle opere. Perché Shibli va premiata adesso di Viola Ardone La Stampa, 19 ottobre 2023 Alla Buchmesse di Francoforte una scrittrice palestinese avrebbe dovuto ricevere il LiBeraturpreis 2023, un premio prestigioso assegnato ogni anno a scrittori e scrittrici provenienti da Africa, Asia, America Latina. Non sarà così, purtroppo. Adania Shibli non avrà il pubblico riconoscimento che ha meritato per il suo libro Un dettaglio minore per questioni di sicurezza e di opportunità, così comunica il comitato direttivo della Fiera, e per non esacerbare gli animi in un frangente così complicato, in cui le vite di israeliani e palestinesi sono quotidianamente sospese come “sugli alberi le foglie”, dopo l’odioso attacco terroristico di Hamas, la reazione impietosa di Netanyahu e l’allarme terrorismo che torna a terrorizzare il mondo. Non mi è difficile comprendere le motivazioni addotte, soprattutto quelle in merito alla sicurezza, eppure non posso nascondere un moto di profondo dispiacere per l’annullamento di una cerimonia di premiazione che poteva essere un’occasione di dialogo, di incontro, un ponte gettato tra pilastri di odio, perché questo è ciò che fa la scrittura. Se l’opera di Shibli era stata ritenuta meritevole prima del massacro del 7 ottobre ai danni di Israele è certamente perché non deve avere nulla a che fare con l’odio, con la violenza, con l’antisemitismo. L’arte, se è, non è mai partigiana, mai faziosa, non è un campo di battaglia. Altrimenti non è arte e non merita premi né in tempo di guerra né in tempo di pace. La letteratura è il “dono del dio”, l’ultima disperata speranza conchiusa nel vaso di Pandora delle nostre fragili vite, e per questo andrebbe preservata, tenuta fuori dalle fazioni dell’odio e dalle dispute del potere, una piccola pace per tutte le nostre esistenze. Il conflitto in atto non può modificare il giudizio di valore su un’opera ritenuta meritevole di un riconoscimento internazionale e un premio letterario non può dipendere dalle visioni politiche né dal contingente. Se la letteratura ha dei doveri, li ha solo verso se stessa. In questi giorni di lutto per l’umanità mi sono rimessa a leggere, a scrivere, a studiare, ho tirato fuori i classici, le Storie di Erodoto e gli Annali di Tucidide, i versi dell’Iliade, tutti i libri di guerra e di pace che ho ritrovato nella mia libreria, ogni poesia che mi raccontasse che dopo la guerra c’è ancora vita e, anche se la vita e l’orrore troppo spesso coincidono, quel che prevale infine è l’umanità. Per secoli la letteratura è stata un antidoto alla disperazione, alla paura, al senso di impotenza e di inutilità verso le tragedie del vivere, e per me rimane l’unico modo che conosco per chiedere ragione a me stessa e al cielo delle morti innocenti e delle colpe mai abbastanza note. “Àrma virùmque canò”. “Il pelìde Achille che infiniti addusse lutti agli Achei”. “Uomo del mio tempo / sei ancora quello della pietra e della fionda”. “Considerate se questo è un uomo / che muore per un sì o per un no”. “Sono un arabo / Ho un nome senza titoli / E resto paziente nella terra / la cui gente è irritata”. Omero, Virgilio, Quasimodo, Levi, Darwish. La letteratura ha certamente una storia, una geografia e una lingua ma non ha confini. Tutte le parole di pace fanno parte di un unico lunghissimo poema, quello dell’umano. Sarebbe bello se a Shibli si tributasse ugualmente il meritato encomio, nelle forme e nei modi che la situazione attuale consente, per non cadere di nuovo nei paradossi logici che hanno fatto bandire gli scrittori russi dopo l’invasione ai danni dell’Ucraina. Tutti i libri sulla guerra ci hanno insegnato a cercare un orizzonte oltre la guerra, quello che per un attimo il principe Andrej Bolkonskij vede mentre giace supino dopo essere stato colpito in battaglia, e si accorge per la prima volta del cielo sopra di sé: sereno, luminoso e spaventosamente sconfinato. Cronaca semiseria di una storia di vita e giudiziaria di Antonella Calcaterra* Il Dubbio, 19 ottobre 2023 Dario (nome di fantasia) è stato oltre 4 mesi in un reparto per acuti in attesa di una comunità che non è mai arrivata, sì trova a casa solo e non ha riferimenti di supporto. Non esistono educatori a pagamento. Ha chiesto di parlare con il suo