Carcere, i tanti significati dei farmaci di Giulia Melani Il Manifesto, 18 ottobre 2023 “Aldol darkene triptizol/Noan anasclerol” cantava Samuel nel brano Depre. L’elenco di psicofarmaci fluiva su una base con accenti allegri e i Subsonica ci mostravano alcune facce dell’uso di psicofarmaci: mezzo di fuga dal malessere, strumento per volare, lente che rende visibile la mancanza di una rete. “Paliperidone, Apipipraziolo, Trazodone” elencati in apertura del secondo capoverso dell’inchiesta di Luca Rondi “Il carcere sedato: più di due milioni di euro all’anno spesi in psicoformaci”, in Altraeconomia, n. 263, aprono numerosi interrogativi. L’inchiesta presenta una serie di dati relativi alla spesa farmaceutica in 15 istituti penitenziari italiani, ponendo l’accento sulla sproporzione nella spesa pro-capite in psicofarmaci, che risulta di gran lunga superiore rispetto all’esterno, soprattutto per quanto riguarda gli antipsicotici, che rappresentano il 60% della spesa in psicofarmaci in carcere, per una media pro-capite circa 5 volte superiore a quella della popolazione libera ed inoltre in netto aumento negli ultimi 4 anni. Dati che suscitano allarme e che interrogano - come emerge dai commenti degli esperti interpellati da Rondi- sulla presenza di “un disagio diffuso, rispetto a cui la soluzione più immediata e semplice è quella farmacologica” (Michele Miravalle - Antigone), e sul possibile uso degli antipsicotici come strumento di controllo che porta a chiedersi se “stiamo sedando dei disturbi o dei disturbati” (Fabrizio Starace - DSM di Modena e Siep). L’accento è posto su due principali assi di problematicità: la presenza in carcere di un disagio diffuso - che, come Rondi chiarisce, non è conseguenza della chiusura degli OPG - e l’uso delle sostanze con funzione disciplinare. La questione del consumo di psicofarmaci può aprire ad ulteriori domande e alla possibilità di uno sguardo inedito se - come fa Luca Sterchele nel suo volume Il carcere invisibile (Meltemi, 2021) - ricordiamo che la somministrazione di farmaci non vede come soggetti attivi soltanto il personale sanitario ed eventualmente quello di sicurezza, ma anche le persone detenute. L’osservazione partecipante di Sterchele inquadra le dinamiche di negoziazione tra detenuti, medici e agenti, a fronte di una richiesta, anche insistente, da parte della popolazione detenuta. Prendendo in considerazione i bisogni e la prospettiva delle persone detenute, si scopre che la terapia assume la funzione di aiuto, di sollievo, per permettere di affrontare una realtà difficile e angosciante, una funzione anche di sedativo, talvolta voluta da chi la assume. Il farmaco può avere funzione di intrattenimento, in un luogo dove la noia può farla da padrona, o di sostituto per altre sostanze che sono vietate e non reperibili, in un ambiente dominato da infantilizzazione e controllo, o ancora merce di scambio in un luogo di deprivazioni. Così, da questa prospettiva, si può ricordare la funzione di supporto che lo psicofarmaco può svolgere facendo luce sul malessere che l’istituzione produce : cercando di sfuggire dalle demonizzazioni e dal “calvinismo chimico”, mantenendo al tempo stesso la critica a una cura appiattita sulla sola farmacologia .anche per finalità non solo terapeutiche Si può osservare la carenza di una rete di sostegno, a causa non solo delle poche ore dei professionisti della salute mentale, di cui tratta l’inchiesta, ma anche delle limitazioni dei rapporti con gli affetti e della negazione della sessualità. La salute mentale oltrepassa gli steccati sanitari delle diagnosi e delle terapie. Sulla salute mentale, in carcere più che fuori, si giocano conflitti di funzioni, prospettive e approcci, tra bisogni e risposte. In un quadro complesso che il progetto della Società della Ragione, finanziato dall’8×1000 Chiesa Valdese, Salute mentale in carcere, che sarà a breve avviato a Udine, Rebibbia e Prato, cercherà di indagare. Cospito e la decisione sul 41 bis di Luigi Manconi La Repubblica, 18 ottobre 2023 Non si deve mai dimenticare che il regime detentivo detto 41 bis NON è il carcere duro. Dunque, per la legge, non consiste in una pena più afflittiva o più pesante o più deprivante. È, piuttosto, un sistema di misure destinate solo ed esclusivamente a impedire che il detenuto possa intrattenere relazioni con l’organizzazione criminale esterna alla quale apparterrebbe. Questa e solo questa è la finalità del regime speciale. Giovedì 19 ottobre il Tribunale di Sorveglianza di Roma è chiamato a decidere se Alfredo Cospito debba continuare a subire quella condizione detentiva. Va ricordato che, tempo fa, la Procura Nazionale Antimafia e Antiterrorismo, la Direzione distrettuale Antimafia di Torino, il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, hanno espresso parere favorevole a che Alfredo Cospito fosse trasferito dal regime di 41 bis a uno di minore afflittività e coercitività, come quello di alta sicurezza con censura. La stessa opinione era stata argomentata con motivazioni limpide dal Procuratore presso la Corte di Cassazione, Piero Gaeta. Successivamente era intervenuta la Corte Costituzionale, per la quale Cospito ha il diritto di beneficiare delle garanzie riconosciute a tutti gli imputati, superando il vincolo dell’automatismo rappresentato dalla qualificazione del suo reato come strage contro la personalità dello Stato con conseguente pena dell’ergastolo. Il giudice, di conseguenza, potrà considerare come attenuante la relativa “tenuità del fatto”. Nel ricorso contro l’applicazione del regime di 41 bis, si fa notare che, per due volte, il Tribunale del riesame ha argomentato che l’attività comunicativa di Cospito verso l’esterno si configura come espressione del pensiero politico del suo autore e non come “indicazioni idonee a indirizzare soggetti presenti all’esterno” verso attività criminali. D’altra parte una sentenza della Corte d’Assise di Roma ha smentito il requisito della attualità della Fai (ovvero la persistenza della sua pericolosità), vanificando con ciò la possibile esistenza di un collegamento presente ed effettivo tra il detenuto e l’organizzazione criminale esterna. Come si vede, sembrano venir meno oggi - è cruciale, cioè, la questione del tempo - i presupposti per continuare a sottoporre Cospito al regime di 41 bis. Chissà se il Tribunale di Sorveglianza, superata la drammatizzazione artificiale che si è fatta di questa vicenda, saprà decidere in piena serenità. Può l’umanità fare a meno del carcere? di Mauro Presini* periscopionline.it, 18 ottobre 2023 Secondo il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, su 100 persone che hanno scontato una pena in carcere, quasi il 69 per cento tornano a delinquere. Solo il 31 per cento non lo fa. Questo significa una cosa piuttosto semplice: così com’è, il carcere non funziona. Mi si perdoni il paragone rozzo e banale, ma qualsiasi persona, anche la più stolta, se si rendesse conto che un rubinetto della propria abitazione perdesse il 69% dell’acqua, lo sostituirebbe subito. In Italia, invece, questo sistema di trattamento dei rei viene accettato senza troppe considerazioni critiche. Il DAP ogni anno impiega quasi tre miliardi di euro per le sue necessità. Ciò significa che una parte non trascurabile della spesa pubblica italiana finisce in un sistema inefficace, se non controproducente. A ciò si aggiunga un altro dato: in Italia il 90,1% del personale penitenziario è composto da agenti di polizia. Cosa vuol dire tutto questo? Significa che in Italia la cultura carceraria è in larga parte basata sull’aspetto repressivo. Non è vero che ci sia una carenza di poliziotti penitenziari - nonostante la strumentalizzazione del securitarismo imperante dica il contrario - mentre è evidente la limitata presenza di educatori e di soggetti in grado di svolgere una funzione riabilitativa dei ristretti. Spostiamo la nostra attenzione. Si deve criticare solo il “mal di carcere” o il “carcere in sé”? A mio avviso, sarebbe limitante pensare che la reclusione sia la migliore se non l’unica soluzione possibile per il reo. Si tratta di un discorso delicato, il quale non deve essere affrontato con ingenuità. Una società priva di elementi sanzionatori non può darsi. Nemmeno l’anarchia fa a meno dei concetti di giustizia e di pena. Nessun’organizzazione sociale può prescindere da una dimensione morale. Nessuna morale può di conseguenza prescindere dalla dicotomia bene/male e da un giudizio sui comportamenti e sulle azioni dei singoli individui e dei gruppi sociali. La reità è sempre esistita e sempre esisterà. Sono le regole a tenere insieme una società. Per definizione, a esse non si può contravvenire. Regole senza sanzioni sono del tutto inefficaci e insensate. Le regole hanno un senso in quanto servono a tutelare i più deboli. Certo, è innegabile che esse finiscano con il rispettare gli interessi di chi le ha dettate, ma mai nessuno nella storia ha combattuto per un mondo senza regole. Si è sempre combattuto per nuovi ordini sociali, più giusti, più o meno sensibili alle istanze di chi ha meno, ma mai per il caos generalizzato. Detto questo, però, è abbastanza curioso che l’uomo abbia potuto recarsi sulla luna, possa scindere l’atomo e volare, ma non abbia mai tentato di attuare una forma di recupero dei rei che fosse diversa dalla reclusione. Pensandoci bene, l’uomo è l’unico animale che fa prigionieri, nessun’altra specie ha questa peculiarità. E allora la domanda non può che essere questa: in pieno XXI secolo, ha ancora senso il carcere? Esso, inteso come modalità trattamentale, fin quanto durerà? Un anno, dieci o in eterno? È possibile un suo superamento oppure, in realtà, siamo arrivati al punto massimo raggiungibile nel rapporto tra chi ha commesso un reato e chi si incarica di reinserire nella società queste persone? Si tratta di un tema sul quale riflettiamo poco o niente. Come qualsiasi altra istituzione totale - si pensi al manicomio - il carcere non serve dunque a chi vi entra. I principali beneficiari della sua invenzione sono i cosiddetti “onesti”. Escludere i cattivi dalla società consente agli onesti di autolegittimarsi la convinzione di essere probi, esattamente come quando lavano il pavimento e tolgono dalla sua superficie la sporcizia, dicendo più o meno in modo esplicito a loro stessi, di essere puliti. Gli “onesti” non hanno interesse di recuperare. Il loro obiettivo è più limitato: non risolvere la questione, ma estirparne gli effetti. Non comprendere, bensì isolare. I processi individuali e collettivi che si svolgono all’interno delle strutture chiuse sono secondari, in termini di necessità personali, rispetto ai desideri di chi non vi vive. A livello conscio, un ospedale serve per curare i malati; un cimitero a preservare i cadaveri; un carcere a rieducare e così via. A livello inconscio, invece, le funzioni sono assai meno nobili: un ospedale serve a non farci vedere la sofferenza; un cimitero serve a rimuovere il concetto della morte (della nostra in particolare); un carcere a evitare che la quotidianità degli onesti si inquini con il male. Peccato che la sofferenza, il male e la morte siano elementi costitutivi dell’esistenza umana e che sia inevitabile, prima o poi, trovarsi faccia a faccia con essi. Il carcere è un luogo in cui la deprivazione è quotidiana. Questo non perché le persone che vi lavorano siano cattive, ma perché il meccanismo dell’istituzione le sovrasta e ne determina i comportamenti. Una persona illuminata, all’interno di un istituto penitenziario, fatica a imporre le proprie convinzioni poiché si incontra con una serie di incrostazioni culturali che ne ostacolano l’azione. Un carcere non priva gli esseri viventi solo dello spazio e della libertà personale. Se si limitasse a questo, tutto sommato esso farebbe poco. Un carcere priva l’uomo della capacità di relazionarsi al prossimo e ne fa emergere gli aspetti peggiori. È chiaro che un reo, che sia effettivamente tale, ha violato e viola più regole universalmente accettate. Ma se nel recluderlo, lo Stato viola anch’esso i diritti essenziali riconosciuti a tutti gli esseri umani, non si pone sullo stesso piano di coloro i quali si è solito definire delinquenti? Non si delegittima? Non autorizza involontariamente, forme di odio e di accanimento verso di sé? La detenzione è una lunga e lenta lobotomia praticata a un gruppo ampio di “irregolari”. La dignità del recluso è un concetto del tutto teorico, scolpito a lettere maiuscole sulla carta, eppure misteriosamente assente nei corridoi delle sezioni e tra le mura delle celle, le quali oggi, in un trionfo di ipocrisia sono state rinominate in “camere di pernottamento”. Anche quando il potere costituito concede un diritto, esso ti fa sentire in obbligo e ti dice che ti sta facendo un favore che prima o poi dovrai pagare. La cosa più triste è che chi incarna l’autorità, ritiene che l’abuso sia il modo con cui possa essere normalmente regolata la vita carceraria. Quando un uomo si rende conto di tutto questo, che i suoi discorsi filano ed è conscio di avere qualche ragione, si sentirà veramente perso. Non so se l’umanità possa fare a meno del carcere. Mi sono più volte posto questo interrogativo, senza tuttavia trovare risposta. Fatta qualche eccezione, sui quasi trenta istituti che ho visitato, queste sono le riflessioni e le percezioni che ho avuto in oltre vent’anni di detenzione. Qualcuno potrà domandarsi legittimamente, come mai un uomo condannato all’ergastolo abbia la sfacciataggine di scrivere tutto ciò. Non di certo perché la condanna non l’abbia meritata. Ritengo solo che la mia colpevolezza non possa essere motivo di altrettanta nefandezza da parte di chi rappresenta la giustizia. Quando arriverà il momento di andare via, spero di poterlo fare con più leggerezza d’animo e quanto più dignitosamente possibile. Alla fine, forse solo con la morte riusciamo a essere allo stesso livello, solo la morte ci purifica. L’umana condizione scompare dando spazio solo alla natura, laddove siamo tutti lo stesso prodotto. *Maestro elementare; dalla metà degli anni settanta si occupa di integrazione scolastica degli alunni con disabilità. Dal 1992 coordina il giornalino dei bambini “La Gazzetta del Cocomero”. È impegnato nella difesa della scuola pubblica. Dal 2016 cura “Astrolabio”, il giornale del carcere di Ferrara Un giudice è imparziale se applica la legge di Stefano Musolino Il Domani, 18 ottobre 2023 Senso della misura, sobrietà, ragionevolezza, disponibilità al dialogo ed al confronto sono i sintomi dell’equilibrio personale e, quindi, professionale che deve caratterizzare la vita pubblica del magistrato. Perciò, egli deve non solo essere, ma anche apparire imparziale. La presenza di Iolanda Apostolico ad una manifestazione pubblica, organizzata da associazioni cattoliche e partecipata da moltissimi giovani, a tutela dei diritti dei migranti bloccati sulla nave Diciotti, in precarie condizioni di salute, non inquinava la sua imparzialità, neppure apparente. L’imprevisto incrociarsi con alcuni contestatori della manifestazione e l’intervento delle forze dell’ordine, l’ha posta davanti ad una scelta: dileguarsi per non appannare la sua imparzialità o interporre il suo corpo, insieme con altri genitori ed adulti presenti, per evitare i contatti tra i più aggressivi e la polizia. Chiamata cinque anni dopo a convalidare il provvedimento di trattenimento di un migrante, ed avendo scelto di esporsi a tutela di giovani manifestanti, Iolanda Apostolico è venuta meno al suo dovere di essere imparziale? L’imparzialità è l’attitudine a giudicare senza pregiudizi, anche quelli silenziosamente sedimentati nel giudicante, per adottare decisioni conformi al diritto. Non è una condizione data una volta per tutte, ma da sottoporre sempre a verifica. Non esiste, infatti, un magistrato che non abbia idee generali o che non abbia vissuto esperienze che ne hanno segnato la vita personale, incidendo sulle sue convinzioni. Per questo, l’imparzialità nella valutazione del caso concreto è un onere che, talvolta si è tentati di assolvere, rifugiandosi nel tecnicismo ipocrita. L’unico modo per verificare se la giudice di Catania è venuta meno al suo dovere d’imparzialità è leggere la motivazione della sua decisione che è spiegata in modo trasparente e controllabile in un atto che può essere criticato, oltre che impugnato. A leggerlo si apprende che la giudice, disapplicando il decreto ministeriale, ha affermato il primato del diritto europeo su quello nazionale, in conformità ai principi costituzionali. La disapplicazione del diritto interno a favore di quello europeo costituisce un dovere del magistrato, quando la direttiva non applicata dallo Stato riconosce con chiarezza diritti delle persone, specie in materia di libertà. Iolanda Apostolico, dunque, ha esercitato i suoi doveri di magistrato a tutela dei diritti, nonostante le omissioni del Legislatore nazionale. Così operando ha incarnato la ragione di fondo che giustifica la autonomia ed indipendenza della magistratura. Queste, infatti, non sono un privilegio corporativo, ma piuttosto un presidio costituzionale indispensabile al magistrato, per giudicare in libertà di coscienza e secondo il diritto costituzionale e sovranazionale le scelte del Legislatore, espressione della maggioranza politica del momento, che mettono in crisi i diritti fondamentali delle persone, specie le più indifese. Anche per questo la successiva aggressione alla persona del magistrato, piuttosto che alle ragioni del provvedimento costituisce un pericoloso precedente, ancora