Droghe, niente più carcere alla prima condanna di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 17 ottobre 2023 Andrea Delmastro: “Stiamo pensando a una grande misura per la rieducazione”. Evitare il carcere al tossicodipendente. Almeno alla prima condanna. Questo il progetto sul quale sta lavorando il ministero della Giustizia. Lo annuncia il sottosegretario Andrea Delmastro Delle Vedove: “stiamo pensando a una grande misura per i detenuti tossicodipendenti perché a casa mia la rieducazione del tossicodipendente comincia dalla disintossicazione. Abbiamo un terzo settore altamente preparato e capace. Probabilmente la prima condanna meritano di scontarla non all'interno di un istituto di pena ma di essere accompagnati nelle comunità terapeutiche e di recupero”. Se il progetto sia fondato su reali esigenze di rieducazione o su una sorta di privatizzazione della detenzione, come da prime critiche, si vedrà. Certo il tema droghe e carcere è centrale e i segnali del Governo sul punto appaiono almeno contraddittori, visto che è da un mese in vigore il cosiddetto decreto Caivano che, tra le misure, prevede un inasprimento delle sanzioni per l'ormai proverbiale articolo 73 del Testo unico sulle droghe, quello su produzione, detenzione e spaccio di stupefacenti. Sulla base dei dati diffusi nell'ultima edizione del libro Banco sulle droghe la violazione della normativa sugli stupefacenti continua a costituire il veicolo principale per l'ingresso in carcere: 9.961 dei 38.125 ingressi in carcere nel 2022 sono stati causati da infrazioni all'articolo 73 del Testo unico, si tratta del 26,1% degli ingressi. Sui 56.196 detenuti presenti in carcere al 31 dicembre 2022 ben 12.147 lo erano a causa di violazioni della medesima norma; altri 6.126 in associazione con l'articolo 74 (associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope). Si tratta del 34,3% del totale. Sostanzialmente il doppio della media europea (18%) e molto di più di quella mondiale (22%). Non migliore la situazione se invece si “circoscrive” il tema ai detenuti con problemi di dipendenza, al 31 dicembre 2022 erano presenti nelle carceri italiane 16.845 detenuti “certificati”, il 30% del totale (+10% sul 2021). Garante per l'infanzia: reclusione per minorenni, extrema ratio di Lorenzo Romeo La Discussione, 17 ottobre 2023 Il decreto Caivano può essere migliorato. Lo sostiene l'Autorità garante per l'infanzia e l'adolescenza Carla Garlatti intervenuta nell'iter di conversione con un parere indirizzato ai presidenti delle commissioni Affari costituzionali e Giustizia del Senato. L'esame del disegno di legge 878 di conversione del decreto 123/2023, sulle misure urgenti di contrasto al disagio giovanile e alla criminalità minorile dovrebbe arrivare in Aula al Senato dal 23 ottobre. Il termine per la presentazione di emendamenti è scaduto e si stanno svolgendo le audizioni in Commissione. La Garante, al fine di intercettare immediatamente casi di disagio o di devianza, chiede di comunicare al Tribunale dei minorenni tutti i casi in cui avviene la convocazione da parte del questore: “In questo modo si potrà intervenire tempestivamente sui segnali di disagio, anche nel caso di minorenni di 14 anni, per offrire un programma rieducativo ai ragazzi che manifestano segni di devianza. Ci sono comportamenti che, pur non essendo reati, possono rappresentare un campanello d'allarme: intercettarli per tempo consente di arrivare prima che essi si trasformino in condotte penalmente rilevanti”. Rischio passo indietro Quanto all'ampliamento dei casi in cui si può ricorrere alla misura del carcere in fase cautelare l'Autorità garante ha segnalato due criticità. La prima è che si sta imboccando una strada che fa fare un passo indietro rispetto a un sistema penale minorile che considera la reclusione dei minorenni come extrema ratio. La seconda criticità riguarda il sistema italiano: “La vera emergenza non è quella di prevedere un maggior ricorso al carcere - scrive Garlatti nel parere - ma quella di potenziare le strutture, sia carcerarie che comunitarie, per renderle luoghi di efficace e reale recupero dei minorenni. È necessario chiedersi, prima di tutto, quale debba essere il fine di un periodo di carcerazione, non limitarsi al mezzo”. Salute mentale dei giovanissimi “È inoltre fondamentale - prosegue Garlatti - prevedere il rafforzamento e la creazione delle comunità terapeutiche: la salute mentale degli adolescenti, soprattutto quelli appartenenti a contesti di marginalità e svantaggio sociale nonché quelli detenuti che spesso sviluppano una dipendenza agli psicofarmaci, è l'elefante nella stanza che le politiche pubbliche continuano a ignorare”. L'Autorità garante ha inoltre espresso perplessità rispetto alla previsione che esclude la possibilità di ricorrere alla misura della messa alla prova nelle fasi successive quando questa sia stata concessa in fase preliminare e abbia avuto esito negativo. “La possibilità di accedere alla messa alla prova deve essere garantita in ogni fase quando si ha a che fare con minorenni, perché questi potrebbero maturare la consapevolezza di quanto commesso in un momento successivo del procedimento: non si possono applicare automatismi”. Puntare su giustizia riparativa Sempre a proposito della presa di coscienza da parte del minorenne, l'Autorità garante ha rinnovato la richiesta di valorizzare la giustizia riparativa in ambito minorile. “È uno strumento prezioso, che incide positivamente sulla vita delle persone coinvolte, sul tasso di recidiva e si affianca alle risposte della giustizia tradizionale senza sostituirle.” Proposta pure la realizzazione in ogni tribunale per i minorenni di servizi di supporto e informazione delle vittime. “Inasprire il sistema sanzionatorio o aumentare gli strumenti di repressione non aiuta le vittime”, ha insistito la Garante. Sul tema della giustizia riparativa: “va chiarito che non è previsto uno sconto di pena, ma si tratta di uno strumento volontario che si affianca al procedimento giudiziario.” Infine, secondo Carla Garlatti, occorre investire in attività di sensibilizzazione e formazione dei genitori. “Prevedere la reclusione dei genitori che fanno evadere l'obbligo scolastico ai figli può avere effetti controproducenti: se tuttavia si intende mantenere tale sanzione, sarebbe quanto meno auspicabile che prima di applicarla si invitassero i genitori a seguire percorsi di sostegno.” Apprezzabile, invece, che siano previste un'adeguata preparazione per chi è responsabile della gestione degli strumenti di parental control e l'incentivazione dei centri per la famiglia. Esecuzione penale esterna: circolare del Ministero per la realizzazione di un’efficace agenzia di probation di Giulia Mentasti sistemapenale.it, 17 ottobre 2023 Il 5 ottobre 2023 il Dipartimento per la Giustizia minorile e di Comunità presso il Ministero della Giustizia ha diffuso una circolare - che può leggersi in allegato - in materia di esecuzione penale esterna e probation. La circolare, firmata dal Capo Dipartimento dott. Antonio Sangermano, muove dalla constatazione che il 2 ottobre 2023 hanno preso servizio presso gli Uffici territoriali di esecuzione penale esterna 29 dirigenti penitenziari e che ciò rappresenta la “più consistente iniezione di funzionari apicali da molti decenni a questa parte”. A fronte di questo nuovo assetto, si tracciano, dunque, nuove linee operative - rivolte agli Uffici interdistrettuali, distrettuali e locali di esecuzione penale esterna - volte a realizzare anche in Italia una moderna ed efficace agenzia di probation. Sulla spinta delle recenti modifiche normative in materia penale, le linee guida ministeriali si propongono di razionalizzare e organizzare i servizi dell’esecuzione penale esterna e i suoi ambiti di intervento. A tal fine la circolare individua quattro direttrici lungo le quali si snoderanno le attività (e le nuove metodologie) della Giustizia di Comunità. Un primo ambito di intervento del sistema di esecuzione penale esterna è sicuramente quello relativo al cd. ‘studio di fattibilità’, vale a dire la raccolta di tutti gli elementi che serviranno all’autorità giudiziaria per decidere in merito alla concedibilità delle misure e sanzioni di comunità. Quanto alle fonti di questa fase istruttoria, la circolare indica, in primis, la rilettura congiunta (dell’operatore insieme alla persona condannata) della “storia del fatto-reato rintracciabile nella motivazione del provvedimento giudiziario”; a questo dovrà, però, affiancarsi la conoscenza diretta della persona condannata, indispensabile per la valutazione prognostica in materia di recidiva, mediante (inedite) metodologie di risk assessment ricavate dai più recenti approdi delle scienze criminologiche; ancora, accanto ai tradizionali strumenti dell’istruttoria socio-familiare, dovrà trovare spazio la consultazione di “ogni fonte di informazione online liberamente disponibile” come profili pubblici dei social network e banche dati. Secondo la circolare, le informazioni raccolte in questa prima fase serviranno, oltre che per la decisione del giudice, anche per tracciare una scala di priorità e di consistenza degli interventi trattamentali da compiere, parametrati al rischio di recidiva stimato, alla gravità dei fatti di reato, alle caratteristiche individuali e ai fattori di rischio e di protezione del contesto familiare. Un secondo ambito di intervento viene individuato nella concreta progettazione di percorsi penali per le persone prese in carico, mirati stimolare e sostenere la acquisizione di consapevolezza rispetto al fatto-reato e, al contempo, a proporre occasioni e opportunità di riparazione. Sul punto la circolare sottolinea la ‘radicale innovatività’ rispetto al passato e la “valenza intrinsecamente (e potentemente) rieducativa dell’incontro della persona in esecuzione penale con la quotidiana normalità, pur con tutte le precauzioni e accortezze che un progetto educativo ben strutturato può e deve contenere”. Si mira, in altri termini, a superare il mero rapporto diadico tipico del colloquio tra operatore e utente in vista della costruzione di una “rete di occasioni, attività, incontri, restituzioni” tra il condannato e la comunità. La costruzione di vere e proprie ‘reti territoriali’ metterà a disposizione degli operatori ‘cataloghi di opportunità trattamentali’ fruibili nella comunità alle quali il condannato verrà indirizzato mediante un attento matching tra bisogni individuali, obiettivi e strumenti sanzionatori e trattamentali. Un terzo ambito di intervento ricomprende i compiti di verifica, controllo e sostegno nello svolgimento dei programmi di trattamento, con particolare attenzione alle esigenze di ricalibrazione dei contenuti. La circolare sottolinea la necessità di adottare in questa fase efficaci strumenti di monitoraggio e controllo, in grado di rilevare in tempo reale “le tappe percorse, le battute d’arresto subite, i gradi d’avanzamento e successi riportati”. In materia, per vero, si assiste a un radicale mutamento del contenuto del controllo: se tradizionalmente il monitoraggio riguardava obbligazioni negative (es. dovere di astenersi da azioni, frequentazioni, spazi…) ora il paradigma della giustizia di comunità introduce impegni di contenuto positivo - obbligazioni di facere - al servizio della collettività. Ne consegue che anche l'oggetto del monitoraggio e del controllo cambia: in via esemplificativa, si dovranno assumere dagli enti presso i quali le attività vengono svolte elementi ben più pregnanti della mera presenza fisica, indicativi, piuttosto, della “qualità dell’impegno, della capacità di sviluppare relazioni corrette e positive, lo sviluppo di un atteggiamento cooperante nella applicazione e nella condivisione delle regole esistenti nel luogo di inserimento”. Infine, un quarto e ultimo settore di intervento viene individuato nella restituzione alle autorità giudiziarie competenti di una completa e accurata valutazione - resa possibile dagli strumenti sopra indicati - del percorso compiuto e del rischio di recidiva. Se le linee operative tracciate dalla circolare chiariscono la (nuova) mission del sistema dell’esecuzione