giudice tutelare che gli ha fatto sapere che deve rivolgersi all’amministratore di sostegno. Dario (nome di fantasia) me lo porto dietro da anni. Lo scorso anno dopo aver espiato la sua pena per un fatto di modesta gravità ha avuto una misura di sicurezza con collocamento in comunità. La misura di cura arriva mentre era ricoverato in un reparto ospedaliero milanese dove era andato spontaneamente perché non si sentiva bene. La misura di sicurezza resta ineseguita per carenza di posto. Dopo un mese di ricovero, viene accolto in una comunità da dove viene mandato via poco dopo perchè trovato positivo. Esiste una delibera regionale del dicembre 2022 che vieterebbe alle comunità di dimettere i pazienti senza interloquire con i servizi di riferimento e con l’autorità giudiziaria ma viene costantemente disattesa. Questo per evitare che stazionino nel reparto dove si devono gestire i pazienti acuti o che stiano in giro senza assistenza. Dario è di nuovo in reparto ospedaliero dove resta per oltre 3 mesi; vengono interpellate oltre 40 comunità ma nessuno lo vuole. Tre mesi in reparto per chi non lo sapesse significa stare in un luogo con sbarre alle finestre dove non sì può uscire a vedere il sole e dove non c’è neppure una televisione. Dopo 3 mesi un magistrato di sorveglianza coraggioso ha autorizzato Dario a tornare a casa dove è solo perché la mamma è in Rsa e sta male. L’amministratore di sostegno nominato è un funzionario del Comune. Poco dopo con mail formale inviata anche a me e ai suoi vertici lamenta eccessive telefonate da parte di Dario, che oltre ad avere necessità di soldi per vivere ha bisogno di ascolto e di imparare a vivere autonomamente nel mondo. Lui chiede aiuto per vivere, si sente solo, vorrebbe una borsa lavoro, compagnia. Non è capace a organizzarsi la vita. Nel mio piccolo penso che un amministratore di sostegno, quando poi è del comune, debba aiutare anche in questo. Invece no, dopo 3 telefonate l’amministratore mi scrive invitandomi a insegnare le regole al mio assistito, indica 4 ore alla settimana per le telefonate specificando che se ciò non verrà rispettato farà una querela per stalking. In quelle due ore il telefono è sempre occupato. E così continuiamo io e il mio studio ad occuparci di Dario, della sua solitudine, della sua povertà di risorse e del suo vuoto. Riassumendo. Dario è stato oltre 4 mesi in un reparto per acuti in attesa di una comunità che non è mai arrivata, sì trova a casa solo e non ha riferimenti di supporto perché chi dovrebbe occuparsene lo vuole denunciare per stalking. Non esistono educatori a pagamento. Ha chiesto di parlare con il suo giudice tutelare che gli ha fatto sapere che deve rivolgersi all’amministratore di sostegno. ************* Ho ricevuto la brochure della settimana della salute mentale del comune di Milano con invito a partecipare a una sessione. Non parteciperò. Non amo le vetrine che raccontano realtà patinate diverse da quella che tocco con mano quotidianamente a fianco dei miei assistiti. Che restano detenuti illegalmente in attesa di un posto in Rems mesi, con conseguenti sanzioni pagate dal nostro governo, che attendono in carcere o in ospedale posti in comunità mesi o che vengano abbandonati a loro stessi a casa. In occasione di questa settimana meglio raccontare le cose come stanno e, come ben ha spiegato Fabrizio Starace sul Corriere della sera qulache giorno fa, meglio passare ai fatti. Di fronte a numeri che stanno crescendo a dismisura non sì può far finta di niente e continuare a destinare risorse così modeste alla salute mentale. Diventa un problema di grave responsabilità a livello dei decisori politici regionali e nazionali. *Avvocata Trattato di Schengen: perché gli Stati lo sospendono, come cambiano i controlli di Emanuele Bonini La Stampa, 19 ottobre 2023 Allarme terrorismo in tutta Europa: “La minaccia è elevata e può aumentare”. Libera circolazione sì, ma con accorgimenti ed eccezioni alle regole. Gli Stati membri dell’Ue, in caso di “minaccia grave” possono decidere di sospendere gli accordi di Schengen sulla libera circolazione e rimettere in funzione le vecchie dogane alla frontiera per fare quei controlli che, in nome del progetto di integrazione, sono venuti meni tra i Ventisette