più inquietante perché proveniente da un ministro, sulla base di documenti ricevuti da fonte ancora ignota, ma certamente acquisiti da persone autorizzate a filmare la manifestazione. Nel frattempo è sempre più evidente una sinergia culturale tra ex magistrati che ricoprono cariche di governo e Magistratura Indipendente (il gruppo associato della magistratura da cui molti di loro provengono). Non si tratta più solo del collateralismo nella selezione dei magistrati chiamati a supportare le attività dei ministeri, ma di una polifonia culturale, volta a stimolare nei magistrati prudenza, riservatezza e rigore tecnocratico nell’interpretazione. Tutte qualità necessarie al magistrato, ma non sufficienti, senza una sua chiara consapevolezza della partita in gioco sui diritti; perché se il magistrato è troppo attento a se stesso, può facilmente scivolare sul piano inclinato della pavidità interpretativa, a tutela di sé e dei suoi privilegi. Un magistrato timoroso che usa il tecnicismo interpretativo, quale mascheramento della sua infedeltà al dovere costituzionale di tutelare i diritti fondamentali delle persone. Le intimidazioni a futura memoria, architettate tramite archivi d’ignota gestione, e le influenze culturali esercitate nella magistratura, grazie alla sinergia tra magistrati di ispirazione conservatrice che stanno dentro e fuori il governo, giustificano uno stato di allerta. Perché il tema non è solo quale orientamento culturale prevarrà, il tema è se ci sarà ancora una magistratura disposta a prendersi la responsabilità di tutelare i diritti fondamentali delle persone, anche quando le maggioranze parlamentari o governative le mettono in crisi. È una partita, perciò, che riguarda i diritti di tutti e la sostanza degli equilibri costituzionali tra poteri dello Stato. Prescrizione, doppia velocità tra condannati e assolti di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 18 ottobre 2023 L’intesa nella maggioranza: sospensione per 18 mesi dopo la condanna in primo grado e di 12 dopo l’appello che conferma la condanna in primo grado. Prescrizione a doppia velocità tra imputati condannati e imputati assolti. Questo l’effetto dell’intesa cristallizzata in un emendamento al disegno di legge in discussione alla Camera, in commissione Giustizia, e firmato dai capigruppo delle tre forze di maggioranza. L’accordo raggiunto prevede l’utilizzo della leva della sospensione dei termini per 18 mesi dopo la condanna in primo grado e di 12 dopo la pronuncia di appello che confermala condanna in primo grado. Un blocco che però decade e il periodo trascorso viene conteggiato perla prescrizione complessiva se il deposito della motivazione in appello o Cassazione non arriva prima della scadenza del termine di sospensione. Se con quest’ultima disposizione si intende incentivare l’autorità giudiziaria a utilizzare in maniera efficace la pausa di sospensione per chiudere i procedimenti maggiormente a rischio di estinzione senza abusarne, la sorte dell’imputato, quanto a maturare della prescrizione, dopo il primo grado cambia in maniera significativa per effetto della (eventuale) condanna. In sintonia evidentemente con la posizione della commissione Lattanzi istituita dall’allora ministra della Giustizia Marta Cartabia per la riforma del processo penale, la maggioranza dimostra di ritenere che già la sentenza di primo grado, con la quale si afferma al di là di ogni ragionevole dubbio la responsabilità dell’imputato, esprime l’interesse dello Stato a esercitare la potestà punitiva e può giustificare, pertanto, la sospensione del termine, che continua invece a correre dopo un’assoluzione. Infatti, in primo grado e, poi, per gli imputati prosciolti, a fronte della prosecuzione del giudizio per impugnazione del pubblico ministero (ma il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha già presentato un disegno di legge per ridurre in maniera importante la possibilità di impugnazione dell’accusa) il riferimento torna così a essere la ex Cirielli con termini sostanzialmente allineati, quanto a regola base, con il massimo di pena prevista per ogni singolo reato. Viene cancellata sia la riforma Bonafede con il blocco dei termini dopo la sentenza di primo grado sia il successivo intervento Cartabia, ma esito di un faticoso accordo nella rissosa maggioranza del governo Draghi, che sulla Bonafede innestava l’elemento dell’improcedibilità, sanzione processuale in appello e Cassazione, quando i termini di fase per la conclusione del giudizio non erano stati rispettati. Il voto sugli emendamenti è previsto per la prossima settimana contesto in Aula dal 27 ottobre. Enrico Costa, relatore, sottolinea il “grande passo avanti nell’archiviare la Bonafede e la conseguenza del “fine processo mai”“, puntualizzando di avere presentato un emendamento assai vicino a quello di maggioranza, mentre Giulia Bongiorno, presidente della commissione Giustizia del Senato, considera quella raggiunta “una soluzione equilibrata che dedica la giusta attenzione ai reati di genere (ne è previsto un trattamento a parte, ndr): un accordo importante che dimostra la coesione delle forze politiche di maggioranza su temi che storicamente dividono”. Fortemente perplessa invece la reazione dell’ex consigliere giuridico di Cartabia, il docente di Diritto penale Gian Luigi Gatta, che mette in evidenza i rischi per gli accordi presi in sede di Pnrr (già oggetto di rinegoziazione nel settore civile) per effetto di un’iniziativa che rischia di compromettere i buoni risultati del meccanismo attuale, centrato sull’improcedibilità. Gli stessi dati del ministero della Giustizia attestano infatti un’assai importante diminuzione dei tempi di durata, con riferimento à 2019, anno chiave per il Pnrr e ultimo pre-pandemia, dei processi proprio in appello e Cassazione (all’altezza del primo semestre, -27% in secondo grado e -39% in Cassazione). Addio alle leggi Bonafede e Cartabia: si torna alla prescrizione sostanziale di Valentina Stella Il Dubbio, 18 ottobre 2023 La maggioranza trova l’intesa: presentato un emendamento alla proposta di legge in commissione Giustizia. Testo in aula il 27 ottobre. La maggioranza ha trovato un accordo sulla riforma della prescrizione e ha presentato un emendamento alla proposta di legge ora all’esame della Commissione Giustizia della Camera. Un emendamento firmato da tutti i capigruppo in Commissione del centrodestra: Carolina Varchi (FdI), Ingrid Bisa (Lega) e Pietro Pittalis (FI). Al testo sono state depositate 66 proposte di modifica, di cui una anche del relatore Enrico Costa. Si tratta fondamentalmente di un ritorno alla prescrizione sostanziale. Nel dettaglio, il corso della prescrizione, dopo una sentenza di condanna di primo grado, rimane sospeso per un tempo non superiore a 18 mesi (erano due anni per la commissione Lattanzi). Viene inoltre previsto che i termini, dopo la sentenza di appello che conferma la condanna di primo grado, rimangano sospesi per un tempo non superiore a un anno. In nessun caso l’interruzione della prescrizione può comportare l’aumento di più della metà del tempo necessario a prescrivere. Inoltre, si prevede che quando il deposito della motivazione non sopravviene prima della scadenza del termine della sospensione, cessano gli effetti di questa, la prescrizione riprende il suo corso e il periodo di sospensione è computato ai fini della determinazione del tempo necessario a prescrivere. Il testo andrà in aula il 27 ottobre. Costa (Azione): “Grazie al nostro stimolo la maggioranza è stata costretta a trovare una proposta unitaria”. Gianassi (Pd): “Dal 2017 ad oggi siamo di fronte alla quarta riforma della prescrizione. L’ultima riforma, quella Cartabia del 2021, è dentro il piano delle riforme della giustizia a cui sono agganciate le risorse del Pnrr. Buon senso vorrebbe che prima di modificare una riforma in vigore su un tema così sensibile per la sorte dei procedimenti e per il sistema della giustizia, almeno si conoscessero gli effetti di quella riforma”. Bongiorno (Lega): “È una soluzione equilibrata che dedica la giusta attenzione ai reati di genere: un accordo importante che dimostra la coesione delle forze politiche di maggioranza su temi che storicamente dividono”. Dori (Avs): “L’emendamento della maggioranza sulla prescrizione disconosce la ex Cirielli. È una buona notizia. Noi vorremmo un ritorno pieno alla riforma Orlando del 2017, la più equilibrata, ma intanto è positivo aver sventato il rischio di un ritorno alla peggiore norma”. “Prescrizione, i cittadini non saranno più costretti al fine processo mai” di Valentina Stella Il Dubbio, 18 ottobre 2023 Raggiunto l’accordo in maggioranza, parla Pietro Pittalis (Forza Italia): “Un nuovo passo per garantire l’efficienza della macchina giudiziaria restituire fiducia nella giustizia”. Nuovo accordo sulla prescrizione: lo hanno sottoscritto con un emendamento Pietro Pittalis di Forza Italia, che è anche vice presidente della commissione Giustizia, la leghista Ingrid Bisa, e Carolina Varchi di Fratelli d’Italia. Proprio il forzista Pittalis ci dice: “Avrei preferito che passasse il testo originario a mia firma così come Forza Italia lo ha proposto. Dobbiamo però renderci conto che facciamo parte di una coalizione e quindi spesso occorre trovare la sintesi”. Ma rassicura: “Non si tratta di una riforma che deve soddisfare l’avvocato o il magistrato ma di un nuovo passo per garantire da un lato l’efficienza della macchina giudiziaria e dall’altro restituire fiducia ai cittadini nella giustizia, che siano imputati o vittime”. Onorevole Pittalis, è soddisfatto dell’accordo? La mia proposta intanto cancella sia la riforma Bonafede, rendendo possibile la prescrizione del reato dopo la sentenza di primo grado, che quella di mediazione Cartabia. Viene così superato il sistema dell’improcedibilità dell’azione penale ed insieme ad esse alcune forti criticità. Quali? Forti differenziazioni tra i vari distretti di Corti di Appello in relazione ai differenti carichi processuali che determinano molto spesso una inammissibile discrezionalità di quali fascicoli trattare e quelli da far prescrivere da parte del Capo dell’Ufficio. Andiamo nel merito dell’emendamento... È stato condiviso da tutte le forze di maggioranza ma resta comunque una ipotesi di lavoro migliorabile in Commissione giustizia. Esso introduce, facendo riferimento ai lavori della Commissione Lattanzi, due fattispecie sospensive. Inoltre quando il deposito della motivazione non sopravviene prima della scadenza del termine della sospensione, cessano gli effetti di questa, la prescrizione riprende il suo corso e il periodo di sospensione è computato ai fini della determinazione del tempo necessario a prescrivere. La leghista Giulia Bongiorno ha fatto inserire delle deroghe per i reati da codice rosso per cui i tempi della prescrizione vengono aumentati di un quarto rispetto all’originale... È stato fatto perché esiste un grave allarme sociale su certi tipi di reati. Anche se noi riteniamo che gli strumenti che si stanno mettendo già in atto - penso ad esempio al fatto che il procuratore della Repubblica debba sentire entro tre giorni la persona offesa, il fatto che i procedimenti per violenza contro le donne debbano avere una corsia privilegiata - siano già sufficienti. C’era bisogno dell’ennesimo doppio binario? Io sono contrario alle eccezioni al sistema. E credo che questo aspetto sarà oggetto di una più approfondita riflessione in Commissione. Nei giorni scorsi indiscrezioni giornalistiche avevano parlato di un altro accordo. Inoltre c’è da dire che da un lato questo Governo approva misure sull’onda dell’emergenza e poco garantiste dall’altra, come in questo caso, va in segno opposto. Concorda? Questo era il miglior accordo possibile, soprattutto dal punto di vista di Forza Italia, che sembra essere l’unica forza in maggioranza a spingere per misure più liberali della giustizia? Se devo dirle la verità, avrei preferito che passasse il testo originario a mia firma così come Forza Italia lo ha proposto. Dobbiamo però renderci conto che facciamo parte di una coalizione e quindi spesso occorre trovare la sintesi. Comunque al di là di questo, il cittadino ora sa quando inizia e quando finisce il suo processo. La pretesa punitiva dello Stato non può essere eterna. Questa soluzione piacerà all’avvocatura che respinge da sempre l’idea di un imputato a vita? Ogni soluzione ha tendenzialmente degli aspetti critici. Ma qui si tratta di far funzionare un sistema e rimettere il processo sul binario dei principi sanciti dalla Costituzione. Non si tratta di una riforma che deve soddisfare l’avvocato o il magistrato ma di un nuovo passo per garantire da un lato l’efficienza della macchina giudiziaria e dall’altro restituire fiducia ai cittadini nella giustizia, che siano imputati o vittime. Come valuta la reazione del Pd che si è opposta, quasi paradossalmente, ad un ritorno ad una riforma rivisitata della Orlando, ex ministro della giustizia dem? Al netto di autorevoli esponenti del Partito democratico che ragionano sul problema, vedo una reazione più di natura ideologica e di pregiudizio nei confronti di questa maggioranza. Se si esamina infatti attentamente la proposta, si noterà che si recupera in certa misura la proposta Orlando. E quindi appare incomprensibile l’atteggiamento di una parte dell’opposizione. Pecorella: “Abbiamo stravolto un cardine del diritto per le bizze dei partiti” di Errico Novi Il Dubbio, 18 ottobre 2023 “Ero presidente della commissione Giustizia. La scena era sempre la stessa: appena arrivava a Montecitorio un progetto di legge in materia penale, i deputati dei vari partiti mi si avvicinavano e mi rivolgevano una sola domanda: ma se approviamo questa riforma, quanti voti prendiamo?”. Gaetano Pecorella, parlamentare di Forza Italia per quattro legislature e soprattutto tra i maestri dell’avvocatura penale italiana, di cui è stato leader anche come presidente dell’Ucpi, non è afflitto da snobismo intellettuale: semplicemente parla da giurista. Da avvocato che ha iniziato i propri studi “sul codice del 1930” e li ha proseguiti “fino al codice del 1988 e alle sentenze con cui la Consulta è intervenuta anche sulla prescrizione. So bene”, dice con un sorriso un po’ sarcastico e un po’ amaro, “cos’è la prescrizione: la conseguenza di un’incapacità dello Stato nel celebrare un processo secondo i tempi dettati dalla Costituzione. Non certo una furbata del difensore o una scappatoia dell’imputato. La si dovrebbe smettere di giocare sulla prescrizione come se fosse una bandiera di partito, e approvare una volta per tutte una riforma solo perché la si considera la migliore possibile”. Chiariamo subito l’equivoco: cosa pensa della proposta sulla quale il centrodestra, Azione e Italia viva sembrano aver trovato l’accordo? Ha un difetto, anzi più di uno. Il più grave è che lega le sospensioni previste dopo le sentenze di primo e secondo grado all’eventualità che si venga condannati: significa cancellare la presunzione d’innocenza. Si è presunti innocenti anche se condannati in primo grado o in appello. Non si può legare la sospensione a una condanna non definitiva. Ma poi c’è un difetto più grave, di cui vorrei parlarle dopo. Qual è allora il nodo, a proposito della prescrizione? Il fatto che discende da un’incapacità del sistema giudiziario. Dai troppi magistrati fuori ruolo. Dalla tendenza del giudice a consumare tutto il tempo disponibile per poi affrettarsi quando il termine sta per scadere, col risultato di scaricare il peso di quella lentezza sul successivo grado di giudizio, in cui ci sarà pochissimo tempo. Si deve partire da qui: la prescrizione di un reato interviene perché c’è un vizio di sistema. Non perché l’avvocato è così furbo da farla scattare o l’imputato è così ricco da potersi permettere un avvocato così furbo... Ecco, no. Lei descrive la distorsione compiuta sull’istituto della prescrizione a partire dall’ingresso in politica del presidente Berlusconi, dalle aggressioni giudiziarie che ha subito. È da quel momento in poi che la prescrizione è diventata una bandiera politica. Dei garantisti, che invocano processi brevi, e di quelli per i quali un imputato va giudicato sempre e comunque, a costo di tenerlo sotto processo per decenni. Ed ecco il tira e molla delle riforme... Che ha compromesso la stabilità del sistema. Saltano i principi di legalità e tassatività, travolti da un continuo gioco delle tre tavolette. Prima con la riforma Orlando si è intervenuti sul piano del diritto penale sostanziale, con Bonafede si è precipitati nella durata potenzialmente infinita, con Cartabia siamo passati al diritto penale processuale, ora si torna al penale sostanziale: vi sembra che si possa legiferare così? No, oggettivamente no... E poi c’è l’altra manipolazione, di cui ho già detto: subordinare all’esito di una certa fase del giudizio lo stop al decorso della prescrizione cancella la presunzione d’innocenza, ma soprattutto il senso dell’istituto, che sancisce il diritto a non essere giudicati qualora trascorra un certo tempo dall’epoca del reato. A proposito dei rimedi per contrastare la lunghezza dei processi, ce n’è uno che fa storcere il naso non solo ai magistrati ma anche a una parte dell’avvocatura. A cosa si riferisce? Alla necessità di celebrare i processi non solo di mattina ma anche di pomeriggio. Il giudice non può considerare la seconda metà della giornata come utile solo agli eventi del Rotary. Negli anni la prescrizione è stata fatta passare per abuso di difesa. Assurdo. Il difensore ha il