penale esterna e le sue metodologie, inevitabilmente - si legge nelle conclusioni - si renderanno necessarie “specifiche indicazioni relative al come realizzare al meglio il compito istituzionale” cui sono ora chiamati gli Uffici di esecuzione penale esterna, nonché una complessiva rivisitazione dell’operatività degli Uffici. Colloqui con i Garanti e accesso alle informazioni sulle persone detenute: le comunicazioni del Dap garantedetenutilazio.it, 17 ottobre 2023 Una circolare interpreta l'articolo 18 dell’Ordinamento penitenziario e dà indicazioni in merito all’accesso alla documentazione in possesso dell’amministrazione penitenziaria. I colloqui dei garanti territoriali con le persone detenute e la possibilità di accesso degli stessi alle informazioni in possesso dell’amministrazione penitenziaria sono oggetto di una circolare del 5 ottobre scorso del direttore generale dei detenuti e del trattamento del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), Gianfranco De Gesu, e di una missiva del Provveditore per il Lazio, l’Abruzzo e il Molise, Maurizio Veneziano, indirizzata ai Garanti regionali delle tre regioni di sua competenza. Nel ripercorrere l’iter normativo che ha caratterizzato l’articolo 18 dell’Ordinamento penitenziario, si chiarisce innanzi tutto che nella parola “garante” “dovevano intendersi ricomprese tutte le tipologie di garante, dal momento che, quando venne emanata la norma, il Garante nazionale non era stato ancora istituito”. Ad avviso del Dap, scrive il Provveditore Veneziano ai Garanti regionali, “deve ritenersi che i garanti locali possano avere colloqui con i detenuti, secondo le modalità di cui all’art. 18 O.P. (controlli solo visivi), senza far rientrare detti colloqui nel numero dei colloqui destinati ai familiari e senza alcuna autorizzazione. Tanto vale non solo per i detenuti condannati, ma anche per gli imputati sottoposti alla misura cautelare della custodia cautelare in carcere”. Inoltre, “deve ritenersi che la disciplina di cui all’art. 18 O, P., come interpretata a livello giurisprudenziale, debba trovare applicazione a tutti i garanti locali e a tutti i detenuti”. Discorso diverso, invece, sembra valere ove sia stato disposto l’isolamento dall’autorità giudiziaria per ragioni di cautela processuale. In tal caso, i colloqui con i detenuti potranno avere luogo esclusivamente se preventivamente autorizzati. In merito alle richieste di accesso alle informazioni ovvero di accesso agli atti da parte dei Garanti, “sarà compito dell’istituto verificare che vi sia - o meno - un nesso di pertinenzialità tra la funzione di vigilanza, cui il Garante richiedente è normativamente preposto, ed il contenuto del singolo documento di cui si chiede copia o della singola informazione e/o l’atto per il quale venga formulata istanza di accesso risultino effettivamente e concretamente necessari al Garante richiedente per l’esercizio dei poteri che l’ordinamento gli riconosce”. Prescrizione, accordo nella maggioranza di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 17 ottobre 2023 Sospensione di 18 mesi dopo la condanna ricevuta in primo grado. La maggioranza trova l'intesa sulla riforma della prescrizione. E, accantonata l'ipotesi assai più controversa di un blocco dei termini dopo la pronuncia di appello, ripropone una versione, leggermente rivista di quanto previsto (era una delle due ipotesi formulate, nessuna delle due peraltro accolta) dalla commissione Lattanzi, insediata dall'allora ministra della Giustizia Marta Cartabia. Alla scadenza (ieri sera alle 20) del termine per la presentazione degli emendamenti alla Camera si materializza la proposta che mette d'accordo tutti con un testo firmato dai capigruppo delle forze di coalizione, Carolina Varchi (Fratelli d'Italia), Ingrid Bisa (Lega) e Pietro Pittalis (Forza Italia). Nel dettaglio, il corso della prescrizione, dopo una sentenza di condanna di primo grado, rimane sospeso per un tempo non superiore a 18 mesi (erano due anni per la commissione Lattanzi). Viene inoltre previsto che i termini, dopo la sentenza di appello che conferma la condanna di primo grado, rimangono sospesi per un tempo non superiore a un anno. In nessun caso l'interruzione della prescrizione può comportare l'aumento di più della metà del tempo necessario a prescrivere. Accordo anche sul principio, indirizzato ad accelerare la redazione delle motivazioni da parte dell'autorità giudiziaria, secondo il quale “quando il deposito della motivazione non sopravviene prima della scadenza del termine della sospensione, cessano gli effetti di questa, la prescrizione riprende il suo corso e il periodo di sospensione è computato ai fini della determinazione del tempo necessario a prescrivere”. L'intesa rappresenta nei fatti il superamento del sistema attuale, frutto di un faticoso compromesso raggiunto dall'allora composita maggioranza che sorreggeva il governo Draghi, centrato sull'equilibrio tra interruzione della prescrizione dopo il primo grado, eredità della riforma Bonafede, e improcedibilità in caso di mancato rispetto dei termini di fase in appello e Cassazione. Pittalis sottolinea come il ritorno alla prescrizione sostanziale permette di superare gli effetti distorsivi della riforma Bonafede e di accantonare l'improcedibilità. Quei magistrati che escono dalle aule di giustizia feriscono la nostra Costituzione di Giuseppe Gargani Il Dubbio, 17 ottobre 2023 La decisione del giudice di Catania di non convalidare il “trattenimento” di alcuni migranti previsto dal decreto legge del governo, ha scatenato polemiche molto mediocri. La decisione del giudice di Catania di non convalidare il “trattenimento” di alcuni migranti previsto dal decreto legge del governo, ha scatenato polemiche molto mediocri e non appropriate, ma ha evidenziato una problematica che è sotto traccia da vari anni e che deve finalmente essere messa in evidenza: il ruolo del magistrato e del giudice in una democrazia “avanzata” come la nostra Naturalmente abbiamo già dato solidarietà al giudice per il provvedimento che è stato valutato corretto dalla migliore cultura giuridica e costituzionale, per una elementare (non sofisticata) incostituzionalità e per una evidente e palese irrazionalità. Aspettiamo comunque la decisione della Cassazione. Aggiungiamo che i vari interventi che vi sono stati anche da parte di singoli magistrati, le prese di posizione del Congresso della corrente di Magistratura Democratica e per ultimo la presa di posizione di un magistrato di talento come Armando Spataro, ci riportano ad una problematica che non possiamo più ignorare. La Costituzione stabilisce che la magistratura è un “ordine autonomo” ed è soggetta solo alla legge, ma l’evoluzione del diritto, le nuove libertà, le nuove conquiste sociali, l’evoluzione della tecnica, in una parola il progresso della civiltà, hanno reso inadeguata qualunque decisione o qualunque dichiarazione che non tenga conto di questa complessa problematica: di qui i contrasti. Bisogna riconoscere che la interpretazione delle norme da parte della magistratura lungo gli anni ha prevalso sul dettato formale della norma stessa sempre più incerto o a volte improbabile, determinando una prevalenza della giurisprudenza sulla legislazione e quindi sulla politica. Soffriamo da vari anni questa contraddizione non avvertita dai partiti per il passato, o sottovaluta, sulla quale il Parlamento, gli attuali movimenti politici nel loro insieme, non sono in grado di offrire soluzioni. La diagnosi è questa e la terapia è difficile da trovare perché anche la cultura giuridica dominante trascura qualunque approfondimento. L’ostacolo ulteriore è nel corpo della magistratura che da anni rifiuta qualunque confronto e qualunque riforma perché chiusa nella sua autonomia e nel suo “potere”. Il ruolo diverso del giudice, e non solo in Italia, è una realtà della quale bisogna prendere atto e il legislatore ha il dovere di disciplinarlo. L’ “autonomia” prevista dalla Costituzione metteva al riparo la magistratura da ingerenze esterne, ed era importante in quegli anni perché i costituenti risentivano dell’esperienza fascista, e volevano “proteggere” la magistratura dalle ingerenze degli altri poteri. Ora però, dopo la lunga esperienza democratica del dopoguerra, quella autonomia determina separatezza e irresponsabilità e mette in ombra l’indipendenza, perché determina una autorefenzialità e una chiusura della categoria. La quale ha un unico riferimento nel CSM che interpreta impropriamente come “organo di autogoverno” per “proteggere” appunto la sua “autonomia” senza coordinamento istituzionale. La indipendenza non è irresponsabilità, e una esasperata “autonomia” porta alla chiusura e alla “casta” incontrollata. Tutto questo determina uno scontro con gli altri poteri che ormai dura da anni e si è fortemente acuito con la dichiarazione del Presidente del Consiglio, (che in verità non ha precedenti), che attribuisce alla decisione del giudice la responsabilità di non garantire la legalità statuita dalle leggi fatte da una maggioranza eletta dal popolo. Dall’altra parte la magistratura da anni dichiara di accettare fino in fondo il ruolo di supplenza e anzi di aver consapevolezza della delega del legislatore e di attuarla fino in fondo. Il magistrato Colombo negli anni 70, ha scritto a chiare lettere che “è stata devoluta alla magistratura una serie di compiti che non sono suoi propri e che investono più la funzione politica che non quella giurisdizionale. Ciò ha portato necessariamente l’ordine giudiziario, ad invadere sfere di intervento istituzionale riservate ad altri, e succede che spesso l’unica attività di controllo sia rappresentata dal controllo giudiziario, che si trasforma in controllo politico nella misura in cui ha come conseguenza di incidere sulla vita politica dello Stato”. Qualche settimana fa il direttore di Questione Giustizia, ha scritto “in molti casi della vita sociale ed economica, è il giudiziario ad intervenire in esclusiva, nella ricerca di soluzione di problemi inediti talora incancreniti nella paralisi e dall’inerzia della politica… e quindi c’è bisogno di una magistratura che assolva un incisivo ruolo di garanzia dei diritti individuali e della dignità delle persone”. Al convegno di magistratura democratica è stato votato un ordine del giorno che propone: “Dobbiamo uscire dalle aule dei tribunali e partecipare al dibattito pubblico per spiegare ai cittadini che il drastico ridimensionamento del controllo giudiziario prima di ogni altra cosa colpisce l'effettività dei loro diritti, coinvolgendo nella riflessione e nella critica le voci politiche, sociali e culturali che sono più affezionate al bilanciamento tra i poteri garantito dalla Costituzione, ma anche l’avvocatura ed il personale amministrativo, che con noi partecipano alla costruzione della giurisdizione”. Qualche giorno fa Spataro ha scritto che: “l’esporsi pubblicamente è possibile se collegato ai temi propri della giustizia, di qui lo schierarsi di tanti magistrati negli ultimi decenni in difesa di principi costituzionali su cui si regge ogni democrazia e dei diritti dei più deboli”. C’è una linea comune in queste dichiarazioni che attribuisce una funzione alla magistratura fuori dalle aule della giustizia e che è in contrasto con il buonsenso e con la Costituzione scritta, ma anche con la Costituzione materiale. I magistrati dunque pretendono di “lottare” per i diritti e la lotta è sempre “politica” e porta inevitabilmente parzialità e in questo caso irresponsabilità. Mi viene da rilevare che ci si scandalizza del giudice che partecipa ad una manifestazione a Catania e non ci si lamenta del convegno politico di magistratura democratica a Palermo al quale hanno partecipato due segretari di partito scelti naturalmente per ragioni politiche. Come non rendersi conto di questo?! Se si deve riformare il ruolo del magistrato e adeguarlo ai tempi si deve collegare la sua indipendenza alla responsabilità. Il costituzionalismo moderno non può non porsi questo problema, che riconosco è molto arduo e complesso, ma è un problema della democrazia che ha bisogno di essere risolto. Le riforme da approvare sono di