Il Garante dei detenuti: “I suicidi sono il segno di una sconfitta” di Federica Burbatti rainews.it, 15 ottobre 2023 Mauro Palma: “Le violenze degli agenti? È un errore pensare che siano la normalità”. Presunte violenze in carcere a Cuneo, prima ancora a Torino, Biella, Ivrea. Mauro Palma, presidente del Garante nazionale dei detenuti a Torino per il festival dell’accoglienza parla degli episodi che hanno visto coinvolte le guardie carcerarie: indagini delicate, si indaga su botte e anche su torture. Non bisogna commettere l’errore di pensare che sia la normalità, sottolinea. E, sui suicidi: “Sono il segno di una sconfitta”. Occorre promuovere, dice il Garante, l’istruzione in carcere. In Italia, sono seimila i detenuti che non hanno adempiuto all’obbligo scolastico. Tra questi, ci sono anche 900 analfabeti. All’estremo opposto, però, si registrano anche 1.400 detenuti che frequentano un corso universitario, segno di una domanda di formazione. Imprenditoria e Vangelo, il Premio Madre Fasce al progetto “Made in carcere” di Tiziana Campisi e Roberta Barbi vaticannews.va, 15 ottobre 2023 Il riconoscimento è stato istituito dalle monache di Cascia per promuovere l’idea di impresa alla badessa del monastero di Santa Rita, scomparsa nel 1947, che per 27 anni ha realizzato opere e progetti di carità, coniugando la vita contemplativa con la lungimiranza di una moderna imprenditrice. Questo pomeriggio la consegna a Luciana Delle Donne, manager che dopo 20 anni di carriera nel mondo della finanza ha deciso di offrire opportunità lavorative a detenute e detenuti. Vuole sostenere l’imprenditoria ispirata alla carità evangelica, quella che punta al bene comune e alla sostenibilità, il Premio Madre Maria Teresa Fasce istituito dalle religiose agostiniane del Monastero Santa Rita da Cascia. Il riconoscimento si ispira alla badessa che, vissuta fra il XIX e XX secolo, ha guidato la comunità monastica per 27 anni coniugando la vita contemplativa con la lungimiranza di una moderna imprenditrice illuminata. Alla madre Fasce si devono, infatti, diverse opere pensate per la collettività e per i più bisognosi, fra le quali la basilica di Santa Rita e l’Alveare, il progetto di accoglienza per minori provenienti da famiglie in difficoltà. Il premio intende valorizzare l’impegno di imprenditori e imprenditrici che si sono particolarmente distinti per le loro scelte improntate sui valori del Vangelo. Dal recupero di tessuti scartati un lavoro per i detenuti - Oggi, 14 ottobre, il primo Premio Madre Maria Teresa Fasce, viene conferito a Luciana Delle Donne, che ha rinunciato a una carriera manageriale di successo mettendo i suoi talenti a servizio del prossimo nel progetto imprenditoriale sociale “Made in Carcere”. La cerimonia della consegna si svolge a Cascia, alle 17, nella Basilica Inferiore. “Made in Carcere” permette alle detenute di Lecce, Trani, Taranto, ai detenuti di Lecce e Matera e ai minori detenuti di Bari di avviare un percorso di riabilitazione e reinserimento sociale. Attraverso la produzione di accessori di abbigliamento realizzati con tessuti di recupero scartati dalla moda, il progetto consente di acquisire le competenze tecniche di un mestiere creativo, come quello della sartoria, e di percepire un regolare stipendio e offre così una concreta seconda possibilità a detenute e detenuti. Nel segno di un’economia civile rigenerativa è attento all’impatto ambientale e favorisce l’inclusione sociale e l’inserimento occupazionale. Già Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana, Luciana Delle Donne, manager di estrazione bancaria, che dopo 20 anni di carriera nel mondo della finanza, nel 2006 ha deciso di dedicarsi a quanti vivono una situazione di disagio o di svantaggio sociale, riceve dalle agostiniane del Monastero Santa Rita un’opera d’arte, realizzata dalla monaca e artista suor Elena Manganelli, che simbolicamente raffigura l’idea di imprenditorialità della Beata Fasce. La base esagonale, che ricorda l’Alveare di Santa Rita voluto dalla madre Fasce, rappresenta infatti la costruzione imprenditoriale che nasce da una carità solida e concreta, per un modello di sviluppo fondato non sul profitto ma sull’impatto sociale e umano. Alla sommità un cuore che arde, che ricorda l’esperienza di Sant’Agostino, folgorato dalla Parola di Dio e infiammato dall’amore divino. In occasione della premiazione, viene anche presentata la collana editoriale “Rita quotidiana” di Tau Editrice, che propone piccoli volumi scritti dalle monache di Cascia. Attraverso le diverse pubblicazioni, le religiose, ponendosi all’ascolto di gioie e paure della donna e dell’uomo di oggi, offrono consigli di vita concreta ispirati all’esempio di Santa Rita, che diventa così un’amica e una “guida del cuore”. Il primo numero della collana, nelle librerie dal 19 ottobre, è dedicato alla maternità, secondo la testimonianza lasciata da Santa Rita, che è stata madre di due figli e poi madre di un’immensa famiglia di devoti. E come lo è ogni donna, con l’innata attitudine all’accoglienza dell’altro. L’ideatrice di “Made in Carcere” racconta a Radio Vaticana - Vatican News di sentirsi particolarmente toccata dalla decisione delle monache di Cascia di conferirle il Premio Madre Fasce e confida di avere delle affinità con la religiosa che ha portato avanti idee imprenditoriali di carità. Che cosa significa per lei questo nuovo riconoscimento alla vostra opera? È un onore immenso. Quest’anno, dopo il riconoscimento conferito dal presidente della Repubblica Mattarella come ufficiale al merito, ritrovarmi un premio del genere mi commuove perché è veramente un momento importante. Ho sempre fatto l’imprenditrice sociale e negli ultimi anni sentito di più il senso di questa missione, il valore di questo mio sacrificio perché sono 17 anni che, come volontaria, lavoro in questo mondo scomodo, con tante porte in faccia, con tante delusioni, con tante amarezze legate all’individualismo che regna in generale, alla molta superficialità senza pensare all’importanza di aiutare gli altri. Quindi io mi sento sempre più coinvolta in un modo diverso. Per questo premio mi è arrivata una notte una email e io ho risposto: “Come potrei non accettare un premio così bello?”. Madre Maria Teresa Fasce è stata una donna che ha saputo coniugare la vita contemplativa di monaca agostiniana con la lungimiranza di una moderna imprenditrice, lei invece ha lasciato una vita sicura di successo per una vita che poi si è rivelata ancor di più un successo, ma che all’inizio era certamente una scommessa. Sente delle affinità con questa suora? Sì. Si tratta di scelte forti, che si fanno perché si sente dentro di sé di non essere più al posto giusto e quindi si avverte la necessità di cercare altrove la propria strada. Poi, piano piano, si delinea sempre di più il sentimento e la voglia di fare qualcosa di diverso rispetto alla vita precedente. Io ho lasciato il lusso e le comodità e quando qualcuno mi chiede “Te ne sei pentita?” rispondo che non me ne sono pentita. Certo, non stavo male, non possiamo dire che la vita comoda non sia piacevole, però è molto importante che qualcuno si prenda cura di quelle cose che nessuno vuole toccare. Per noi è fondamentale preoccuparci concretamente e con grandi risultati di tutte quelle persone dimenticate e soprattutto di quelle persone che si scartano, che non si vogliono vedere, che si finge non esistano. Noi diciamo sempre che facciamo solo le cose impossibili, laddove ci sono difficoltà e nessuno vuole preoccuparsene, questo è il nostro motto. Parlo di un “noi” perché ho coinvolto tutto il team a vivere una vita difficile ma piena di gioia, perché la luce che vediamo negli occhi delle persone per le quali portiamo avanti il nostro progetto ci ripaga di tutti i sacrifici. L’idea di dover prendere di dover prendere degli stracci molto piccoli, ricucirli, raccoglierli, sistemarli, pensare che gli altri li scartano e noi li riusiamo, per noi è fondamentale ed importante. Le nostre missioni impossibili sono dare energia, vitalità e fiducia a queste persone di cui nessuno vuole preoccuparsi. Sono individui che hanno bisogno di essere ascoltati e gratificati, perché il mondo li ha scartati. Riceverà il premio nella basilica dedicata a Santa Rita da Cascia, la santa delle cause impossibili. Il carcere, al giorno d’oggi, è ancora una causa impossibile? Sì, perché se si pensa che solo il 5% di tutti i detenuti italiani lavora, ci si rende conto che c’è un abbandono totale. Noi, con tanta fatica, portiamo avanti questo progetto, e non è importante per noi vendere le borse, gli accessori personalizzati, i gadget che facciamo, per noi è importante cambiare il percorso di vita di queste donne, di questi ragazzi, che hanno commesso un reato. Al sud, in particolare, dove non c’era l’abitudine a lavorare nel carcere e risultava sempre molto complicato e sembrava impossibile avviare delle attività, ormai i direttori ci conoscono e ci apprezzano per come ci offriamo ai detenuti. Parlo delle carceri di Lecce, Trani, Taranto, Matera e Bari. ci conoscono e ci apprezzano. Il problema è che il carcere, in generale, è considerato come un luogo punitivo e non rigenerativo, è invece dovrebbe essere proprio rigenerativo. Il M5S vuole rafforzare il reato di tortura ma rischia un boomerang di Stefano Iannaccone Il Domani, 15 ottobre 2023 Il Movimento 5 stelle ha presentato un disegno di legge al Senato, già incardinato in commissione, per potenziare la norma. Ma Cucchi teme il cavallo di Troia: “Impossibile migliorare il testo con questa maggioranza”. Il governo punta infatti a cancellare la norma. Il reato di tortura viene strattonato da più lati, finendo per dividere anche le opposizioni. Con il pericolo che ne esca ammaccato. Il governo non ha fatto mistero di voler intervenire per depotenziarlo, fino a cancellarne gli effetti. Le minoranze in parlamento vogliono tutelarlo e addirittura coltivano il sogno di rafforzarlo. Il rischio è però dietro l’angolo: quello di servire su un piatto d’argento la possibilità di intervento della maggioranza, che può cogliere l’occasione di attuare il progetto di sostanziale cancellazione. Un bel caos, non c’è che dire. La notizia, rivelata da Domani, sull’inchiesta aperta Cuneo sui presunti abusi di 23 agenti di polizia penitenziaria ha rilanciato il dibattito anche in parlamento. Reato a 5 stelle - Il Movimento 5 stelle ha ottenuto l’incardinamento della proposta di legge, firmata da Anna Bilotti, in commissione giustizia al Senato. Il disegno di legge era stato già presentato alla Camera nella scorsa legislatura, restando però lettera morta. In queste settimane c’è stata la novità dell’approdo in commissione a Palazzo Madama. Certo, dipenderà dalla calendarizzazione dei lavori. Ma il passo iniziale è stato fatto. Il contenuto prevede di eliminare alcuni commi che frenano la formulazione dell’ipotesi di reato di tortura. “La premesse è che questa modifica salvaguarda prima di tutto l’immagine delle forze dell’ordine, perché la stragrande maggioranza opera con correttezza. La quotidianità ci consegna d’altra parte episodi gravissimi e dobbiamo adeguarci alla situazione”, spiega Bilotti a Domani. “Il governo - sottolinea la senatrice del M5s - ha introdotto il reato di imbrattamento, per colpire gli attivisti del clima, perché riteneva fosse necessario stare al passo con i tempi”. E quindi, è il ragionamento dell’esponente pentastellata “è necessario tutelare il diritto delle persone, sulla base delle pronunce della Corte di cassazione che hanno innovato la materia”. Il progetto è quello di sfidare la maggioranza. Tortura boomerang - Una versione che non convince l’Alleanza verdi-sinistra, che è favorevole a tenere in piedi il reato. Ma non vuole mettere il tema all’ordine del giorno. Teme l’effetto cavallo di Troia: parte il confronto su una riforma che finisce in una maniera diversa rispetto alle intenzioni. “Mi chiedo come si possa pensare inasprire le pene per il reato di tortura con questa maggioranza, visto che il governo è intenzionato a depennare nella sostanza questo reato”, sostiene Ilaria Cucchi, senatrice di Avs, sottolineando che l’esecutivo vorrebbe già avocare a sé il dossier. E metterci mano a modo proprio. “Il ministro della Giustizia Nordio ha spiegato che pensa di intervenire solo su un articolo, considerando reato solo il tentativo di estorcere una confessione”. Questo, aggiunge Cucchi, “significa che resterebbe impossibile indagare su fatti come quelli di Santa Maria Capua Vetere, a Modena, e ora Cuneo, che non riguardano per niente le confessioni”. Da qui il consiglio: di evitare l’apertura del confronto in parlamento. In qualche occasione c’è già stato l’effetto boomerang, come sulla vicenda del voto per i fuorisede, sollevata alla Camera dalle opposizioni e rimodulata a proprio piacimento dalla maggioranza. Fino allo snaturamento dell’idea iniziale che ha provocato una dilazione dei tempi della riforma. A dare solidità al ragionamento di Cucchi c’è un disegno di legge depositato a Palazzo Madama da Antonio Iannone (Fratelli d’Italia), che va esattamente nella direzione di allargare le maglie del reato. “Il rischio di subire denunce e processi strumentali potrebbe inoltre disincentivare e demotivare l’azione delle Forze dell’ordine”, mette nero su bianco il parlamentare di Fdi. A suo giudizio, con la legge in vigore, c’è la possibilità di privare “i soggetti preposti all’applicazione della legge dello slancio necessario per portare avanti al meglio il lavoro, con conse­guente arretramento dell’attività di preven­zione e repressione dei reati e uno scorag­giamento generalizzato dell’iniziativa opera­tiva da parte delle forze dell’ordine”. Mano libera - Insomma, troppe regole frenano gli agenti. Una posizione in linea con quella espressa, nel 2018, da Meloni che all’epoca era all’opposizione: “Il reato impedisce agli agenti di fare il loro lavoro”, era il tweet dell’attuale premier. La tesi dell’effetto boomerang, o cavallo di Troia, sulla legge viene respinta dal Movimento 5 stelle: “Il governo agisce sulla base della propria volontà, non serve un disegno di legge dell’opposizione per spingere la destra a muoversi”. Da qui la domanda: “Visto che non ci sono i numeri in parlamento, le opposizioni dovrebbero girarsi i pollici?”