diritto di poter impugnare una sentenza in nome del proprio assistito. Diritto che peraltro viene ormai aggirato, innanzitutto in Cassazione, col meccanismo dell’inammissibilità sancita dalla famigerata settima sezione. Oltretutto, quando il ricorso dinanzi al giudice di legittimità è dichiarato inammissibile, il tempo trascorso dalla sentenza d’appello non vale più ai fini della prescrizione: per dire che paliamo di un istituto in cui agiscono tante variabili. Perciò ogni riforma dovrebbe guardare al quadro complessivo. Ma insomma, questo sostanziale ritorno alla legge Orlando?... La Orlando era stata bersagliata dalle critiche. Ho visto che la segretaria del Pd Schlein si è lamentata, dice che così i reati non saranno più puniti... Come se fosse normale restare sotto processo per vent’anni. Comunque, penso che il ritorno alla Orlando sopravviverà poco: non appena andrà prescritto il processo a qualche politico, le norme sulla prescrizione cambieranno di nuovo. Si fidi. Sull’impeto giustizialista pesa l’idea, diffusasi nell’era Berlusconi, secondo cui le riforme della giustizia servono a tutelare il leader che le promuove? Guardi, sicuramente la vicenda Berlusconi ha inciso sul sistema politico, sull’opinione pubblica. Si è creato un riflesso condizionato per cui le riforme della giustizia sono percepite sempre come uno scudo per la politica. E in effetti è vero che alcune leggi in materia penale vennero da noi approvate perché tutelavano il presidente Berlusconi: ma ci si trovava di fronte a un’aggressione della magistratura e al baratro politico che si sarebbe spalancato se quelle aggressioni avessero prodotto la caduta del governo. Fu un errore, dunque, approvare quelle leggi? Fu inevitabile. Però è vero che quelle leggi hanno innescato la distorsione percettiva di cui le ho detto. Dobbiamo contrastare questo pregiudizio, far capire che le leggi rispondono alla necessità di far funzionare meglio il sistema. Certo, arrivarci sarà difficile, se si continuerà invece a concepire le leggi in modo che funzioni meglio il consenso dei partiti. Pensi a quante modifiche sono intervenute sulla legittima difesa: secondo lei i cittadini hanno capito quando sono nel diritto di difendersi? C’è da dubitarne. Ma anche l’emendamento del centrodestra sulla prescrizione apparirà strumentale? Come le accennavo, lì c’è il solito problema: la prescrizione deve decorrere dal tempo del reato ma poi dovrebbe variare rispetto a ciascuna fase del procedimento, primo grado di giudizio incluso. Così la finiamo col giochino delle sospensioni. Ogni magistrato sia responsabile del tempo che impiega a completare il proprio lavoro. E si ricordi che quel tempo dev’essere ragionevole. Gratteri: “Uso il codice, non sono giustizialista. Con la riforma Cartabia si torna indietro” di Giuseppe Legato La Stampa, 18 ottobre 2023 Il neo procuratore di Napoli: “Combatterò la mafia più antica, che in provincia è simile a quella calabrese. Rappresentiamo lo Stato e dobbiamo dare risposte ai cittadini che non vogliono convivere con la camorra”. Quando iniziò, più di 35 anni fa ormai nella “sua” Calabria, trovò “una mafia che aveva intuito l’importanza del traffico di cocaina e che stava chiudendo la fase dei sequestri di persona”. L’ha lasciata da pochi giorni “che ormai è presente in 50 paesi grazie alle asimmetrie normative che caratterizzano l’azione di contrasto globale alle organizzazioni mafiose”. Ha attraversato l’upgrade, la darwinizzazione delle cosche calabresi: dalla maxi operazione Crimine “che ha permesso di dimostrare l’unitarietà della ‘ndrangheta” a Glicine Acheronte “che ha raccontato una realtà in grado di arruolare hacker e di investire in piattaforme clandestine di trading”. Si insedia dopodomani il nuovo procuratore di Napoli Nicola Gratteri, una vita sotto scorta, a combattere e raccontare, anche con nuovi linguaggi e narrazioni, una mafia che sembrava di serie B e invece si è presa il mondo. La nuova sfida è la procura più grande d’Europa, dalla camorra a Caivano, “ma Napoli non è solo questo nonostante certe rappresentazioni cinematografiche”. Dottor Gratteri, che mafia troverà in Campania? “Una più visibile, che vive più per strada rispetto alla ‘ndrangheta. È la mafia più antica che però in provincia non è poi molto diversa da quella calabrese. Ovviamente, mi metterò a studiare per non farmi trovare impreparato. Ma comunque potrò avvalermi di colleghi intelligenti e preparati e di investigatori capaci e tenaci. Il nostro è un lavoro di squadra”. Cosa porterà del metodo Gratteri a Napoli per combattere la camorra? “Non sono tanto megalomane da pensare di aver introdotto un metodo che prima non esisteva. Per il resto nelle indagini non guardo in faccia nessuno. Vado avanti dritto, senza tentennamenti. Rappresentiamo lo Stato e dobbiamo dare risposte ai cittadini che non vogliono convivere con la camorra. Nonostante certa rappresentazione cinematografica, Napoli non è solo questa mafia o conflitto tra il male e il peggio. Ci sono tantissime persone che vogliono riscattare la propria terra dal malaffare e dalla criminalità organizzata”. Basta il decreto del governo per rispondere alle istanze di giustizia della gente di Caivano e in generale alle Caivano d’Italia? “Bisogna liberare i territori dalla paura e dai bisogni; bisogna investire nelle scuole e nella ricerca. Bisogna strappare i giovani dalla marginalità, creando prospettive di sviluppo. Le manette e le sentenze non bastano”. In procura, a Napoli, non tutti hanno preso bene una parte del suo discorso alla Quinta Commissione del Csm. Ci spiega questa storia di una parte di pm fannulloni e depressi? “Non mi riferivo certamente ai colleghi di Napoli, ma in generale al mio metodo di lavoro. Io non guardo l’orologio. Ho soltanto detto che la mattina quando arrivo in ufficio mi piace vedere tutti al lavoro. A Napoli c’è tanto lavoro da fare. E faremo di tutto per non deludere le aspettative della gente che mi sta tempestando di email”. Stupito da alcuni distinguo del Csm sulla sua nomina? “No, anche se ho sentito alcuni componenti dichiarare delle cose completamente false, come la mia candidatura a Milano che sarebbe stata bocciata. Non ho mai fatto domanda per diventare il procuratore di Milano”. La sua partenza dalla Calabria è vissuta da una larga fetta sociale legata all’antimafia con preoccupazione. Gratteri senza eredi? “Questo non è vero. A Catanzaro ci sono magistrati di altissimo livello che continueranno a mantenere alta la guardia nella lotta contro la ‘ndrangheta”. Aveva annunciato che avrebbe fatto domanda a Milano e, alla fine, non l’ha presentata. Ha partecipato alla corsa per la Dna e le è stato preferito, al Plenum, Giovanni Melillo. Per non parlare di quando le avevano chiesto di diventare ministro della giustizia del governo Renzi. Ce l’hanno tutti con lei o si sente di fare qualche autocritica? “Solo chi mangia fa molliche. Ho fatto sicuramente degli errori in quasi quarant’anni di carriera. Ma sempre in buona fede. Forse avrei potuto fare di più, ma ce l’ho messa tutta. Napoli non è una rivincita, mi ha fatto molto piacere, è una procura importantissima”. Nella percezione dell’opinione pubblica lei è persona autentica e preparata, ma anche divisiva. Gratteri come si considera? “Non saprei, ad alcuni non sono simpatico. Ma non è un mio problema. Sono pagato per lavorare non per il consenso delle persone. Ho rispetto per tutti. Ascolto tutti. Ma poi decido. Sono decisionista, è nella mia natura”. Dicono di lei i suoi detrattori: Gratteri sceriffo e giustizialista… “Non mi sento affatto un giustizialista. Lavoro sempre con il codice in mano. Se poi essere sceriffo, significa circondarsi di ottimi investigatori, chiamatemi pure sceriffo. Io faccio il magistrato. E lo faccio con passione e determinazione. Ho scelto di fare questo lavoro, così come ho sempre scelto di rimanere in Calabria, la terra dove sono nato”. Gratteri pm mediatico… “Questo non lo posso negare. È importante mantenere alta la soglia di attenzione su questioni importanti come la penetrazione delle mafie nel tessuto socio economico”. Gratteri ha il record di arresti e anche quello di scarcerazioni al Riesame e assoluzioni… “Questo non è assolutamente vero. Sfido chiunque a dimostrarmelo. Sono in magistratura dal 1986. Di inchieste ne ho fatte tante. E non si sono concluse tutte con scarcerazioni e assoluzioni. Tanto è vero che vengono citate sempre due o tre, a fronte di centinaia di indagini da me svolte”. Il controcanto è questo: uomo e magistrato libero, esperto, senza correnti, slegato dalla politica e dai poteri intermedi. Preferisce questo ritratto? “Mi ci riconosco con pregi e difetti”. Le ventilate ipotesi del governo in materia di giustizia hanno fatto e fanno discutere. Cito il ministro in carica: “L’istituto dell’abuso d’ufficio va abolito”. “Le intercettazioni vanno limitate, costano troppo…”. “I mafiosi parlano anche al telefono, ma usano anche piattaforme che noi facciamo ancora fatica a bucare”. Ha detto il 30 dicembre 2022: la riforma Cartabia è la peggiore della storia, andrebbe abolita. Ha parlato di ghigliottina, di regolamento di conti. Dieci mesi dopo si dà ragione? “Certamente, non rinnego nulla di quello che ho detto. Ripeterei ogni cosa per filo e per segno. Oggi a darmi ragione sono in tanti”. Ci fa un esempio che più di altri motiva queste sue valutazioni? “Le riforme devono migliorare la situazione, non peggiorarla. Con la riforma Cartabia si rischia di tornare indietro. E poi ancora nessuno mi ha spiegato, rispetto alla improcedibilità, la creazione di corsie preferenziali solo per reati con detenuti come quelli mafiosi e non per quelli contro la pubblica amministrazione che non avendo imputati detenuti rischiano di non arrivare a processo”. Quante volte Gratteri ha avuto paura di morire? “La paura è un sentimento umano. Chi non ha paura è incosciente. Nella mia vita le notizie degli attentati sventati non mi hanno mai condizionato”. Dica la verità: quante volte ha avuto la sensazione di essere rimasto isolato dallo Stato? “Non saprei, ma mi sono sempre consolato con l’affetto della gente che mi è sempre stata vicina. Non mi sono mai voltato indietro. Vado avanti. Sono sereno”. Vite distrutte e una costante gogna mediatica: gli errori e la spettacolarizzazione della giustizia di Marzia Amaranto Il Riformista, 18 ottobre 2023 Abbiamo chiesto ad alcuni dei ragazzi che hanno partecipato alla scuola di formazione politica “Meritare l’Europa” di scrivere gli articolo che vorrebbero leggere più spesso sui quotidiani. “Io sono innocente. Spero dal profondo del cuore che lo siate anche voi”. È proprio con queste drammatiche parole pronunciate da Enzo Tortora che voglio portare l’attenzione del lettore sul dramma degli errori giudiziari, che per chi è appassionato di numeri nel solo anno 2022, conta ben 547 persone detenute ingiustamente in carcere in Italia, salvo poi rivelarsi innocenti e costare allo Stato italiano, quasi un miliardo di euro di risarcimenti a favore delle vittime di ingiusta detenzione e di errori giudiziari. Ebbene l’errore giudiziario rappresenta un dramma per le vittime che lo subiscono e per i loro familiari che vengono risucchiati in un labirinto senza fine, trovandosi coinvolti in vicende giudiziarie di cui sono totalmente all’oscuro. Ma effettivamente sono tanti e troppi i casi celebri di malagiustizia, non solo a livello mediatico, le vittime accertate da Rocco Scotellaro, a Enzo Tortora, a Daniele Barillà, sino ai giorni nostri Raffaele Sollecito, Amanda Knox e Michele Padovano. Tuttavia ai casi eclatanti si accostano gli ancora più numerosi casi di cui in alcun modo si parla. Ed effettivamente perché così tanti innocenti finiscono in carcere subendo errori giudiziari? È indubbia la divergenza tra il fatto storico e l’accertamento processuale, dovuto all’alterazione del quadro probatorio e dunque alla ricostruzione del fatto. Purtuttavia ci sono addirittura casi in cui il giudice è conscio della falla processuale, ma non può porvi rimedio, dovendo decidere sulla base della verità processuale, ossia delle risultanti processuali e non delle proprie convinzioni. Tutto questo fa sì che la sentenza consacri una verità processuale difforme dalla verità storica, con conseguenze ingiuste. Ebbene il drammatico fenomeno della malagiustizia rappresenta una vera piaga sociale, al più non mancano gli errori giudiziari ai danni di persone fragili che data la particolare condizione di vita, non riescono a godere di un’adeguata difesa. E proprio per superare la situazione il più delle volte causata dalla particolare complessità della ricostruzione probatoria, è ammessa la revisione delle sentenze di condanna, quale mezzo straordinario di impugnazione, in ottica di favor rei. Ma tra i danni da ristorare non ci sono solo la sofferenza e il dolore come conseguenza dell’ingiusta privazione della libertà e della condanna stessa, bensì anche il danno biologico alla salute, dovuto alla lesione dell’integrità psicofisica della persona. Il dato certo e inconfutabile è che l’esistenza di coloro i quali subiscono un errore giudiziario rimane stravolta. Nessun tipo di ristoro economico può mai davvero risarcire le ripercussioni sulla vita personale della vittima e dei suoi familiari, le relazioni, i progetti, gli interessi compromessi. Per non dimenticare poi la difficoltà di “ricominciare a vivere” e ricostruire una vita sociale, una reputazione, una vita lavorativa, una vita sentimentale. Il tutto aggravato dall’ingiuria mediatica, pressoché sempre “giustizialista” di cui il Nostro Paese è affetto da sempre, con spettacolarizzazione dei giudizi penali. Non si riesce a comprendere perché a prevalere non sia il garantismo proprio dello stato di diritto. Un processo drammatico amministrato in nome del popolo mediatico, mediante la scarna conoscenza dell’attività dibattimentale fatta dagli show televisivi. In questo scenario il ruolo dei mass media è quello di fungere come cassa di risonanza, utilizzata per piegare il consenso o il dissenso sociale, falsando con effetti notevoli la stessa gestione del processo da parte degli operatori “tecnici”. La “spettacolarizzazione” dei processi penali costituisce una vera preoccupazione nel drammatico “mondo” degli errori giudiziari. La costante ricerca di maggiore consenso che crea la “verità mediatica” alternativa a quella processuale. A tal proposito la Corte europea dei diritti dell’uomo ha ammesso che la violenta campagna mediatica nuoce ai processi, privando così gli imputati delle garanzie procedurali e diffondendo un “diffuso desiderio” di condanna, sfocando nell’inevitabile errore. Troppo spesso l’arresto crea clamore, mentre la “correzione” dell’errore resta in silenzio, ignorata. E allora la rete web viene in “soccorso” con la diffusione di associazioni di cittadini destinate alle vittime degli errori giudiziari, un evidente segno che il problema merita di essere affrontato in maniera strutturale. Una delle più note e che offre sostegno gratuito è l’AIVM (Associazione Italiana Vittime di Malagiustizia), nata per volontà del commercialista Caizzone, vittima per oltre 20 anni di un vortice giudiziario dai tratti surreali, prima che fosse dichiarato innocente. L’AIVM si avvale di professionisti quali psicologi, sociologi, medici e avvocati i quali offrono sostegno alle persone che ritengono di aver subito un torto penale, civile, amministrativo e tributario. La maggior parte di chi si rivolge a queste associazioni sono persone che non hanno disponibilità economiche per garantirsi un’adeguata difesa. Persone disperate che hanno perso tutto e non hanno neppure le minime conoscenze tecnico giuridiche per comprendere la situazione reale. Compito di queste associazioni è fornire un appoggio morale oltre che riappropriarsi della dignità. Ma è ormai improrogabile e necessario un intervento a livello istituzionale che sia concreto, nella spinosa problematica degli errori in ambito giudiziario e con più idonee oltre che adeguate garanzie di tutela. Dovrebbe essere cura delle Istituzioni, la previsione di una giusta ricollocazione in ambito lavorativo, oltre che un adeguato supporto psicologico per tutto il tempo necessario al pieno recupero. E infine non meno importante l’incentivo alla nascita di associazioni speculari all’AIVM che siano radicate su tutto il territorio nazionale e in modo capillare, atte allo scopo di supportare le vittime di errori giudiziari e malagiustizia. Diritto all’oblio della “persona comune”, sì alla deindicizzazione dell’articolo dai motori di ricerca di Marzia Baldassarre Il Sole 24 Ore, 18 ottobre 2023 Gli articoli del passato non possono essere rimossi o alterati ma prevale il diritto del singolo a preservare la propria dignità ed integrità - Oltre alla deindicizzazione l’interessato può chiedere all’editore di accompagnare l’articolo con una nota in parola per restituire una conoscenza attuale e reale della situazione Nell’attuale mondo digitale è nota l’estrema facilità di reperire notizie che non riguardano solo personaggi pubblici, ma anche persone comuni. Talvolta, in tal modo, si viene a conoscenza di vicende particolari, anche di rilevanza penale, che hanno a suo tempo coinvolto dette persone e che sono risalenti nel tempo. Le notizie, pertanto, così acquisite forniscono un’immagine fuorviante delle persone coinvolte non più corrispondente alla realtà attuale ed allo stile di vita in oggi tenuto. Ciò in particolare modo se le indagini penali, per le quali in un primo momento si configuravano gravi indizi di