ordine costituzionale e riguardano un rapporto equilibrato tra laici e togati nel CSM con riferimento diverso ai pubblici ministeri e ai giudici. Una distinzione costituzionale dei due diversi “mestieri”, che costituisce il presupposto per un corretto rapporto all’interno della magistratura, e tra i magistrati e le istituzioni, è fondamentale perché coerente alla natura del processo: i mestieri sono diversi, come ci ha detto ripetutamente un magistrato di grande livello come Falcone. Di conseguenza l’azione penale che inizia attualmente con assoluta discrezionalità del singolo pm e costituisce una assoluta eccezione rispetto agli ordinamenti giudiziari dei paesi democratici, deve essere disciplinata in maniera diversa. Questi punti costituiscono il presupposto per altri interventi che ne derivano di conseguenza come quelli che il Ministro della Giustizia ha presentato o presenterà in Parlamento. È necessario e urgente trovare un’intesa con i magistrati consapevoli di questa problematica che sia capace di allontanare la rissa e la polemica sempre interessata e faziosa e riporti tutto sul piano istituzionale, perché l’equilibrio dei poteri è la condizione per la democrazia. “Je suis Apostolico”: se la politica chiede le sue dimissioni, allora sì che viene oltraggiata la Costituzione di Rosario Russo* Il Dubbio, 17 ottobre 2023 Anno domini 2018, 20 agosto. Al porto di Catania approda la nave militare Diciotti con circa 190 naufraghi. L’on. Salvini, allora Ministro dell’Interno, ne consente lo sbarco soltanto il 26 agosto, perché si arroga il diritto di utilizzare l’illegittima ‘ detenzione’ d’inermi naufraghi, per costringere altri renitenti paesi europei a prendersi carico di essi ovvero a partecipare alla loro doverosa accoglienza: una situazione così surreale che soltanto l’”Urlo di E. Munch” può esprimere adeguatamente. Si muovono infatti anche le organizzazioni ecclesiastiche e umanitarie, attuando a Catania pubbliche manifestazioni di forte dissenso. Ad una di esse presenzia il 25 agosto la dott.ssa Iolanda Apostolico, allora giudice del Tribunale etneo, essendo addetta al settore penale. Il resto è noto. Il 7 dicembre 2015 il Tribunale dei Ministri di Catania addebita all’on. Salvini il reato di sequestro aggravato di persone, ma il Senato nega l’autorizzazione a procedere. Dopo oltre cinque anni, a rievocare questa vicenda, omettendo tuttavia l’essenziale, è stato soprattutto proprio l’on. Salvini, seguito dalla Presidente del Consiglio e dal Ministro della Giustizia, sol per chiedere - con vari accenti - le dimissioni della dott.ssa Apostolico, “colpevole” di avere emesso un provvedimento in tema di emigrazione inviso al Governo, nonostante la sua remota partecipazione alla ricordata manifestazione pubblica, che le avrebbe dovuto imporre l’astensione. Il rispetto dovuto al lettore impone di tralasciare che, secondo un acuto osservatore, una foto immortala inoltre “la magistrata rossa a bordo di un motorino guidato dal marito ma senza casco”! Ciò premesso, calculemus (ragioniamo) avrebbe detto G.W. Leibnitz, giurista e matematico razionalista. La decisione della Apostolico è giuridicamente corretta? Non v’è che un modo per saperlo. No problem. Basta impugnarla, fermo restando che è sempre ammessa la critica di qualunque decisione giudiziaria, nella specie significativamente insussistente, puntandosi tout court alle dimissioni dell’estensore! Presupponendo che l’Apostolico si ricordasse della propria partecipazione alla manifestazione pubblica di oltre cinque anni prima, ella, ora addetta ad altro servizio, si doveva astenere? No problem. Il caso non rientra in alcuna delle ipotesi previste dall’art. 51 c. p. c. né risulta proposta istanza di ricusazione. Per altro, un conto è la protesta pubblica - cui ha partecipato l’Apostolico nel 2018 - contro l’on. Salvini per avere sequestrato (come riconosciuto dal Tribunale dei Ministri etneo) decine e decine di naufraghi, altro e tutto diverso conto è decidere se sia legittimo il trattenimento, disposto dal Questore, di un immigrato proveniente dalla Tunisia. E come si spiegano allora analoghi provvedimenti emessi nella stessa materia da altri magistrati, etnei e non, rimasti del tutto estranei alla manifestazione di protesta del 2018 cui partecipò la dott. ssa Apostolico? Contagio virale? Difesa corporativa suicida? E, infine, ella avrebbe dovuto astenersi dal partecipare nel 2018 alla manifestazione pubblica indetta per contrastare il sequestro addebitato dal Tribunale dei Ministri all’on. Salvini? Certamente no. Mentre il regime fascista prevedeva per tutti i dipendenti pubblici l’iscrizione al Partito Nazionale Fascista, l’art. 3, lett. h) del D. lgs. n. 109 del 2006 (riforma del leghista R. Castelli, Ministro della Giustizia nei governi Berlusconi) contempla come illecito disciplinare del magistrato ordinario “l’iscrizione o la partecipazione sistematica e continuativa a partiti politici”. A quale partito si sarebbe iscritta la dott. ssa Apostolico? A quale partito avrebbe ella partecipato sistematicamente e continuativamente? In quanto civis, non aveva ella il diritto di esprimere pubblicamente il proprio dissenso rispetto all’indebito rifiuto del Ministro Salvini di fare sbarcare i naufraghi, ai sensi degli artt. 17 e 21 Cost.? Lo nega il ministro Nordio con un eccentrico ossimoro giuridico: “poteva ma non doveva”, impreziosito dalla sua versione inglese (Yes, you can. But you may not), che si muove su ben altro piano filologico, e dal confronto (ictu oculi improprio) del giudice continentale con il giurato popolare inglese. Ai lettori, forgiati dalle manzoniane ‘ grida’, non sfugge tuttavia il giudizio espresso dal colto Ministro: “I limiti di un magistrato sono ormai fissati da varie pronunce della Giurisprudenza, ma soprattutto dalla deontologia e dal buon senso. Più manifesta le sue idee politiche, più vulnera la presunzione di imparzialità”. E allora il dado è tratto. Lei, signor Ministro, è di certo uomo d’onore. Non può che essere perciò consequenziale: avvalendosi delle proprie prerogative (art. 107, 2° Cost.), e non essendo necessari ulteriori accertamenti (quali?), promuova subito l’azione disciplinare nei confronti della dott.ssa Apostolico, confrontandosi con la sentenza n. 36/ 2004 del C. S. M., con le sentenze nn. 224/ 2009 e 170/ 2018 della Corte Costituzionale nonché con la dottrina più avveduta (Sergio Di Amato, già Direttore generale della Direzione generale del Ministero della Giustizia, La responsabilità disciplinare dei magistrati, Milano, 2013, pag. 356 e segg.). Sarebbe certamente grave che un magistrato ordinario, la dott. ssa Apostolico, avesse invaso la sfera politica, come immotivatamente sostiene il Governo chiedendone impropriamente le dimissioni, ma è ancor più grave e antidemocratico che i magistrati restino intimoriti da campagne di stampa volte a delegittimare pesantemente e pubblicamente le loro decisioni e a penetrare nel recinto della loro vita privata. É previsto il rimedio. È sufficiente attivarlo per tempo, invocando il giudizio del C.S.M. Per completezza tocca aggiungere che il 14 febbraio 2016, nel corso di un’affollata riunione di partito (mandata in onda dal TG1), l’Onorevole Salvini proclamò: “Qualcuno usa gli stronzi che mal amministrano la giustizia. Difenderò qualunque leghista che venga indagato da quella schifezza che è la magistratura italiana che è un cancro da estirpare”. Il Giudice competente dichiarò non punibile tale condotta dell’on. Salvini, imputato del reato di vilipendio dell’ordine giudiziario, ravvisando che il reato, pur oggettivamente acclarato, era di scarsissima intensità offensiva! Ebbene, nessun giudice ha chiesto - e potrebbe legittimamente chiedere - le dimissioni dell’on Salvini semplicemente perché la teoria politico- costituzionale della separazione dei poteri, affermata dalla Costituzione dopo il ventennio fascista, glielo rigorosamente vieta. A maggior ragione l’on. Salvini non può legittimamente pretendere le dimissioni della dott.ssa Apostolico, non raggiunta da alcuna condanna. E chiedendole abusa della propria funzione, violentando la Costituzione. Je suis Iolanda Apostolico. *Già Sostituto Procuratore Generale presso la Suprema Corte di Cassazione Se il giudice giudica la legge di Giovanni Verde Corriere del Mezzogiorno, 17 ottobre 2023 Il provvedimento del magistrato coinvolge il nostro sistema democratico e diverse questioni giudiriche. Ed è bene interessarsi di diritto quando vi è coinvolto il nostro sistema democratico. Nella vicenda del giudice di Catania è in atto una sorta di “depistaggio” concettuale. È, infatti, indubbio che il provvedimento catanese ha alla base una precisa scelta ideologica. Non possiamo, però, impedire al magistrato di avere una sua ideologia. Si afferma, tuttavia, che il magistrato non la può esternare perché diversamente “appare” non imparziale. Le cose cambiano se mantiene un rigoroso riserbo, ma poi provvede in coerenza con la sua Weltanschauung? A quale civiltà apparterremmo se accettassimo l’idea che i provvedimenti del giudice vanno valutati non in base alle motivazioni che ne sono a base, ma in funzione delle sue personali scelte di vita? Chi pensa che questa è la soluzione corretta è pericolosamente vicino a quei sistemi (e ce ne sono tanti) nei quali i giudici sono longa manus del potere. Occuparsi di diritto significa tenersi alla larga dell’approssimazione che, da quando abbiamo abolito il merito e la selezione su basi meritocratiche, è divenuta una costante, che si è insinuata nel nostro Dna. E per abbandonare l’approssimazione si rende necessario chiarire che il provvedimento da cui è montata la polemica (non ho letto gli altri, ma credo che non siano dissimili) nulla ha a che vedere con il dl n. 24 del 2023 convertito in legge n. 50 del 2023 (che si occupa del fenomeno migratorio, ma non innova alle disposizioni in vigore sul trattenimento) o con il decreto ministeriale 14 settembre 2023 (che stabilisce la possibilità che il richiedente protezione presti una garanzia finanziaria alternativa rapportata ai costi di alloggio e sussistenza e alle spese di rimpatrio, stabilendo, con una statuizione illegittima e come tale disapplicabile, che la garanzia non può essere versata da terzi). Non è un caso, infatti, che il provvedimento del giudice catanese del primo non parli e accenni al secondo come un “obiter” irrilevante. Quindi, ripeto: si cade nell’approssimazione quando si dice che il “decreto” Curto è stato disapplicato. La questione è altra. Il giudice catanese ritiene di dovere fare applicazione diretta dell’art. 13 Cost. secondo il quale la libertà personale è inviolabile. Di conseguenza, interpreta le (altre) disposizioni di legge in vigore (che sono le direttive comunitarie e i provvedimenti legislativi, che ho illustrati in un mio precedente intervento) nel senso che essi non legittimano la pretesa dello Stato di trattenere coattivamente i richiedenti. Le direttive e le leggi, tuttavia, riconoscono che lo Stato possa “trattenere” chi chiede protezione nei tempi necessari per stabilire se la sua richiesta può essere accolta perché ne sussistono i presupposti o se ci sono ragioni ostative all’accoglimento (le direttive indicano in quattro settimane il tempo sufficiente a tal fine). Nel procedere a tale “interpretazione” il giudice ritiene che il “valore” presidiato dalla norma costituzionale sia prevalente e assorbente e che la libertà sia un valore non condizionabile. È questo un punto nevralgico che pone la nostra democrazia su di un crinale pericoloso. Infatti, in questo modo il giudice che, per Costituzione, è soggetto alla legge, diventa giudice “della” legge. Che ciò accada non è del tutto negativo. Abbiamo il ricordo delle leggi razziali e, quindi, sappiamo che le leggi possono essere ingiuste e ringraziamo il Cielo di vivere in un Paese nel quale non si è mandati a languire in carceri sperdute per avere espresso opinioni contrarie al regime o per avere, come donna, fatto vedere in pubblico la propria capigliatura. E dobbiamo ringraziare il Cielo se oggi i nostri giudici possono risolvere i conflitti sociali o individuali tenendo in conto i “valori”, che, quando corrispondono a diritti fondamentali, la nostra Costituzione semplicemente “dichiara”. Il problema, tuttavia, sta nei “limiti”, per rispettare i quali i giudici sono tenuti ad adoperare con prudenza i “valori”. Fu questa la ragione per la quale la Costituzione scrisse che essi sono soggetti alla “legge”, la quale stabilisce il confine tra il potere giudiziario e gli altri poteri: un confine liquido, ma proprio perché tale da osservare con estrema cura. La Costituzione ciò fece perché era consapevole che i giudici, che esercitano la loro funzione “in nome del popolo”, non hanno investitura popolare, ma trovano in sé stessi la loro legittimazione. E i Costituenti inserirono, proprio per fare sì che i confini fossero (nei limiti del possibile) rispettati, un giudice delle leggi, quale è la Corte costituzionale. Di conseguenza, quando i giudici usano lo strumento dell’interpretazione per sindacare una legge, a loro avviso ingiusta, si muovono nel campo minato in cui rischiano di essere non già attuatori della legge, ma responsabili di decisioni di governo, così creando il conflitto istituzionale. E corrono il rischio di una progressiva loro delegittimazione e, nel tempo attuale di subdolo e sotterraneo autoritarismo, di leggi, appoggiate dal consenso popolare, tese a limitare il loro potere. Dovrebbero chiedersi, infatti, se il popolo, nel cui nome esercitano la funzione, sono favorevoli all’idea che non si possa regolare l’affluenza dei flussi migratori, neppure per il tempo necessario per accertare se il richiedente ha diritto alla protezione. Ed è presumibile che il popolo, a larga maggioranza, lo riterrebbe necessario, così non condividendo il loro modo (incondizionato) di interpretare il diritto di libertà. Altra e diversa - oso sperare - sarebbe la risposta se si chiedesse al cittadino se siano ragionevoli i tempi di durata del “trattenimento” necessario al fine di valutare la meritevolezza del richiedente. Ma al riguardo i nostri giudici hanno ragione e hanno già bocciato la nostra (inaccettabile) burocrazia e i suoi tempi. Napoli. Reinserimento dopo il carcere per sottrarre terreno ai clan di Antonio Mattone Il Mattino, 17 ottobre 2023 Il carcere è, nell’accezione comune, unicamente il luogo dove relegare coloro che commettono crimini per evitare che possano nuocere ancora. Chi come me frequenta questo mondo, spesso sente porre una domanda: “esiste un carcere che dopo un percorso di revisione personale riesca a strappare i giovani alle maglie della criminalità e possa così restituire alla società persone libere e responsabili?” La risposta è quasi sempre caratterizzata da una vena di rassegnazione e pessimismo, soprattutto dopo i fatti gravi accaduti a Napoli nei mesi scorsi. Nel momento in cui si invocano pene esemplari fino all’ergastolo anche per i giovanissimi, non sembra che ci possa essere spazio per nessuna possibilità di recupero, anche se un domani dovessero maturare significativi segni di ravvedimento. Il protocollo d’intesa siglato ieri tra il Parco archeologico di Pompei, il Tribunale di sorveglianza di Napoli, il carcere di Poggioreale e il Garante regionale delle persone private della libertà personale, con cui si prevede di occupare alcuni detenuti, appare invece come un segnale in controtendenza. Attraverso lavori socialmente utili i beneficiari di questo progetto si occuperanno della pulizia del sito archeologico, della manutenzione delle insulae, di giardinaggio fino alla raccolta dell’uva nei vigneti ubicati all’interno del Parco. In questo modo per quasi tutta la giornata potranno essere a contatto con un mondo diverso da quello solito con cui si confrontano all’interno delle celle. E soprattutto, potranno acquisire quelle competenze che torneranno utili una volta espiata la pena. Accanto alla formazione necessaria, mi sembra ancor più importante la presa in carico dei detenuti che li orienti nel percorso di revisione personale, nel sostenere la motivazione al cambiamento, nel comprendere la situazione familiare che tante volte si rivela piena di tensioni e complessità. Insomma si tratta di accompagnare in modo fattivo ed efficace chi ha percorso strade illegali, ma adesso vuole mettersi in gioco sfruttando questa opportunità. Nell’esperienza maturata all’interno delle carceri ho compreso come la motivazione personale valga di più dell’avere un’occupazione. Il lavoro è una condizione necessaria ma non sufficiente per evitare la recidiva. Ho visto persone che una volta uscite, pur avendo un’attività che gli dava da mangiare, sono tornate in carcere. Viceversa c’è stato chi, pur non passandosela bene, è riuscito a resistere e a superare momenti difficili, mantenendo fermo il proposito di non tornare più dietro le sbarre. Dobbiamo ammettere però che abbiamo visto troppi fallimenti di iniziative lanciate in pompa magna, che poi si sono dissolte come neve al sole. Ho conosciuto detenuti che pur facendo bellissime esperienze si sono poi persi proprio durante questi percorsi d’eccellenza. E poi la formazione il più delle volte resta fine a se stessa e non produce nessun risultato per i destinatari. Per accompagnare un processo di cambiamento, fondamentale è il rapporto tra mondo esterno al carcere e gli operatori penitenziari, soprattutto se questi ultimi abbandonano quell’atteggiamento di autoreferenzialità che di tanto in tanto caratterizza la loro azione. La collaborazione può creare sinergie inaspettate. Dopotutto, iniziative come quella di Pompei, nascono dalla sensibilità di persone propositive come Gabriel Zuchtriegel. Il direttore del Parco archeologico di Pompei, che ha già realizzato altri progetti per la valorizzazione sociale del sito, come gli orti sociali con cui ha avvicinato al lavoro e al patrimonio culturale dei ragazzi con problemi di autismo, è un esempio dell’apporto proficuo della società civile. Altre proposte si possono moltiplicare e in parte già sono avviate anche in altri penitenziari della Campania. Nonostante le tante criticità del carcere non ci si può rassegnare al pessimismo. Lo sappiamo, i problemi sono tanti e sempre gli stessi: il sovraffollamento, i suicidi, la carenza cronica di personale, la difficoltà di curarsi e potremo continuare. Ci sarebbe bisogno di un carcere diverso, perché non è la galera dura e disumana a suscitare il desiderio di cambiare vita. A noi resta la responsabilità di non arrenderci e di essere quel tramite che faciliti percorsi di inclusione e di riscatto. Mi vengono alla mente i tanti ragazzi che con fatica e sacrifici, ma con grande dignità, hanno ripreso a vivere in modo onesto, dimostrando che cambiare è possibile. Anche in un tempo difficile come questo. Busto Arsizio. Un lavoro onesto dopo il carcere, le storie di chi ce l’ha fatta di Santina Buscemi varesenews.it, 17 ottobre 2023 Alcune delle storie di ex detenuti che hanno trovato lavoro grazie alla cooperativa La Valle di Ezechiele, che aiuta chi ha sbagliato a scegliere una nuova vita. Se si parla di reinserimento lavorativo di ex detenuti spesso l’opinione pubblica si divide: da una parte, chi vede questa possibilità come un’opzione percorribile, capace di influenzare positivamente non solo la vita di chi ha sbagliato in passato, ma l’intera società. Dall’altra parte, tanti sono coloro che demonizzano queste storie, invocando carcere duro a priori per chiunque arrivi in una prigione. Nel nostro territorio, nel verde della valle Olona, esiste una realtà che propone ogni giorno, concretamente, esempi di riscatto di uomini e donne che hanno conosciuto la detenzione. La Valle di Ezechiele, questo il nome della cooperativa, offre lavoro a ex detenuti e a persone che stanno ancora pagando il loro debito con la giustizia. È grazie a loro, direttamente o come intermediari, che ci sono storie di rinascita. Un impegno che ha ricevuto anche i complimenti di don Antonio Mazzi, intervenuto la scorsa primavera in valle Olona. Le storie di chi ha scelto una nuova vita - Storie come quelle di Luis, che ha lavorato in cooperativa grazie alla collaborazione con la Fondazione Oratori Milanesi per la distribuzione delle magliette degli oratori estivi e ora è stato assunto nella Fonderia Caprioli, di Fagnano Olona. Storie di riscatto come quella di Cosimo, che lavora alla Calloni Tex di Arconate a fare i sacchi in juta per i cesti di Natale proposti dalla cooperativa, assunto a tempo indeterminato e ora con un ruolo di responsabilità, nella produzione. Ci sono le aziende che hanno scelto di dare fiducia, come la Frigerio Viaggi, che ha preso a lavoro una persona in detenzione domiciliare, all’Acquatica Park di Milano, con un risultato così soddisfacente, che ora sta facendo di tutto per assumerlo nella manutenzione, durante il periodo invernale. Oppure il birrificio The Wall, che ha preso a lavoro Antonio, da cui il nome della prima ‘Prison Beer: la birra che detiene la bontà‘; marchio brassicolo de La Valle di Ezechiele. Di questi esempi di integrazione si è parlato a fine settembre, durante una Charity Dinner, organizzata da don David Maria Riboldi - fondatore della cooperativa e cappellano del carcere di Busto Arsizio - alla presenza di personalità del settore politico e giuridico come l’onorevole Maria Chiara Gadda, il prefetto Salvatore Pasquariello, il Presidente della Camera di Commercio di Varese Mauro Vitiello e la neo eletta Presidente de ‘La Valle di Ezechiele’, Anna Bonanomi. Scopo della serata, quello di raccogliere fondi per la cooperativa e soprattutto promuovere le sue attività. Fra esse, i cesti di Natale, che di anno in anno stanno vedendo crescere il numero di prenotazioni, raddoppiate nel corso del tempo: cesti preparati nella cooperativa fagnanese, contenenti prodotti di altre cooperative carcerarie o di aziende che hanno preso a lavoro almeno una persona detenuta. Uno strumento che tante persone in valle Olona - ma non solo - scelgono per poter sostenere le attività del gruppo. Il temine ultimo per la prenotazione è il prossimo 31 ottobre. Monza. Ostellari: “Lavoro sì, svuota-carceri no. Rimetteremo a nuovo questa Casa circondariale” di Dario Crippa Il Giorno, 17 ottobre 2023 “No ai decreti svuota-carceri. Meglio portare il lavoro in carcere”. Questa in sintesi la ricetta del senatore leghista Andrea Ostellari. Ieri per la prima volta un sottosegretario alla Giustizia, con delega al Trattamento dei detenuti, ha fatto visita alla casa circondariale di via Sanquirico. A fare gli onori di casa la neo direttrice Cosima Buccoliero, che dopo esperienze importanti come quelle maturate al carcere-modello di Bollate, ma anche a quelli di Opera o di Torino, dirige oggi la struttura monzese oltre al carcere minorile Beccaria di Milano. I problemi della struttura cittadina sono evidenti e noti, e si potrebbe dire purtroppo... sempre gli stessi. L’unica novità visibile sono i tronchi di albero abbattuti dal nubifragio dello scorso luglio che ancora campeggiano nel cortile, fatti a pezzi e lasciati ai margini dei parcheggi occupando alcuni dei suoi i stalli. Per il resto, il sovraffollamento della struttura appare come sempre il vero problema, quello più urgente. Per una capienza di 408 detenuti, infatti, dietro le sbarre ce ne sono attualmente 690. Con punte questa estate che hanno toccato le 720 unità. E ci sono problemi strutturali altrettanto evidenti, in un carcere che sconta tutti i suoi trentuno anni di età (fu aperto nel 1992). Il sottosegretario, accompagnato anche da Maria Milano, provveditore regionale amministrazione penitenziaria, ha preso nota di tutto. “Ho preso ufficialmente l’impegno per conto del Governo - ha spiegato all’uscita dalla casa circondariale - di una serie di interventi che dovremo assumere. A cominciare da quelli per la struttura, che merita di essere migliorata. A partire dal tetto e dal problema delle infiltrazioni”. E poi gli spazi. “C’è un evidente problema di sovraffollamento, ma il rimedio non è un decreto svuota-carceri perché è provato l’alto tasso di recidiva... chi esce ritorna spesso subito a delinquere. Meglio il lavoro, uno strumento più utile”. Di recente, su questo tasto aveva puntato proprio la direttrice Cosima Buccoliero. I detenuti