. De Lucia: “La mafia invincibile è una scusa per un’antimafia permanente” di Claudio Cerasa Il Foglio, 15 ottobre 2023 Per il procuratore di Palermo un’antimafia seria è quella che “fa analisi, critica e guarda ai fatti”. Maurizio De Lucia, procuratore di Palermo non ha dubbi: “Con l’arresto di Matteo Messina Denaro ha vinto lo Stato, quello con la S maiuscola: quel giorno ho registrato una serie di entusiasmi tra la gente normale, che è scesa in strada ad applaudire, e questo a Palermo anni prima non era immaginabile”, dice intervistato da Giuseppe Sottile durante la festa dell’Ottimismo del Foglio a Firenze. Il procuratore ha idee chiare anche su chi ha perso: “Non solo Cosa nostra, ma anche quel pezzo del carattere degli italiani che tende sempre a vedere qualcosa d’altro dietro alle cose che succedono”. Un pezzo d’Italia che crede a complotti, verità segrete, piani occulti pensa che la mafia dei tavoli ovali, la Spectre mafiosa, lo abbia consegnato. Il risultato del pensare sempre alla mafia come a un ente invincibile, vittorioso anche quando sconfitto. “L’immagine che si dà della mafia invincibile - s’infervora De Lucia - è una balla, vuol dire che c’è anche un’antimafia in servizio permanente effettivo, e invece il senso è avere un’antimafia costruttiva che serve a togliere i giovani dall’ambiente mafioso”. “La mafia dei tavoli ovali esiste, ma non è la Spectre in grado di decidere su tutto, ma una mafia che fa affari ed è molto pericolosa quando li fa perché lo fa con un pezzo di società, bisogna stare molto attenti, ma dire con chiarezza che un’antimafia seria è un’antimafia che fa analisi, critica e guarda ai fatti. Noi magistrati lavoriamo per fare i processi - scoprire i reati, scoprire chi li ha commessi e farli condannare a una pena giusta - questi sono i nostri compiti scritti in Costituzione, se facessimo questo già sarebbe tanto. Oltre questo confine siamo in altri mondi”. Falcone diceva che la mafia in quanto fenomeno umano ha avuto un inizio e avrà una fine. Questa emergenza è finita? “Oggi - dice De Lucia - la mafia non è un’emergenza, è un fenomeno che c’è dall’Unità di Italia e che fa affari con altri mondi, poi c’è stata una fase, quella corleonese, trent’anni ora finiti con la cattura dell’ultimo latitante, che è un periodo emergenziale. Noi però il fenomeno lo sconfiggeremo con gli strumenti che abbiamo, quelli che vengono dalla legislazione voluta da Giovanni Falcone, ma attenzione: il fenomeno non è estinto, e per continuare a contrastarlo dobbiamo continuare a usare una legislazione speciale”. Tra i pericoli di oggi ci sono le possibili infiltrazioni negli appalti del Pnrr. “C’è da parte di cosa nostra - dice De Lucia - grande interesse al Pnrr perché è nella fase della cantierizzazione dei lavori, è la fase in cui Cosa nostra può entrare con le sue aziende nel mondo dei subappalti. E purtroppo devo dire che la legislazione sugli appalti non è per nulla tranquillizzante, andrebbero intensificati i momenti di controllo e di verifica”. Sui pentiti De Lucia non ha dubbi: “I processi di criminalità possono farsi soltanto in due modi: con le intercettazioni oppure attraverso i collaboratori di giustizia, sono importantissimi, ma essendo un strumento di delicatezza assoluta prima di dare per buone le loro versioni, le verifiche devono essere veramente serie e rigorose. Per credere a un collaboratore di giustizia abbiamo bisogno che le sue dichiarazioni siano credibili e riscontrate”. Poi in riferimento alle illazioni di Messina Denaro prima della sua morte, il procuratore di Palermo ha detto: “Figuriamoci se crediamo alle dichiarazioni di Matteo Messina Denaro, che certo non era pentito, e che aveva tutto l’interesse di avvelenare i pozzi”. Querele temerarie, “Serve una legge Ue che tuteli davvero giornalisti e attivisti” di Martina Castigliani Il Fatto Quotidiano, 15 ottobre 2023 Sono giorni cruciali per le trattative sulla prima legge Ue contro azioni e querele temerarie (le cosiddette SLAPP). Eppure nessuno ne parla. Il testo è stato concepito per tutelare la partecipazione pubblica di giornalisti, attivisti e difensori dei diritti umani. Ma gli Stati membri stanno tentando di indebolire il documento proposto dalla commissione Ue e nelle trattative in corso tra le istituzioni, che coinvolgono anche il Parlamento, si sta cercando un compromesso. Nella speranza che il risultato non stravolga l’intento originario. Per questo gli attori della società civile che sono parte della coalizione anti-SLAPP (CASE) si appellano ai ministri della Giustizia dei singoli Stati. Che però non stanno mostrando aperture. A mancare è prima di tutto una consapevolezza del fenomeno. “I Paesi, nonostante le raccomandazioni della commissione, non hanno neanche iniziato a raccogliere i dati”, spiega a ilfattoquotidiano.it Sielke Kelner, ricercatrice di Osservatorio Balcani Caucaso e membro di CASE. E senza dati è difficile qualsiasi intervento. Per ora, a raccogliere le minacce legali subite da cronisti e attivisti sono piattaforme indipendenti come il Mapping Media Freedom o la stessa CASE. Ma serve qualcosa di più. La direttiva è stata presentata come un’iniziativa in onore della giornalista uccisa Daphne Caruana Galizia, ma come denunciato dal figlio a luglio scorso “se resta così non l’avrebbe mai tutelata” ed “è un grave torto verso i suoi colleghi in tutta Europa”. Ecco perché, dice Kelner, “siamo preoccupati ma è necessario cercare di influenzare il processo finché c’è ancora spazio di manovra”. Di questo e di come creare una rete di sostegno europea si parlerà a Roma, lunedì 16 ottobre, al primo evento di CASE Italia “Per una rete transnazionale di contrasto alle SLAPP: contro i bavagli alla partecipazione pubblica”. A luglio avete scritto al ministro Nordio per chiedere aiuto. Avete avuto una risposta? No, nessuna. Ora abbiamo chiesto un incontro. Siamo in un momento cruciale delle trattative. Possibile ancora arrivare a un compromesso per voi accettabile? Lo speriamo. Il testo della Commissione e poi la proposta del Parlamento sono solidi, ma la proposta avanzata dal consiglio dell’Ue, espressione della volontà degli stati membri, ne ha ristretto il campo di azione, indebolondolo. Tutto dipende da come andranno i negoziati. È tutto in mano agli Stati? Sono loro a essere riluttanti. Spero che ci sia ancora margine di manovra, ma siamo preoccupati. Perché se gli Stati membri continuano a opporre la propria resistenza, qualcuno dovrà cedere. Doveva essere la legge per la libertà di stampa in onore di Daphne Caruana Galizia. Il risultato deluderà tutte le aspettative? Tutti hanno l’interesse di presentare un risultato e chiamarlo successo a prescindere dal fatto che protegga o meno giornalisti e attivisti. Questo significa che se passa una direttiva inefficace, non in grado di proteggere i bersagli delle azioni temerarie, nessuno ci rimetterà mano a breve. Quindi è importante che, finché c’è ancora spazio di manovra, si cerchi di influenzare il processo. Cosa chiedete? Servono delle garanzie procedurali. La prima è la possibilità da parte del giudice di dichiarare inammissibili i casi manifestamente infondati o esagerati: gli Stati l’hanno ridotta ai casi con “una pretesa così palesemente infondata” senza “ogni ragionevole dubbio”. E questo ne riduce l’applicazione. Che fine ha fatto la possibilità che ci sia un risarcimento danni per chi subisce una querela temeraria? Nel testo proposto dagli Stati membri è sparita. Questo sarebbe un forte deterrente: chi abusa dell’istituto della diffamazione ci penserebbe su due, tre volte prima di avviare un’azione legale se ci fosse la certezza di essere obbligato a pagare un risarcimento danni nel caso di abuso di processo. Che effetti può avere la direttiva sulle leggi dei singoli Stati? Si auspica un effetto domino. Il testo proposto dalla Commissione disciplina solo i procedimenti di natura civile con carattere transfrontaliero. Poniamo il caso che il testo venga approvato in questa formulazione. Se siamo in un’aula di tribunale in Italia e stiamo dibattendo di un caso che ha una natura transfrontaliera e il giudice gli accorda maggiori garanzie rispetto a un caso che ha solo una natura domestica, è chiaro che si produce una contraddizione. Ci si auspica che una direttiva forte si porti dietro poi un’evoluzione della giurisprudenza. Perché è importante e non solo per i giornalisti? L’azione temeraria mira a limitare la libertà di espressione su questioni di pubblico interesse. Può riguardare la salute, la sicurezza pubblica, l’ambiente, i diritti. Ad esempio, se un’attivista o una giornalista viene colpita da una SLAPP perché ha protestato o scritto di vicende che riguardano territori nei quali siano stati riversati rifiuti tossici, questo deve interessare tutti noi, è una questione di interesse pubblico. Per capire il peso che hanno le SLAPP sulla società, possiamo chiederci quanti articoli non sono mai stati pubblicati perché il giornalista o l’editore non li hanno scritti per paura di incorrere in un’azione legale? Questo è il peso delle SLAPP. Tutela non solo i giornalisti quindi? Ad esempio riguarda anche i whistleblower. Penso a Francesco Zambon, ex funzionario dell’OMS a cui è arrivata una richiesta di risarcimento danni da 2,5 milioni di euro da parte del direttore vicario dell’OMS dopo le sue denunce sulla gestione della pandemia. Oppure gli attivisti ambientalisti. Come Recommon, ong citata in giudizio per le azioni di campagna contro Eni sul cambiamento climatico. Negli anni le querele temerarie sono aumentate? Difficile dirlo non avendo dati raccolti in maniera sistematica. Perché gli Stati non lo fanno? Parliamo di una nozione che viene concettualizzata alla fine degli anni ‘80 negli Stati Uniti. Ma in Europa, la presa di coscienza arriva solo nel 2017 con la morte di Daphne Caruana Galizia. Quando la giornalista maltese viene fatta saltare in aria, ha 46 cause aperte. Sono azioni temerarie, molte delle quali intentate da politici del governo maltese e una dal premier. Daphne Caruana Galizia muore senza avere accesso ai conti bancari, congelati da un ministro che aveva intentato una causa nei suoi confronti. Il lavoro della sua famiglia è stato fondamentale per arrivare alla proposta di legge europea. E in Italia? In Italia c’è una tradizione di politici che querelano parecchio. È una caratteristica che ci pone più vicini ad alcuni Stati del Centro ed Est europeo, ad esempio la Serbia, la Polonia. Abbiamo tanti politici che ricorrono alle azioni temerarie per cercare di silenziare le critiche. E questo va contro tutta la giurisprudenza della Corte di Strasburgo secondo cui se sei una figura pubblica devi tollerare livelli di critica più alti. Un po’ perché è il tuo mestiere e un po’ perché se vuoi rispondere hai tutti i microfoni per farlo. Avremo mai una legge contro le querele temerarie? Attualmente ci sono cinque disegni di legge in discussione alla commissione giustizia del Senato. Il loro impatto è molto marginale. Teoricamente rispondono a un invito della Corte Costituzionale al Parlamento per una riforma complessiva dell’istituto della diffamazione. Intervengono per togliere la pena detentiva, non basta? La Consulta ha già dichiarato incostituzionale il carcere per diffamazione, tranne in casi di estrema gravità. Alcuni tratti dei disegni di legge sono veramente preoccupanti perché innalzano le sanzioni. Uno dei ddl introduce addirittura una pena accessoria diretta ad una temporanea interdizione dalla professione giornalistica. Sembra quasi che l’intento sia più tutelare chi querela che non il querelato, dando per scontata una sorta di malafede del giornalista. Siamo tra i peggiori su questo fronte? Qualitativamente tra i peggiori. Sono tantissime le figure di altissimo livello che ricorrono alle azioni temerarie, o ne minacciano il ricorso, e questo è molto preoccupante. In Europa quanti sono i casi di presidenti del Consiglio che hanno querelato giornalisti? Che noi sappiamo è successo a Malta e in Italia. Il primo ministro maltese era Joseph Muscat, che aveva querelato per diffamazione Daphne Caruana Galizia, questo ci accosta al peggior caso di studio Ue. Per