Paesi che fanno parte dell’area di libero movimento di persone, merci, servizi e capitali. Si tratta di 24 Stati Ue (Cipro, Bulgaria e Romania ancora non fanno parte dell’area Schengen) e di tre Paesi europei non Ue (Islanda, Svizzera e Norvegia). Motivi e durata della sospensione degli accordi di Schengen - Il regolamento che disciplina l’area Schengen prevede che in casi di minaccia grave per la sicurezza interna e l’ordine pubblico gli Stati possano, di propria iniziativa, reintrodurre i controlli ai propri confini fino a un massimo di due anni. Ma non è automatico. Per sei mesi i governi nazionali possono disporre il ripristino dei controlli in maniera autonoma e sovrana, senza dover chiedere permessi né autorizzazione. Scaduti i primi sei mesi, per poter continuare a fare i controlli occorre notificare richiesta alla Commissione europea. L’esecutivo comunitario valuta alla luce delle circostanze. Un rinnovo e dunque l’estensione dei controlli alle frontiere può essere garantito solo se sussiste una minaccia grave o ne è comparsa una nuova. Esempi di minacce gravi per sicurezza interna e ordine pubblico sono terrorismo e l’afflusso massiccio di richiedenti asilo, la cui gestione risulta difficile in ragione dei numeri. La Commissione può autorizzare fino a un massimo di tre volte, per un periodo massimo di sei mesi. Tre semestri che si aggiungono al semestre iniziale di competenza esclusiva nazionale, per un totale quindi di ventiquattro mesi. Attenzione, però: la Commissione potrebbe autorizzare l’estensione della riapertura delle dogane per meno di sei mesi. Cosa significa la sospensione degli accordi di Schengen - All’atto pratico la sospensione degli accordi di Schengen implica lo stop ai punti di ingresso terrestri tra due Stati membri dell’Ue e dell’area di libera circolazione (Norvegia, Svizzera e Islanda). Le persone in entrata e uscita devono obbligatoriamente fermarsi ed esibire i documenti (passaporto o carta d’identità) e, in caso, sottostare ai controlli e alle perquisizioni del caso. Gli agenti di frontiera possono procedere alle verifiche del mezzo di trasporto e del loro contenuto, se lo ritengono necessario. Lo stesso vale per i camion, che devono mostrare i documenti di viaggio delle merci, delle ditte per cui si lavora. Su strada tutto questo si traduce in code e tempi di attesa. Con il regime di controlli alla frontiera scattano anche multe nel caso ci si rifiuti di esibire il documento. L’importo varia da Paese a Paese. La Commissione europea, in linea di principio generale, cerca sempre di scoraggiare il ricorso al ripristino dei controlli per ragioni di mercato interno. I ritardi in particolare nelle consegne di merci hanno un impatto sull'economia a dodici stelle. Per questo, per Bruxelles, la riapertura delle dogane andrebbe considerata come ultima risorsa Migranti. Pioggia di critiche alle nuove norme sui minori di Giansandro Merli Il Manifesto, 19 ottobre 2023 IL dl immigrazione in commissione Affari costituzionali della Camera. “Nella mia esperienza non ho riscontrato il fenomeno dei migranti che dichiarano falsamente di essere minorenni. Non bisogna arretrare sul riconoscimento dei diritti acquisiti”, ha dichiarato ieri Cristina Maggia, presidente del tribunale per i minorenni di Brescia e dell’Associazione italiana magistrati per i minorenni. La giudice è stata audita dalla commissione Affari costituzionali della Camera, dove ha manifestato forte preoccupazione per la possibilità che sedicenni e diciassettenni stranieri arrivati in Italia da soli siano accolti in strutture destinate agli adulti, fino a un massimo di 90 giorni. In serata il Viminale ha precisato che non ci sarà promiscuità tra migranti con più e meno di 18 anni. Per questi secondi saranno istituite delle sezioni separate. Ma all’interno delle stesse strutture. Circostanza che non cancella le preoccupazioni che vengono da una delle misure introdotte dall’ultimo decreto in materia (il 133/2023 di ottobre): se mancano i posti i centri per adulti possono ospitare anche i ragazzi. Un’altra norme prevede, “in caso di arrivi consistenti, multipli e ravvicinati”, la possibilità di derogare alla procedura multidisciplinare per l’accertamento dell’età utilizzando l’Rx del