colpevolezza a carico degli indagati, si sono poi risolte favorevolmente per questi ultimi con l’emissione di sentenze di assoluzione nei vari gradi del giudizio. Ci si è, quindi, interrogati su come debbano essere regolamentati i rapporti tra diritto all’informazione e alla libera espressione del pensiero protetto dall’articolo 21 della Costituzione e la tutela della vita sia privata che familiare sancita dall’articolo 7 della cosiddetta “ Carta di Nizza “, la carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, Carta che, oltretutto, al successivo articolo 8 riconosce espressamente il diritto di ogni singolo individuo alla protezione dei dati personali. Per meglio inquadrare il problema si deve operare una distinzione preliminare, ma fondamentale. Il c.d. “diritto all’oblio” che è stato elaborato da numerosi interventi giurisprudenziali della Suprema Corte intervenuti in anni recenti trova un suo limine nel ruolo che la persona soggetto della notizia svolge nella vita pubblica. Così la Suprema Corte a Sezioni Unite con la sentenza n. 19681 del 22/07/2019 ha chiarito che “la menzione degli elementi identificativi delle persone protagonisti di fatti e vicende del passato è lecita solo nell’ipotesi in cui si riferisca a personaggi che destino nel momento presente l’interesse della collettività, sia per ragioni di notorietà che per il ruolo pubblico”. Diversamente prevarrà il diritto del singolo interessato a preservare la propria dignità ed integrità una volta che per il tempo ormai trascorso l’interesse a conoscere quanto avvenuto nel passato sia venuto meno. Di fatto, però, l’esigenza di preservare l’immagine di una persona comune crea problemi di attuazione pratica. La domanda oggetto delle decisioni della Suprema Corte è se l’interessato possa pretendere o meno la rimozione totale degli articoli che riguardano il suo passato, oppure la c.d. “anonimizzazione” o “pseudonomizzazione” come forma alternativa, che rendano impossibile la sua identificazione. Su detta problematica è intervenuta in particolare una recentissima Ordinanza del Supremo Collegio pronunciata in data 23/01/2023 e pubblicata in data 31/01/2023 portante il n. 2893/2023. Tale pronuncia, ponendosi nello stesso solco già tracciato da precedenti decisioni adottate sempre dalla Suprema Corte, ha stabilito che il provvedimento che può essere ottenuto a tutela del menzionato diritto all’oblio proprio dalla persona comune è “la deindicizzazione dell’articolo dal motore di ricerca , al fine di evitare che un accesso agevolato e protratto nel tempo, ai dati personali di tale soggetto, tramite il semplice utilizzo di parole chiave, possa cedere il diritto di quest’ultimo a non vedersi reiteratamente attribuire una biografia telematica, diversa da quella reale, e costituente oggetto di notizie ormai superate.”. In tal senso, Cassazione Sezione 1 n. 9147 del 19/05/2020 e Sezione 1 n. 15160 del 31/05/2021. La pronuncia n. 2893/2023 ha però affrontato in maniera specifica un altro tema che in verità era stato oggetto anche di altri precedenti pronunciamenti come l’ordinanza della Sez. 1, n. 9147 del 19/05/2020. In buona sostanza, la Cassazione ha riconosciuto dignità costituzionale agli archivi siano essi cartacei o telematici affermando che “l’attività di conservazione della raccolta delle edizioni dei giornali pubblicata risponde ad un pubblico interesse tanto da assumere un duplice rilievo costituzionale in quanto strumentale alla ricerca storica ed espressione del correlato diritto (art. 33 Cost.) e in quanto espressione del diritto di manifestare liberamente il pensiero”. Per questo motivo gli articoli del passato non possono essere rimossi o comunque alterati attraverso l’anonimizzazione e/o la pseudonomizzazione. La tutela dell’interessato potrà comunque essere raggiunta attraverso la deindicizzazione facendo sì che all’inserimento di un determinato nominativo in un motore di ricerca non venga in via automatica associato l’articolo risalente nel tempo inerente le vicende che hanno visto il coinvolgimento di detto soggetto. Ovviamente ciò non comporta che l’articolo di cui si discute venga eliminato dall’archivio del giornale, sia esso cartaceo oppure online. Si tratta di un fatto storico che fa parte di una determinata edizione e che risulta quindi immodificabile. Tutt’al più il soggetto interessato, allorquando siano intervenute sentenze di assoluzione o comunque modificative di precedenti condanne, può chiedere all’editore di pubblicare una nota a corredo dell’articolo in parola in modo che chi lo consulta possa avere una conoscenza attuale e reale della situazione. L’obbligo di pubblicare le notizie relative alla modifica dei precedenti provvedimenti non nasce però in via automatica, ma solo a richiesta dell’interessato. Monza. Perché “aprire le porte” al carcere di Francesca Radaelli vocidalponte.it, 18 ottobre 2023 Vale ancora la “pena”? Al di là del gioco di parole, c’è tutto il problema del senso della giustizia penale nella domanda con cui si è aperta la serata organizzata dall’associazione “Carcere Aperto” lo scorso 13 ottobre al Binario 7 di Monza. Pensato per la cittadinanza, l’evento - che ha visto tra gli organizzatori anche le Acli di Monza e di Vimercate, in collaborazione con il ‘Gruppo della Trasgressionè e con il patrocinio del Comune, ha registrato una grandissima partecipazione di pubblico, a dimostrazione dell’interesse dei monzesi per quello che è stato definito nel corso della serata “uno dei quartieri” della loro città: la Casa Circondariale di via San Quirico. A confrontarsi e dialogare sul palco in merito alla possibilità e ai modi per ricucire lo “strappo” che ogni reato causa all’interno della società sono stati Felice De Chiara, comandante dirigente della polizia penitenziaria della Casa Circondariale di Monza, Fabrizio Annaro, giornalista del Dialogo di Monza, Paolo Setti Carraro, fratello di Emanuela, vittima di strage di mafia, Adriano Sannino e Antonio Tango, ex detenuti. La discussione, condotta da Angelo Aparo, psicoterapeuta e fondatore del Gruppo della Trasgressione, e da Francesco Cajani, sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Milano, ha preso le mosse dalla proiezione di alcuni spezzoni del documentario intitolato proprio “Lo strappo” di cui lo stesso Cajani è stato co-autore. Il punto di vista delle istituzioni - In rappresentanza delle istituzioni, il comandante De Chiara si sofferma su quella che deve essere la missione di ogni operatore carcerario: “restituire alla città persone migliori”. De Chiara ha spiegato che la durata media della permanenza in carcere è di un paio di anni e che quando i detenuti escono tornano a frequentare la città e la società. “Per questo in carcere è necessario promuovere la cultura della legalità, del rispetto delle regole e dei propri doveri”. Nel corso della serata vengono interpellati anche due altri rappresentanti delle istituzioni presenti in platea: Paolo Parisi, ex direttore del carcere di Monza e attualmente direttore generale del personale del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria a livello nazionale, e il sindaco di Monza Paolo Pilotto. “Al di là della retorica della “rieducazione”, l’aspetto decisivo è l’intervento sulle persone: per noi è cruciale avere il personale educativo che sia in grado di attivare un percorso di cambiamento nei detenuti”, ha sottolineato Massimo Parisi. Alla domanda su cosa chiedano i cittadini alle istituzioni carcerarie, Parisi risponde che da una parte l’istituzione deve essere “credibile”, anche agli occhi dei detenuti, ma dall’altra diventa però importante creare una cultura del carcere diversa e parlare di carcere con la cittadinanza. Per esempio attraverso progetti come il ristorante del carcere di Bollate, aperto a tutti i cittadini e voluto dallo stesso Parisi quando ne era direttore. “Come sindaco e come cittadino io mi aspetto dalle istituzioni carcerarie un avvicinamento, una riconciliazione”, risponde a sua volta il sindaco Paolo Pilotto. “Però nella mia esperienza di tutti i giorni l’attesa maggiore che i cittadini hanno verso il carcere è quella di una separazione netta”. La sfida, anche per le istituzioni, è quella di scardinare i luoghi comuni: “L’obiettivo a cui lavorare dev’essere quello della convergenza e dell’incontro, che può essere favorito anche dalle relazioni tra istituzioni”. Il punto di vista dei giornalisti - Spesso, di fronte a un reato, il giornalismo si limita al racconto del fatto di cronaca nei suoi particolari più terribili. “È importante, però, raccontare anche ciò che avviene dopo”, sottolinea Fabrizio Annaro, parlando del docufilm girato qualche anno fa all’interno della casa circondariale di Monza. “Il titolo che abbiamo scelto è “Tempo libero” perché proprio il tempo vuoto del carcere favorisce il pensiero. E proprio dalle realtà di fragilità come il carcere emergono pensieri critici e valori che possono essere un’ancora di salvezza per noi tutti nei momenti di crisi”. L’idea di raccontare la fragilità, e tutto il bello che da essa può scaturire, fa parte di un movimento che sta crescendo nel mondo dell’informazione, che lavora per un giornalismo che sia costruttivo e che dia spazio anche alle buone notizie. Il punto di vista dei detenuti - “A cosa serve la pena?” domanda provocatoriamente Angelo Aparo, per introdurre il punto di vista dei detenuti. “Secondo la nostra Costituzione serve a migliorarsi. La pena è quindi una condanna a migliorarsi”, conclude. Ma come si ottiene questo miglioramento? “Si ottiene”, risponde Aparo, “con la coscienza di sé e dell’altro e con la consapevolezza della propria fragilità, che permette di aumentare la consapevolezza del bisogno dell’altro”. Il problema, spiega lo psicoterapeuta, sono gli strumenti attraverso cui può procedere questo miglioramento. Nel documentario “Lo strappo” un detenuto racconta che per lui diventare adulto significava diventare forte al punto di picchiare suo padre. “Per chi commette reati non esiste nessuna autorità credibile”, spiega Aparo. “L’autorità è considerata come una maschera per coprire il desiderio di potere di singole persone. E se l’autorità non vale nulla, anche le regole dell’autorità non valgono nulla”. La parola passa ai due ex detenuti, che sottolineano come l’incontro in carcere con il Gruppo della Trasgressione abbia messo in moto in loro un cambiamento. “Sono riuscito a sentire me stesso come una persona, a sentire la mia fragilità, a non sentirmi più una vittima dell’autorità ma un colpevole”, racconta Adriano Sannino. “Oggi sono libero ma mi sento colpevole di ciò che ho fatto. Io ho scontato 30 anni di carcere, ma chi perde un familiare vive un ergastolo a vita”. Gli fa eco Antonio Tango: “Inizialmente ho deciso di frequentare il Gruppo solo per avere dei vantaggi rispetto alla pena che stavo scontando. Però le parole che sentivo erano come un sasso in un lago, si espandevano in tanti cerchi dentro di me. Cominciarono a martellarmi in testa. E alla fine, grazie a questi incontri, sono riuscito a guardare la debolezza dentro di me e, attraverso il dolore che provavo io sono riuscito a comprendere il dolore delle vittime. È stato così”, conclude, “che ho smesso di sentirmi defraudato dalla vita e dall’autorità che mi ha condotto in carcere. Ho capito che, nel corso della mia vita, la galera me l’ero costruita io stesso. Così ho cominciato a sentirmi libero, proprio quando in carcere”. Il punto di vista della vittima - Lo strappo per il familiare della vittima di un reato consiste nel congelamento improvviso della propria esistenza. Lo spiega bene Paolo Setti Carraro: “Un dolore così forte rischia di condannarti a camminare nella vita con la testa rivolta all’indietro, ti sottrae energie emotive e psichiche, ti fa sentire come ingabbiato, prigioniero in una ragnatela”. Anche le vittime hanno bisogno di emanciparsi: “Questo cambiamento richiede tempo, ma un percorso di dialogo con gli autori di reato può portare a un cambiamento. Il dolore è ciò che ci unifica e da lì bisogna ripartire. Purtroppo però molti familiari di vittime vivono in un carcere psicologico costruito sull’odio e il risentimento”. Paolo Setti Carraro rimarca poi il concetto della sicurezza in relazione all’educazione del detenuto: “Se vogliamo vivere in maggiore sicurezza bisogna che il carcere restituisca alla società dei cittadini migliori”. Adriano e Antonio, i due ex detenuti, oggi hanno un lavoro che ha dato loro un posto nella società: il primo lavora in una cooperativa, l’altro come “tuttofare” in una scuola brianzola. Ma, chiedono dal pubblico, come si fa a credere nella rieducazione di fronte alla reiterazione di un reato? Angelo Aparo a questo proposito precisa che spesso in carcere non si tratta di ri-educare la persona ma di “inventarla” da zero, soprattutto nei casi in cui la storia personale, educativa e familiare in cui il detenuto è cresciuto non gli ha permesso di avere gli strumenti per comprendere i suoi errori. Questo passa attraverso incontri e dialoghi con persone capaci di ascoltare e guidare verso percorsi di cambiamento vero: “La creatività dovrebbe avere maggior spazio in carcere. Non esiste la rieducazione, ma il nutrire in queste persone la fiducia che si possa credere in qualcuno che si spende per te!” Al termine di una serata ricchissima di riflessioni ed emozioni, ciò che rimane è un “senso” di complessità. Per far cambiare le persone che commettono reati e spingerle a seguire le regole della legalità non bastano le pene più dure. Dall’altra parte, la punizione dei colpevoli non “risolve” la sofferenza delle vittime. Nella complessità dello “strappo” causato da ogni crimine, l’unica via percorribile sembra essere proprio quella più difficile, quella lunga e tortuosa del dialogo con l’altro, della riflessione su sé stessi e del tentativo di comprendersi. Una strada che passa attraverso il dolore delle vittime e quello dei colpevoli, attraverso il riconoscersi fragili, attraverso il riconoscere la fragilità dell’altro. E, per avvicinarsi gli uni agli altri, occorre per prima cosa aprire le porte, anche quelle del carcere, e provare ad entrare. Non può che essere questo il primo passo per provare a ricucire lo “strappo”. Sondrio. La Garante dei detenuti: “Se non può svolgere i suoi compiti, abolite pure questa figura” di Giuseppe Maiorana sondriotoday.it, 18 ottobre 2023 In un acceso dibattito in commissione a Palazzo Pretorio a sostenerlo è stata la stessa titolare del ruolo, Orit Liss. Piuttosto che andare avanti così, nell’impossibilità di svolgere i propri compiti e il proprio ruolo, meglio lasciare l’incarico e, per l’amministrazione comunale, addirittura rinunciare a questa figura attualmente svuotata da ogni funzione concreta. A lanciare, per l’ennesima volta, questa denuncia, dopo quelle degli anni scorsi e dopo le dichiarazioni rilasciate anche alla nostra testata nei giorni scorsi, il garante dei detenuti di Sondrio Orit Liss: “In passato ho dato tante colpe alla direttrice del carcere - ha sottolineato proprio la Liss nel corso della seduta della commissione di lunedì pomeriggio a Palazzo Pretorio - che mi diceva “guarda nelle tue tasche”. Aveva ragione: se non posso girare liberamente per il carcere e sono sempre accompagnata dai poliziotti, se nei colloqui con i detenuti c’è sempre un poliziotto che quasi origlia appena fuori dalla porta, se le domande che presentano i detenuti per gli incontri non mi arrivano, io non ho gli strumenti per svolgere il mio ruolo. Se il Comune non mostra i muscoli, non è alle mie spalle in questo io non posso fare nulla. E, se trovo questi muri io mollo. Se posso contribuire lo faccio volentieri, volevo ripagare l’Italia e Sondrio, a cui voglio bene, per il modo in cui sono stata accolta, ma a queste condizioni io mi sto per arrendere”. “Ci sono - ha proseguito Orit Liss - anche difficoltà di comunicazione: la cooperativa Forme fa cose meravigliose, ma che non mi vengono comunicate. Cerco di contattarli di confrontarmi con loro, ma vengo ignorata dentro e fuori dal carcere. Mi dispiace, ma il Comune di Sondrio non ha risorse e strumenti per sostenere la figura del garante dei detenuti: c’è a disposizione una figura preparata accademicamente e il Comune non è in grado di sfruttarla. Questa è una vergogna e sinceramente mi rifiuto che il mio nome venga associato, a queste condizioni, al ruolo di garante dei detenuti di Sondrio”. Una situazione che suggerirebbe, secondo gli esponenti della minoranza e in particolare di Donatella Di Zinno (Sondrio Democratica) addirittura la soluzione di rinunciare alla figura del garante dei detenuti: “La garante è stata votata all’unanimità dal consiglio comunale e da 3 anni ha il problema di non riuscire a svolgere neanche il minimo sindacale del suo ruolo. Una situazione che ha ribadito anche in questa commissione: un anno e mezzo fa il precedente assessore, Lorenzo Grillo Della Berta aveva preso l’impegno di creare un tavolo istituzionale per appurare l’eventuale sussistenza di atteggiamenti ostativi. C’è stata una comunicazione con la direzione del carcere lo scorso 31 marzo, ma di cui abbiamo saputo solo settimana scorsa, e poi nient’altro. Ora chiediamo che venga finalmente aperto questo tavolo istituzionale, altrimenti il Comune fa più bella figura a togliere questo ruolo”. “È stucchevole - ha fatto eco Roberta Songini (Pd) - che il garante sia ancora qui dopo un anno e mezzo a ripetere le stesse cose. Ora la maggioranza ci deve dire chiaramente se questa figura interessa o no: da tre anni dimostra di no e questo è offensivo