questo sia Mapping Media Freedom sia CASE stanno monitorando i processi in corso che coinvolgono l’attuale premier italiana: oltre a quello che ha coinvolto Roberto Saviano, lo scorso novembre ha avviato una causa contro Domani. Mentre la sorella ha querelato Natangelo, vignettista del Fatto quotidiano. Prima delle cause di Meloni, limitandosi solo a esempi che hanno coinvolto le cariche più alte dello stato, ricordiamo le querele di De Mita a D’Alema (1988), D’Alema a Forattini (1999) e Berlusconi contro D’Avanzo (2009). Dopo che gli Stati hanno inserito la possibilità di spiare i giornalisti nell’European Media Freedom Act, ora il rischio che sia annacquata anche la direttiva sulle querele temerarie. Come leggete questi atti? La volontà politica che ci sta dietro è molto preoccupante. Cosa può fare la società civile? Fare rete. Io ricordo il caso di una rivista studentesca di Lipsia, “Luhze”, alla quale una società immobiliare tedesca chiese un risarcimento danni di 25.000 euro. La causa è stata ritirata dopo la mobilitazione locale. I giornalisti che hanno il dono della scrittura devono scrivere, gli attivisti fare da cassa di risonanza e gli avvocati prestare le loro competenze. Solo creando una massa critica, in Italia e fuori, possiamo sperare di arrivare a influenzare il processo decisionale. Una legge europea forte contro le azioni temerarie può aiutare la partecipazione? La commissione Ue definisce giornalisti e attivisti come “public watchdog”, ovvero dei guardiani dell’interesse pubblico. Una stampa e un attivismo in salute sono fondamentali per il processo democratico. Ed è interesse di tutti che siano tutelati. È morta Rosetta Cutolo, la sorella di Raffaele: una donna a capo del clan di Roberto Saviano Corriere della Sera, 15 ottobre 2023 Aveva 86 anni: con il boss in carcere, fu lei a guidare la Nuova camorra organizzata. Partecipò al piano di trasformazione del fratello in carcere. Muore con lei la Vecchia Camorra, quella con alla base una sorta di welfare. Non può esistere Raffaele Cutolo senza Rosetta. Rosetta Cutolo non è stata una ancella, una gregaria. Rosetta Cutolo è stata l’organo pulsante della vita del fratello. La sua è un’esistenza tragica, di totale devozione a Raffaele. Un fratello che decide di amare perché con lui condivide la miseria - erano figli di zappatori - e poi il riscatto: riscatto criminale. Rosetta era abilissima nel ricamare, probabilmente una delle più brave sarte del Vesuviano, e questo talento suo fratello Raffaele lo saprà sfruttare. Quando finisce in carcere lei inizia a confezionare cappotti, camicie, pantaloni, giacche. Materiale che sottrae a una piccola azienda che produce vestiti: così permette la costruzione e il pagamento della prima cellula della Nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo. Il fratello inizia ad avvicinare gli affiliati delusi per i mancati pagamenti delle altre famiglie di camorra donando vestiti. I vecchi clan all’epoca di Cutolo, tra gli Anni 70 e 80, si fondavano su un elemento di trascuratezza. Gli affiliati si raccoglievano nel momento di crescita economica e si lasciavano andare in quello di crisi. La trasformazione - Cutolo comprende che la camorra napoletana deve essere organizzata in modo diverso. Rosetta sarà anche in questo fondamentale, perché Raffaele Cutolo il suo impero lo costruisce in carcere. Finisce in cella per un reato disgustoso, per chi come lui si ritiene uomo d’onore. Ossia ammazza Mario Viscito, che non aveva nulla a che fare con la vicenda che aveva innescato la sua iniziale rabbia. Mentre sta correndo con l’auto di Rosetta rischia di investire una ragazza di 12 anni: lui la ritiene responsabile dell’incidente scongiurato e la schiaffeggia. Scatta così una rissa con il fratello, ma un uomo di 31 anni interviene per dividerli e Cutolo lo ammazza. Prende l’ergastolo. Rosetta gli è accanto nella decisione di uscire dalla minorità criminale nella quale finisce in carcere e partecipa al piano di trasformazione del fratello. Raffaele Cutolo passerà 50 anni in carcere. Tranne brevissime fasi di latitanza nelle quali riuscirà ad avere un figlio, Roberto, che verrà ucciso dalla ‘ndrangheta negli Anni ‘90 a Tradate (Varese). Rosetta Cutolo diventa così la figura operativa mafiosa più importante della storia criminale italiana. Ma non si sentirà mai un capo. Anche quando nell’81 un’operazione di polizia scova nel castello Mediceo di Ottaviano - che Cutolo ha comprato per far vivere nel posto più nobile del Vesuviano sua sorella - una riunione della Nco con politici locali: Rosetta è seduta a capotavola al posto dei maschi e trattata come un capo. I compiti di Rosetta - Don Giuseppe Romano, prete e confessore di famiglia, sarà molte volte indicato dagli inquirenti come sua guardia del corpo. Viene ferito a una spalla in un agguato nel 1985 dagli anti cutoliani mentre la trasporta da Napoli a Roma. Scaricano un intero caricatore sul suo corpo. Viene operato, è salvo. Ma qualche giorno dopo misteriosamente muore. In seguito al sequestro del castello, Rosetta di fatto vive come ha sempre vissuto, in modo umile. Gestisce i nipoti, figli di Roberto, ma non vuole che assumano incarichi criminali. Dopo qualche difficoltà accetta anche di accogliere Immacolata, la moglie di Raffaele: lei lo ha sposato senza averlo mai conosciuto fuori dal carcere, vedendolo solo in tribunale o in tv. Immacolata genererà una figlia con inseminazione artificiale, senza aver avuto rapporti con il marito al 41 bis: le darà il suo nome, Immacolata. È una donna che partorisce vergine e che innescherà tutta una serie di immaginari mitologici nella storia di Raffaele Cutolo. Latitanza e resa - Rosetta Cutolo è una donna che vota tutta sé stessa all’uomo della sua vita: il fratello. Le piaceva comunicare un aspetto mite, fermo, ma non aggressivo. Lei si consegnerà alla polizia nel 1993, dopo aver vissuto in latitanza dal 1981. È proprio Cutolo che decide di farla consegnare, quando capisce che l’organizzazione è capitolata e la priorità è metterla al sicuro in carcere. Uscita da lì vivrà poi per sempre a Ottaviano, in una casa modesta. Giuseppe Marrazzo, nel libro capolavoro il Camorrista, si spinge a raccontare una sorta di rapporto d’amore quasi incestuoso tra Raffaele e Rosetta. Lei è anche a conoscenza della grande trattativa dello Stato per far liberare Ciro Cirillo dopo il rapimento delle Br. Trattativa tra Nco, brigatisti e Stato italiano. Cirillo conosceva tutto il sistema delle tangenti, la corruzione di politici, giornalisti, magistrati. Le Br lo sequestrano perché lo ritengono disposto a parlare al primo schiaffo. E così Cutolo è contattato per minacciare i terroristi, fare un accordo e liberarlo. Rosetta lo sa. Ma il fratello la protegge e non le dà i dettagli. Il “Welfare” - Quando Cutolo è latitante in molti sono convinti che la sua protezione sia gestita dai Servizi segreti in cambio della non confessione di Raffaele sul sequestro Cirillo. Lui non ha mai deciso di pentirsi e Rosetta Cutolo nemmeno. Tornata a Ottaviano, dopo dieci anni di carcere, rispetta una regola: non fa mai entrare nessun uomo in casa. Solo suo fratello Pasquale. Muore con lei la Vecchia Camorra. Quella con alla base una sorta di welfare, di cui Rosetta era ossessionata. I soldi dovevano essere distribuiti ai bisognosi, alla chiesa, alle famiglie con figli disabili. Lei era convinta che solo la distribuzione della ricchezza potesse mantenere salda l’organizzazione. E infatti quando la Nco, che non investe tanto nel narcotraffico, si ritrova dopo la prima crisi del contrabbando di sigarette con una mancanza di liquidità, vedrà passare i suoi affiliati ai rivali... Ma lei non si ferma. Diventa per anni l’ufficio collocamento dell’area napoletana, ma anche campana, pugliese e lucana. Questo la rende una figura quasi venerata, cosa che non sopportava, infastidita da visibilità e fama. Morta Rosetta Cutolo: è lei che ha inventato la camorra “assistenziale” di Amalia De Simone e Titti Beneduce Corriere del Mezzogiorno, 15 ottobre 2023 Nelle sue mani la gestione del clan, in nome di Raffaele. Lo dichiara Piero Marrazzo, giornalista, il cui padre, Joe, a sua volta giornalista, fu autore di una lunga intervista a Rosetta: “Quando mio padre per primo riuscì a intervistarla - continua Marrazzo - lei mentì sul ruolo di Raffaele, che definì uomo caritatevole, attento a chi cercava lavoro e ai carcerati, senza attribuirgli minimamente quell’accezione criminale che lo portò in pochi anni ai vertici della camorra, seminando paura e morte”. Nacque così la funzione assistenziale della camorra, con lei, Rosetta Cutolo, sorella del boss Raffaele, ‘o professore, personaggio carismatico, pericoloso e visibile. Lei invece agiva nell’ombra e nell’ombra ha gestito l’organizzazione, l’economia, il consenso, la politica, di uno dei clan più potenti della storia criminale italiana. È morta ieri, ad Ottaviano dove ha sempre vissuto. “E io sempre qua sono stata, anche da latitante”, diceva con quel ghigno a mezza bocca freddo, sicuro e quasi beffardo di chi sa troppo ma non dirà mai nulla. Di chi afferma di stare dalla parte del bene, nonostante il sangue, i morti e l’abisso di una storia criminale che non ammette appello. E infatti si è raccontata come una donna devota, è andata a messa fino a che le gambe le hanno retto. Sul suo manifesto funebre ieri, accanto al nome e al cognome, c’era il nomignolo “delle monache”, che forse racconta un po’ della sua vita. Si dice che quando si nascondeva alla giustizia sia stata accolta in convento, che qualche esponente della chiesa l’abbia aiutata. Si dice anche che i servizi segreti l’abbiano protetta. Poi però fu lei a consegnarsi e trascorse 6 anni (dei 10 originariamente previsti) in carcere dove si diede al teatro, recitando da protagonista Filomena Marturano. “E figl so piezz e core” e forse pure i fratelli. “Io aiuto mio fratello che fa solo cose buone” disse in un’intervista a Joe Marrazzo sempre con lo stesso ghigno e gli occhi di ghiaccio tesi come quelli di un serpente. “Le cose buone”, nel suo gergo, era “l’antiStato sociale”. E infatti c’era lei alla fine delle file chilometriche di persone che, come devoti in processione, andavano a chiedere la “grazia” al boss. Ma Don Raffaè era detenuto e questi affari li sbrigava lei, Rosetta. Un ministro del welfare che assicurava posti di lavoro, assistenza sanitaria, dirimeva controversie, intercedeva presso politici, sindaci e istituzioni varie. Perché l’istituzione percepita dalla gente era lei, lì in quel Sud salvadanaio, depresso e dimenticato da quello Stato che si costerna, s’indigna, si impegna e poi getta la spugna con gran dignità. E quindi, stringeva mani, segnava nomi, costruiva consenso. Le invocazioni denunciate da Fabrizio De Andrè: “Voi che date conforto e lavoro. Eminenza, vi bacio, v’imploro”, si trasformavano in voti che si trasformavano ancora in potere, appalti e soldi. Nco: Nuova camorra organizzata, perché il clan aveva una gestione innovativa e manageriale e tutto questo era nelle mani di quella donna scaltra e solo sedicente gregaria del fratello. E il prezzo che la nostra terra ha pagato per tutto questo è stato altissimo. Morti di camorra, morti innocenti, gestione illegale e criminale della cosa pubblica e privata. Da allora in avanti il cancro della camorra non ha mai più lasciato gli scranni della politica, da allora in avanti è sembrato legittimo confondere il favore e il diritto, svuotando quest’ultimo di valore e significato. Da allora in avanti le mazzette, le tangenti sono diventate normali, da allora in avanti la gente si è assuefatta alla paura e alla subcultura mafiosa. Da allora in avanti la camorra è diventata impresa, economia, lobby, e il suo agire sempre più impalpabile. Rosetta ha vissuto parte del suo tempo nel castello mediceo di Ottaviano dove aveva soggiornato anche Gabriele d’Annunzio, oggi restituito alla società civile. Come una regina, si potrebbe dire. Ha lasciato ancor prima di morire, un’eredità alle altre donne di mafia degna dei maestri più cattivi. Dopo di lei Anna Mazza, Teresa De Luca Bossa, Erminia celeste Giuliano, Maria Licciardi e insieme a lei Pupetta Maresca: tutte manager col colletto sporco di sangue. E tutte reginette di castelli effimeri. Per questo Rosetta e le sue ideali rampolle non possono avere nulla di leggendario se non nel loro vissuto che alla fine è costellato di miserie e dolore. Le vere regine sono Susetta, Anna, Carmela, Rita che hanno i padri boss morti ammazzati, i fratelli e i mariti in carcere e tutti giorni lavorano dove trovano da fare, maledicono la camorra e affidano i loro figli alla scuola e alle associazioni che nelle periferie si sostituiscono (questa volta degnamente) allo Stato. Le vere regine a volte vivono nei bassi o nelle case di edilizia popolare e nonostante abbiano giornate lunghissime e faticose, nonostante la diffusa indifferenza che le schiaffeggia ogni giorno, si rimboccano le maniche e resistono al male. Calabria. Il progetto “Liberi di scegliere” diventa legge regionale di Enzo Bubbo calabriainforma.it, 15 ottobre 2023 La ‘ndrangheta in Calabria non si contrasta solo nelle aule dei tribunali, ma c’è una presa di coscienza della società civile