hanno bisogno di lavorare, di avere una seconda chance. “Come Governo - ha spiegato ancora il sottosegretario - lavoreremo per convincere gli imprenditori del territorio a investire sul carcere assumendo detenuti: questo diminuisce il grado di recidiva e recupera i detenuti alla società”. A Monza c’è anche un’alta percentuale di detenuti con problemi di tossicodipendenza (350) e psichiatrici (200). Eppure il personale medico è ridotto all’osso. Fra gli impegni, il sottosegretario promette anche di “investire su area educativa e sanitaria, questa struttura paga scelte politiche errate. Noi ci metteremo testa e cuore”. Ci sono problemi anche di personale. Un numero di agenti inferiore alle necessità. Nel 2022 risultavano in servizio 303 agenti sui 321 previsti dalla pianta organica. Spesso sottoposti a grandi livelli di stress e aggressioni, fisiche e verbali (nell’estate del 2022 si erano contati diversi episodi violenti e rivolte da parte dei detenuti). Alla visita era presente anche il comandante della polizia penitenziaria di Monza, Felice De Chiara. Il sottosegretario non si nasconde: “Entro la fine dell’anno assumeremo oltre tremila nuovi agenti di polizia penitenziaria in Italia e di sicuro dopo questa visita in particolare sappiamo che alcuni dovranno essere destinati a questa struttura”. Tempi? Numeri? “È ancora prematuro per parlarne - spiega il senatore Ostellari - ma di sicuro questa visita è servita a vedere e toccare con mano, ringrazio la direttrice della casa circondariale, il provveditore alle carceri della Lombardia, il comandante della polizia penitenziaria e il personale al lavoro per il delicato incarico che svolgono. Ci saranno progetti per questa fetta del territorio”. Ieri era presente anche il capogruppo in Senato della Lega, il monzese Massimiliano Romeo. Roma. Carcere di Regina Coeli: dal Garante al Prap le criticità della settima sezione garantedetenutilazio.it, 17 ottobre 2023 Dopo la visita ispettiva dell’8 marzo, il Garante Anastasìa scrive alla direttrice del carcere romano e al Provveditore dell’amministrazione penitenziaria per il Lazio, l’Abruzzo e il Molise. Ecco le risposte. Cinque suicidi a Regina Coeli nel 2023, di cui quattro nella settima sezione, epicentro di numerosi eventi critici nel carcere romano. Nasce come sezione per i cosiddetti “Nuovi Giunti”, ma l’8 marzo scorso, al momento della visita ispettiva del Garante delle persone detenute della Regione Lazio, Stefano Anastasìa, nella settima sezione “erano presenti 94 detenuti afferenti a diversi circuiti detentivi, meno della metà Nuovi Giunti, gli altri in esecuzione penale”. È quanto si legge nella lettera inviata dal Garante alla direttrice della Casa circondariale, Claudia Clementi, lo scorso 27 aprile. Regina Coeli dovrebbe essere destinata prevalentemente agli arrestati e alle persone in attesa di giudizio fino al primo grado e, per una quota residua, a detenuti condannati a una pena fino a un massimo di cinque anni. Invece, a causa del cronico sovraffollamento nell’istituto (1036 detenuti presenti il 30/9/2023 per 628 osti disponibili), “la promiscuità di condizioni giuridiche - si legge nella lettera di Anastasìa alla direttrice Clementi - e di circuiti detentivi comporta diverse criticità come la fruibilità degli spazi all’aperto per il tempo garantito dalla legge (la difficoltà di accedere all’aria - due aree piccole e inidonee a qualsiasi attività che vada oltre il ‘passeggio’ - mi è stata riportata da quasi tutti i detenuti della sezione), la riferita chiusura nelle stanze detentive per 23 ore su 24 ore e l’assenza di attività socializzanti nel secondo e terzo piano”. Il Garante concludeva la sua missiva segnalando, oltre l’urgenza di lavori strutturali, “la necessità di un radicale ripensamento della destinazione dell’intera sezione, in modo tale che la maggiore omogeneità delle persone che vi sono ospitate possa garantire a tutti le ore d’aria e di socialità previste da legge e regolamento”. A questa nota ha fatto seguito la risposta della direttrice, pienamente concorde con la rappresentazione data dal Garante nella sua missiva. In particolare, scrive Clementi, “gli elementi di criticità della settima sezione legati alla disomogeneità dei detenuti sono peraltro emergenti in maniera esponenziale, essendo collegati tra di loro”. Nel merito, prosegue la direttrice di Regina Coeli, “capita di frequente che tra gli arrestati vi siano soggetti che non hanno titolo a permanere presso questo istituto, non essendo presente il competente circuito, quali ad esempio persone classificate in Alta sicurezza o soggetti in transizione di genere o Trans, che permangono presso questa sede fino a che non vengono assegnati e trasferiti, e che ovviamente devono rimanere separati, seppure nella stessa sezione, da tutti gli altri”. Va detto che nella stessa sezione sono presenti anche detenuti maggiormente problematici da un punto di vista comportamentale o destinatari di misure disciplinari o sanitarie. Con tali premesse, in data 3 agosto 2023, il Garante Anastasìa scrive al Provveditore dell’amministrazione penitenziaria per il Lazio, Abruzzo e Molise, Maurizio Veneziano, segnalando le criticità della settima sezione di Regina Coeli, l’alto numero di detenuti presenti con una pozione giuridica definitiva superiore ai cinque anni. “Alla fine di maggio - scrive Anastasìa - su 968 detenuti, 345 erano definitivi”. E ancora, prosegue il Garante del Lazio, “questa parte importante della popolazione detenuta, desta preoccupazione, per l’inadeguatezza delle attività trattamentali offerte, di lavoro, di studio e degli spazi esterni dedicati ai passeggi nelle ore d’aria”. “Oggettivamente - conclude Anastasìa - la CC di Regina Coeli, come le altre Circondariali (e non solo) del territorio nazionale, vive mesi complessi. Sono consapevole delle difficoltà nella gestione dei circuiti regionali e nazionale, ma nello specifico di Regina Coeli, programmare la riduzione dei detenuti definitivi presenti con lunghe pene e una loro adeguata assegnazione in realtà penitenziarie consone alla durata della pena, è una delle priorità da perseguire, con risvolti che sosterrebbero anche il lavoro del personale della Polizia Penitenziaria e del trattamento sotto pressione da mesi”. Nella risposta del 6 ottobre, il Provveditore, Maurizio Veneziano, non entra nel merito delle questioni inerenti alla settima sezione, ma rispetto al numero dei detenuti presenti con posizione giuridica definitiva, scrive che trattasi di “una circostanza frutto dell’inerzia del trascorso periodo emergenziale dovuto alla pandemia da Covid-19”. Per la questione dei detenuti definitivi, l’intervento è duplice, scrive Veneziano: “da una parte si è sensibilizzata la direzione a dare impulso alle varie offerte trattamentali presenti negli istituti a custodia attenuata (…) dall’altra si sta operando un graduale trasferimento di tutte queste persone, facendo riferimento all’ambito della residenza dei propri familiari”. Sondrio. “Basta promesse. Il Comune risolva i problemi della Garante dei detenuti” di Marco Alberti sondriotoday.it, 17 ottobre 2023 La denuncia della consigliera comunale Donatella Di Zinno (Sondrio Democratica): “Problema annoso mai risolto. Si abbia il coraggio di ammettere le proprie mancanze”. A proposito del carcere di Sondrio e delle continue ed oggettive difficoltà riscontrate dal Garante dei diritti delle persone private nelle libertà personali è necessario fare chiarezza al più presto. Ne è convinta la consigliera comunale di Sondrio Democratica, Donatella Di Zinno, preoccupata da quanto dichiarato a Sondrio Today da Orit Liss. “Quanto denunciato purtroppo non è nuovo. Già l'anno scorso, sia nella Commissione comunale competente sia in Consiglio comunale, avevamo affrontato questo tema. Allora il nostro gruppo consiliare era riuscito a convincere l'allora assessore ai Servizi Sociali della necessita di un tavolo istituzionale che facesse il punto della situazione e provasse a risolvere gli annosi problemi”, racconta Di Zinno. Oggi, a distanza di un anno, nonostante la nomina come nuovo assessore di Maurizio Piasini, anch'egli leghista come il suo predecessore, la situazione non sembra esser cambiata. “Nonostante le promesse ed il cambio di gestione nulla è cambiato. Questo è un dato di fatto che ci preoccupa molto. È inutile istituire un ruolo così delicato e poi non mettere le persone incaricate nelle condizioni di poter lavorare”, sottolinea con amarezza la vice capogruppo di Sondrio Democratica. È tempo di decidere per la rappresentante della minoranza eletta a palazzo Pretorio. “Occorre che si faccia una scelta politica, serenamente. Se non si intende sostenere la figura del garante si abbia almeno il coraggio di 'tagliare' questa figura. Se l'Amministrazione non intende porre rimedio ai problemi almeno si faccia carico di questa decisione fondamentale”, conclude Donatella Di Zinno. Milano. Includere ed educare: il Bard Prison Project di Francesco Carlo Bramante secondowelfare.it, 17 ottobre 2023 Questo programma educativo nato negli Stati Uniti è stato adottato dall’Università degli Studi di Milano insieme alla Casa di Reclusione di Bollate, dove i detenuti possono svolgere la funzione di tutor nei confronti di studenti in difficoltà. Un'iniziativa che ha risvolti interessanti dentro e fuori dal carcere. Il Bard Prison Project mira a favorire l’inclusione sociale di gruppi sociali svantaggiati, quali sono i detenuti, attraverso il coinvolgimento di alcuni di essi in attività formative e di volontariato, incrementando quindi le probabilità di la loro reintegrazione sociale una volta terminata la fase di detenzione. Allo stesso tempo il progetto propone concretamente un aiuto scolastico agli studenti che hanno difficoltà nell’affrontare determinate tematiche e materie. I percorsi di accompagnamento si svolgono con una guida per i tutor detenuti, mediante una formazione pedagogica continuativa, con l’obiettivo di creare un contesto maggiormente favorevole all’apprendimento di natura orizzontale (da studente a studente). La nascita grazie al finanziamento del Bard College - Il Bard Prison Project nasce in coprogettazione con un ente statunitense, il “Consortium For The Liberal Arts In Prison” del Bard College (università privata dello stato di New York, USA). Il Consortium ha lo scopo di coltivare, sostenere e istituire programmi di College nelle carceri, in collaborazione con le università di tutti gli Stati Uniti. Il Bard College nel 2001 ha ideato la Bard Prison Initiative (BPI) allo scopo di favorire opportunità di istruzione e formazione all’interno del sistema carcerario statunitense. La BPI è iniziata come programma pilota che coinvolgeva 16 studenti e, dopo più di vent’anni di attività, è diventata un Polo Universitario distribuito in sette carceri dello Stato di New York. Con oltre 300 studenti all’attivo, dal 2001 sono state rilasciate più di 600 lauree. Nel 2022 il Consortium ha pubblicato il primo bando di sovvenzioni rivolte all’assistenza tecnica e lo sviluppo delle capacità a sostegno delle università in carcere a livello internazionale. Ed è proprio a seguito del conseguimento di uno di questi finanziamenti che, nell’agosto 2022, è stato avviato a Milano il Bard Prison Project. La presa in carico di questo progetto è avvenuta grazie alla Convenzione che l’Università degli Studi di Milano ha siglato con il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria (PRAP) nel 2015, rinnovata poi nel 2018 e nel 2021. Usufruendo di questa piattaforma e del collegamento già avviato con la Casa di Reclusione di Milano-Bollate in seguito ad altri percorsi, la professoressa Elena Landone ha raccolto il consenso di diversi detenuti e dell’amministrazione penitenziaria, e ha poi risposto all’annuncio del Consortium compilando l’invito a candidarsi. Gli obiettivi esposti nella domanda di finanziamento hanno riguardato primariamente la creazione di una rete di tutor detenuti e di liberi studenti, e quindi lo sviluppo di un ambiente di fiducia e di stima professionale tra di essi, tale da riuscire a dare continuità a un progetto potenzialmente capace di combattere il pregiudizio