nei confronti di una minoranza che ha votato il garante proprio insieme alla maggioranza”. La replica - A replicare e a fare il punto della situazione l’assessore ai servizi sociali Maurizio Piasini: “La figura del garante dei detenuti ci interessa e la sosteniamo come abbiamo sempre fatto. Sono nati dei problemi che abbiamo affrontato con comunicazioni scritte al carcere perché volevamo che di queste rimanesse traccia. Abbiamo mandato due lettere e avuto un incontro. La direttrice del carcere ci ha detto che la norma non prevede che il garante giri liberamente. Siamo in contatto con Anci Lombardia per capire se sul protocollo tra Anci e garante nazionale si possano fare dei passi avanti. Per quanto riguarda la comunicazione, ho chiesto agli uffici di avvisare sulle iniziative e così è stato fatto a partire da settembre”. “La rigidità attuale dipende da norme che sono stabilite dal Ministero e non dal Comune e con un muro contro muro - ha proseguito Piasini - non andiamo da nessuna parte. Dobbiamo trovare il modo di collaborare con la direttrice e di costruire un percorso con l’amministrazione penitenziaria. Da parte nostra c’è la volontà di trovare una strada di cambiamento, magari con la proposta di individuare una giornata in cui il garante possa sempre accedere. Tutto questo senza dimenticare che anche il garante può coinvolgere con azioni fuori dal carcere il Comune, le associazioni, gli avvocati, i carabinieri. Vogliamo comunque cambiare le prospettive per il presente e anche per chi ci sarà dopo, visto che ad aprile scadrà l’attuale mandato”. Avellino. Processo sul suicidio in carcere di Luigi Della Valle: le testimonianze volute dal pm di Vinicio Micheletti avellinotoday.it, 18 ottobre 2023 Nel cuore dell’estate del 2017, un’ombra di tragedia si è abbattuta sull’Istituto di Reclusione di Avellino, quando Luigi Della Valle, un detenuto originario di Montoro, ha deciso di porre fine alla sua vita impiccandosi nella sua cella. Questo gesto drammatico ha scosso la comunità e ha scatenato una lunga serie di eventi giuridici che continuano ancora oggi. Luigi Della Valle aveva 44 anni all’epoca della sua morte ed era detenuto per reati di maltrattamenti in famiglia. Il suo passato era segnato da una lotta con la tossicodipendenza e l’alcooldipendenza, problemi che avevano influito pesantemente sulla sua salute mentale. Recentemente, nel corso di un’udienza presso il Tribunale di Avellino, nuovi testimoni sono stati ascoltati su questo caso, su richiesta del Pubblico Ministero. Tra questi testimoni, uno era particolarmente significativo: l’agente penitenziario che aveva accompagnato Luigi Della Valle all’udienza il giorno precedente alla sua tragica morte. Purtroppo, si è trattato di un’occasione mancata per intervenire e prevenire il terribile gesto. Inoltre, durante l’udienza, sono stati ascoltati un Operatore Socio-Sanitario (OSS) e due infermieri, i quali hanno fornito importanti dettagli sulle procedure seguite nel carcere per la gestione medica dei detenuti. È emerso che chi si occupava dei pazienti inseriva i dati nel computer e pianificava le visite specialistiche. Quando lo specialista era disponibile, veniva stampata una lista dei pazienti che avevano bisogno della sua assistenza. Questa lista veniva quindi consegnata al medico di guardia o stampata direttamente da quest’ultimo, che si occupava di gestire le visite allo specialista. Le visite mediche venivano programmate seguendo un calendario basato su quelle precedenti, a meno che non ci fossero emergenze. In caso di situazioni urgenti, veniva data priorità alle visite mediche. Nonostante siano passati più di cinque anni dalla morte di Luigi Della Valle, la sua famiglia continua a chiedere giustizia. L’avvocato Rosaria Vietri, che difende la famiglia, insiste sul fatto che ci siano ancora questioni irrisolte in questo caso. Le accuse più gravi, tuttavia, riguardano il medico generico del carcere di Bellizzi Irpino, difeso dall’avvocato Nicola D’Archi. Il medico è stato accusato di omicidio colposo per non aver valutato in modo adeguato il caso di Luigi Della Valle, tenendo conto delle sue patologie psichiatriche e del suo passato di tentati suicidi. Della Valle era stato salvato dai suoi compagni di cella in due occasioni precedenti. Inoltre, il detenuto era in cura psichiatrica e riceveva psicofarmaci a causa della sua totale incapacità di gestire la rabbia. L’accusa di omicidio colposo si basa sul fatto che il medico generico avrebbe dovuto essere più vigile nella valutazione del pericolo di suicidio e nel monitoraggio dello stato di salute mentale di Della Valle. Il caso di Luigi Della Valle solleva importanti questioni sulla gestione delle patologie psichiatriche nei detenuti e sulla responsabilità medica all’interno del sistema carcerario. La famiglia di Della Valle cerca giustizia per la morte del loro caro e spera che questo caso possa portare a una maggiore attenzione e sensibilizzazione sulla salute mentale dei detenuti e sulla necessità di procedure di valutazione più rigorose nei casi a rischio. La prossima udienza, adesso, è attesa per il 16 gennaio 2023. Sulmona (Aq). Ottanta detenuti conseguono la qualifica da falegname ilgerme.it, 18 ottobre 2023 Sono 80 i detenuti del carcere di Sulmona che hanno conseguito la qualifica professionale di falegname grazie al progetto MILIA - Modelli sperimentali di intervento per il lavoro e l’inclusione attiva delle persone in esecuzione penale. Il progetto è realizzato dalla Regione Abruzzo, assieme alla Puglia (regione capofila), alla Toscana e alla Sardegna; in collaborazione con il ministero di Grazia e Giustizia. Il percorso di formazione ha portato i detenuti peligna a conseguire la qualifica con validità sull’intero territorio nazionale. I risultati delle attività svolte dietro le sbarre saranno presentati giovedì 19 ottobre, alle ore 10:00, nell’evento intitolato “Sarò quello che costruisco dentro”, presso il Palazzo dell’Annunziata. Il progetto è inserito nel PON Inclusione e finanziato con 750mila euro. L’obiettivo è realizzare misure e interventi innovativi finalizzati a migliorare l’offerta formativa e lavorativa per coloro che si trovano in carcere a scontare la propria pena. A prendere parte all’iniziativa saranno, tra gli altri, l’assessore regionale alle Politiche Sociali, Pietro Quaresimale, il direttore del Dipartimento della Presidenza, Emanuela Grimaldi, l’Autorità di Gestione dei Fondi Fesr-Fse, Carmine Cipollone, il capo Dipartimento del Ministero della Giustizia, Ettore Sala, il direttore dell’istituto penitenziario di Sulmona, Stefano Liberatore. L’evento vedrà anche l’esposizione dei prototipi degli arredi realizzati dai detenuti, che potranno essere utilizzati per le carceri italiane. Milano. “Non esistono ragazzi cattivi”. Chi ha sbagliato può riscattarsi di Barbara Calderola Il Giorno, 18 ottobre 2023 La frase di don Claudio Burgio, fondatore della comunità Kayros di Vimodrone diventa un marchio. Laboratorio creativo in vista di un mestiere con borse e magliette serigrafate dai minori di 5 istituti di pena. “Non esistono ragazzi cattivi” diventa un marchio. Borse e magliette serigrafate dagli adolescenti nelle carceri minorili di cinque città saranno il lasciapassare per una nuova vita, una volta fuori. La frase è di don Claudio Burgio, il papà di Kayròs, la casa per minori in difficoltà di Vimodrone, ed esprime la sua fede incrollabile nei giovanissimi che in lui trovano una guida. Il progetto di riscatto, il primo che vede la luce in Italia con questi numeri e con queste ambizioni, nasce dalla collaborazione fra la comunità e Fondazione Conad, il braccio solidale della cooperativa di supermercati. Ieri, la presentazione del piano per costruire dalla cella passo dopo passo il futuro di 50 condannati dei 250 ora rinchiusi al “Beccaria” di Milano, al “Ferrante Aporti” a Torino, al “Casal del Marmo” a Roma, al “Malaspina” a Palermo, a Bari e nei centri come Kayros che si occupano di loro. La onlus donerà le macchine agli istituti di pena e metterà a disposizione un educatore che formerà gli artisti. Per ora si tratta di un laboratorio creativo, ma la finalità è insegnare un mestiere che offra una chance. Ciascun gruppo dovrà creare un migliaio di prodotti dopo uno studio di immagine e la firma di una vera e propria collezione. Poi si venderà. Prima ai mercatini parrocchiali, nelle scuole, alla Caritas con l’aiuto delle associazioni coinvolte e poi on-line. “Li chiamano bulli, delinquenti, ragazzi di strada, giovani deviati: per me sono ragazzi e basta - dice don Claudio -. Abbandonati a sé stessi perdono il controllo della propria impulsività fino a diventare violenti; minori che tentano di soffocare il dolore che li accompagna da quando sono nati”. “La Fondazione ha una finalità filantropica - racconta la direttrice Maria Cristina Alfieri - al centro di tutta l’attività c’è l’inclusione dei giovani. Sostenere i più fragili è una priorità del sistema Conad, impegnato a promuovere il benessere della comunità. Con altri progetti a livello nazionale siamo già vicini a ragazzi in difficoltà economiche, disabili e disoccupati. Oggi la collaborazione con Kayròs ci permette di offrire il nostro supporto anche a chi si sta rialzando da una ‘caduta’ e ha diritto ad avere una seconda opportunità”. Una mano disegnata con il segno della vittoria è il simbolo del programma e del network che ha unito le forze contro il pregiudizio. “Per contrastare l’emarginazione - sottolineano i partner - deve vincere il percorso rieducativo”. Ci sono anche due testimonial, Filippo Galli, ex difensore del Milan, e Islam Ammar, un tempo ospite di Kayròs oggi titolare di una sartoria. Bari. “Altre storie. Dieci anni di Caffè Ristretto” ciranopost.com, 18 ottobre 2023 Si rinnova l’appuntamento con il laboratorio tematico letterario per detenuti della casa circondariale “F. Rucci” e dell’Istituto Penitenziario Minorile “N. Fornelli”. Sono trascorsi dieci anni dalla prima edizione di Caffè Ristretto, il laboratorio tematico e caffè letterario per detenuti della casa circondariale “F. Rucci” e dell’Istituto Penitenziario Minorile “N. Fornelli” di Bari. Altre storie -Dieci anni di Caffè Ristretto si rivolge alla popolazione carceraria a cui saranno proposte tematiche di interesse sociale, ambientale e artistico. Il percorso laboratoriale prevede un percorso di scrittura autobiografica che sfocerà in una performance finale con i detenuti e il pubblico dal titolo “La biblioteca umana”. Il progetto si svilupperà da Ottobre a Dicembre 2023. Ideato, organizzato e curato dalla scrittrice e direttrice artistica Teresa Petruzzelli, in collaborazione con l’insegnante presso le sedi carcerarie CPIA 1 di Bari e coordinatrice Mariangela Taccogna, Caffè ristretto nasce dall’idea che istruzione e cultura possono cambiare la vita. Anche in carcere. Soprattutto in carcere. Caffè Ristretto vuole essere dunque un intervento educativo strutturato, coordinato e coerente per un percorso di osmosi culturale e artistica tra il dentro e il fuori. Un’agorà aperta al confronto, diretto e attivo, su tematiche urgenti e rilevanti per il futuro. “Caffè Ristretto è nato da un sogno, accolto e realizzato dall’ amministrazione comunale, un assessorato che generalmente prende in carico scuole e politiche giovanili ha accettato la sfida dall’altisonante e pretenzioso titolo: caffè letterario per ristretti che negli anni non ha mai tradito le aspettative della città come tutti coloro che vi hanno creduto. Artisti, fotografi, musicisti, giornalisti, docenti, videomaker, scrittori, gli stessi operatori e direttori delle carceri, hanno condiviso insieme a noi, momenti non sempre felici, orari scomodi, attese, cambi di programma ma senza mai perdere la speranza e la voglia di offrire un contributo a questo progetto peculiare che fa riflettere i nostri sguardi, alle due del pomeriggio, in una tazzina di caffè e non sempre quello che appare piace. A volte scendere in profondità costa fatica e dolore. La verità è che ci si sente testimoni di un privilegio: un viaggio ai confini del buio con lo strumento dell’arte e delle storie di tutti” spiega Teresa Petruzzelli. “Un caffè letterario nel carcere di Bari? Idea bizzarra. Se lo avessero predetto, non ci avrebbe creduto nessuno. Eppure il successo di uno dei primi caffè letterari a livello nazionale, è ormai arrivato alla decima edizione - commenta Mariangela Taccogna. In questi dieci anni, Caffè Ristretto ha attraversato numerosi ambiti di confronto tra il “dentro” e il “fuori”. Protagonisti assoluti delle attività proposte i detenuti che ad ogni edizione si mettono in gioco senza timore, acquisendo maggiore consapevolezza di sé e affiancando il percorso di riflessione critica personale. Il progetto è per loro. Ma è anche un’occasione importante di crescita e di riflessione per il territorio. Con il ricordo ancora vivo di ogni parola, sorriso, scritto delle passate edizioni, siamo già dentro il decennale di progetto, con lo stesso identico entusiasmo di sempre…”. “Questo progetto testimonia il valore del lavoro portato avanti con grande generosità da tutti coloro che scelgono di donare il loro tempo a chi è confinato all’interno del perimetro carcerario. Un ringraziamento va anche alla disponibilità della direzione del carcere di Bari e all’organizzazione di Teresa Petruzzelli e di Mariangela Taccogna che ormai da dieci anni aprono uno dei luoghi preclusi per antonomasia alla vista e alla percezione della maggior parte dei cittadini, e segnato dal dolore e dalla sofferenza e fanno entrare la bellezza dell’arte. Attraverso la lettura, la scrittura, i ragazzi e gli adulti detenuti nelle carceri baresi possono elaborare in modo nuovo il proprio vissuto sentendosi parte di una comunità, senza essere discriminati a causa delle scelte e degli errori dei propri familiari. Ma Caffè Ristretto è anche un modo per comprendere gli errori e per crescere, costruendo un futuro “altro” da quello che spesso è stato scritto per loro” sono le parole dell’assessore alle Politiche giovanili del Comune di Bari Paola Romano. Inserito ormai nella programmazione culturale della città è un punto di riferimento per gli operatori sociali e culturali che lavorano insieme ai detenuti. Gli ospiti di questa edizione 2023 saranno la scrittrice Francesca Palumbo (Reportage dal Nepal), il produttore e distributore Corrado Azzollini (location cinematografiche in Puglia (Incontri); Manlio Ranieri, curatore del libro Baresi per sempre - Edizioni della Sera (Storie di questa città e forse del mondo…); l’associazione (S)-legamenti - Bari (Nel cuore e negli occhi); la scrittrice Tinta Valentini autrice del libro La casa delle vedove ed. Lulù che fa storie (Rinascite che accomunano); Lucia Laterza, presidente onoraria e fondatrice dell’associazione Agedo (Acronimi e volti); Salvatore Valletta, segretario nazionale Sigea-Società italiana di geologia ambientale (Ambiente e ambienti) e infine Angela Leone, past president associazione Libri Su Misura (La cura). Finanziato anche quest’anno dall’assessorato alle Politiche giovanili del Comune di Bari in collaborazione con il CPIA 1 di Bari, il progetto ha l’obiettivo- attraverso laboratori tematici, presentazioni, incontri, performance, dibattiti con il pubblico e addetti ai lavori in ambito culturale, artistico e sociale - di creare percorsi e spazi culturali all’interno delle sedi carcerarie, supportare il percorso di crescita dei detenuti coniugando la proposta culturale con il benessere e la realizzazione personale dei detenuti, nel rispetto delle differenze di ciascuno. Milano. “Girasoli”, una mostra con quadri dipinti dai detenuti ansa.it, 18 ottobre 2023 Quattro carceri dell’area metropolitana milanese e quattro modi diversi di dare speranza per la rassegna dal titolo “Girasoli”. La rassegna, promossa dalla Città metropolitana di Milano per alzare il velo sul mondo carcerario e offrire uno sguardo differente sui detenuti e sulle detenute, ha preso oggi il via con un convegno moderato dall’editorialista di Avvenire Marco Tarquinio e con una mostra nel carcere di Opera che resterà aperta fino al 24 ottobre. Ad esporre sono i detenuti e le detenute che frequentano il corso di ‘Arte Figurativa’, tenuto dalla professoressa Chiara Mantovani. Si possono ammirare dipinti a olio, mosaici, finti affreschi e disegni ad acquerello. I quattro appuntamenti della rassegna si snoderanno nelle quattro stagioni (dall’autunno 2023 all’estate 2024) e con quattro modalità espressive (pittura, musica, teatro e cucina) nella cornice di Palazzo Isimbardi, “per un percorso di conoscenza e inclusione rivolto alla cittadinanza”. Protagonisti dei quattro convegni sono le case circondariali ‘Francesco di Cataldo’, cioè San Vittore, quelle di Opera e di Bollate, e l’istituto penale minorile Beccaria, insieme a realtà che, all’interno dei diversi istituti, sono strumento di formazione e recupero. Al convegno hanno preso parte anche l’assessore alla Cultura del Comune di Milano Tommaso Sacchi, la consigliera comunale di Milano Beatrice Uguccioni, vicario episcopale per la Cultura, la Carità, la Missione e l’Azione Sociale della Curia di Milano monsignor Luca Bressan, la funzionaria giuridico-pedagogica della Casa di Reclusione di Opera Annamaria Rossi, il presidente Unitre di Opera Riccardo Borghi, il direttore di Palazzo Reale Domenico Piraina, la direttrice generale della Triennale di Milano Carla Morogallo, Cinzia Macchi - La Milanesa (Progetto creativo di inclusione sociale) e Chiara Mantovani, professoressa che cura i