sulla pericolosità del crimine organizzato. Servono esempi positivi da emulare e da indicare alle nuove generazioni: “Liberi di scegliere” ha contenuti che lasciano basiti e per questo è diventata legge. Esiti confacenti alle attese per la presentazione del progetto regionale e nazionale “Giustizia e umanità Liberi di scegliere”, promosso ieri nella città capoluogo dall’associazione culturale Biesse, acronimo di bene sociale. L’incontro è stato promosso da Biesse bene sociale in sinergia con il Comune di Catanzaro, il consiglio regionale della Calabria e l’associazione La voce della legalità. La prolusione del confronto è toccata al presidente nazionale fondatrice Biesse Bruna Siviglia. Ha detto la promotrice della legge regionale sulla legalità: “Giustizia e umanità Liberi di scegliere è un progetto rivoluzionario che si ispira alle intuizioni del giudice siciliano Roberto Di Bella e da due mesi è una legge regionale dal respiro nazionale grazie a un concorso, a borse di studio. La Calabria è avanti in fatto di legislazione antimafia e di questo ringrazio il Consiglio regionale e in modo particolare il presidente Filippo Mancuso”. Tra gli oratori anche il primo cittadino Nicola Fiorita che ha lodato l’operato dell’associazione catanzarese Una voce per la legalità in quanto “fucina di idee” e ha ammonito gli astanti “a mantenere alta l’attenzione dopo i tre episodi di illegalità verificatisi negli ultimi giorni a Catanzaro”. L’assessore regionale Filippo Pietropaolo ha disquisito “sugli edificanti obiettivi della legge regionale, iniziativa che avrà ricadute importantissime di cui non si ha ancora consapevolezza”, assicurando sostegno della Giunta regionale che dispone ora anche una delega su legalità. Ha proferito parola anche il presidente dell’Ordine degli avvocati Vincenzo Agosto che ha argomentato sull’assunto “illegalità uguale schiavitù”. Se Liberi di scegliere è legge regionale un ruolo decisivo l’ha avuto il presidente del consiglio regionale Filippo Mancuso che, argomentando sulla misura regionale in tema di legalità come patrimonio da custodire, ha asserito “che la mafia fa schifo e bisogna starsene lontani”, chiedendo alla politica “di dare il buon esempio”. Il responsabile della presidenza di Palazzo Campanella ha invitato i giovani “a studiare con assiduità per costruire insieme una società migliore.” Se l’incontro ha avuto un ottimo riscontro, il merito va ascritto all’associazione La voce della legalità, rappresentata dal presidente Giulia Anna Pucci e dal vicepresidente Simone Rizzuto. La prima ha lodato il progetto Liberi di scegliere in quanto “indica un’alternativa possibile per ragazzi cresciuti in ambienti refrattari alla legalità”. L’avvocato Simone Rizzuto ha esortato invece gli studenti a decidere da che parte stare e a farlo con gesti concreti. Non si è perso in preamboli il sostituto procuratore della Dda di Catanzaro Annamaria Frustaci, esponente di spicco della Procura di Catanzaro. La giovane magistrata calabrese, anche autrice del libro “La ragazza che voleva sconfiggere la ‘ndrangheta”, ha esortato “i ragazzi ad essere promotori del cambiamento, stigmatizzando la rassegnazione e l’immobilismo”. Per Annamaria Frustaci ci sono “tanti scenari di riflessione nel progetto Giustizia e umanità Liberi di scegliere perché contempla un’esistenza diversa in contesti diseducativi fuorvianti tramite un’eredità rinunciata”. Non poteva mancare il contributo del giudice del Tribunale dei minorenni di Catania, è l’ispiratore della prima legge regionale in Italia in fatto di contrasto alle mafie. Roberto Di Bella e la Calabria: c’è affinità elettiva. Il magistrato siciliano ha chiamato in causa le scuole calabresi: “Ora che c’è una legge regionale, tocca alle scuole alimentare un percorso di sensibilizzazione per portare nuove speranze in una terra bellissima e drammatica. La Calabria ha tutto per sconfiggere il virus della ‘ndrangheta perché abitata da persone che hanno umanità, passione e professionalità. La ‘ndrangheta controlla traffico di cocaina in Europa e ha legami in tutti i continenti. Con un approccio non solo penale, ma anche civile, non solo giudiziario, ma anche culturale, possiamo recuperare tanti giovani da un destino già scritto. La ndrangheta non si sceglie, si eredità: l’ho constatato in tante famiglie calabresi dove l’indottrinamento mafioso passa dai nonni ai nipoti passando per i figli”. Dopo l’intervento degli oratori, alcuni studenti della scuola secondaria di primo grado hanno fatto domande ai relatori, mentre altri discenti della scuola secondaria di secondo grado hanno cantato e suonato, omaggiando il coraggio della testimone di giustizia Lea Garofalo. Tra gli astanti anche ragazzi in messa alla prova della Comunità ministeriale di Catanzaro: non è mai troppo tardi per intraprendere la strada maestra della giustizia. Roma. A Rebibbia detenuto 58enne muore per un malore, la famiglia presenta denuncia Corriere della Calabria, 15 ottobre 2023 L’uomo avrebbe dovuto subire un intervento per problemi di salute. Era accusato di associazione mafiosa. La famiglia ha sporto denuncia contro ignoti. È morto nel carcere di Rebibbia Rosario Leonetti, 58 anni, di Cirò Marina. L’uomo era ristretto in carcere in seguito all’operazione “Ultimo atto” della Dda di Catanzaro, scattata a febbraio 2023 e considerata una prosecuzione dell’indagine “Stige” contro le cosche del Cirotano. Leonetti, difeso dall’avvocato Antonio Lomonaco, era accusato di associazione per delinquere quale partecipe dell’associazione mafiosa del locale di Cirò e reati in materia di armi. Il prossimo giovedì era prevista discussione in Cassazione in merito al ricorso avverso l’ordinanza di conferma della custodia cautelare in carcere. Leonetti, inoltre, avrebbe a breve subito un intervento chirurgico programmato all’esterno del carcere poiché presentava dei problemi di salute. In attesa di capire le cause del decesso, la famiglia, assistita dall’avvocato Lomonaco, ha depositato presso la stazione dei carabinieri di Cirò Marina una denuncia a carico di ignoti per il reato di omicidio colposo. Trani (Bat). Il carcere è sovraffollato “Situazione esplosiva”. Arriva Delmastro di Giuseppe Di Bisceglie Corriere del Mezzogiorno, 15 ottobre 2023 Da tempo i sindacati di Polizia penitenziaria lamentano difficoltà nell’operare all’interno delle carceri pugliesi, a causa dell’esiguità del personale impiegato e del numero di detenuti ben superiore rispetto a quello stabilito dalla legge. Una situazione che rende complicata la gestione delle strutture. Tra le carceri più affollate in Puglia c’è la casa circondariale di Trani che attualmente ospita circa 400 persone, quasi il doppio della capienza massima della struttura. È qui che, domani, sarà in visita il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro, proprio per verificare le condizioni in cui vivono i detenuti e ascoltare gli agenti penitenziari sui problemi riscontrati nello svolgimento del loro lavoro. Delmastro sarà in visita anche alla casa di reclusione femminile, sempre a Trani, una delle cinque carceri italiane destinate ad ospitare esclusivamente donne. Il presidente nazionale del Sappe, sindacato autonomo della polizia penitenziaria, Federico Pilagatti, ha recentemente affermato che “le carceri pugliesi sono tutte illegali” poiché violerebbero una serie di leggi in materia di sicurezza sul lavoro; non vi sarebbe un autentico percorso rieducativo dei detenuti; non verrebbe tutelato il diritto alla salute dei detenuti stessi e “perché sono costretti a vivere come bestie in strutture fatiscenti”. Il carcere di Trani, struttura di interesse nazionale per essere stato in passato penitenziario di massima sicurezza ed aver ospitato criminali e terroristi tra i più pericolosi della storia dell’Italia del secondo dopoguerra, oggi è una casa circondariale. Soltanto una settimana fa gli agenti penitenziari hanno scoperto, addosso ad uno dei 23 detenuti cui era stato permesso di uscire per partecipare a una cerimonia religiosa, 14 grammi di cocaina. La droga, sospetta il segretario Pilagatti, probabilmente sarebbe stata spacciata all’interno del penitenziario. Venezia. “Così, con il lavoro al posto del carcere, do senso all’oggi e al domani” di Giorgio Malavasi genteveneta.it, 15 ottobre 2023 Camminare sotto il cielo e non sotto il soffitto di una camera chiusa a chiave fa una bella differenza. Ma rischia di contare poco se non si ha un lavoro, un tetto per la notte, e soprattutto una direzione verso cui andare. Luca (nome di fantasia) lo ha provato sulla sua pelle: la galera è dura. Dalla prigione si vuole uscire il più presto possibile: alcuni, ahimè, per ricadere negli errori precedenti, chissà se volontariamente o meno; altri per avviare una seconda e migliore vita. Per questo le misure alternative al carcere - come quelle introdotte di recente dallalegge Cartabia, a partire dal lavoro alternativo al carcere - sono fondamentali: “Ma a patto che…”, attacca Luca. Ma prima di mettere i puntini sulle “i”, capiamoci su chi sta parlando. Luca ha avuto una condanna definitiva per un reato finanziario: tre quarti della pena li ha già scontati in prigione, tra custodia cautelare e detenzione dopo la condanna. L’ultimo tempo da detenuto è iniziato invece da poco in forma diversa: tecnicamente si tratta di affidamento in prova ai servizi sociali. Misure alternative al carcere: un’opportunità per reintegrarsi prima e meglio nella società Segretario in un ufficio, per ricominciare. Tradotto in pratica: Luca va tutti i giorni a lavorare, a Venezia, come segretario in un ufficio. “Poi - racconta - faccio anche volontariato in una chiesa della Diocesi, dove svolgo il servizio di guardiania. Lavoro volentieri, mi alzo al mattino con un obiettivo, faccio delle cose, do un senso alla mia giornata e così rientro un po’ per volta nella società civile. In più mi dedico anche al volontariato, perché se prima ho fatto un danno alla società, oggi voglio restituire; il danno rimane, ma io cerco di compensare”. Ecco, siamo nel cuore della faccenda, perché le misure alternative al carcere sono fondamentali - sottolinea il protagonista di questa vicenda - ma solo se prima il detenuto ha svolto un vero lavoro di intelligenza e coscienza su se stesso. Che vuol dire? “Vuol dire che io il reato l’ho fatto e lo devo pagare. È una cosa che non tutti i detenuti purtroppo vogliono o riescono a capire: la galera è l’effetto, la causa sono io. Il carcere non è un tumore, non capita come un fatto imprevedibile; se io non commettevo quel reato e se avessi lavorato come una persona seria, non sarei qua: per quanto mi riguarda questo è stato il mio più grande errore ed è il mio maggiore rimorso. Oggi mi pento di una cosa: lavorando onestamente sarei arrivato comunque ai miei obiettivi bene e, anzi, meglio, evitando l’onta. Purtroppo sono stato scemo: ho scelto una scorciatoia che mi ha portato nel baratro. E quel marchio di Caino che ora ho addosso sarà ben difficile da eliminare”. Capire l’errore, grande fatica. Questo è l’esame di coscienza, secondo Luca: “È un passaggio che tutti i detenuti dovrebbero fare, da soli o aiutati, perché per molti è difficile arrivarci autonomamente. Ma a quel punto, quando riesci a capire che hai fatto un errore, ecco che la misura alternativa diventa propedeutica per il reinserimento”. Ecco, appunto: ma la maggioranza dei detenuti è in grado di fare questi passaggi? “Da soli perlopiù no: cultura modesta e l’appartenere a contesti sociali diversi, provenendo da esperienze delinquenziali differenti, non aiuta. Per tanti essere lì in una cella è colpa del mondo, mai colpa loro. Per fare questo passaggio serve invece un’onestà intellettuale per raggiungere la quale occorrerebbero più educatori e assistenti sociali, che però scarseggiano. Si investe poco in queste risorse, che produrrebbero vantaggi per tutti, anche per chi sta fuori: per chi esce dal carcere con un lavoro in mano o un mestiere è provato che la probabilità di recidivanza (cioè di commettere di nuovo reati) scende in maniera significativa. Esistono esperienze di carceri come Padova o Bollate che lo provano senza ombra di dubbio, carceri dove nonostante le difficoltà e le esigue risorse umane e di mezzi si opera per il reinserimento sociale e lavorativo del detenuto”. Poi c’è tutto il problema del “fuori dalla cella”, sia quando si vive il periodo delle misure alternative sia quando si è finito di scontare la pena. La cosa peggiore, quando un detenuto esce, è che non sa cosa fare, come fare, dove andare…: “Senta cosa mi ha scritto un mio ex compagno di cella: “Fuori, senza soldi, senza un mestiere, senza un diploma non fai nulla”. Ecco, bisogna creare le condizioni, prima e dopo, per non lasciare sole le persone che escono dal carcere”. Gli incentivi che mancano. Ovvero: in carcere, anche grazie alle cooperative esterne, si tratta di formare al lavoro; fuori si tratta di offrire lavoro. “Ma oggi - riprende Luca - secondo me non andiamo oltre il 20% di aziende che accolgono ex detenuti. Al momento queste assunzioni sono garantite quasi solo da cooperative sociali di tipo B che assumono soggetti svantaggiati, ma è ancora troppo poco”. E perché le aziende diciamo normali non li