sociale verso la figura del detenuto e di valorizzare le persone coinvolte all’interno di un percorso educativo. Milano-Bollate e il “Progetto Carcere” - Un ruolo di forte attrazione e interesse da parte del finanziatore è stato rappresentato dal modello della Casa di Reclusione di Milano-Bollate. Questo istituto penitenziario, inaugurato nel dicembre del 2000, è noto per essere un punto di riferimento nello sviluppo di partnership con diverse realtà del territorio. Nel corso degli anni ha saputo creare una rete multistakeholder di soggetti volti a rendere l’amministrazione penitenziaria più aperta, interconnessa e con una forte propensione alla riabilitazione individuale e al reinserimento sociale. La Camera penale di Milano ha affermato che il carcere di Bollate ha un tasso di recidiva pari al 17%, rispetto alla media nazionale che è circa il 70% (Aliprandi 2020). Per essere ammessi a tale istituto è necessario soddisfare alcuni requisiti, in particolare: l’appartenenza al circuito dei detenuti comuni; una condizione psicofisica adatta alle attività lavorative; una previsione di fine pena pari a un periodo compreso tra i 4 e i 10 anni. Iniziare questo progetto con Milano-Bollate è stata considerata l’opzione migliore, dato il consistente numero di detenuti che godono dei benefici dell’Articolo 21 dell’ordinamento penitenziario, una disposizione che consente al detenuto di uscire dal carcere per svolgere un’attività lavorativa e/o educativa. Un altro elemento facilitante per il Bard Prison Project è stata la piattaforma collaborativa già esistente tra l’istituto penitenziario e l’Università, ovvero il “Progetto Carcere”. Attraverso questa iniziativa volta a garantire alle persone in stato di detenzione il diritto allo studio universitario, nel 2015 è stata firmata la citata Convenzione con il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria. L’Università, negli anni, è riuscita a creare una rete di tutor che sostengono il percorso universitario dei detenuti, diventando un punto di riferimento e creando un circolo virtuoso e dinamico di scambi formativi. Ed è proprio all’interno di questo movimento culturale e sociale che si inserisce l’idea del Bard Prison Project. I tutor detenuti e gli studenti beneficiari: un processo pedagogico - La logica del Bard Prison Project si inserisce nella stessa dinamica del Polo Universitario, ma ne capovolge i compiti dei soggetti: in questo caso, sono i detenuti iscritti all’università a fare tutoraggio gratuito all’esterno del carcere. I beneficiari sono studenti e studentesse delle scuole superiori e dell’università che necessitano di sostegno nello studio. I tutor sono invece detenuti del carcere di Bollate iscritti a un corso universitario e ai quali è consentito lavorare e studiare fuori dal carcere durante il giorno, grazie all’Articolo 21. I detenuti inseriti in questo percorso non ricevono più un trattamento specifico all’interno del carcere, ovvero non accedono più alle iniziative culturali e ai corsi riabilitativi interni alla struttura. A metà marzo 2023 i tutor attivi erano 4 e gli studenti beneficiari ammontavano a 7, di cui 4 universitari e 3 provenienti da una scuola superiore di Abbiategrasso in cui il Dirigente Scolastico ha diramato una circolare interna per far conoscere il progetto (un canale comunicativo rivelatosi molto efficace). Dall’esordio, avvenuto all’inizio dell’anno accademico 2022/2023, in totale il progetto finora ha avuto 10 studenti beneficiari. Secondo la responsabile del progetto, la professoressa Landone della Statale di Milano, l’aspetto didattico sta funzionando molto bene. Esiste un’infrastruttura pedagogica nel lavoro dei detenuti: nei primi incontri con il beneficiario essi svolgono una programmazione didattica con delle schede, alla presenza di un osservatore formativo; quest’ultimo osserva silenziosamente l’incontro, prendendo appunti e fornendo riscontri al termine del momento di tutoraggio. Questo processo pedagogico è monitorato a posteriori anche dalla responsabile del progetto, che è quindi in grado di notare i miglioramenti o le difficoltà di ciascun tutor. Nella fase di progettazione il “fattore umano” del detenuto è stato considerato come elemento di valore dell’intervento: come poi si è effettivamente verificato sin dai primi incontri, le esperienze vissute dai tutor - sia nella vita prima del carcere (spesso fatta di sofferenze e difficoltà), sia attraverso l’esperienza del processo e del carcere - rappresentano una risorsa nel lavoro con gli studenti in difficoltà. Questi elementi fanno sì che il detenuto sia una persona con una spiccata dimensione umana e riflessiva. Ed è proprio questo elemento a conferirgli un’abilità empatica capace di trasmettere nozioni e passione verso il valore dello studio, dimostrandosi così all’altezza del compito. La sfida didattica e la sfida del reinserimento - Ci sono due componenti che rendono il Bard Prison Project un progetto di valore. La prima è la sfida didattica: riuscire a dimostrare che l’intervento di un tutor nei riguardi di un problema scolastico può essere più adeguato ed efficace dell’intervento di un insegnante, grazie a una vicinanza di condizione (data, cioè, la condivisione dello status di studente). Questo significa sostenere la didattica tra pari: la comunicazione può essere più aperta e certe dinamiche di timore o di reverenza possono essere smontate, riuscendo a lavorare meglio sui meccanismi che portano all’autostima e all’acquisizione di competenze. La sfida del detenuto è la seconda componente fondamentale: portare una persona, durante una fase della sua vita in stato di detenzione, a compiere un percorso capace di conferirgli un ruolo qualificato. Esso diventa infatti non solo un detenuto che è stato in grado di portare avanti un percorso lavorativo, ma anche un detenuto particolarmente qualificato per il suo studio universitario e la sua specializzazione nella formazione didattica, acquisita con esperienza sul campo. Questo aspetto auspicabilmente può sostenere la reintegrazione sociale e lavorativa in seguito al periodo di detenzione. Verso l’auto-sostenibilità del Bard Prison Project - La logica del progetto avviato dal Consortium è quella di offrire un finanziamento iniziale di “Capacity Building” (pari a 10.000 euro), volto a creare la capacità iniziale e quindi l’innescarsi di un processo sperimentale che abbia come obiettivo ultimo l’autosufficienza. Questo periodo di sperimentazione e avvio terminerà a giugno del 2023, dopodiché gli enti e le persone coinvolte dovranno trovare il modo di continuare il progetto con altre risorse. L’auto-sostenibilità del progetto potrebbe passare attraverso la creazione di una piattaforma di relazioni in grado di comprendere il valore di un tale meccanismo educativo e quindi di finanziarlo, oppure attraverso la creazione di una cooperativa sociale. Il fine ultimo è quindi la continuazione di questo progetto educativo e sociale, capace di aiutare gli studenti che ne hanno bisogno, di riavvicinare il detenuto alla comunità e di portare la comunità al riconoscimento sociale di una categoria di persone che troppo spesso rimane emarginata e dimenticata. In questo senso, secondo la responsabile del progetto, è fondamentale non solo reperire risorse economiche, ma stimolare la richiesta di aiuto raccontando il progetto e mostrandone il valore e l’utilità. Di conseguenza, è necessario mettere in atto strategie comunicative che riescano ad attrarre numerose e costanti richieste di informazioni sul progetto, così da favorire la raccolta di richieste di tutoraggio. Milano. Donne dal carcere (che non c’è) di Paolo Di Stefano Corriere della Sera, 17 ottobre 2023 “Oltre gli occhi” è il giornale delle detenute di San Vittore a Milano, coordinato da Renata Discacciati, che molti conoscono come appassionata editrice per ragazzi. Il nuovo numero chiede alle detenute di parlare del carcere che non c’è (e che vorrebbero). Avevo appena finito di leggere “Ne vale la pena” (Nutrimenti), il racconto di Carlo Mazzerbo (con Gregorio Catalano), ex direttore del carcere di Gorgona. Una delle rare esperienze davvero ispirate all’articolo 27 della Costituzione: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità...”. Appena terminata quella storia di detenzione, riscatto e lavoro, mi è capitato sullo schermo Oltre gli occhi, il giornale delle detenute di San Vittore a Milano, coordinato da Renata Discacciati, che molti conoscono come appassionata editrice per ragazzi. Il nuovo numero chiede alle detenute di parlare del carcere che non c’è (e che vorrebbero). Colpisce la precisione di diverse risposte, da cui emergono necessità e disagi quotidiani che ignorano “il senso di umanità” dell’articolo 27. Sentite Anto58, per esempio: “Potrei dire tante cose (...) iniziando dalla mancanza di una ginecologa, un supporto morale da parte di uno psicologo; celle puzzolenti e spesso indegne e come ciliegina sulla torta le turche al posto dei water, che solo a vederla fa pensare di essere nel terzo mondo”. E sentite soprattutto Lucia, che scrive una specie di ballata alla Villon in cui evoca con insistenza “il carcere che non c’è”, ovvero quel che non c’è nel carcere attuale, ma anche quel che c’è e non dovrebbe esserci. Sentite questa che sa di Papillon e dintorni: “Il carcere che non c’è non tortura al mattino chi vuole dormire passando con il martello a sbattere le sbarre delle finestre aperte, estate e inverno, con la scusa di vedere se sono intatte”. Non sarà la più grave ma nel 2023 è un’immagine (acustica) impressionante. “Il carcere che non c’è è quello che non trattiene i malati psichiatrici, che andrebbero in primis curati e non abbandonati nelle celle dove urlano l’attenzione che gli manca”. E ovviamente altro: “Il carcere che non c’è è quello dove le persone non elemosinano un’assorbente (sic), un paio di calzini, un sapone, come mendicanti per la strada per poi venderselo in cambio di tabacco”. E ancora: “Il carcere che non c’è evita le umiliazioni inutili come le perquisizioni corporali a chi fa un colloquio a distanza ecc.”. Finale, dopo un elenco di altre crudeltà facilmente evitabili: “Sarebbe tutto molto più semplice e logico, ma il carcere che non c’è, appunto, non c’è…”. Genova. “Le pene e il carcere”: dibattito all’Università sul libro di Stefano Anastasia Il Secolo XIX, 17 ottobre 2023 L’appuntamento in Rettorato (via Balbi 5) alle 17 del 17 ottobre. Il Garante dei detenuti del Lazio e docente di Sociologia della devianza Stefano Anastasia sarà a Genova, martedì 17 alle 17 presso il Rettorato di Unige in via Balbi 5, per presentare il suo volume “Le pene e il carcere” (Mondadori 2022). Tra i massimi esperti di carcere in Italia, Anastasia è anche tra i fondatori del gruppo Antigone. L’autore sarà affiancato nella discussione da Valeria Verdolini, docente di Society, aw and development della Statale di Milano e dell’Università di Torino, Mitja GIaluz, docente di Diritto penitenziario e Diritto processuale penale a Genova, Ilaria Coppola, docente di Piscologia sociale sempre a Genova e il garante dei diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Liguria, Doriano Saracino. Modera l’incontro Isabel Fanlo Cortés, componente del Compitato polo universitario penitenziario dell’ateneo genovese e docente di Sociologia del diritto. All’evento partecipa anche la Clinica legale negli istituti penitenziari (Clip) del dipartimento di Giurisprudenza di Unige. Ricercatore di filosofia e sociologia del diritto nell’Università di Perugia, Anastasia è stato presidente di Antigone dal 1999 al 2005, quando è stato eletto Presidente della Conferenza nazionale del volontariato della giustizia (Cnvg). Tra il 2003 e il 2006 ha collaborato alla istituzione del primo ufficio per la tutela dei diritti dei detenuti voluto da un Comune italiano (Comune di Roma, Sindaco Walter Veltroni). Nel 2006, durante il II Governo Prodi, assume le funzioni di capo della segreteria del sottosegretario alla giustizia con delega all’amministrazione penitenziaria (Luigi Manconi) e lascia la presidenza della Cnvg. Al termine dell’esperienza di governo, riprende l’attività associativa e di