percorsi artistici nel carcere. A portare i saluti della Città metropolitana di Milano, il vicesindaco Francesco Vassallo. Il convegno è stato aperto da un video con l’interpretazione di Cristina Donadio. Durante la mattinata anche la mecenate Patrizia Sandretto Re Rebaudengo ha mandato un videomessaggio ai presenti. Al termine della mattinata il direttore del Carcere di Opera, Silvio Di Gregorio, ha portato il suo saluto. Ringraziati infine i collaboratori del progetto: la dirigente dell’istituto Carlo Porta Rossana Di Gennaro, Gianni Benedetti, direttore generale di Coldiretti Lombardia, Camillo Zulli, direttore generale di Bio Cantina Orsogna e Massimo Ornaghi, direttore generale di Ersaf Lombardia che donerà delle piante al carcere. Roma. Il teatro delle Donne del Muro Alto compie dieci anni garantedetenutilazio.it, 18 ottobre 2023 Per l’occasione, va in scena la storia di Olympe de Gouges, paladina dei diritti delle donne durante la Rivoluzione francese, finita in carcere e poi messa a morte con la ghigliottina. Le Donne del Muro Alto, progetto teatrale nato nel 2013 da un’idea della regista Francesca Tricarico, con lo scopo di portare il teatro nelle carceri, compie quest’anno dieci anni. Tanti gli eventi in programma per festeggiare il decennale, che racconta attraverso il lavoro svolto sia con le donne in carcere sia con le donne ammesse alle misure alternative alla detenzione che con ex detenute, un mondo che - ancora oggi - resta quasi del tutto sconosciuto. Il primo appuntamento è per domenica 22 ottobre 2023 alle 15.30 in occasione della Festa del Cinema di Roma. Presso l’Auditorium del MAXXI - Museo delle Arti del XXI secolo di Roma verranno presentate le attività relative al decennale del progetto e in anteprima una nuova rappresentazione dello spettacolo Olympe de Gouges, tratto dal romanzo La donna che visse per un sogno di Maria Rosa Cutrufelli. Olympe nasce da un primo studio fatto nel 2015 all’interno del carcere Femminile di Rebibbia e racconta gli ultimi mesi di vita di Olympe de Gouges (1748 -1793), drammaturga e attivista francese vissuta durante la Rivoluzione, che dedicò la sua vita e le sue opere ai diritti delle donne, ma anche dei neri, degli orfani, degli anziani, dei disoccupati, dei poveri. Il racconto dei giorni trascorsi in carcere fino al processo, che si conclude con l’esecuzione alla ghigliottina della protagonista, vuole essere un invito a riflettere sui pericoli della censura, della negazione della libertà individuale e sull’importanza della cultura come arma di difesa contro le ingiustizie sociali. Il 9 e il 10 novembre lo spettacolo Olympe de Gouges verrà messo in scena al Teatro India alle 21.00, preceduto in entrambi i giorni da diversi incontri cui parteciperanno istituzioni e personaggi del mondo della società civile, che ricorderanno i 10 anni di attività dentro e fuori le mura detentive e metteranno l’accento sulla cultura come strumento di emancipazione. Tra i confermati Francesca Tricarico, fondatrice dell’Associazione Per Ananke, Miguel Gotor Assessore Cultura Roma Capitale, Valentina Calderone Garante delle persone private della libertà personale di Roma Capitale, Marco Patarnello Magistrato Tribunale sorveglianza di Roma, Ilaria Cucchi senatrice, l’attrice Maria Grazia Cucinotta, la scrittrice Maria Rosa Cutrufelli e Alessandra Collacciani, attrice ex detenuta. Nel mese di aprile inoltre lo spettacolo verrà messo in scena al Teatro Vittoria di Roma, mentre da gennaio a maggio 2024 è prevista una tournée nella Carceri e Rems del Lazio. “Sono passati più di dieci anni da quel primo ingresso nel carcere femminile di Rebibbia - ricorda l’ideatrice del progetto, Francesca Tricarico - “dieci anni esatti dalla nascita de Le Donne del Muro Alto, un progetto che fin da subito ho capito non poteva e non doveva terminare lì nonostante tutto sembrasse dire il contrario, dalla difficoltà del luogo alla continua estenuante ricerca dei fondi. Quanto quel luogo mi raccontava allora e oggi ci racconta della società in cui viviamo? Un’opportunità prima ancora che per le donne recluse, per tutti noi “società civile” di comprendere dove siamo, dove stiamo andando grazie alla grande lente di ingrandimento del carcere sull’uomo e la società. Una società dove le donne più degli uomini pagano lo stigma sociale della detenzione, “dell’errore”. In questi dieci anni la realtà de Le Donne del Muro Alto è cresciuta, sia all’interno che all’esterno delle mura carcerarie, divenendo un vero e proprio percorso di accompagnamento al ritorno nella società civile. Oggi - conclude la regista -, per le donne coinvolte, il progetto rappresenta sempre più una concreta possibilità di formazione oltre che un’occasione lavorativa regolarmente retribuita, un prezioso strumento di inclusione sociale”. L’associazione Per Ananke nasce nel 2007, fin dalla sua costituzione, si occupa di teatro, in particolare teatro sociale, lavorando nelle carceri, centri per la salute mentale, scuole di ogni ordine e grado, università. Dal 2013 l’attività teatrale all’interno degli istituti di pena diventa l’attività principale dell’associazione con la nascita del progetto Le Donne del Muro Alto, prima nella Casa Circondariale femminile di Rebibbia, portato in seguito nella Casa Circondariale femminile di Latina e la Casa Circondariale di Rebibbia Nuovo Complesso e oggi anche all’esterno con donne ammesse alle misure alternative alla detenzione ed ex detenute. Prenotazioni a: infoledonnedelmuroalto@gmail.com Diario delle sue prigioni. Ora che a Patrick Zaki non si perdona più nulla di Daria Bignardi Vanity Fair, 18 ottobre 2023 Il suo caso è diventato un simbolo e come tale ha poi ovviamente deluso chi lo aveva idealizzato. Ora racconta in un libro i suoi 22 mesi di prigionia, rischiando molto. Patrick Zaki, 32 anni, è stato arrestato in Egitto il 7 febbraio 2020. Ha ricevuto la grazia il 19 luglio 2023. Quei giorni di carcere sono il centro del suo libro “Sogni e illusioni di libertà” (La Nave di Teseo, pp. 253, € 19), ora in libreria. Ho letto in una notte “Sogni e illusioni di libertà” di Patrick Zaki (La nave di Teseo) e subito l’ho invitato a parlarne in radio. Come ha scritto Nina Verdelli, è un libro che racconta i suoi 22 mesi nelle carceri egiziane: la tortura con gli elettrodi, le botte, gli scarafaggi, i problemi o l’amicizia coi compagni di detenzione e soprattutto l’ansia: “L’ansia era la vera compagna di prigionia... Quando uscivo dalla cella durante l’ora della passeggiata mi trovavo a camminare senza parlare con nessuno e mi immaginavo in un tribunale a spiegare al giudice le ragioni della mia innocenza e l’entità del crimine che veniva commesso nell’imprigionarmi. Come un pazzo, mormoravo le parole che avrei pronunciato ad alta voce davanti al tribunale, e continuavo a ripetere lo stesso scenario nella mia mente per cento volte… Inoltre, l’ansia mi colpiva ogni volta che cercavo di dormire di notte… In alcune di quelle notti, pensavo di stare per morire, così mi dicevo: “Dormiamo ora, così mi sveglierò e mi troverò o in un nuovo giorno che porta buone notizie, o morirò e tutta questa ansia finirà”. Zaki rischia molto con questo libro, può essere riarrestato in ogni momento: in Egitto le carceri sono piene di ragazzi che sono lì per aver condiviso un video o messo un like a un articolo, oltre che di giornalisti e attivisti che hanno raccontato cosa succede in quel Paese. Lui ha avuto la fortuna (ma anche la sfortuna: lo hanno tenuto dentro tanto proprio per quello) di essere stato adottato dall’opinione pubblica italiana, traumatizzata da quel che era successo al nostro Giulio Regeni. Il caso di Zaki è diventato un simbolo e come tale ha poi ovviamente deluso chi lo aveva idealizzato. I piedistalli sono fatti per essere abbattuti e ora non gli si perdona nulla, perché non è più solo un attivista per i diritti umani e un ragazzo innocente finito in carcere come tanti altri, è una proiezione delle nostre speranze e delle nostre paure, vorremmo che rappresentasse un Bene e una Giustizia forse impossibili. A meno di non mantenere, con molto coraggio o ingenuità oppure coerenza, i propri sogni e le proprie illusioni. La Genova operaia che partorì le Br di Gad Lerner Il Fatto Quotidiano, 18 ottobre 2023 Il capoluogo ligure è il prisma attraverso cui Luzzatto analizza la parabola umana e collettiva delle Brigate rosse. È la città di Sossi e Coco, di Dura che uccide l’operaio Rossa e di via Fracchia. Questa, me ne scuso in anticipo, più che una recensione sarà una condivisione: trovo che il libro di Sergio Luzzatto “Dolore e furore. Una storia delle Brigate rosse” (Einaudi) sia un’opera pressoché definitiva. Indispensabile a chi voglia decifrare la vicenda dei militanti della sinistra, che tra il 1974 e il 1981 non esitarono a trasformarsi da rivoluzionari in criminali. Luzzatto era un adolescente quando nella sua città, Genova, imperversava una colonna brigatista spietata intorno a cui era cresciuta una fama di imprendibilità. Capace di sequestri di persona per vendetta (il giudice Sossi) o autofinanziamento (imprenditori facoltosi); capace di sterminare in un’azione di commando il procuratore Coco con la sua scorta e poi altri carabinieri e funzionari di polizia; ma anche di sparare alle gambe di un manager iscritto al Pci (Castellano) e perfino di uccidere Guido Rossa, l’operaio sindacalista dell’Italsider che aveva denunciato un loro propagandista in fabbrica, Francesco Berardi (a sua volta morto suicida in carcere). Senza contare che, per la sua efficienza logistica e militare, la colonna genovese svolse un ruolo importante anche nel sequestro Moro. Il libro non dissimula il movente emotivo dell’autore, figlio di un intellettuale socialista, alle prese con tanta gelida, inspiegabile violenza. Ma, trattandosi di uno storico valente, Luzzatto va ben oltre: riconosce in Genova il prisma più adatto attraverso cui ricostruire l’intera parabola delle Brigate rosse. Zoomando, dunque, non su via Fani, il luogo del sequestro Moro, a Roma; ma su via Fracchia, la strada di un quartiere popolare genovese in cui nel gennaio 1979 si consumò l’omicidio dell’operaio comunista Guido Rossa; e dove 15 mesi dopo, nel marzo 1980, i carabinieri del generale Dalla Chiesa finirono a raffiche di mitra quattro brigatisti, tra cui il misterioso capocolonna “Roberto”. Solo una settimana dopo le Br con una telefonata svelarono la sua identità: Riccardo Dura. Lo fecero, infrangendo le regole della clandestinità, perché il loro avvocato Edoardo Arnaldi aveva ricevuto un avvertimento da chi aveva riconosciuto in quel cadavere riverso a terra un ex compagno di Lotta continua. Cioè il ragazzo tanto più benvoluto per via di un’infanzia disgraziata che l’aveva visto recluso assurdamente sulla nave-scuola Garaventa, indegno carcere minorile ormeggiato in porto, e ciò per via della povertà e dei conflitti familiari. Tirava avanti con imbarchi da marinaio, Riccardo Dura. Nel 1975 aveva lasciato Lotta continua e nessuno ne sapeva più niente. Io che ho vissuto a Genova in quegli anni terribili, fra il 1979 e il 1981, non l’ho mai conosciuto. Ne sentii parlare da morto con uno strano impasto di tenerezza e orrore da parte di compagni che ricordavano la simpatia con cui reagiva alla malasorte, e che non riuscivano a spiegarsi la sua trasformazione in killer spietato, promosso da Mario Moretti e Rocco Micaletto nella direzione strategica delle Br. Sergio Luzzatto si cimenta con questa umanità che diviene disumanità. Descrive questo sconosciuto privo di formazione politica assurto a capo di una colonna in cui militavano anche intellettuali di rilievo come il docente di Lettere Enrico Fenzi, tra i massimi studiosi italiani di Petrarca, e il medico aiuto-primario Sergio Adamoli, figlio del partigiano Gelasio Adamoli, primo sindaco comunista di Genova. Senza dimenticare Gianfranco Faina, altro docente universitario che si separerà dalle Br su posizioni situazioniste e luddiste. A impressionarci, nel corso della lettura, è l’originario intreccio fraterno di questi personaggi, nel fermento riformista e rivoluzionario di fine anni Sessanta, con figure ben altrimenti illuminate provenienti dall’ambiente scoutistico, dell’anti psichiatria basagliana, dagli studi di pedagogia avviati da un caposcuola come Andrea Canevaro, dal dissenso cattolico impersonato da don Andrea Gallo. È in questo ambiente che si forma a Genova anche il cognato di Enrico Fenzi: il criminologo Giovanni Senzani, passato alla storia come ultimo capo feroce delle Br in disfacimento. Don Gallo non ha mai rinnegato l’amicizia che lo legò a Senzani. Sullo sfondo, naturalmente, c’è la classe operaia di una città che restava la capitale dell’industria pubblica italiana - Ansaldo, Italsider, Italcantieri - anche se gli anni del boom avevano ceduto il passo al declino sociale ed economico. Genova, con l’immigrazione dal Sud, aveva sfiorato gli 850 mila abitanti nel 1965 ma da allora aveva cominciato la sua curva discendente (oggi sono meno di 600 mila). Nelle fabbriche, dove era fortemente radicato il Partito comunista, si respirava aria di crisi. Dal loro interno proveniva anche la letteratura alternativa di operai-scrittori come Pippo Carruba, Vincenzo Guerrazzi, Giuliano Naria. Criticavano il Pci e il sindacato, ma solo Naria si lasciò coinvolgere inizialmente dalle Br. Negli stabilimenti, così come tra i lavoratori del porto, il reclutamento brigatista rimase trascurabile. E l’assassinio di Guido Rossa - con la possente, addolorata reazione popolare che suscitò - precluse definitivamente alle Br ogni via di accesso. Un fallimento politico e morale che, purtroppo, finì per esasperare anche la svolta militarista della colonna, rimasta fino ad allora integra ma destinata a infrangersi in una scia di sangue. Come si sarà capito, fra le numerose fonti orali consultate da Sergio Luzzatto, con sconcertanti testimonianze dei diretti protagonisti, ci sono marginalmente anch’io che facevo il giornalista a Il Lavoro. Nella primavera del 1979 il generale Dalla Chiesa aveva ordinato una retata di presunti brigatisti, malamente imbastita però intorno a false testimonianze che coinvolgevano a sproposito militanti estranei alle Br. Me lo raccontò la teste-chiave, Susanna Chiarantano. Il risultato fu l’assoluzione e la scarcerazione di tutti gli imputati, fra i quali effettivamente solo alcuni, come Enrico Fenzi, arrestato due anni dopo con Mario Moretti, erano brigatisti. Dalla Chiesa lamentò “l’ingiustizia che assolve”, ma la colonna genovese continuò ad agire indisturbata fino al pentimento di Patrizio Peci, colui che nel 1980 indicò il covo di via Fracchia. L’epilogo sarà atroce. Guidate da Giovanni Senzani, che da giovane aveva denunciato su L’Espresso l’inciviltà delle carceri minorili in Italia, ciò che restava delle Br passò dalla lotta armata a “una guerra privata applicando codici di tipo barbaricino”. Sono parole dell’illustre giurista Federico Mancini, che di Senzani era stato il maestro. Rapirono e uccisero per vendetta Roberto Peci, il fratello di Patrizio. Anche di questa tragedia conservo ricordi personali strazianti, narrati nel libro. La nostra gioventù militante sfociava in un dramma che mescolava persone in buona fede con criminali senza scrupoli. Non dimenticherò mai quando andai a bussare alla camera di albergo di Franca Rame, che la sera stessa aveva uno spettacolo a Genova, per dirle che il “suo” avvocato Arnaldi, impegnato con lei nel “Soccorso rosso” a tutela dei detenuti politici, era un brigatista e si era appena suicidato. Sergio Luzzatto ci consegna un’opera implacabile, intrisa di dolore e furore, ma anche di pietà, nella quale continua a chiedersi: “Quali fili ideologici, politici, morali, sociali, potevano mai tenere unite le immagini dei proletari minorenni in catene” nel 1969 a quella del venticinquenne Roberto Peci incatenato e trucidato nel 1981? “Risposta: i fili che in questo libro ho cercato di dipanare”. Chi vorrà leggerlo ne uscirà scosso. Nell’infinito presente di un istituto psichiatrico di Vanessa Roghi Il Manifesto, 18 ottobre 2023 “Grande meraviglia”, l’ultimo romanzo di Viola Ardone per Einaudi. Napoli, 1982. Una ragazza poco più che adolescente racconta la vita quotidiana del manicomio in cui vive fin dal momento della sua nascita. Il mezzomondo, lo chiama. Non lo fa per noi che leggiamo ma per sé stessa. Sono le sue pagine di diario quelle che abbiamo sotto gli occhi. A volte confuse, a volte ripetitive, a volte poetiche fino a essere leziose, eppure chiarissime nella volontà di trasmetterci quello che conta, che la ragazza si chiama Elba, come il fiume che attraversa la Germania dell’est, e nel mezzomondo ha trovato un suo modo di viverci, tra pillole e scosse, meglio che nel mondo fuori, quello delle “suore culone”, dove a un certo punto è stata mandata per sfuggire al destino di matta per frequentare un corso di studi che la possa portare fuori dai confini dell’ospedale. Ma il futuro per Elba non ha senso se non nell’infinito presente dell’istituto psichiatrico perché solo lì c’è la sua Mutti, la mamma che vi è stata rinchiusa alla fine degli anni Sessanta perché “disubbidiente, altezzosa, erotica, mendace”. E di “immoralità costituzionale, adultera, con istinti morali corrotti”, “nullatenente, espatriata, senza famiglia e dunque socialmente pericolosa”. Del resto “non reclamata da nessuno, resta in stato di ricovero”. Se nessuno la reclama, figuriamoci la figlia che poi si sa: pazza la madre pazza pure lei. Elba è la protagonista di “Grande meraviglia” (Einaudi, pp. 