accolgono? “Perché mancano incentivi e agevolazioni, cioè riduzione dei contributi e delle imposte per chi assume ex detenuti. Quando queste misure erano state applicate, per esempio con la legge Smuraglia (che è del 2000 e poi è stata abbandonata), le assunzioni erano aumentate. E troverebbero lavoro in tanti, perché oggi le aziende se ne gioverebbero anche a livello di immagine: il fatto di prendere soggetti svantaggiati è un valore aggiunto. Essere etici oggi non è solo una scelta di civiltà, ma anche di convenienza”. Il problema, quindi, è di natura politica: “È il governo, con la sua politica, che dovrebbe mettere gli operatori del settore e le aziende nelle condizioni di creare il circolo virtuoso, anche riducendo la burocrazia che in questi casi rallenta gli inserimenti. Perché vale la pena ricordare che un ex detenuto inserito nella società civile è un successo ed una risorsa per la società stessa; un detenuto recidivo è un problema e un fallimento della stessa”. Napoli. Detenuti di Poggioreale al lavoro nel Parco archeologico di Pompei ilroma.net, 15 ottobre 2023 Reduce dall’esperienza positiva, tuttora in corso, che vede il Parco archeologico di Pompei già sede per lo svolgimento di lavori di pubblica utilità per imputati non ancora sottoposti a processo, il Parco si apre ad una più ampia forma di inclusione sociale, attraverso il protocollo d’intesa tra il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria - Casa Circondariale “Giuseppe Salvia” di Poggioreale, il Tribunale di Sorveglianza di Napoli e il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale e che consentirà ai detenuti di contribuire in attività di lavoro di pubblica utilità non retribuita, presso i siti archeologici del Parco. La presentazione dell’accordo e la firma del protocollo avverranno lunedì 16 ottobre alle ore 12 presso l’Auditorium degli scavi alla presenza del Direttore del Parco Archeologico di Pompei, Gabriel Zuchtriegel; del Direttore della Casa Circondariale “G. Salvia” Poggioreale, Carlo Berdini, del Garante regionale dei detenuti della Campania, Samuele Ciambriello e del Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Napoli, Patrizia Mirra. Interverranno anche il Provveditore regionale dell’Amministrazione Penitenziaria Campania, Lucia Castellano e il Capo Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Giovanni Russo. Ferrara. Teatro in carcere, un incontro pubblico sul progetto “Passi Sospesi” ferraratoday.it, 15 ottobre 2023 L’iniziativa rientra nell’ambito del progetto Erasmus+ “The art of theatre as a second chance”. In occasione della conclusione del progetto The art of theatre as a second chance, co-finanziato dal programma Erasmus+ dell’Unione Europea, Balamós in collaborazione con il Ctu di Ferrara, organizza un incontro pubblico sul tema del teatro in carcere. L’incontro si terrà martedì 17 ottobre, alle 18 nella sede del Ctu in via Savonarola 19. Dopo la proiezione del video documentario di Marco Valentini sul progetto teatrale ‘Passi sospesi’ di Balamós negli istituti penitenziari di Venezia, si terrà una discussione pubblica per riflettere sulla funzione del teatro negli istituti penitenziari, confrontarsi sul rapporto tra carcere e territorio, comprendere quale ruolo può avere la società nel percorso rieducativo della pena. Al centro dell’attenzione dei promotori c’è la considerazione che le buone pratiche del teatro costituiscono un elemento fondamentale per una reale crescita delle persone detenute e per il potenziamento del loro percorso di risocializzazione. Attach è un progetto del programma Erasmus+, promosso dall’Università della Tessaglia, dalla Scuola dell’Istituto penitenziario di Domokòs, Balamós, Theatre De l’Opprimè ed Eurosuccess Counsulting. Il programma della giornata prevede i saluti di Giuseppe Lipani, direttore del Ctu, l’introduzione di Michalis Traitsis, regista e pedagogo teatrale di Balamós, conduttore del progetto ‘Passi sospesi’ negli istituti penitenziari di Venezia. Spazio quindi alla proiezione del video documentario di Marco Valentini ‘Passi Sospesi’, della durata di 20 minuti. Quindi, gli interventi di Marco Foffano, garante dei detenuti del Comune di Venezia in collegamento video; Stefania Carnevale, docente di Diritto penitenziario, delegata Unife alle relazioni con l’Amministrazione penitenziaria; Andrea Pugiotto, docente di Diritto costituzionale dell’Università di Ferrara; Vito Minoia, presidente del Coordinamento nazionale teatro in carcere in collegamento video. A seguire, il dibattito pubblico e le domande. Spazio quindi a un video di Marco Valentini dal progetto ‘Passi Sospesi’ di Balamós negli istituti penitenziari di Venezia, dal 2017 al 2021, Il video documenta il percorso e le metodologie del laboratorio teatrale, le prove e l’allestimento degli spettacoli, l’incontro e il confronto con artisti e maestri del teatro contemporaneo ma anche con alunni delle scuole medie e dell’Università, la presentazione di spettacoli provenienti dall’esterno. Il video di Marco Valentini rivela come lo scambio tra teatro e carcere possa essere proficuo in entrambe le direzioni. Il teatro offre al carcere la sua scienza delle relazioni umane, in un luogo dove troppo spesso il rapporto umano viene declassato a rapporto di potere. Il carcere a sua volta, nell’evidenza della sua dimensione totalizzante, ridona all’arte della finzione uno squarcio di verità. La prima inquadratura del video Passi Sospesi è una porta che conduce direttamente negli scorci di una città, la cui arte e la cui bellezza riescono ad andare oltre ogni offesa e speculazione umana. Basta il tempo di una corsa sul battello, per ritrovarsi dietro altre porte e altre mura, quelle del carcere. Immagini in apparenza così lontane e contrastanti introducono alla riflessione su quale dialogo sia possibile tra ‘dentro’ e ‘fuori’, e soprattutto su come l’arte e la cultura possano contribuire a ridisegnare i luoghi e su come sia possibile trovare poesia e bellezza ovunque. Nei frammenti mostrati nel video di Marco Valentini, la ricerca è non solo volta a trovare una dimensione poetica e trasformativa al dolore, ma anche a esplorare e consegnare bellezza attraverso la delicatezza e la scompostezza di un gesto, di un racconto di corpo e d’anima, di una voce che rende ogni parola viva e piena. Del resto la potenza del teatro, ancor più in situazione estreme, è quella di originare un tempo sospeso, dove succede qualcosa che è un mondo altro, dove si sperimenta la possibilità di guardarsi dentro, di toccare la nudità delle paure e dell’oscurità ma, al contempo, di prenderne le distanze, trasformandole non solo in parole e azioni ma nella realizzazione dell’attore che esibisce la poesia del vivere. Nel qui e ora, dove non c’è certezza di ciò che sarà e di ciò che rimarrà ma si mostra quanto un momento di vita resista e oltrepassi i fili spinati di una cultura di morte. In ogni modo qualcosa è accaduto, il corpo ha la possibilità di memorizzarlo e di attivare nuove immagini e processi di resistenza: un primo passo verso una cultura di vita. Ed è soprattutto l’esperienza delle immagini che può contribuire a creare nuovi copioni e nuove visioni di sé. Questa è l’essenza del lavoro di Marco Valentini tra la bellezza svelata e la bellezza celata dietro un gesto, un movimento, uno sguardo. La democrazia non è un destino. Ma resta comunque un dovere di Paolo D’Angelo* Il Domani, 15 ottobre 2023 La democrazia non è un destino univoco della modernità, e potrebbe esserne solo un episodio. Carlo Galli, il più filosofo tra i nostri politologi, analizza le condizioni presenti dei regimi democratici alla luce delle esperienze del passato. Quando nel 1989 è cadde il muro di Berlino fummo in molti a pensare che per la democrazia si aprisse una stagione radiosa, sia nel senso che sarebbe stata possibile una sua diffusione nel mondo, là dove la democrazia non c’era mai stata o aveva cessato di esserci, sia nel senso di un suo rigoglio nei paesi che in democrazia vivevano. Quasi trentacinque anni dopo, ben poco di quelle speranze, o illusioni, è ancora in piedi, nell’un senso e nell’altro. In Europa, paesi che sembravano avviati sulla via dei regimi democratici hanno subito pesanti involuzioni in senso opposto, scivolando verso l’autoritarismo delle cosiddette “democrature”, in cui l’involucro della democraticità non riesce a nascondere l’anima dittatoriale. I tentativi di esportare la democrazia con la forza delle armi, dove era merce ignota, sono prevedibilmente naufragati. E se qualche paese extraeuropeo ha fatti passi verso la democrazia, la crisi ha finito per contagiare anche paesi che la conoscevano da decenni, o addirittura da secoli. L’assalto a Capitol Hill dei seguaci di Donald Trump non ha solo smentito la tesi di Marx, che gli eventi storici si presentano una prima volta come tragedia e una seconda come farsa, perché qui la farsa e la tragedia sono andate insieme: ha anche messo tutti di fronte alla possibilità che la democrazia venisse sovvertita persino dove credevamo avesse le radici più profonde. È fiorita così quella che orami è una nutrita letteratura sulla fine della democrazia, sul suo svuotamento, sulla post-democrazia, la democrazia illiberale, la democrazia S.p.A. e, ossimoro supremo, la democrazia oligarchica. La democrazia non è un destino - Da questa letteratura il libro di Carlo Galli, “Democrazia, ultimo atto?” (Einaudi 2023), si distingue non solo per la scelta di dare all’analisi politica tutta la profondità storica che essa richiede, ma anche per la determinazione a non chiudere lo spazio all’impegno possibile per la democrazia, seppellendolo sotto l’ineluttabilità di una diagnosi nefasta. La democrazia, più che un destino, resta un dovere. Non è una necessità storica, non ha dietro di sé nessuna garanzia provvidenziale; è piuttosto un episodio della modernità che il suo esito inevitabile. Siamo talmente abituati ad associare significati positivi alla democrazia che tendiamo a dimenticare che la parola stessa “democrazia” ha avuto fino alla metà dell’Ottocento un senso negativo, denigratorio. Ancora per Kant indicava un difetto, non un pregio del regime politico. La democrazia, inoltre, non è uno stato perfetto, un ideale realizzato: non esiste democrazia in senso assoluto, la democrazia essendo sempre un’approssimazione e non un raggiungimento. Appunto se guardiamo al passato scopriamo subito quanto le forme storiche della democrazia siano rimaste lontane dalla realizzazione di una completa partecipazione democratica. I regimi liberali che si sono fatti strada nell’Ottocento, e che pure hanno creato in gran parte le cornici istituzionali della democrazia, i parlamenti, i partiti, la separazione dei poteri, il dibattito pubblico, escludevano dalla partecipazione democratica buona parte della loro popolazione: le donne, gli analfabeti, i non abbienti, e solo lentamente sono arrivati al suffragio universale maschile. Galli mostra in modo incontrovertibile come la grande crisi delle democrazie europee dopo la Prima guerra mondiale, quando gran parte dell’Europa occidentale cadde sotto la dittatura, si originò dalla incapacità di quei regimi, pur formalmente democratici, di includere le masse popolari in un sistema socialmente coeso, lasciando così che le masse potessero riconoscersi in un Capo, anziché nelle istituzioni liberali. L’incontro fra democrazia e liberalismo fu un incontro mancato proprio in quell’Europa che aveva inventato entrambi. Il risultato è stato che la democrazia è tornata in Europa, dopo la sconfitta del nazifascismo, come merce d’importazione, come un prodotto essenzialmente anglosassone. La liberaldemocrazia o socialdemocrazia che ha retto gli stati dell’Europa occidentale, tra il 1945 e il 1975, i “Golden Thirty” in cui la libertà è venuta a patti con l’eguaglianza, in cui la società civile ha saputo articolarsi in una serie di soggetti (partiti, sindacati, associazioni) senza spaccarsi, è stata un’epoca di benessere alla quale Galli guarda con percepibile anche se velata nostalgia. Ma è stata anch’essa, come sempre la democrazia, un equilibrio instabile, un parallelogramma di forze destinate a scomporsi. E in realtà aveva già al suo interno, agli occhi di Galli, due elementi contraddittori. Quello, inevitabile, di non poter essere che occidentale, la poneva in contrasto con l’aspirazione universalistica che la democrazia porta con sé; l’altro, più recondito, di demandare l’uso della forza, e la decisione della guerra, a una potenza esterna, la privava del controllo sulla dimensione pura della politicità, che, ci ricorda Galli (non per nulla il più autorevole interprete di Carl Schmitt), resta una dimensione inaggirabile nella vita degli Stati. L’equilibrio instabile delle socialdemocrazie si rompe al finire degli anni Settanta sotto la spinta delle crisi economico-finanziarie che prendono le forme della stagflazione (stagnazione economica unita ad alta inflazione), disoccupazione, crescita fuori controllo della spesa pubblica. La risposta non venne dalla socialdemocrazia, ma dal capitalismo che trovò in sé l’energia per un modello nuovo di società, quella che Galli ha buon gioco a denominare democrazia neoliberista. Fiducia in sé