polso. Un esame più rapido ma soggetto a errori. Ammonizioni al governo sono arrivate anche dal servizio studi della Camera. Per quanto riguarda l’accoglienza in situazione di promiscuità il Comitato per la legislazione, che si occupa di migliorare la qualità della produzione normativa, avvisa che la misura stride con un decreto legislativo del 2015 attraverso il quale è stata recepita la “direttiva accoglienza” dell’Ue. Questo esclude che un migrante under 18 non accompagnato possa essere accolto nei centri governativi di prima accoglienza e stabilisce che durante l’iter per l’identificazione sia collocato in strutture apposite. Altre critiche riguardano degli aspetti burocratici della procedura di accertamento dell’età. Su cui la Garante per l’infanzia e l’adolescenza Carla Garlatti, intervenuta in Commissione martedì, ha lanciato l’allarme: “i margini di errore sono dell’ordine dei due anni di età”. Garlatti ha anche chiesto la realizzazione di centri di prima accoglienza “dedicati esclusivamente ai minori su tutto il territorio nazionale” e ha ribadito la contrarietà alla permanenza dei minori in strutture per adulti. Secondo l’avvocata di Asgi Ornella Fiore questa prassi ha profili discriminatori perché in nessun caso, a eccezione del superiore interesse del minore, è prevista per i ragazzi italiani. La legale ha anche sottolineato le problematiche che riguardano la conversione del permesso di soggiorno per minore in quello per lavoro: con la nuova legge viene demandata ai consulenti del lavoro non solo la verifica delle caratteristiche dell’azienda di riferimento ma quella di tutti i presupposti per la conversione. “Significa appaltare una funzione pubblica di un certo rilievo a un soggetto privato che non ha nessuna competenza per poterla svolgere”, ha detto Fiore. Sempre ieri il delegato Anci all’immigrazione, Matteo Biffoni, è stato ascoltato dal Comitato parlamentare Schengen dove ha denunciato che a fronte di 23mila minori stranieri non accompagnati presenti sul territorio nazionale i posti del Sistema di accoglienza e integrazione sono solo 6mila. “La normativa vigente al momento non è rispettata”, ha detto Biffoni. L’associazione dei comuni italiani aveva presentato un emendamento al dl Cutro per il rifinanziamento di altri 4mila posti. Non se ne è fatto nulla. L’imprevisto della violenza senza politica di Marco Bascetta Il Manifesto, 19 ottobre 2023 Non è più un rischio ma una certezza: gli sviluppi della crisi in Medio Oriente sono del tutto fuori controllo. E così le loro conseguenze nel mondo intero. Saltano vertici, si spezzano alleanze politiche, le piazze mediorientali ribollono, i lupi islamisti tornano a colpire in Occidente, la diplomazia è messa all’angolo a suon di bombe. Tutto resta appeso al filo dell’imprevisto. Così come imprevista è stata, nel suo orribile svolgimento, l’aggressione che ha segnato l’inizio della guerra, per gli aggrediti e perfino per gli aggressori stessi. A nessuna delle molte domande che si affollano esiste una risposta plausibile. Non sul futuro della striscia di Gaza, su cosa significhi annientare Hamas con il vasto retroterra fondamentalista - trasversale a stati, movimenti e comunità - che lo sostiene e alimenta e che non mancherebbe di riprodurlo in altre forme una volta smantellato dalle armi israeliane. Non sull’immagine internazionale di Israele, sempre più compromessa con il crescere delle vittime civili a Gaza, o sulla posizione dello stato ebraico nella regione mediorientale che, in seguito a una guerra spietata con costi umani esorbitanti e azioni irresponsabili, è sull’orlo di una conflagrazione generale. Nemmeno sulla stessa sicurezza di Israele, intesa come condizione stabile e non come perenne prova di forza nell’alterna condizione di assediati o di assedianti. Per non parlare di ciò che attende l’insieme della popolazione palestinese, ancora una volta in ostaggio di tutti. Non vi sono risposte perché gli eventi travolgono gli stessi attori, nascono certamente da una storia che può essere ricostruita, ma non basta quella storia (con i torti e le ragioni che i contendenti possono desumerne) a spiegarli, né gli interessi materiali né i fattori culturali. La violenza finisce coll’emanciparsi dalle sue stesse