304, euro 18), l’ultimo romanzo di Viola Ardone. Un viaggio attraverso gli anni e le storie di chi, da posizioni diverse, ha vissuto, più che la chiusura dei manicomi, la deistituzionalizzazione della malattia mentale. Perché il manicomio, in effetti, quando inizia il racconto di Elba, c’è ancora e funziona perfettamente che significa che continua a somministrare, a seconda dei casi, pillole o elettroshock o coma insulinico e a separare i pazienti in base al comportamento più che alle patologie: tranquilli, agitati, semi agitati, grandi agitati. La legge Basaglia è stata approvata da quattro anni, nel 1978, Franco Basaglia è morto da due, ma evidentemente qualcosa è andato storto perché entro le mura dell’ospedale psichiatrico di Napoli che nel romanzo viene chiamato il Fascione, tutto è uguale a prima. L’arrivo nella struttura di un “dottorino basagliano”, il dottor Fausto Meraviglia, cambierà tutto, ma non come ce lo aspetteremmo. Meraviglia non è un eroe, fa spesso casino, non è sorretto dal sistema sanitario che anzi lo riprende e lo punisce, certamente non è una figura epica, anzi. Militante radicale, una stranezza visto che il Partito radicale si opporrà alla legge Basaglia, è una figura che lascia più dubbi, forse la meno riuscita di un romanzo che è comunque molto importante perché a pochi mesi dal centenario basagliano riporta l’attenzione non tanto sull’eccezionale figura dello psichiatra veneziano quanto su personaggi e temi che ruotano intorno al mondo della psichiatria italiana in quella fase di passaggio, mai davvero studiata fino in fondo dagli storici, che sono i primi anni Ottanta, quando tutto ancora può cambiare ma spesso non cambia come dovrebbe perché le resistenze sono più forti delle spinte e nessuna riforma, da sola, può sovvertire alcunché. Così nel libro è costante il rumore di fondo dei discorsi degli infermieri come Colavolpe o Gilette che Elba neppure odia quanto dovrebbe perché alla fine sono la sua famiglia. Infermieri che stanno lì a dire che la malattia esiste eccome e che va presa sul serio e che liberare i matti è la scelta più sbagliata, riecheggiando luoghi comuni diffusi ovunque ma anche la verità di tante province dove i servizi territoriali sono sempre stati insufficienti se non inesistenti anche per colpa di infermieri o medici o amministratori nemici della riforma. Così come paradigmatiche risultano le figure di alcuni genitori come quello di Aldina, (omaggio non dichiarato a Alda Merini?). O la mamma della Nuova, che hanno lasciato all’ospedale il compito di affrontare vite non conformi alle proprie aspettative. Ardone riesce a far precipitare in un gesto (quello della madre che dà da mangiare alla figlia anoressica, e perde peso mentre l’altra lo acquista) o in un dialogo, quello fra Elba e Gilette sulla Mutti e il suo destino, questioni storiografiche complesse in modo non didascalico come spesso accade nei romanzi storici sugli anni Settanta dove la sensazione di essere di fronte a un ricalco della realtà, a un déjà vu, è troppo spesso invadente. Ecco, ci mostra l’autrice, si può fare diversamente. Anche scegliendo temi, storie, strade meno battute per entrare nella realtà e mischiarla alla finzione. Per esempio si possono ricostruire gli anni Settanta e i primi anni Ottanta senza passare da via Fani, non perché non sia uno snodo fondamentale, ma perché da troppo tempo è visto dal cinema e dalla letteratura come l’unico. E anche se il libro si apre con un verso di Patrizia Cavalli, si sentono risuonare in ogni pagina le parole di Alda Merini, che Ardone non scrive ma che certo sa e che pare la guidino, come una legge morale e poetica, in ogni riga del suo libro: “Sono sempre rimasta fedele alla mia meraviglia: mi meraviglio di un peccato impunito e della grazia inattesa”. E noi con lei. Migranti. Il sistema dei Cpr fa a pezzi i diritti: lo dice il Garante di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 18 ottobre 2023 L’audizione in commissione di Mauro Palma sulla disciplina in materia di detenzione amministrativa dei migranti: no al trasferimento fino a 18 mesi: “A rischio le garanzie”. Recentemente, in commissione, è stato audito Mauro Palma, il Garante nazionale delle persone private della libertà, per un parere sul Decreto- legge che tratta delle politiche di coesione e dell’immigrazione in Italia. Il Garante, nel suo ruolo di tutela dei diritti umani, ha esaminato attentamente le disposizioni in materia di detenzione amministrativa e ha espresso gravi preoccupazioni riguardo alle implicazioni per i diritti fondamentali delle persone coinvolte. Un parere, ricordiamo, non solo opportuno per via della sua natura di Autorità di tutela dei diritti delle persone private della libertà personale, ma anche obbligatorio ai sensi dell’articolo del Protocollo opzionale alla Convenzione Onu contro la tortura e altri trattamenti o pene crudeli, inumani o degradanti (ratificato dall’Italia con legge 9 novembre 2012 n. 195) per via della sua designazione quale Meccanismo nazionale di prevenzione. Il Garante Nazionale ha evidenziato le criticità del decreto in relazione alla detenzione ammnistrativa degli immigrati. Ha fortemente criticato l’estensione dei termini massimi di trattenimento nei Centri di Permanenza per i Rimpatri (Cpr) fino a 18 mesi. Nonostante questa estensione, le statistiche dimostrano che l’efficacia del trattenimento non è direttamente proporzionale alla sua durata. Studi condotti a livello europeo confermano che periodi di trattenimento più lunghi non aumentano automaticamente le possibilità di rimpatrio, rendendo così l’estensione proposta non solo inefficace ma anche costosa e lesiva dei diritti umani. Il Garante Nazionale ha sottolineato l’inadeguatezza strutturale del sistema di detenzione amministrativa. L’assenza di criteri chiari per la realizzazione e il funzionamento delle strutture detentive ha creato uno spazio di discrezionalità incompatibile con le garanzie costituzionali. Inoltre, l’estensione dei tempi di permanenza all’interno dei Cpr e l’applicazione del dispositivo detentivo a un numero più ampio di persone hanno evidenziato la necessità di riorganizzare completamente le strutture detentive, richiedendo investimenti proporzionati alla durata prevista. Il decreto ha anche sollevato preoccupazioni riguardo al controllo giudiziario. Secondo il Garante, la diluizione dei controlli giurisdizionali determinata dall’estensione della validità dei provvedimenti di convalida, segna un preoccupante arretramento sul piano delle garanzie. L’affidamento a magistrati onorari, l’assenza di un’Autorità giudiziaria che svolga compiti di controllo sulle strutture e l’assenza di reclamo giurisdizionale in relazione alle condizioni di trattenimento sono aspetti che mettono a rischio i diritti delle persone trattenute. Al di là delle considerazioni tecniche e della volontà del Governo di accelerare la realizzazione di nuove strutture avvalendosi di procedure più spedite e della necessità di superare le ostilità delle comunità e delle rappresentanze politiche locali che, per motivi vari, si oppongono alla costruzione di nuovi Cpr, secondo il Garante Palma la norma in esame sottende e legittimerebbe il preconcetto della persona migrante quale elemento di potenziale pericolo per la sicurezza nazionale e per l’integrità dei suoi confini. In tal senso, il ricorso a misure del contesto militare per la gestione di una questione molto complessa quale quella delle migrazioni, contiene un intrinseco quanto pericoloso messaggio culturale che si basa sulla falsa percezione dell’altro da sé come un nemico da cui difendersi. Questa lettura del fenomeno migratorio attraverso una logica di guerra di contrapposizione è motivo di preoccupazione. Il Garante Nazionale, ricorda che nella sua precedente relazione al Parlamento ha evidenziato il rischio insito in questa linea di continuità tra “guerra al virus”, “guerra al fronte” e “guerra sperimentata nella povertà diffusa”. Questi mutamenti nel nostro approccio alle difficoltà, insieme ai luoghi dedicati al trattenimento e all’accoglienza dei cittadini stranieri quali opere destinate alla sicurezza e alla difesa nazionale, possono portare a una tendenza selettiva nell’accogliere persone provenienti da diverse realtà di conflitto o spinte dagli esiti di conflitti più antichi. La guerra, nel senso più ampio, non contribuisce necessariamente a maggiori capacità di accoglienza e solidarietà. Questa logica può portare a una divisione tra le persone migranti, caratterizzate principalmente dalla loro “irregolarità”, con l’irregolarità stessa che diviene la sintesi dell’intera vita della persona, senza considerare la complessità dei percorsi migratori individuali. Considerata la motivazione di base del provvedimento attuale, che mira all’incremento dei rimpatri delle persone straniere in posizione di irregolarità, il Garante Nazionale ritiene che sia suo compito sottoporre all’attenzione del Parlamento la questione relativa all’inadeguatezza e alla lacunosità di tale disciplina. L’accompagnamento coatto, che implica spesso prassi di coazione fisica di particolare intensità e controlli di sicurezza invasivi, avviene in assenza di una norma che regoli compiutamente l’agire coercitivo delle autorità di pubblica sicurezza in questo contesto. Manca un sistema puntuale di documentazione degli accadimenti e delle procedure implementate, il che rende difficile garantire la tutela dei diritti delle persone soggette a rimpatrio attraverso vie giurisdizionali. Così come non si adegua alle normative internazionali. Queste carenze, per Mauro Palma, non sono da sottovalutare. In primo luogo, riguardano il possibile ricorso all’impiego della forza e all’utilizzo di strumenti contenitivi: azioni esercitate senza una disposizione specifica di legge, tipizzata per tali operazioni, che disciplini compiutamente le relative modalità e prescriva la tipologia degli strumenti di coazione previsti nell’equipaggiamento del personale di scorta, il regime di applicazione, il personale autorizzato, gli aspetti di tutela della salute, gli obblighi di comunicazione e registrazione dell’evento. Inoltre, sotto il profilo delle garanzie, costituiscono motivo di riflessione le verifiche di sicurezza sulle persone, talvolta realizzate con modalità invasive simili alle perquisizioni personali. Poiché la tracciabilità e la verificabilità dell’attività delle Autorità nell’ambito della privazione della libertà costituiscono garanzie fondamentali per consentire il controllo sul rispetto dei limiti posti all’esercizio dei poteri statali, il Garante Nazionale ribadisce l’importanza di prevedere un sistema di registrazione su una piattaforma elettronica di ogni evento significativo di un’operazione. Davanti all’investimento sempre crescente e massiccio nell’attività di rimpatrio registrato in questo ultimo quarto di secolo, il Garante ritiene che non si possano più ignorare le carenze di un quadro normativo che ancora stenta ad assimilare le parole pronunciate dalla Consulta oramai 22 anni fa: “Né potrebbe dirsi che le garanzie dell’articolo 13 della Costituzione subiscano attenuazioni rispetto agli stranieri, in vista della tutela di altri beni costituzionalmente rilevanti. Per quanto gli interessi pubblici incidenti sulla materia della immigrazione siano molteplici e per quanto possano essere percepiti come gravi i problemi di sicurezza e di ordine pubblico connessi a flussi migratori incontrollati, non può risultarne minimamente scalfito il carattere universale della libertà personale, che, al pari degli altri diritti che la Costituzione proclama inviolabili, spetta ai singoli non in quanto partecipi di una determinata comunità politica, ma in quanto esseri umani”. Questa pronuncia, secondo il Garante, dovrebbe guidare qualsiasi legislazione relativa ai rimpatri forzati. La mancanza di una normativa adeguata non solo mina i diritti fondamentali delle persone coinvolte ma indebolisce anche i principi democratici su cui è fondata la Repubblica italiana. Migranti. Piantedosi accusa le ong e chiede fondi Ue per i Cpr Giulia Merlo Il Domani, 18 ottobre 2023 Il ministro dell’Interno alla Camera: “Ad oggi dall’inizio del 2023 sono arrivate via mare 140.586 persone” e “La presenza delle ong continua a costituire un catalizzatore dei flussi attraverso il canale di Sicilia”. Il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, è intervenuto con una informativa alla Camera, fornendo una serie di dati sui flussi migratori e le politiche del governo. In questo contesto ha spiegato la linea del governo, che è quella di “fermare gli ingressi illegali” e chiamato in causa l’Unione europea, cui ha chiesto di finanziare la costruzione dei nuovi Cpr. I numeri - “A oggi dall’inizio del 2023 sono arrivate via mare 140.586 persone, mentre nello stesso periodo degli anni 2021 e 2022 ne erano arrivate, rispettivamente, 49.764 e 75.833”, ha detto Piantedosi, spiegando che “uno dei principali fattori scatenanti sono i conflitti armati e alle porte dell’Ue, tra cui ci sono i conflitti in Ucraina e ora Israele, senza dimenticare il rischio delle radicalizzazioni islamiste”. Quanto alla provenienza, si è registrato un aumento di partenze dalla Tunisia del “376 per cento, con 91 mila migranti sbarcati”, mentre è diminuito del 4 per cento il flusso dalla Libia, del 46 per cento dall’Algeria e del 55 per cento dalla Turchia. La Tunisia - Per questo Piantedosi ha ribadito l’importanza del piano Mattei e degli accordi bilaterali con la Tunisia che il governo Meloni ha iniziato a tessere, “che avrebbero migliore effetto se anche l’Europa intervenisse. È essenziale che l’Ue sostenga la Tunisia”. Servono “investimenti di ampio respiro e lungo termine e un piano Mattei per l’Africa per rendere possibile il sogno delle nuove generazioni africane di non essere costrette a emigrare”. Colpa delle Ong - “La presenza delle Ong continua a costituire un catalizzatore dei flussi attraverso il canale di Sicilia sebbene gli interventi normativi in materia di gestione dei flussi migratori, introdotti con il decreto legge del gennaio scorso, abbiano sensibilmente contribuito a disciplinarne le attività assoggettandole alle direttive emanate dalle autorità competenti per il search and rescue e a quelle di pubblica sicurezza. Dalle informazioni acquisite dai migranti, è emerso che i trafficanti tendono a sovraccaricare le imbarcazioni e a rifornire le stesse di una quantità minima di carburante, in previsione dell’intervento delle navi Ong presenti nelle acque del Mediterraneo centrale”, ha detto Piantedosi, anche se non sono mai emersi da documenti ufficiali effetti di pull factor a causa della presenza delle navi Ong in mare. Piantedosi, tuttavia, ha ribadito il buon funzionamento del cosiddetto dl Cutro, che ha limitato il numero di salvataggi per uscita in mare alle navi Ong, assoggettate a un regime di controlli strutturali più stringenti. L’ordinanza di Catania e Cpr - Il ministro ha anche affrontato il caso del provvedimento della giudice di Catania, cui sono seguite altre decisioni analoghe, che ha disapplicato il decreto del governo che prevede la cauzione di 5.000 euro a migrante per uscire dai Cpr. “Ne prendiamo atto con quel rispetto pregiudiziale, in senso letterale, che si deve alle decisioni giudiziarie, ma il Governo impugnerà tali decisioni nella ferma convinzione, avvalorata dalle valutazioni dei nostri esperti e dalle continue interlocuzioni che sto avendo a Bruxelles, che le norme in questione siano pienamente coerenti con la cornice giuridica europea di settore e con la Costituzione. I provvedimenti del Governo sono, infatti, ponderati nell’ambito della cornice europea, in un bilanciamento tra esigenze di sicurezza e rispetto dei diritti fondamentali delle persone, e continueranno ad esserlo”. In relazione alla costruzione di nuovi Cpr deliberata in consiglio dei ministri con lo sforzo anche del genio militare, Piantedosi ha detto che lo sforzo dovrà essere coadiuvato anche dall’Unione europea: “Abbiamo varato un programma per l’incremento dei Centri per i rimpatri per la cui realizzazione chiediamo che l’Unione europea ci supporti con risorse finanziarie straordinarie. Si tratta, infatti, di strutture che tornano a beneficio dell’intera Unione e i cui oneri, quindi, non è ragionevole che siano sostenuti dai soli Stati maggiormente esposti agli arrivi”. Il caso Lampedusa - Quanto al caso Lampedusa, “sono sbarcate, dall’inizio dell’anno al 6 ottobre, oltre 94mila persone pari a circa il 70 per cento del totale delle persone arrivate in Italia via mare nel corso del 2023” e “abbiamo trasferito 64.051 persone nel solo periodo dall’1 giugno al 30 settembre. Nello stesso periodo è stata registrata una media di 1.214 presenze giornaliere, con un picco di 6.344 il 13 settembre”. Secondo Piantedosi, tuttavia, i trasferimenti sono stati efficienti ed è stato possibile contenere le presenze sempre entro il limite di 640, che è la capienza dell’hotspot sull’isola. Arresti e rimpatri - Quanto all’efficacia dei nuovi strumenti del governo, Piantedosi ha detto che al 4 ottobre sono stati arrestati 183 scafisti e rimpatriati 3.471 migranti, “rispetto ai 2.997 dell’analogo periodo di riferimento del 2022 e ai 2.802 del 2021”. E, rispetto ai Cpr, “il 70 per cento degli stranieri rimpatriati è transitato per un Cpr. Ad oggi, circa il 50 per cento degli stranieri lì trattenuti viene rimpatriato”. Questi dati mettono in “correlazione positiva” rimpatri e posti nei Cpr, che oggi non bastano e per questo “il governo ha messo