stessa, euforia espansiva, globalizzazione, innovazione tecnologica sembrano caratterizzare questa democrazia, che comprime i diritti soggettivi di natura socioeconomica pur lasciando spazio a quelli individuali e civili. La democrazia, però, resta un dovere Dopo l’euforia, però, è in agguato la disforia; dopo l’entusiasmo, il disincanto. Il Ventunesimo secolo revoca molte di queste certezze e fa emergere sempre di più quella carenza di partecipazione popolare che della democrazia moderna non può che essere l’anima. Gli eventi traumatici più recenti, pandemia, guerra, inflazione, finiscono per esacerbare tensioni che già si erano manifestate segnalando le debolezze della forma che sta assumendo la democrazia. La più evidente è la crisi dei partiti tradizionali. Quando Norberto Bobbio, all’inizio degli anni Ottanta del Novecento, si interrogava sul futuro della democrazia indicava nella invadenza dei partiti e nella loro burocratizzazione il rischio più grande. Oggi vediamo il contrario, la perdita di centralità di partiti e parlamento, l’astensionismo elettorale diventato ormai maggioritario; e, di contro, le fiammate populiste e l’innamoramento sempre più transitorio ed effimero per il leader di turno. La mediazione sociopolitica del partito tende ad esser soppiantata dal potere mediatico e dalle comunicazioni social. In queste analisi la capacità di ricostruzione storica di Galli si salda con l’analisi sociologica di stampo francofortese, adorniano. Ma, pur nel disincanto e, a tratti, nella indignazione, non ne condivide l’esito paralizzante. Di fronte a chi ritiene che la tecnica onnipervasiva, capace di sostituire l’automatismo all’autonomia, il controllo attraverso i big data alla scelta del singolo, segni necessariamente la chiusura di ogni spazio di democraticità, Galli può ricordare che è necessario trovare soluzioni politiche, non tecniche, “cioè contrapporre un diverso potere al potere che si serve della tecnica”. A chi ritiene impossibile opporsi alla società data driven e alla omologazione dei prodotti dell’intelligenza artificiale, Galli può ricordare che l’IA non è che riproduzione del mondo come è, del già-pensato e del già-detto, e in quanto tale è l’opposto della riflessività, della capacità critica, dell’innovazione, della libertà. A chi ritiene irreversibile la marginalizzazione del discorso critico e del ruolo degli intellettuali, Galli replica che “solo l’incessante opera della critica è la dimensione in cui la speranza della democrazia può oggi sopravvivere”, e auspica perciò che si apra una nuova stagione dell’impegno pubblico degli intellettuali. Non sappiamo quanto questo auspicio sia destinato a realizzarsi; ma certo questo libro è insieme un esempio e un passo verso la sua realizzazione. *Filosofo Più discriminazioni e diritti negati: quando il datore di lavoro è l’algoritmo di Francesca Bria* La Stampa, 15 ottobre 2023 Le recenti battaglie di Hollywood tra gli sceneggiatori e i robot che minacciano il loro lavoro avrebbero dovuto essere un campanello d’allarme per milioni di lavoratori europei. Chi proteggerà i nostri diritti dagli algoritmi, che sempre più si comportano come i nostri capi? I nostri luoghi di lavoro, dalle fabbriche agli uffici, sono radicalmente trasformati dalla proliferazione di robot, algoritmi e intelligenza artificiale. Ma sono i giganti della tecnologia, non i lavoratori, a raccogliere la maggior parte dei benefici. Le mansioni lavorative sono sempre più frammentate e distribuite geograficamente lungo la catena del valore globale. Gli algoritmi ora monitorano l’attività lavorativa in tempo reale, ma se non controllati, comportano il rischio di sfruttamento o discriminazione. Amazon rappresenta al meglio questo cambio di paradigma. La dipendenza dell’azienda dagli algoritmi per monitorare la produttività dei lavoratori è sotto crescente indagine. Gli algoritmi regnano sovrani in Amazon: assumono, valutano e licenziano milioni di persone con poca o nessuna supervisione umana. Un lavoratore, durante uno sciopero a luglio di quest’anno presso un magazzino di Amazon a Coventry nel Regno Unito, ne ha dichiarato l’impatto disumanizzante: “Possono monitorarti al minuto, per ogni attività - è microgestione”. Sono ormai 22 gli scioperi da gennaio. L’azienda è anche coinvolta in altre controversie legali, tra cui una storica causa antitrust per abuso di posizione dominante avviata a settembre dalla Federal Trade Commission degli Stati Uniti e da 17 procuratori generali statali. Talvolta si sostiene che l’ascesa di nuovi “capi algoritmici”, responsabili dell’automazione di compiti come le assunzioni, l’assegnazione delle mansioni, la determinazione degli stipendi e persino i licenziamenti, possa aumentare l’efficienza, soprattutto in un momento di produttività stagnante. Tuttavia, nel nostro dibattito pubblico è assente il modo in cui l’estrazione dei dati viene utilizzata per aumentare la sorveglianza, rischiando di rafforzare le disuguaglianze razziali, di genere e di classe, e la progressiva perdita del diritto di accesso ai dati prodotti dai lavoratori e raccolti su di loro. I recenti scioperi dei lavoratori di Hollywood fanno luce su sfide simili. La Writers Guild of America, in un accordo rivoluzionario, ha reso obbligatorio per gli studi cinematografici e televisivi di notificare agli scrittori se incorporano contenuti generati dall’intelligenza artificiale, garantendo che i diritti di proprietà intellettuale degli scrittori rimangano inviolabili. Ciò costituisce un importante precedente, sottolineando la prerogativa dei lavoratori nel determinare come l’IA dovrebbe essere integrata nel loro lavoro. Lo sciopero di Hollywood, fa seguito a innumerevoli battaglie in cui lavoratori delle piattaforme e sindacati hanno portato l’algoritmo in tribunale. La sentenza che ha plasmato tutte le azioni successive è arrivata nel febbraio 2021, quando la Corte Suprema del Regno Unito ha stabilito che gli autisti di Uber dovrebbero essere classificati come “lavoratori”, non come “partner” indipendenti e autonomi. Questa classificazione da diritto a tutele quali salario minimo, ferie retribuite e pause. L’uso di algoritmi da parte di Uber per gestire e controllare i conducenti è stato un fattore chiave nella decisione della corte. Un tribunale olandese in un altro caso a inizio di quest’anno contro i giganti del ride-hailing Uber e Ola, si è schierato dalla parte dei lavoratori. Il verdetto sottolinea che queste piattaforme devono rivelare ai conducenti i dati sul processo decisionale automatizzato e sulla profilazione dei lavoratori. A giugno, un tribunale di Palermo ha stabilito che la piattaforma spagnola di consegna di cibo Glovo, leader di mercato in Italia, deve rendere pubblico il modo in cui il suo algoritmo assegna i compiti ai lavoratori. Al centro di questo giudizio c’è la richiesta di trasparenza sul funzionamento di questi algoritmi, fondamentale per difendere i diritti dei lavoratori digitali. Con la diffusione della gestione algoritmica, sorgono domande urgenti: chi ha il controllo dei dati che alimentano i sistemi di intelligenza artificiale? Che ruolo giocano i grandi monopoli tecnologici nel plasmare questo panorama? La rapida espansione dell’economia digitale mette costantemente alla prova i confini dei tradizionali diritti del lavoro, esacerbando lo squilibrio di potere nella società. L’Unione Europea ha un ruolo decisivo da svolgere nel garantire che la trasformazione digitale sia in linea con i principi democratici, mettendo al centro i diritti dei lavoratori e la contrattazione collettiva. Sebbene l’attuale assetto legislativo dell’UE offra un esempio di primo piano a livello mondiale per tenere a freno le Big Tech, quando si tratta di proteggere i diritti dei lavoratori, permangono delle lacune. Né la legge sull’intelligenza artificiale, che rappresenta uno dei tentativi di regolamentazione più avanzati al mondo, né la proposta di direttiva sul lavoro tramite piattaforma considerano esplicitamente l’impatto degli algoritmi sulle condizioni di lavoro, né prevedono il divieto di utilizzare algoritmi per il licenziamento dei lavoratori. Per un lavoro digitale veramente equo, l’Europa ha bisogno di una strategia complessiva, che copra sia l’accessibilità dei dati che il controllo democratico degli algoritmi, considerandone l’impatto sulle condizioni di lavoro. La legge europea sulla governance dei dati, entrata in vigore nel 2022, fornisce una prima soluzione. Consente alle parti interessate di scrutinare le “scatole nere” dell’intelligenza artificiale, ad esempio attraverso la creazione di “intermediari di dati” che agiscono come terze parti neutrali per consentire la negoziazione tra i titolari dei dati (lavoratori) e coloro che li raccolgono (aziende). Affinché gli algoritmi siano veramente trasparenti ed equi, tuttavia i sindacati e gli enti pubblici competenti devono essere in grado di conoscerne il funzionamento e accedere ai dati raccolti dalle aziende, rispettando allo stesso tempo la privacy dei dati e il segreto commerciale. Abbiamo bisogno di un intermediario di dati pubblico e indipendente che serva l’interesse generale: una nuova istituzione democratica per organizzare il lavoro nel XXI secolo. Penso all’istituzione di un “organismo di gestione dei dati per i lavoratori digitali” per dare ai lavoratori un maggiore controllo sui propri dati, stabilendo usi legittimi per le informazioni raccolte nonché il fine per cui possono essere utilizzate. I lavoratori e i sindacati devono partecipare attivamente alla definizione della governance dei dati e degli algoritmi per limitare il loro impatto negativo e condividere i benefici dell’intelligenza artificiale. Se i lavoratori saranno coinvolti e responsabilizzati, anche la produttività e l’efficienza aumenteranno. Nel contesto della duplice transizione digitale ed ecologica, una forma di governance dell’intelligenza artificiale che contribuisca a garantire l’avanzamento dei diritti dei lavoratori, è più urgente che mai. *Economista Salute mentale ed equità sociale nelle cure di Sergio Harari Corriere della Sera, 15 ottobre 2023 C’è un problema nell’accesso alle cure ancora più acuto nel campo della salute mentale, ne ha parlato anche il presidente Mattarella. Se esiste un problema di equità sociale nell’accesso alle cure, e purtroppo esiste eccome (basti pensare alle liste di attesa), questo è ancora più acuto nel campo della salute mentale. Il presidente Mattarella ha recentemente ricordato, con la sensibilità che gli è propria, che “godere di una buona salute mentale è condizione per esercitare liberamente i diritti fondamentali della persona” e anche come i giovani siano quelli più esposti al disagio psichico. L’impatto della recente pandemia e delle guerre è, purtroppo, devastante. Ansia e depressione sono ormai mali così diffusi che è difficile continuare a chiamarli oscuri, come li definiva e raccontava magistralmente Giuseppe Berto cinquant’anni fa. Per fortuna oggi disponiamo di terapie efficaci, farmacologiche e non solo, per affrontarli. Ma il benessere psicologico non può essere appannaggio solo di chi può permettersi economicamente sostegni e cure. Chi ha occasione di viaggiare negli Usa può rendersi conto direttamente, passeggiando per le strade di una delle loro grandi città, da San Francisco a New York, di cosa voglia dire vivere in un Paese che non è dotato di una rete psicologica pubblica accessibile a tutti. Basta guardarsi attorno, osservare le persone, gli homeless ma non solo loro, l’enorme diffusione dei disturbi alimentari e del comportamento è così evidente che non è necessario aver letto Freud per capacitarsene. Alcuni numeri possono dare l’idea delle dimensioni del problema: nel nostro Paese ogni anno si spendono oltre 400 milioni di euro per farmaci antidepressivi e circa 160 milioni di euro per antipsicotici, e non è che la punta dell’iceberg. Il continuo depauperamento dei Dipartimenti di Salute mentale e le enormi difficoltà a garantire l’assistenza ospedaliera, territoriale e residenziale, a causa anche della gravissima carenza di professionisti, rappresentano una criticità maggiore che mette a serio rischio il nostro sistema salute. Se in questo delicato settore della medicina è ancora più importante la prevenzione, è in questa direzione che bisogna investire, parola quest’ultima però difficile a pronunciarsi mentre il governo prepara nuove riduzioni di budget per la già povera Sanità. Il governo lancia il rischio-migranti. Crosetto: “Possono arrivare per farci del male” di Manolo Lanaro Il Fatto Quotidiano, 15 ottobre 2023 “In questo momento il rischio è che non sempre ci sia un’immigrazione di povertà ma anche di soggetti che arrivino per fare del male. Quindi va aumentato ancora di più il controllo perché non possiamo permetterci adesso di far entrare persone che verrebbero a combatterci”. Parole del ministro della Difesa Guido Crosetto a margine delle commemorazioni per l’ottantesimo anniversario dell’eccidio di Cefalonia che si sono svolte in Grecia. “Ora diventa fondamentale difendere la sicurezza del Paese e sono convinto che questa necessità aumenterà nei prossimi mesi, sia perché una riesplosione dell’integralismo è possibile, sia