cause e motivazioni, nutrita da una somma di esperienze singole e vissuti individuali che si agglutinano in una massa critica, sempre pronta a diventare massa di manovra. Così prende forma una violenza post politica, tanto più spietata quanto più priva di progetto, di bussola, di destinazione, sospinta solo da una retorica della vendetta. Quale seguito pensava Hamas di dare all’orrore di un massacro condotto all’insegna della disumanità e indicibile per i suoi stessi autori? Il seguito, assai prevedibile, non potevano che essere le migliaia di morti palestinesi vittime della reazione israeliana. Il cui sbocco e le cui conseguenze restano a loro volta immerse nella “nebbia di guerra”, poiché nessuna reazione può mai rispondere a un disegno. Restando in balia degli eventi, delle passioni, del narcisismo della forza, al massimo di qualche effimero calcolo di opportunità. Condannare chi ha cominciato è banalmente doveroso, ma ha scarso effetto sul corso degli eventi e per le vittime, poi, tutte le vittime, è piuttosto indifferente. Soprattutto non mostra soluzioni. I parametri, gli indicatori, i criteri con i quali, fino ad oggi, si analizzava il ginepraio medio orientale sono messi fuori uso. La geopolitica? Un ferro vecchio che si libra al di sopra di una realtà sfuggente, ben lontana dall’antica partizione delle sfere di influenza del 1967 o del 1973 e dalla eco dei movimenti di liberazione nazionale, radicata ormai nei successivi fallimenti di epoca postcoloniale e nelle vite che ne sono state travolte. Il diritto internazionale? Non vi è forza in campo che non abbia variamente calpestato questo pallido simulacro, ciascuno secondo la potenza di cui disponeva, malgrado risoluzioni, appelli, dichiarazioni di principio. I grandi interessi economici? Contano, certo, ma attraversano, aggirano, manipolano, ideologie e schieramenti, stati e antistati. Non esiste al mondo despota abbastanza sanguinario, o formazione terroristica sufficientemente efferata, da non poterci fare affari insieme, da non poter usare, all’occasione, contro i propri nemici e concorrenti. In questa caotica incertezza cresce una polarizzazione assoluta nella quale ogni criterio di prudenza, ogni equilibrio e distinzione sprofondano senza rimedio. Vietato manifestare solidarietà con i palestinesi in più di un grande paese europeo, o inorridire per la catastrofe umanitaria prodotta dall’assedio israeliano a Gaza. Una messa al bando del diritto di protestare che, in democrazia, non ha precedenti. Certo, è noto che nello schieramento filopalestinese si annida non solo l’eredità dell’antisemitismo arabo, ma anche, in Europa e soprattutto in Germania, quell’antisemitismo che da sempre appartiene allo strumentario rosso-bruno e che non cessa di costituire una minaccia. Così come nelle file dei più esaltati fautori della risposta bellica israeliana, costi quel che costi, non è raro rintracciare suprematismo occidentalista e razzismo antiarabo. Le forme spietate dello scontro in corso non fanno che favorire queste torve inclinazioni. Nel precipitare degli eventi fuori da qualunque capacità previsionale e razionalità politica c’è chi vagheggia, da una parte come dall’altra, la “soluzione finale”. Che si tratti di cancellare Hamas, le aspirazioni del popolo palestinese nel loro insieme o, viceversa, lo stato di Israele. Fino a quando questa allucinazione senza esito non sarà scacciata per sempre dalle menti e dalle parole dei contendenti, la guerra continuerà a crescere su se stessa come unica e irrinunciabile condizione di esistenza. Da Tunisi a Beirut, piazze arabe in fiamme e scontri con la polizia di Pasquale Porciello Il Manifesto, 19 ottobre 2023 Proteste davanti alle sedi francesi, statunitensi e israeliane dopo l’attacco all’ospedale di Gaza. In Libano il fronte più caldo. La “giornata della rabbia” - la chiamata a raccolta dopo la strage all’Al-Ahli Arab Hospital a Gaza - ha visto un immenso numero di persone nelle strade arabe, quelle giordane, egiziane, tunisine, irachene, iraniane, marocchine, libiche, yemenite, turche e libanesi, oltre che in Cisgiordania. Le situazioni più critiche ad Amman, Tunisi, Istanbul e Beirut. Ieri è stato il secondo giorno di proteste: già martedì sera, in seguito alle