in campo diverse misure per ampliarne la capacità ricettiva”. Ha però sottolineato che i trattenimenti nei Cpr sono solo per “migranti adulti privi di titolo a restare in Italia e, come tali, destinati ad essere espulsi, i quali non collaborino alla loro identificazione ovvero presentino profili di pericolosità sociale” e quindi esattamente le persone che gli enti locali considerano più problematiche per l’ordine pubblico. “La presenza di Cpr non diminuisce, bensì aumenta i livelli di sicurezza dei territori di localizzazione”. Vegliare sul futuro, leggere Primo Levi di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 18 ottobre 2023 “I bambini continuano a soffrire ed a morire sulla scala dei milioni, di fame, di malattia, o intrappolati nelle maglie di guerre incomprensibili e feroci”. “Ho letto nei loro occhi dilatati dal terrore, nei loro visetti pallidi di pena, nelle loro manine che si aggrappavano spasmodiche alla fiancata del camion, la paura folle che li invadeva, il terrore di quello che avevano visto e udito, l’ansia atroce dei loro cuoricini per quello che ancora li attendeva. Non piangevano neanche più quei bambini, lo spavento li aveva resi muti e aveva bruciato nei loro occhi le lacrime infantili”. Potrebbero essere state scritte la settimana scorsa, dopo la retata assassina di bambini nel kibbutz israeliano di Kfar Aza il 7 ottobre, le parole con cui Fulvia Ripa di Meana raccontò nel libro “Roma clandestina” il rastrellamento di decine di piccoli prigionieri ebrei caricati su un autocarro nazista a Fontanella Borghese il 16 ottobre di ottanta anni fa. E rileggere oggi quella testimonianza sui bambini razziati nel ‘43 e destinati ad essere caricati nei giorni successivi sui treni in partenza dalla stazione Tiburtina verso Auschwitz fa gelare il sangue. Ma tolgono il fiato anche le parole di Primo Levi nella prefazione al libro Il futuro spezzato. I nazisti contro i bambini, di Lidia Beccaria Rolfi e Bruno Maida, edito da Giuntina nel 1997. Libro che, riprendendo anche quelle memorie di Fulvia Ripa di Meana, era aperto da una agghiacciante citazione del Mein Kampf di Adolf Hitler, il quale di bambini ebrei, zingari e slavi ne avrebbe fatti ammazzare almeno due milioni: “Lo Stato razzista deve considerare il bambino come il bene più prezioso della nazione”. Un’idea spaventosa: i bambini “nostri”, i bambini “loro”. Scriveva Primo Levi, in quella prefazione che sarebbe uscita postuma dieci anni dopo la sua tragica morte: “Non credo che esistano oggi, in nessun luogo del mondo, impianti per la strage di massa come quelli nazisti, né lucidi piani di genocidio immediato e differito quali sono descritti in questo terribile libro: ma i bambini continuano a soffrire ed a morire sulla scala dei milioni, di fame, di malattia, o intrappolati nelle maglie di guerre incomprensibili e feroci. Finché questo avviene, pagine come queste dovranno essere lette, anche se la loro lettura non avvenga senza angoscia: sono nutrimento vitale per chi si proponga di vegliare sulla coscienza e sull’avvenire del mondo”. Vegliare, vegliare, vegliare. Il magistrato Giuseppe Battarino: “Toni troppo enfatici. La prevenzione funziona se non si vede” di Mario Di Vito Il Manifesto, 18 ottobre 2023 “Il rischio di attentati è sempre costante. Bisogna capire che combattere questi fenomeni non è una questione di forza, ma di intelligenza investigativa”. Era l’aprile del 2001 quando Giuseppe Battarino, allora pm a Busto Arsizio, chiuse la sua inchiesta su un gruppo di jihadisti di stanza nell’hinterland milanese. Quattro gli arresti, con ipotesi di reato come l’arruolamento di mercenari. Ancora non esisteva la legge sul terrorismo internazionale e gli investigatori si muovevano in un territorio ignoto fatto di legami sottili e indagini che si muovevano in più paesi. Poi, dopo l’11 settembre, lo scenario cambiò radicalmente, nacque il concetto di guerra al terrorismo e le cose, in Italia come nel resto del mondo, presero una piega molto diversa. Meno inchieste e più guerra, almeno dal punto di vista di quello che si vede tutti i giorni. Perché poi il lavoro di intelligence è sempre andato avanti in maniera costante lontano dai riflettori. Battarino, ha saputo dei due arresti per terrorismo a Milano? Sì, ho letto le notizie e noto che si fa un grande uso di una terminologia bellicista, diciamo: si parla di blitz, di operazione… In realtà dobbiamo dire che quello che è accaduto a Milano è l’esecuzione dell’ordinanza del Gip Fabrizio Filice, peraltro persona molto apprezzata e preparata. Bisogna fare attenzione a quelli che sono i fatti e distinguerli dalla loro rappresentazione mediatica. Dalla sua inchiesta sono passati oltre vent’anni. Eppure la sensazione è che il dibattito sul terrorismo sia sempre lo stesso. Non è cambiato niente? Progressivamente il terrorismo è diventato una questione geopolitica, che dunque non si può affrontare solo con gli strumenti giudiziari. Già nel 2001 sentivo negli investigatori statunitensi con i quali ci rapportavamo una sorta di necessità a raffigurare un nemico. Il che, però, con queste organizzazioni è molto difficile, perché hanno un carattere decisamente informale. Come andò nel 2001? L’elemento fondamentale fu il coordinamento europeo: lavoravano procure di cinque paesi diversi e, come ho detto, ci rapportavamo anche con gli Stati Uniti. Decisivo fu anche Giancarlo Caselli, che ai tempi dirigeva Eurojust. Devo dire che lui fu forse il primo ad accorgersi che si stava muovendo qualcosa e si mise a disposizione dando grande supporto a quell’indagine. Avevamo notato un certo numero di movimenti. Non c’era internet, dunque era tutto più difficile. Poi avevamo il problema di individuare un reato. Alla fine l’intuizione fu di ipotizzare il reclutamento di mercenari: questa tesi ha retto poi per tutti i gradi di giudizio. Ha visto che c’è stato anche un attentato a Bruxelles. Lei ha conosciuto bene gli investigatori belgi... È passato un po’ di tempo. Vent’anni fa erano molto sorpresi, adesso credo non lo siano più e che anzi siano molto preparati. E parlo anche al di là dell’ultimo attentato, un evento imprevedibile opera in sostanza di un cane sciolto. Però si fa un gran parlare di allarmi e, dicevamo, si usano toni da guerra per raccontare queste vicende... Credo che una critica alla narrazione vada fatta, in effetti. Nell’ultimo ventennio, in realtà, abbiamo avuto un lavoro di intelligence che è stato costante e utile. Enfatizzare le vicende giudiziarie è, al contrario, inutile: la prevenzione funziona quando non si vede. Il vero tema infatti non è l’occasionale intervento giudiziario, ma il costante lavoro di prevenzione che viene fatto. Che risvolti vede adesso? C’è tutto il discorso geopolitico che non possiamo ignorare e che può produrre singoli atti, singole azioni, singoli attentati. Questo rischio è costante. In questi giorni siamo tutti molto colpiti dagli attentati di Hamas, ed è normale che sia così, ma porre troppa enfasi qui è controproducente. Bisogna capire che combattere questi fenomeni non è una questione di forza, ma di intelligenza investigativa. La paura del terrorismo, delle rivolte e dei migranti lega le mani europee su Hamas di David Carretta Il Foglio, 18 ottobre 2023 I rischi interni spingono i leader dell’Ue a chiudere la bocca sul sostegno a Israele. Le critiche a von der Leyen per aver dato l’impressione di un “assegno in bianco” al governo di Netanhyau. I ventisette dicono: Israele ha il diritto di difendersi, ma nel rispetto del diritto internazionale. Quando sono iniziate a circolare le immagini dell’attentato terroristico a Bruxelles martedì, il primo riflesso dell’Unione europea è stato di collegarlo a Israele, Hamas e Gaza. Da giorni alcuni responsabili europei avvertono del rischio interno di un’escalation in medio oriente, in particolare se l’Ue dovesse essere vista dalla parte di Israele contro i palestinesi. Ursula von der Leyen è stata criticata per aver dato l’impressione di un “assegno in bianco” al governo di Benjamin Netanhyau. In un vertice in videoconferenza, i capi di stato e di governo hanno ricalibrato il messaggio: Israele ha il diritto di difendersi, ma nel rispetto del diritto internazionale. I rischi interni - terrorismo, rivolte nelle comunità musulmane in Europa, bomba migratoria - spingono i leader dell’Ue a legarsi le mani (e a chiudere la bocca) sul sostegno a Israele. Anche se la procura belga non esclude un legame con il medio oriente, l’attentatore di Bruxelles, Abdesalem Lassoued, non ha nulla a che fare con Hamas. La pista privilegiata è “la tesi del lupo solitario”. In un video dichiara la sua appartenenza all’Isis e di aver ucciso tre svedesi. In un altro video precedente aveva espresso la sua ira per l’assassinio di un bambino musulmano negli Stati Uniti. “Per il momento non c’è indicazione di una rete”, ha detto il ministro della Giustizia belga, Vincent Van Quickenborne: “Sembra che la Svezia sia stata presa di mira deliberatamente in ragione degli esemplari del corano bruciati”. Sul suo account Facebook, Lassoued aveva condiviso una serie di messaggi di solidarietà al popolo palestinese. Per questo la procura segue tutte le piste, compreso un collegamento con la situazione a Gaza. La sicurezza interna è la grande preoccupazione dell’Unione europea. “Tutti i paesi europei sono vulnerabili. C’è effettivamente un ritorno di questo terrorismo islamista”, ha avvertito il presidente francese, Emmanuel Macron. A Bruxelles c’è chi evoca “la più grave crisi” dagli attentati di Parigi e Bruxelles del 2015 e 2016. “La minaccia di terrorismo in Europa è aumentata”, conferma al Foglio un funzionario dell’Ue. Potenziali conflitti con le comunità musulmane in Europa sono un’altra seria preoccupazione. Francia e Germania hanno vietato le manifestazioni pro palestinesi. Il Belgio è in allarme non solo per la minaccia terroristica, ma anche per una potenziale reazione violenta dei giovani di alcune aree attorno a Bruxelles, Anversa o Liegi a forte presenza musulmana. La Commissione ha registrato un forte aumento degli atti di antisemitismo. Diversi leader hanno detto al presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, di voler parlare al vertice informale delle “difficoltà interne a cui sono confrontati”, spiega un diplomatico. “Non possiamo permetterci di avere le banlieue in fiamme”, dice una terza fonte dell’Ue: una linea troppo favorevole a Israele rischia di creare “polarizzazione e tensioni dentro ciascuno stato membro”. L’altra grande preoccupazione interna è il ripetersi di una crisi migratoria analoga a quella che travolse l’Ue nel 2015-16 a causa della guerra in Siria. “È un rischio enorme”, dice la terza fonte dell’Ue. Nei contatti con i diplomatici europei, Giordania, Libano ed Egitto hanno sottolineato di essere a un punto di rottura. “Sono preoccupati per la loro tenuta in caso di afflusso significativo di palestinesi nei loro paesi”, dice la terza fonte. “Non ci saranno rifugiati in Giordania e in Egitto”, ha avvertito il re giordano, Abdullah II, in conferenza stampa con il cancelliere tedesco, Olaf Scholz. Il timore dell’Ue è che l’onda lunga di un esodo da Gaza possa travolgere anche l’Europa, con un milione di palestinesi pronti a imboccare la strada verso il vecchio continente, magari spinti dall’Egitto che non vuole compromettere la sua stabilità o la sicurezza nel Sinai. Sulla posizione dell’Ue rispetto a Israele pesano altri fattori interni, come la necessità di evacuare da Gaza i cittadini europei o di liberare le decine di ostaggi con passaporto di uno stato membro detenuti da Hamas. Con le mani legate per i rischi interni, l’Ue spera di legare le mani a Israele. Michel ha chiesto di “evitare l’escalation e un disastro umanitario” e sottolineato che “tutte le parti devono rispettare il diritto internazionale”. Il commissario agli Aiuti umanitari, Janez Lenarcic, ha lanciato un appello a una sospensione umanitaria immediata delle ostilità a Gaza per evitare una catastrofe umana”. Fanatismi e giudizi offuscati impediscono un nuovo inizio di Maurizio Ferrera Corriere della Sera, 18 ottobre 2023 Perché il conflitto si trasformi da distruttivo a costruttivo è indispensabile che entrambe le parti tengano alla sopravvivenza fisica. Altrimenti, non c’è deterrenza che tenga. Una parte significativa dell’opinione pubblica occidentale (in particolare a sinistra) fa fatica a condannare senza se e senza ma l’eccidio di civili innocenti perpetrato da Hamas il 7 ottobre. I se e i ma riguardano sempre Israele, visto come inveterato oppressore del popolo palestinese, esso stesso colpevole di violenze gratuite contro la popolazione, incluse quelle in corso con i bombardamenti di Gaza City. Il ricorso al moralismo (soprattutto se sbrigativo) rischia sempre di offuscare i giudizi. I n questo caso, la logica della “bilancia” come strumento neutro per pesare le colpe trascura una differenza cruciale fra Hamas e Israele. Come tutti i fanatismi religiosi, la cultura politica di Hamas si fonda sulla totale svalutazione della persona come tale, della sua stessa esistenza individuale: ciò che conta è servire la causa. L’annientamento del nemico giustifica persino l’auto-sacrificio, come nel caso degli uomini-bomba, oppure l’uso della popolazione civile e degli ostaggi come scudi umani. Per Hamas la vita individuale (della propria parte e dell’altra) non ha alcun valore. I civili trucidati il 7 ottobre non erano persone ma solo yahud, membri indifferenziati di una comunità da distruggere e basta. Alla stessa logica rispondono i blocchi stradali che impediscono l’esodo di civili verso Sud, a difesa della propria vita. Se consideriamo questo aspetto, i crimini di Hamas appaiono come una variante di quella “banalità del male” descritta da Hanna Arendt in occasione del processo a Adolph Eichmann, l’ufficiale nazista che fu responsabile della macchina organizzativa dell’Olocausto. Chi perpetra il male, sostenne la grande filosofa politica, non lo fa necessariamente a causa di una natura individuale intrinsecamente malvagia, ma perché c’è qualcosa nella sua mente che impedisce di percepire l’atrocità delle sue azioni. Nel caso di Eichmann, si trattava del culto dell’obbedienza, dell’assenza di idee e immaginazione, uniti alla sfrenata sete di riconoscimenti. Nel caso di Hamas si tratta della assoluta incapacità di conciliare lo scopo collettivo (l’autodeterminazione palestinese all’interno di un proprio territorio) con il rispetto delle singole vite individuali. Questa incapacità altera la logica dello scontro politico, azzera ogni possibilità che il conflitto si trasformi da distruttivo (l’annientamento reciproco) a costruttivo (disponibilità a qualche compromesso per arrivare alla pace). Perché ciò possa avvenire è infatti indispensabile che entrambe le parti tengano alla sopravvivenza fisica. In modo che si possa così tracciare una linea rossa rispetto all’uso “assoluto” della violenza. Durante la Guerra Fredda fu proprio il timore di una “mutua distruzione assicurata” a prevenire l’impiego della bomba atomica. Se una parte rinuncia al desiderio di vivere, non c’è deterrenza che tenga. Il conflitto degenera in una spirale di demonizzazione e de-umanizzazione di chiunque - comprese donne, vecchi e bambini indifesi - faccia parte della comunità da annientare, senza alcuna considerazione della sofferenza inflitta alle singole persone né timore delle conseguenze. E silenziando qualsiasi pulsione empatica. Israele non è certo privo di responsabilità, la sua destra estrema vuole annettere la Cisgiordania. Il blocco dei beni di prima necessità agli abitanti di Gaza (per fortuna ora sospeso) ha tradito la tentazione di ricorrere a forme di punizione collettiva e indistinta, inammissibili per uno Stato liberaldemocratico. Va però sempre ricordato che Israele si trova di fronte a un nemico che celebra programmaticamente la morte, con cui non si riesce a imbastire una tregua durevole. In tale contesto, è molto difficile mantener saldo il confine tra l’efficacia dell’auto-difesa e la sua legittimità giuridica e morale. Vi è un evidente divario di forze fra Israele a Hamas. Ma vi è anche una asimmetria di vincoli politici. I leader israeliani, militari compresi, devono rispondere all’opinione pubblica e al vaglio della Corte Suprema, che in passato non ha esitato a condannare i casi di danni collaterali sproporzionati (come potrebbe essere il bombardamento dell’ospedale di Gaza che ha provocato centinaia di morti). Fra le offese subite ad opera dei terroristi e le scelte su come reagire si frappongono le dinamiche della politica democratica e del diritto. Hanna Arendt confidava nella possibilità che il ricambio generazionale potesse fermare le spirali distruttive e favorire un “nuovo inizio”, attraverso percorsi di riconciliazione basati sul binomio perdono-promessa. Il perdonare serve a trascendere il peso di un passato che non può essere cambiato e che pende come una spada di Damocle sulla testa di ogni nuova generazione. Il vincolarsi con delle promesse serve a contrastare “l’oceano di incertezza che caratterizza il futuro con delle isole di sicurezza, senza le quali non possono esservi relazioni costruttive fra le persone”. La normalizzazione dei rapporti fra Germania post-bellica e il nuovo Stato ebraico ha potuto avvenire grazie a questo binomio. Tale possibilità resterà invece preclusa al conflitto medio-orientale fino a quando il terrorismo di Hamas e la sua cultura della morte non cesseranno la loro presa sul popolo e in particolare sui giovani palestinesi.