perché fenomeni di questo tipo aumentano il rischio di immigrazione”, ha proseguito. “Ormai i fatti di questo tipo hanno effetti economici, sociali e politici. Una crisi in Medioriente con la possibilità che dilaghi non può non avere effetti in tutto l’Occidente e in primis in Europa, che è sul Mediterraneo come lo è Israele”. Una preoccupazione già condivisa da tutta la maggioranza di governo. “Dobbiamo stare attenti” perché “una forte immigrazione islamica” può portare “anche a una componente di avversione nei confronti del popolo ebraico in tutta Europa e questo crea dei problemi di sicurezza molto forti”, ha detto nei giorni scorsi uno degli uomini più vicini alla premier Giorgia Meloni, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Giovanbattista Fazzolari, durante la registrazione di ‘Porta a Porta’. E non manca chi usa parole più forti, recuperando l’equazione tra migranti e terrorismo. “Purtroppo, a causa di scellerate politiche della sinistra, abbiamo visto entrare migliaia di immigrati clandestini senza controllo e senza identificarli, creando un problema anche per la sicurezza nazionale”. La pensa così il senatore e coordinatore regionale della Lega in Friuli Venezia-Giulia Marco Dreosto. “In seguito al barbaro attacco terroristico di Hamas contro Israele è necessario alzare la guardia e dare alle forze dell’ordine tutti ali strumenti necessari per aumentare i controlli sia ai confini territoriali che all’interno delle nostre comunità, per neutralizzare le minacce che possono arrivare da fanatici islamisti già presenti sul nostro territorio”. “L’allerta è alta, non abbiamo segnali di preoccupazione maggiore dei giorni passati ma non per questo il governo non si è attivato”, ha spigato Palazzo Chigi dopo il confronto con l’intelligence. Nelle ultime ore è stato il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi a chiarire quanto messo in campo. “È stato disposto un rafforzamento di tutti i dispositivi di osservazione e controllo riferiti agli obiettivi sensibili presenti sul territorio nazionale e nella seduta del Comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza pubblica, convocato d’urgenza lo scorso 10 ottobre, sono state approfondite le possibili minacce e gli strumenti di prevenzione e contrasto”. Senza dimenticare l’ingresso di migranti in Italia: “L’azione del Governo, sin dal suo insediamento si è incentrata su ogni forma di contrasto all’immigrazione irregolare, anche in relazione ai possibili profili di rischio di infiltrazione terroristica nei flussi. I recenti tragici avvenimenti impongono una rinnovata e più elevata attenzione, senz’altro, in particolare attraverso il potenziamento delle attività interforze per i controlli delle frontiere e di quelle effettuate dalle specifiche task force operanti nelle principali aree di sbarco e negli hotspot nazionali”. In allerta per possibili atti di antisemitismo anche altri Paesi europei, dopo la dura rappresaglia israeliana contro la Striscia di Gaza seguita ai sanguinosi attacchi di Hamas dentro i confini dello Stato ebraico. In particolare, i governi di Regno Unito e Francia parlano di una preoccupante recrudescenza di minacce, intimidazioni, quando non di aggressioni vere e proprie. I due governi, dichiaratamente al fianco di Israele, hanno promesso misure draconiane. La compagine conservatrice del primo ministro britannico Rishi Sunak - che in queste ore ha predisposto l’invio di due navi militari di appoggio della Royal Navy nel Mediterraneo orientale e di aerei spia per voli di sorveglianza a sostegno di Israele - ha rafforzato i dispositivi di sicurezza a tutela delle comunità ebraiche del Regno. Impegno che Sunak aveva già preso di fronte agli appelli dei vertici di alcune delle maggiori organizzazioni dell’ebraismo britannico - riporta l’Ansa - oltre allo stanziamento di 3 milioni di sterline all’ente di beneficienza ebraico Community Security Trust per la protezione di scuole e sinagoghe. Secondo Downing Street, negli ultimi quattro giorni le forze di polizia dell’isola hanno registrato del resto almeno 139 “incidenti di matrice antisemita”, vale a dire il 400% in più rispetto alla media del 2022. Nel frattempo due scuole primarie ebraiche ortodosse di Londra rimarranno chiuse fino a lunedì. Intanto a Parigi dopo il caso del Louvre anche la reggia di Versailles e la stazione ferroviaria Gare de Lyon sono state evacuate per allarme bomba. Il ministro dell’Interno di Emmanuel Macron, Gérald Darmanin, ha parlato di un’impennata fino a oltre cento episodi antisemiti censiti negli ultimi giorni, con un totale di 24 persone fermate dalla polizia per azioni che includono scritte razziste o insulti contro gli ebrei. Mentre Pharos, piattaforma francese per le segnalazioni di episodi di odio online, ha indicato di aver ricevuto già “oltre 2.000 segnalazioni”. Darmanin, pur escludendo al momento minacce incombenti di un ritorno in grande stile del terrorismo jihadista o segnalazioni dell’intelligence su “rischi d’importazione del conflitto israelo-palestinese” in Francia, è arrivato a decretare in una circolare rivolta ai prefetti una sorta di divieto tout court di qualunque manifestazione filo-palestinese nel territorio della Republique, liquidata in questa fase come una potenziale “turbativa dell’ordine pubblico”; non senza sollecitare la loro collaborazione con i servizi segreti per contribuire a individuare e espellere “individui (stranieri) vicini al movimento terrorista Hamas o ad organizzazioni che fanno apologia di terrorismo”. Tutto questo mentre il ministro della Giustizia, Eric Dupond-Moretti, ha ricordato che “l’antisemitismo non è un’opinione, è un reato”. Mantovano: “I migranti strumento di pressione del jihadismo” di Adriana Pollice Il Manifesto, 15 ottobre 2023 L’allarme. Il Viminale: “Sono 28.707 gli obiettivi sensibili in Italia; 205 quelli legati a Israele”. Il governo Meloni teme il rischio attentati e insiste con le espulsioni, Piantedosi: “Servono i Cpr”. Sono 28.707 gli obiettivi sensibili in Italia di cui 205 quelli israeliani, in prevalenza diplomatici e religiosi: la ricognizione è stata fatta nel corso del Comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza, presieduto dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, convocato ieri dopo l’attacco di Arras in Francia. Se per il governo Meloni il tema migranti era già schiacciato sul paradigma dell’ordine pubblico, il conflitto in Palestina ha spinto la narrazione ancora un po’ più a destra. “Ci aspettano mesi difficili, è opportuno tenere alta l’attenzione - ha spiegato ieri Piantedosi alla festa del Foglio -. L’episodio francese è quello che ci preoccupa di più. In Italia il sistema di intelligence e di prevenzione delle forze di polizia sono molto affidabili. Il problema è che questa minaccia si presenta in maniera indefinita, fluida”. Quindi l’affondo: “L’incremento dei flussi migratori per effetto dell’intervento israeliano nella Striscia di Gaza è uno dei rischi. È importante intercettare all’arrivo chi in qualche modo possa dare indicazione di una maggiore attenzione. Per quanto riguarda infiltrazioni di terroristi tra i migranti, è un tema complesso. Non c’è evidenza di un’organizzazione in questo senso ma la difficoltà di controllo delle frontiere è un fattore di debolezza. Nei mesi scorsi abbiamo intercettato qualche personaggio già noto agli atti che manifestava elementi di preoccupazione”. All’orizzonte c’è una crisi umanitaria terribile ma Piantedosi insiste: “Dietro il fenomeno migratorio ci sono trafficanti spregiudicati, faremo ogni iniziativa che possa stabilmente ridurre le partenze”. Anzi l’importante è accelerare sulle ultime misure, al sindaco di Firenze Nardella il rimprovero: “Ho fatto presente che, se la regione Toscana collabora facendo un Cpr, le forze di polizia poi possono dare concretezza verso azioni di tipo espulsivo”. Guido Crosetto, titolare del ministero della Difesa, è stato più esplicito: “Fondamentale difendere la sicurezza del Paese perché una riesplosione dell’integralismo è possibile, il rischio è che non sempre ci sia un’immigrazione di povertà ma anche di soggetti che arrivino per fare del male. Va aumentato il controllo perché non possiamo permetterci di far entrare persone che verrebbero a combatterci”. E ancora: “Ho disposto l’immediato rientro dei Carabinieri (circa 20 ndr) di stanza a Gerico a causa del deterioramento della situazione sul terreno. Sto pensando di annullare la cerimonia al Circo massimo a Roma per la Festa delle Forze armate il 4 novembre, non è giusto aumentare i fattori di rischio”. Papa Francesco ieri ha ricordato: “Migrare è spesso un dramma. E, come ciascuno ha diritto a migrare, così a maggior ragione ha diritto a poter rimanere nella propria terra e a viverci in modo pacifico e dignitoso. Tuttavia la tragedia di migrazioni forzosamente causate da guerre, carestie, povertà e disagi ambientali è sotto gli occhi di tutti”. Il governo “Dio, patria e famiglia” non tiene conto del Papa. Il fedelissimo di Meloni sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano, ha chiuso il cerchio ieri con la teoria del complotto: “Dal primo gennaio sono arrivati 180mila migranti irregolari, non credo che il cambiamento climatico si sia concentrato su Mali, Camerun e Burkina Faso. L’incentivazione degli effetti migratori diventa uno strumento di pressione da parte del jihadismo nei confronti dell’Europa, l’Italia è la più vicina e la gran parte arriva qua. Un flusso così consistente consegna all’Italia una massa di soggetti che, entrando in modo irregolare, vengono attratti da suggestioni criminali ma anche potenzialmente terroristiche”. Per i cannabis shop i sequestri senza motivo sono diventati una routine di Rita Rapisardi L’Espresso, 15 ottobre 2023 Il decreto che vieta gli oli a base di CBD, stoppato dal Tar del Lazio, è diventato l’ultimo pretesto per gli interventi delle forze dell’ordine. Che poi si risolvono in un nulla di fatto. Ora gli imprenditori del settore alzano la voce: “Ci stanno uccidendo”. “Le forze dell’ordine si stanno basando su articoli di giornale che fanno confusione, sequestrando qualsiasi cosa. Io stesso sono riuscito a bloccare tre sequestri mettendomi in contatto con la Guardia di Finanza”. A denunciarlo è Mattia Cusani di Canapa Sativa Italia, un’associazione nazionale di settore che si sta muovendo per fermare definitivamente il decreto che ha reso illegale la vendita dell’olio di CBD. “Si sta danneggiando la nostra stessa economia, fatta di aziende e di famiglie”. Secondo i dati di Canapa Sativa Italia, da gennaio a luglio dell’ultimo anno ci sono già stati 250 sequestri. E dal 22 settembre, quando è entrato in vigore il decreto che stabilisce che il CBD (il cannabidiolo) è una sostanza stupefacente, la sensazione è che quel numero sia in aumento. Da quel giorno sono iniziate anche le operazioni che, giustificate dal documento, hanno colpito indiscriminatamente anche prodotti non menzionati, in particolare le infiorescenze di canapa e di prodotti cosmetici contenenti CBD, di fatto leciti. Perché solo i prodotti a base di CBD per uso orale rientrano nel documento formato dal ministro della Salute Schillaci e che si pone contro le evidenze scientifiche: il CBD è infatti una molecola non psicotropa che non crea dipendenza, contenuta nella pianta di cannabis. “Ho un negozio di vendita al dettaglio di prodotti a base di CBD, aperto dal 2016, ma se andiamo avanti così rischiamo di chiudere - si sfoga un libero professionista della provincia di Venezia che vuole rimanere anonimo per paura di ripercussioni. - Ho avuto un sequestro due settimane fa, proprio dopo il decreto: hanno preso tutto quello in cui c’era scritto CBD, anche i liquidi per sigaretta elettronica che non sono a uso orale ma a inalazione, gli oli per cani e gatti che secondo normativa europea si possono vendere perché sono un prodotto alimentare per animali. Poi ci sono anche gli oli CBD cosmetici che si possono vendere: per fortuna non li avevo o me li avrebbero sequestrati. E infine quattro cinque chili di infiorescenze”. Inoltre è stato sequestrato anche l’olio CBD che l’uomo aveva ritirato dalla vendita e messo in magazzino aspettando che il fornitore lo ritirasse. Lo stesso è successo a un altro imprenditore, che oltre a un’azienda agricola in Abruzzo ha diversi punti vendita: “Sono venuti alle sette del mattino e sono rimasti fino alle tre del pomeriggio: quindici agenti che hanno mal interpretato il decreto. Abbiamo provato a spiegarlo ma non ci hanno ascoltati - spiega l’uomo che vuole restare anonimo per proteggere la sua azienda - così hanno preso il CBD in essiccazione giustificando che è per uso orale: ma non è così, si inala. Sono un imprenditore, ma ti trattano in altro modo, abbiamo speso e dato tanto per questo settore. Non solo il danno economico, ma veniamo messi in discussione come imprenditori e a livello morale. Ormai sono anni che non dormo più”, conclude l’uomo che racconta come i suoi negozi forniscono a circa a 600 pazienti alternative a medicine con effetti collaterali maggiori: “Ho 70 clienti affetti da Parkinson, 50 che hanno la fibromialgia, e poi epilessia, sindrome di Tourette, le patologie più gravi”. “Mi sembra incredibile