scioccanti immagini provenienti da Gaza, si erano radunate migliaia di persone per esprimere cordoglio e solidarietà ai palestinesi. Le ambasciate straniere - soprattutto quelle statunitensi, francesi e israeliane - sono state prese di mira, perché percepite come simbolo dell’appoggio incondizionato a Israele. Sono scoppiati scontri con la polizia, che ha disperso le migliaia di manifestanti con lacrimogeni e idranti ad Amman martedì sera e di nuovo ieri fuori dall’ambasciata israeliana e da quella statunitense. I partiti islamici hanno spinto per uno sciopero generale e il governo ha dichiarato tre giorni di lutto nazionale. La presenza palestinese in Giordania è attestata attorno ai tre milioni di persone su 12, di cui però un’amplissima parte vanta radici palestinesi: rifugiati del 1948 diventati cittadini giordani. L’immediata conseguenza della strage è stata l’annullamento dell’incontro tra Biden e il re di Giordania Abdallah II. A Tunisi i manifestanti fuori dall’ambasciata francese e a quella degli Stati uniti hanno gridato slogan in supporto dei palestinesi e contro “i francesi e gli americani alleati dei sionisti”. Proteste all’ambasciata di Israele in Turchia dove i manifestanti hanno bruciato bandiere statunitensi e israeliane e dove si sono registrati scontri con l’esercito. Quello libanese è però certamente il polo più caldo. Al confine a sud si combatte da dieci giorni e l’allarme è altissimo, con rivendicazioni di attacchi, ferimenti e uccisioni sia nell’esercito israeliano che in Hezbollah. I civili da entrambi i lati hanno dovuto evacuare i villaggi a ridosso della Linea Blu che separa i paesi e che Unifil, forza Onu di interposizione, stenta a controllare. Qualche centinaio di persone martedì sera e circa duemila ieri hanno manifestato violentemente fuori dall’ambasciata Usa a Awkar, a una decina di chilometri da Beirut. Dispersi con idranti e lacrimogeni, alcuni manifestanti sono rimasti feriti negli scontri. All’ambasciata francese martedì sera ore di proteste e lanci di pietre all’ingresso principale. Il cospicuo schieramento di forze dell’ordine si è limitato però ai cordoni di sicurezza. Bandiere di Amal e Hezbollah, oltre a quelle palestinesi, hanno accompagnato i caroselli di motorini e auto fino a notte fonda in tutta la città. Ieri ha protestato anche il personale medico degli ospedali di Halba, Akkar, Qobayat e lo stesso premier Mikati ha preso parte a un sit-in davanti al ministero della salute. Manifestazioni spontanee o organizzate si sono svolte nei dodici campi palestinesi sparsi in tutto il paese e nelle roccaforti sciite come Nabatiyyeh e in città sunnite come Saida. Scuole e università chiuse: ieri è stata una giornata di lutto nazionale in Libano. Un’altra manifestazione non violenta si è tenuta sempre ieri davanti all’ambasciata tedesca. L’attacco all’ospedale costituisce un’ulteriore svolta nella percezione del conflitto e nel conflitto stesso. Le migliaia di persone in strada in supporto della Palestina rappresentano un freno dal basso al processo di normalizzazione che Israele aveva intrapreso con la maggior parte dei governi arabi. Se dall’alto la questione palestinese era stata in qualche modo congelata, quello che sta avvenendo nelle strade, oltre a essere una condanna dell’occupazione israeliana, risuona come un monito per i governi arabi che questi processi di normalizzazione li avevano sottoscritti o avallati, una richiesta di un cambio di paradigma. Intanto a Beirut è un continuo rumore di elicotteri e sirene di volanti della polizia. Gli arrivi in Libano sono altamente sconsigliati. Alcune ong rimpatriano i lavoratori non necessari. Riyadh ha chiesto ai cittadini sauditi di lasciare il paese. Ufficializzare una guerra contro il Libano vorrebbe dire cambiare il volto del conflitto e ampliarlo a tutta la regione. Il 17 ottobre, quarto anniversario della thaura libanese, la rivoluzione, arriva in un clima di tensione altissima. È la data che aveva segnato lo scoppio di una rivolta contro l’intero sistema politico libanese corrotto e nepotista, ma anche l’inizio di un’inesorabile discesa in una crisi economica e sociale da cui il paese è tutt’altro che uscito, potrebbe marcare ora l’inizio di un nuovo drammatico corso di eventi.