volontariato, promuovendo la costituzione del Difensore civico dei detenuti di Antigone. Massa Marittima (Gr). “Arte senza confini”: detenuti e studenti protagonisti di un laboratorio di street art grossetonotizie.com, 17 ottobre 2023 Studenti e detenuti insieme per lanciare un messaggio di solidarietà e accendere i riflettori sulla realtà degli istituti penitenziari italiani. Grazie al progetto “Arte senza confini”, promosso dall’associazione Operazione Cuore e.t.s in collaborazione con l’associazione Fratel Emanuele Francesconi onlus, alcuni detenuti della casa circondariale di Massa Marittima e un gruppo di alunni della scuola pontificia Pio IX di Roma parteciperanno ad un laboratorio di street art condotto dal celebre artista romano Maupal, conosciuto in tutto il mondo per “Super Pope”, l’opera dedicata a Papa Francesco. L’iniziativa prenderà il via il 15 gennaio 2024 per concludersi il 19 gennaio con l’inaugurazione del murale che sarà realizzato nel corso del workshop. Fortemente sostenuto dalla direttrice della casa circondariale, Maria Cristina Morrone, dalla responsabile dell’area trattamentale, Marilena Rinaldi, e dalla società cooperativa sociale onlus “Together let’s help the community” che sul territorio promuove collaborazioni proficue tra realtà commerciali, sociali ed istituzionali, il progetto permetterà di sperimentare nuove forme di inclusione e socialità, favorendo l’espressività di ciascuno e evidenziando l’importanza della dimensione educativa nel percorso riabilitativo dei detenuti. La presenza degli studenti - accompagnati dal direttore della scuola, fratel Andrea Bonfanti, e dal professor Simone Nieddu - renderà l’esperienza un’occasione di prossimità e di promozione del volontariato, in un’ottica di attenzione e di sensibilizzazione verso la realtà penitenziaria. All’insegna dei valori testimoniati da fratel Emanuele Francesconi, direttore dell’istituto Pio IX scomparso nel 2016, la cui opera formativa a favore di bambini, ragazzi e giovani, specialmente di quanti si trovano in situazioni di disagio e difficoltà, continua attraverso l’impegno della Onlus a lui dedicata. “Con questa nuova iniziativa - spiega Laura Romeo, presidente dell’associazione Operazione Cuore, che dal 2016 sostiene progetti di integrazione e solidarietà per minori e persone vulnerabili - vogliamo far entrare la bellezza all’interno di un luogo che spesso fa i conti con la solitudine e l’emarginazione, nella consapevolezza che il linguaggio artistico può aiutare a superare indifferenza e barriere. Sarà un modo per portare il cuore oltre le sbarre”. Lanciano (Ch). Sport e solidarietà. “In carcere ho trovato più umanità che fuori” di Roberta Barbi vaticannews.cn, 17 ottobre 2023 Parla l’allenatore della Libertas Stanazzo, la squadra di “futsal” della casa circondariale di Lanciano (Chieti), anche quest’anno ammessa a partecipare al campionato di serie D dal Comitato regionale Abruzzo della Lega nazionale dilettanti. Lo chiamano “futsal” dalla contrazione dei termini “futbol” e “salon”, per indicare un gioco che si fa al chiuso, ma in realtà è il vecchio calcetto, così definito per distinguerlo dal più nobile genitore; per gli amanti dei tecnicismi è il “calcio a cinque”. E non potrebbe essere giocato più “al chiuso” di così dalla Libertas Stanazzo, la squadra della casa circondariale di Lanciano, Chieti, che anche quest’anno si cimenterà in tutto il campionato di serie D. In casa, ovviamente, per motivi di sicurezza: “È una grande soddisfazione per tutti noi, ma per me la soddisfazione più grande è vedere le loro facce soddisfatte, quelle dei detenuti”, racconta a Radio Vaticana - Vatican News l’allenatore Alessio Di Meco, come ogni anno a inizio stagione impegnato nel reclutamento e nelle pratiche dei nuovi tesseramenti. Si sa, in una casa circondariale il turn over dei ristretti è più veloce. Mister Di Meco ci sa fare con i suoi ragazzi, che lo seguono con attenzione e passione: ne sono prova le due Coppe Disciplina che hanno vinto da quando è lui a guidare la panchina e il prestigioso Pallone d’oro ricevuto dalla Lega nazionale dilettanti. Sono questi gli obiettivi che la Libertas Stanazzo si pone: “Sono obiettivi che riusciamo a raggiungere se siamo capaci di far vedere fuori il nostro cambiamento, o almeno la volontà di essere socialmente reinseribili - afferma l'allenatore - poi la tecnica è un’altra cosa, è lì che si decide il risultato”. Eppure, da quando c’è lui, hanno sfiorato due volte la promozione in serie C e non si sono mai piazzati al di sotto del terzo posto. Ma l’importante, per questi giocatori, non è solo giocare a calcio, imparare dallo sport a seguire le regole e rispettare gli altri - obiettivo che si pone il progetto di sport e sociale “Mettiamoci in gioco” da cui è nato tutto - ma soprattutto giocare: “Dico sempre loro di non rinunciare mai, il martedì e il giovedì, a quelle sei ore di libertà che regalano gli allenamenti - afferma Di Meco - non si tratta tanto e solo di giocare, ma di non pensare alla routine che in un posto come il carcere si ripete sempre uguale a se stessa”. Purtroppo la storia a lieto fine di Mister Di Meco ha radici nel dolore peggiore che si possa vivere, quello per cui non esiste una definizione: la perdita di un figlio. Alessio perde il suo, di 17 anni e amante del calcio, nel 2005; gli dedica un’associazione con cui fa del bene, unica via per curare l’incurabile. Con “Gli amici di Marcello”, un giorno si trova a donare defibrillatori e uno viene destinato all’istituto di pena di Lanciano: qui viene avvicinato per il suo passato da allenatore perché quello della Libertas Stanazzo sta per andarsene. Siamo arrivati al 2017, e il resto è una lunga storia di meriti sportivi: “Non sono tutti meriti miei - scherza - ricordo ancora la prima volta che sono arrivato in carcere, non c’ero mai entrato prima e come tutti avevo i miei pregiudizi, che si sono abbattuti uno dopo l’altro. Oggi non ho alcuna difficoltà ad allenare i detenuti, anzi, qui ho trovato un’umanità maggiore di quella che spesso si trova fuori e certamente in tutta questa vicenda ho ricevuto più io da loro che loro da me”. Migranti. Dl Cutro disapplicato, la “versione” di Mantovano divide i giuristi di Valentina Stella Il Dubbio, 17 ottobre 2023 Secondo il sottosegretario le toghe possono solo seguire la via della questione di legittimità. Ecco i pareri di Favilli, Guzzetta e Morrone. Giuristi divisi sulle recenti dichiarazioni del sottosegretario Mantovano che ha preso le difese del governo sulla questione dei giudici che stanno disapplicando il dl Cutro: il compito dei giudici non è quello di disapplicare le norme non “gradite”, ma valutarne la compatibilità con la Costituzione e seguire la via della questione di legittimità. Secondo Chiara Favilli, ordinario di Diritto dell’Unione Europea all’Università di Firenze, “in caso di contrasto tra una norma nazionale e una norma dell’Ue, come ad esempio una norma del Trattato o una direttiva, che deve essere attuata, ma che comunque può produrre effetti diretti se è chiara, precisa, incondizionata, esiste in linea di principio un obbligo del giudice, a partire da quello di pace fino al Consigliere di Cassazione, a disapplicare il primo. Ciò è stato precisato dalla Corte di giustizia sin dal 1964 e tale orientamento è stato ribadito con giurisprudenza costante e accettato dalla Corte Costituzionale sin dal 1984. Sotto questo aspetto il diritto dell’Unione si contraddistingue rispetto a tutte le altre fonti internazionali, che pur vincolano lo Stato, ma non godono di questa primazia del diritto e dell’obbligo di disapplicazione. Come avvenuto nei recenti casi di cui si sta discutendo, il giudice ha semplicemente interpretato le norme, come fa sempre. Se ha un dubbio può e potrebbe essere opportuno rivolgersi alla Corte di Giustizia, non tanto alla Consulta. A quest’ultima dovrebbe rivolgersi solo nell’ipotesi in cui individui un contrasto insanabile tra la norma Ue e i diritti fondamentali della nostra Carta. Vorrei sottolineare poi che i giudici della protezione, così come quelli che si occupano del diritto dell’Unione sotto altri aspetti, sono anche inseriti in un sistema di cooperazione e formazione giudiziaria europea, sono in continuo contatto con l’Agenzia europea per l’Asilo dell’Ue, i cui membri sono nominati dai governi, che ha tra i suoi compiti quello di uniformare il più possibile l’orientamento dei giudici a livello europeo. Il giudice non è solo nella sua stanza a confrontarsi con la norma Ue e a decidere senza altri strumenti. Ad esempio, l’Agenzia ha pubblicato nel 2018 un documento corposo sul trattenimento dei richiedenti protezione internazionale dando proprio indicazioni molte precise anche sulla garanzia finanziaria, che deve essere determinata caso per caso”. Parere in parte diverso quello di Giovanni Guzzetta, Ordinario di istituzioni di diritto pubblico presso l'Università di Roma Tor Vergata: “Certamente ha ragione il sottosegretario Mantovano, alla luce dei dati normativi e giurisprudenziali, nel ritenere che il potere di disapplicazione non è un potere assoluto e generale. Il giudice può disapplicare la legge interna solo nel caso in cui la norma europea che giustifica la disapplicazione sia dotata di “effetto diretto”, sia, cioè, direttamente applicabile. Solo nel caso in cui il diritto europeo sia “chiaro, preciso e incondizionato” e tale da essere autosufficiente, da non avere, cioè, bisogno di ulteriori interventi normativi di esecuzione per poter essere applicato, il giudice può disapplicare”. Ovviamente, per il costituzionalista, “se una norma europea sia chiara, precisa e incondizionata non è sempre facile da stabilire. Per questo motivo sia l’ordinamento europeo che quello nazionale prevedono delle “contromisure”. A livello europeo è previsto che il giudice possa rivolgersi alla Cgue perché questa dirima la questione attraverso la cosiddetta interpretazione pregiudiziale. A livello nazionale, la più recente giurisprudenza della Corte costituzionale ha stabilito che, qualora la questione intercetti diritti fondamentali stabiliti dalla Costituzione e anche se la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione possa far ritenere al giudice interno che ci si trovi di fronte a prescrizioni chiare precise e incondizionate, il giudice debba comunque investire la Consulta della questione, attesa la sua delicatezza”. Comunque “è bene ribadire che la disapplicazione da parte dei giudici costituisce un’eccezione alla regola generale del nostro ordinamento costituzionale, in base alla quale, per mettere da parte una legge interna, la via maestra è quella di sollevare questione di legittimità costituzionale. Anche perché disapplicare una legge interna significa smentire una scelta riconducibile all’organo rappresentativo della sovranità popolare, il Parlamento. È dunque una scelta molto delicata, che dovrebbe indurre a un uso misurato della disapplicazione, limitato alle ipotesi in cui i presupposti siano conclamati”. Invece per Andrea Morrone, ordinario di Diritto costituzionale nell’Università di Bologna, “che un giudice non convalidi un atto amministrativo di trattenimento di un migrante non può sorprendere. Deriva dal principio dello Stato di diritto che, negli ordinamenti liberaldemocratici, affida al giudice la tutela dei diritti lesi da atti arbitrari. Per valutare l’ordinanza del giudice occorre perciò guardare al merito della decisione. Nella motivazione si dà conto di un conflitto tra il provvedimento e la disciplina nazionale adottata in attuazione di una direttiva europea. Era l’unica soluzione? No. Si poteva ritenere la disciplina nazionale (dl Cutro) in contrasto o con la Costituzione o il diritto europeo. Nel primo caso, il giudice avrebbe dovuto rivolgersi alla Consulta; nel secondo interrogare la Cgue. A differenza della decisione di annullare il trattenimento, però, il rinvio ai giudici superiori avrebbe lasciato il migrante in uno stato di privazione della libertà personale. Il giudice ha il potere di scegliere cosa fare, perché la soluzione del caso non è univoca. Il problema vero è la garanzia della libertà personale, la cui limitazione richiede leggi chiare e rispettose dei principi costituzionali. Molti sono i dubbi sull’adeguatezza della nostra disciplina al valore della persona del migrante. Altri giudici si sono rivolti alla Corte costituzionale. È una strada necessaria, per sapere, una volta per tutte, se le norme nazionali rispettano la Costituzione e il diritto europeo, in modo da consentirne applicazioni eguali per tutti, e non caso per caso”. Cannabis, CBD tra gli stupefacenti: ora il Tar può ribaltare il decreto (sospeso) di Federica Valcauda e Luca Marola* Il Dubbio, 17 ottobre 2023 Stretta sui prodotti di cannabidiolo a uso orale, il 24 ottobre ci sarà il giudizio di merito sul provvedimento del governo. Il 24 ottobre ci sarà il giudizio di merito rispetto alla decisione del TAR del Lazio di sospendere il decreto del ministero della Salute che aveva equiparato i prodotti di cannabidiolo (CBD) a uso orale alle sostanze stupefacenti. Il provvedimento inseriva “le composizioni per uso orale a base di cannabidiolo estratti dalla cannabis” all’interno della tabella B della legge 309/ 90, ovvero quella in cui sono inserite le sostanze stupefacenti. A seguito di questo provvedimento il settore della cannabis si è trovato in grave difficoltà, almeno per due motivi: per le incertezze giuridiche da affrontare e per i controlli delle forze dell’ordine che sono aumentati danneggiando anche economicamente il settore. Ricordiamo infatti che gli estratti di cannabis, in questo caso l’olio CBD, vengono venduti sia dalle aziende che dai grow shop, generando non solo un introito economico per più figure professionali, ma adempiendo di fatto anche ad una carenza dello Stato che ancora oggi non riesce a sostenere la produzione di cannabis terapeutica. Molti pazienti si appoggiano proprio a questo estratto per sopperire alla carenza o agli elevati costi della cannabis medica. Non esiste una logica per sostenere la decisione del ministero, la tabella B è infatti riservata alle sostanze stupefacenti con alto e comprovato rischio di abuso. Il CBD, per ovvie ragioni, non può essere inserito in questa tabella. La decisione del ministero della Salute non trova riscontro nelle evidenze scientifiche disponibili e in alcun ordinamento legale di altri paesi dell’Unione europea. La comunità scientifica concorda nel ritenere che la collocazione appropriata per le composizioni a base di cannabidiolo estratto dalla pianta di Cannabis Sativa L. delle varietà iscritte al catalogo europeo, per uso medico, dovrebbe essere quella di un farmaco non soggetto a prescrizione. Il composto dovrebbe addirittura essere libero da divieti di pubblicità in funzione dell’assenza totale di proprietà psicotrope e stupefacenti e del consolidato assente rischio d’abuso. Come Radicali Italiani abbiamo sempre ricordato come questo decreto porti con sé la distanza che esiste, in particolare quando si parla di sostanze, tra la scienza e la politica, tra la corretta informazione e la propaganda, bloccando di fatto l’evoluzione di quello che potrebbe essere un campo d’investimento per la ricerca scientifica e medica dalle enormi potenzialità. Attendiamo il 24 ottobre per il giudizio di merito, augurandoci che le evidenze ribaltino il decreto di Schillaci. *Direzione Radicali Italiani Regno Unito. Sovraffollamento nelle carceri, gli autori di reato stranieri verranno deportati nei Paesi d'origine Il Dubbio, 17 ottobre 2023 Tale decisione è stata presa a seguito del record storico di 88.225 detenuti negli istituti penitenziari, tra cui 10.500 stranieri, che costano 500 milioni di sterline (577 milioni di euro) all'anno ai contribuenti britannici. Al fine di affrontare il sovraffollamento carcerario, gli autori di reato stranieri arrestati nel Regno Unito, come spacciatori, ladri e scassinatori, eviteranno la prigione ma subiranno la deportazione immediata. Invece di comparire davanti ai tribunali, infatti, queste persone saranno trattenute in Centri di detenzione per immigrati prima di essere deportati nei loro Paesi di origine e verrà vietato loro di tornare nel Regno Unito. Lo riporta il quotidiano “The Telegraph”. Queste misure, approvate dal primo ministro Rishi Sunak, saranno annunciate dal ministro di Giustizia Alex Chalk come parte di un pacchetto di normative volte a ridurre il sovraffollamento nelle carceri inglesi. Tale decisione è stata presa a seguito del record storico di 88.225 detenuti negli istituti penitenziari, tra cui 10.500 stranieri, che costano 500 milioni di sterline (577 milioni di euro) all'anno ai contribuenti britannici. Medio Oriente. Il valico di Rafah è sigillato: zero aiuti. E l’acqua è esaurita di Michele Giorgio Il Manifesto, 17 ottobre 2023 Israele non autorizza l’attesa apertura del confine con l’Egitto. A Gaza rubinetti a secco. Oms: “La catastrofe è imminente”. Oltre 2.800 uccisi, due terzi sono donne e bambini. Mille ancora sotto le macerie. Joe Biden visiterà Israele mercoledì. Lo ha comunicato nella notte il segretario di Stato americano Antony Blinken al termine dell’incontro a Gerusalemme con il premier israeliano Benjamin Netanyahu. Il presidente americano farà sosta anche in Giordania dove incontrerà re Abdallah e il presidente dell’autorità palestinese Abu Mazen. Il New York Times afferma che la visita di domani ritarderà l’operazione di terra pianificata da Israele nella Striscia di Gaza di almeno 24 ore. “Ciao Ivan, sono Mohammed Younis. La polvere non si è ancora posata e ti scrivo con dolore e tristezza. Sono stato appena informato che il nostro caro amico e fratello Abraham Saidan è morto in un attacco alla sua casa. Non conosco molti dettagli, mi è stato detto da un amico comune”. Abraham, 22 anni, non c’è più. Non sarà più l’attore che sognava di diventare. Non toccherà più le sponde lontane che forse aveva immaginato interpretando Odisseo il 7 dicembre scorso al teatro Yam Al Masra di Gaza city. Una bomba, una delle migliaia sganciate dall’aviazione israeliana su Gaza dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobrem(1400 israeliani morti), lo ha ucciso aggiungendo il suo nome agli altri 2.808 palestinesi morti in dieci giorni. Abraham, l’anno scorso assieme a dieci giovani attori e attrici di Milano e palestinesi, per mesi aveva lavorato da remoto per preparare una rivisitazione dell’Odissea, metafora del Diritto al Ritorno, di ogni ritorno nella propria terra. Un lavoro frutto anche di ricerche e di interviste alla nuova generazione palestinese del campo profughi di Jabaliya. Tra qualche giorno Abraham sarebbe partito per l’Italia, per ricambiare la visita dei giovani italiani a Gaza alla fine dell’anno scorso. I suoi amici in Italia non lo vedranno mai più sul palcoscenico. Abraham Saidan “Odisseo” - Lavora per la cooperazione svizzera Jaser Hmaid ma è ben conosciuto dagli operatori umanitari di tanti paesi che seguono progetti a Gaza. I suoi toni pacati, il suo stile sobrio e l’indipendenza di giudizio lo rendono una fonteautorevole. L’altro giorno era uscito di casa a Khan Yunis per recuperare acqua e cibo, la preoccupazione di quasi tutti a Gaza stretta nella morsa dell’esercito israeliano. Mentre tornava a casa, Jaser ha visto un’esplosione avvolgere e disintegrare la sua abitazione. Non è chiaro chi fosse a casa in quel momento. È morta Heba, sua moglie, Abdulrahmane, suo figlio di 9 anni, e Hamaid, un ragazzo di 15 anni che era a casa sua. Gli altri due figli di Jaser sono rimasti feriti. La cognata è grave in ospedale. I genitori stanno bene. Said Majdalawi di Jabaliya, nel nord di Gaza, è arrivato ieri al Cairo da Bruxelles. Dopo giorni di attesa è riuscito a trovare un volo per il Medio oriente. “Sto impazzendo - ci dice - ero uscito da Gaza prima del 7 ottobre (il giorno dell’attacco di Hamas al sud di Israele, ndr) per accompagnare in Belgio una parente anziana e malata ed è accaduto l’inferno. Mia moglie e i miei figli ora sono sotto le bombe, non vogliono sfollare dal nord di Gaza e io sono qui, lontano da loro e non so quando potrò rientrare”. Tre storie di vita e morte e di angoscia profonda con un comune denominatore: i civili vittime degli attacchi aerei e che presto dovranno fare i conti con l’offensiva israeliana di terra sempre più vicina. I numeri forniti dalle organizzazioni umanitarie palestinesi raccontano il calvario dei civili di Gaza. Oltre ai 2808 uccisi dai raid (1.030 sono minori), ci sono 10.850 feriti, di cui il 64% sono donne e bambini. 57 famiglie non esistono più e altre 223 hanno perso almeno cinque membri. La Protezione civile avverte che almeno 1.000 corpi rimangono sotto le macerie delle loro case per il momento irrecuperabili. 3.731 edifici, ossia 10.500 alloggi, sono stati distrutti. Altri 10.000 danneggiati. A cui si aggiunge la distruzione di un numero imprecisato di edifici governativi, posti di polizia, uffici, studi legali, cliniche private, negozi commerciali e fabbriche. 18 scuole sono inagibili altre 150 hanno subito danni di vario grado. 22 ospedali e centri sanitari sono stati danneggiati da esplosioni avvenute a poche decine di metri di distanza. Israele domenica - dopo le pressioni Usa - ha fatto sapere che avrebbe ripristinato l’approvvigionamento idrico almeno al sud di Gaza. Un rappresentante di Ocha (Onu) ci riferiva ieri che fino al pomeriggio di ieri “era stata ripristinata solo una delle tre principali condutture dell’acqua”. Secondo fonti a Gaza, sarebbe disponibile solo il 20% dell’acqua che prima del 7 ottobre era fornita da Israele. Da molti rubinetti non esce nulla, anche perché la rete idrica è a pezzi in molte aree. Al Jazeera ieri spiegava che l’acqua è contenuta in serbatoi posizionati al confine con Israele, nell’area nord di Gaza, quella che l’esercito ha ordinato di evacuare. Le pompe idriche richiedono elettricità ma anche questa è stata tagliata da Israele. Perciò presto non potranno dissetarsi un milione e mezzo di palestinesi ora ammassati nel sud dopo lo sfollamento intimato giovedì scorso da Israele dal nord della Striscia. “Beviamo l’acqua filtrata che portano in giro le autobotti delle aziende private, non sappiamo quanto sia potabile ma non abbiamo scelta”, diceva ieri Mahmud Abu Samadana, un manovale sfollato. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha fatto sapere che le scorte di carburante e acqua a Gaza bastano per 24 ore, dopodiché si verificherà una “immane catastrofe”. L’Unrwa (Onu), l’agenzia che assiste i profughi palestinesi, ha smentito che un suo magazzino sia stato saccheggiato da uomini del ministero della sanità legato ad Hamas come riferito da media locali. L’emergenza umanitaria si aggrava. Israele però non rinuncia all’inflessibilità. E ha smentito le notizie secondo cui avrebbe accettato di cessare i raid aerei nel sud della Gaza per consentire l’apertura del valico di Rafah. Questo mentre gli Stati uniti e i mediatori internazionali sembravano vicini a raggiungere un accordo per l’apertura del confine con l’Egitto in modo da consentire l’ingresso di aiuti nella Striscia e l’uscita degli stranieri. Diversi ministri del Likud, il partito di maggioranza, si sono opposti alla tregua temporanea. Quello dell’Energia Israel Katz ha detto di “opporsi all’apertura del blocco e all’introduzione di merci a Gaza per motivi umanitario. Il nostro impegno è rivolto alle famiglie degli ostaggi assassinati e rapiti, non agli assassini di Hamas e a coloro che li hanno aiutati”, ha affermato. Una posizione che al momento rende inutile il corridoio aereo umanitario verso Gaza attraverso l’Egitto che sta per aprire l’Unione europea. Si terrà solo a fine settimana, il 21 ottobre al Cairo, il vertice internazionale sulla crisi proposto dal presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi. Vi prenderanno parte l’emiro del Qatar Tamim bin Hamad al Thani e l’emiro del Kuwait Nawaf al Ahmad al Jaber al Sabah. È stato invitato anche il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel e non è esclusa la partecipazione dello stesso presidente degli Stati Uniti Joe Biden dopo una sua possibile visita in Israele. Washington ha inviato funzionari a Ismailia, in Egitto, per seguire la crisi di Gaza dal luogo più vicino possibile alla Striscia.