debba rimanere anonimo per paura che lo Stato si accanisca contro di me e la mia azienda - racconta un altro imprenditore del Piemonte che chiede che la sua identità non venga diffusa - ho aperto l’azienda commerciale nel 2020, subito dopo il decreto abbiamo subito il sequestro di tre chili di infiorescenze. Così colpiscono piccoli imprenditori, che vendono il prodotto anche all’estero e che con le piantagioni modificano in meglio il territorio, prima abbandonato. Questa è una guerra al logoramento”. “Sono molte le aziende che ci stanno contattando, perché subiscono sequestri, che certo avvenivano anche prima, ma ora c’è anche la scusa di questo decreto - commenta Lorenzo Simonetti, avvocato specializzato in reati in materia di stupefacenti - il 90 per cento di quelli che gestiamo si risolvono positivamente - ottenendo in alcuni casi la restituzione del prodotto già nelle indagini - però nel frattempo le aziende spendono soldi, perdono tempo e non hanno la garanzia che il prodotto non si deteriori”. Le operazioni sono continuate anche dopo la sospensione da parte del Tar del Lazio, interpellato dalle associazioni di settore: ad esempio in Piemonte o in Umbria dove le forze dell’ordine si sono giustificate che non valesse per tutte le regioni. “Smaschereremo questo imbroglio istituzionale per salvaguardare la libertà personale e d’impresa - spiega Claudio Miglio, avvocato esperto della materia, che con Simonetti ha uno studio - Innanzitutto focalizzandoci sull’irragionevolezza tecnica della valutazione del CBD, slegata dagli studi scientifici”. L’udienza è il 24 ottobre, data in cui scade la sospensione voluta dal Tar del Lazio, ma si naviga a vista, non si sa cosa succederà dopo e il settore è sempre più incerto. Le libertà che credevamo di avere di Fabrizio Tonello Il Manifesto, 15 ottobre 2023 Parlare di pace sembra quasi tradimento, chi ci crede viene bollato come agente di Putin nel caso dell’Ucraina, complice di Hamas se il tema è la Palestina. Intanto in Israele molti giornali e pezzi sostanziali dell’opinione pubblica criticano ferocemente Netanyahu. Se centinaia di persone scendono in piazza a Bologna scandendo “Liberté!” come parola d’ordine, cosa dobbiamo pensare? Forse quelle persone rivendicano qualcosa che non hanno. Qualcosa che disperatamente vorrebbero, qualcosa a cui pensavano di avere diritto. A Bologna, ieri, erano i migranti rinchiusi nei cosiddetti centri di prima accoglienza a gridare “Liberté” ma migliaia di persone hanno manifestato in Francia, negli Stati uniti, in Italia per la libertà di manifestare per la pace e per la Palestina. Sì, per la Palestina, che è cosa diversa da Hamas, come Israele è cosa diversa da Netanyahu. Una libertà di manifestare che è oggi in pericolo precisamente nei paesi dove il grido Liberté è risuonato per la prima volta, insieme a Egalité e Fraternité (Francia, 1789) e dove il diritto di protestare è stato inserito nella Costituzione (Stati uniti, primo emendamento, 1791). Da Londra a Roma e da Parigi a Washington, la libertà di manifestare pacificamente senza essere caricati dalla polizia e linciati dall’apparato propagandistico dei governi in questi giorni è stata pressoché cancellata. Thomas Jefferson si rivolterà nella tomba, insieme a Voltaire, Diderot, Montesquieu, ma di sicuro né il presidente francese Macron né i suoi pari nelle cancellerie occidentali perderanno il sonno per questo. La guerra in Ucraina e quella in Israele oggi sono l’equivalente politico dell’esplosione del vulcano Krakatoa nel 1883: rivelano quanto fragile fosse l’idea che la pace, i diritti umani, le libertà fondamentali fossero garantiti a noi e alle generazioni future. Quanto meno nei nostri paesi: che questi privilegi non esistessero a sud del Rio Grande o a est del mar Baltico lo sapevamo già. Eruzioni come quella avvenuta centoquaranta anni fa ci ricordano che il pianeta può essere inospitale e che noi siamo dei mammiferi tanto arroganti quanto fragili: se fa troppo caldo o troppo freddo non possiamo vivere, se arriva un nuovo virus moriamo come le mosche. Le guerre di questi giorni ci ricordano brutalmente che anche il diritto internazionale, le costituzioni, la semplice umanità sono cose fragili, forse effimere. Le vicende di Ucraina e Israele mostrano che forze autoritarie e feroci si annidano dentro le nostre società, nutrite dalla propaganda d’odio. Non c’è voluto molto per cancellare ogni dibattito pubblico razionale e sostituirlo con l’appello alla distruzione del nemico, con la caccia alle streghe verso i dissenzienti o i semplici neutrali. L’espulsione dai grandi media e dai luoghi della cultura di intellettuali fino a ieri rispettati covava sotto la cenere da anni, oggi è non solo praticata ma rivendicata. Parlare di pace sembra quasi tradimento, chi non crede alla propaganda viene bollato come agente di Putin nel caso dell’Ucraina, complice di Hamas se il tema è la Palestina. Mentre in Israele molti giornali e pezzi sostanziali dell’opinione pubblica criticano ferocemente Netanyahu per la sua incompetenza, faziosità e corruzione, da noi Patrick Zaki viene emarginato per aver detto l’ovvio e cioè che i palestinesi non sono Hamas e che le radici della guerra attuale stanno nell’occupazione di Gaza e Cisgiordania dopo la guerra del ‘67. Le società occidentali sono sempre state meno pacifiche e meno democratiche di quanto volessero far credere ma negli ultimi anni hanno apertamente sposato politiche xenofobe verso i migranti e forme di repressione violenta verso i cittadini scontenti (Macron ha usato più polizia per reprimere i gilet gialli di quanta ne impiegò De Gaulle per dieci milioni di lavoratori in sciopero nel 1968). I governi si sono sostituiti ai parlamenti (Meloni governa esclusivamente per decreto) e ignorano sistematicamente le protezioni dei diritti garantiti dai trattati e dalle organizzazioni internazionali, come il non-respingimento. La Commissione europea di Ursula von der Leyen è una vergogna, una macchia indelebile nel percorso storico avviato da Altiero Spinelli. Governi parafascisti sono, o saranno, al potere dalla Polonia all’Ecuador, dall’Ungheria all’Argentina, mentre Trump ha serie possibilità di essere rieletto. Qualcuno ha un buon indirizzo di bed & breakfast su Marte? Nascere in una “Striscia” significa crescere a pane e odio di Vito Mancuso La Stampa, 15 ottobre 2023 A volte può persino mancare il pane, l’odio però mai. Il numero uno di Hamas (che al momento risiede in Qatar da dove ha diffuso un video che lo ritrae mentre prega il suo Dio ringraziandolo per l’avvenuto massacro di israeliani da parte dei suoi) si chiama Ismail Haniyeh ed è nato nel 1962, il mio stesso anno di nascita. Il numero due di Hamas (che al momento è nella Striscia di Gaza e che per gli israeliani è un uomo già morto) si chiama Yahya Sinwar ed è nato anch’egli nel 1962. Avrei potuto essere loro compagno di classe, seduto nello stesso banco, giocare insieme al pallone. Solo sulla carta, ovviamente, perché in realtà, mentre io sono nato in un operoso paese della Brianza parte di uno Stato nazionale relativamente prospero, essi sono nati entrambi in un campo profughi della Striscia di Gaza privi di uno stato che rappresenti la loro nazione (non a caso ho dovuto scrivere “Striscia”, non Stato). Cosa significa nascere in una Striscia? Cosa significa nascere e crescere in un campo profughi di persone cacciate dalle loro case ed espulse dalla loro terra, e senza nessuna credibile prospettiva di poter superare quella condizione avendo finalmente uno Stato nazionale e riavendo una casa? Significa crescere a pane e odio. A volte può persino mancare il pane, l’odio però mai; anzi, di sicuro esso viene accresciuto dalla mancanza del pane. Sarà per il medesimo anno di nascita, ma io non posso fare a meno di chiedermi che cosa avrebbe rappresentato per me crescere in quelle condizioni. Che cosa sarei diventato io, venuto al mondo nello stesso anno del numero 1 e del numero 2 di Hamas, se fossi nato lì, da genitori cacciati dalle loro case e dalla loro terra, e vedendo che le speranze di ristabilire un minimo di decenza delle mie condizioni vitali invece di crescere diminuiscono giorno per giorno fino a risultare inesistenti? Non pensi il lettore che questo mio discorso sia teso a giustificare o anche solo a giudicare con minore severità il massacro del 7 ottobre perpetrato dai militanti, o meglio terroristi, di Hamas. No, nessuna giustificazione di nessun tipo. Sono convinto però che non si debba deporre l’intelligenza che ricerca le cause perché solo così si va alla vera radice dei problemi. Ha scritto uno dei più grandi pensatori ebrei di tutti i tempi, Baruch Spinoza, che citerò molto in questo articolo: “Mi sono impegnato a fondo non a deridere, né a compiangere, né tanto meno a detestare le azioni degli uomini, ma a comprenderle” (Trattato politico, I, 4). Comprendere: di questo si tratta, e quindi la domanda è: il massacro di Hamas è riconducibile alle condizioni in cui i palestinesi versano dal 1948 a oggi, diventate via via sempre più intollerabili? “Il più grande carcere a cielo aperto”, come è stata giustamente definita la Striscia di Gaza, e il continuo furto di terreno da parte dei coloni israeliani nella Cisgiordania, possono rappresentare la spiegazione sufficiente dell’odio assassino di Hamas? A tale questione io rispondo di no. Non dico che la situazione sociale e politica del popolo palestinese non sia in gioco nella genesi di quell’odio; dico che essa non basta a spiegare la ripetuta decapitazione di bambini ebrei, assunta quale simbolo più tragico dell’enorme massacro. Se le inique condizioni di Gaza fossero la ragione sufficiente, dovremmo logicamente concludere che gli oltre due milioni di palestinesi della Striscia sarebbero disposti a compiere il medesimo gesto: tutti pronti a sgozzare bambine e bambini indifesi. Naturalmente io non posso sapere con sicurezza che non sia davvero così, ma la mia ragione si rifiuta di procedere con queste generalizzazioni grossolane perché il suo compito è strutturalmente un altro: la distinzione. Distinguere è il lavoro per eccellenza del ragionamento debitamente condotto, e come dall’aggressività e dal disprezzo della proprietà altrui da parte dei coloni israeliani non è lecito inferire che tutti gli israeliani siano pronti a calpestare il diritto internazionale, così allo stesso modo dal massacro di Hamas non è lecito inferire che tutti gli abitanti della Striscia di Gaza siano pronti a compiere i crimini inqualificabili di qualche giorno fa. Ma se non bastano le condizioni sociopolitiche a comprendere il massacro di Hamas, quali altri fattori occorre convocare? La risposta non è difficile: l’odio. Non l’odio come vampata di ira più incandescente del solito che in qualche momento può incendiare l’animo, no; ben più radicalmente, l’odio quale persistente e sistematica ideologia che, a freddo e totalmente in possesso delle sue facoltà, non pensa ad altro che al nemico e alla sua eliminazione. L’odio quale carburante della vita di un essere umano. Perché questo è il punto: che si può fare dell’odio la propria fonte di energia, la propria sorgente vitale, la ragione del proprio esistere. L’odio può conferire una sorta di macabra vitalità e lucidità alla mente. Ha affermato Sami Modiano, sopravvissuto ad Auschwitz: “Non è vero che l’odio è cieco, ha la vista molto acuta, quella di un cecchino, e se si addormenta il suo sonno non è mai eterno, ritorna”. E che l’odio abbia la vista molto acuta lo dimostra l’accuratezza con cui Hamas ha preparato e condotto il massacro. Torniamo ai suoi capi. Si può nascere nello stesso anno, nella stessa città o nello stesso campo profughi, persino nella stessa famiglia, e avere vite diverse, addirittura opposte. Per fortuna o sfortuna che sia, noi siamo esseri indeterminati. Per fortuna o sfortuna che sia, la libertà esiste davvero. Ha scritto un altro sopravvissuto ad Auschwitz, lo psicologo ebreo viennese Victor Frankl, riflettendo sulle condizioni nel campo di sterminio: “Tutto ciò che accade all’anima dell’uomo è il frutto di una decisione interna. In linea di principio ogni uomo, anche se condizionato da gravissime circostanze esterne, può in qualche modo decidere cosa sarà di sé”. Si può leggere il Corano e trarne insegnamenti di odio e di violenza; lo si può leggere e trarne insegnamenti di amore e di pace. Lo stesso vale per la Bibbia, dove pure vi sono passi di odio infuocato e altri di amore luminoso. Perché alcuni leggono il loro libro sacro nel primo modo e altri nel secondo? Lo stesso vale per ogni altra lettura, a cominciare da quella più importante di tutte, la nostra vita: perché alcuni la interpretano come odio e altri, a parità di condizioni, come volontà di pace? Dopo aver osservato con il più rigoroso distacco le azioni umane nella loro genesi e nel loro sviluppo, Spinoza giunge alla conclusione che “l’odio non può mai essere buono” (Etica IV, 45). Sono del tutto d’accordo con lui. Mai vuol dire “mai”, anche quando si tratta di rispondere all’odio ricevuto. Soprattutto quando ad agire è lo Stato, come Spinoza specifica: “Tutto ciò che appetiamo perché siamo affetti dall’odio è turpe e ingiusto nello Stato”. La caratteristica peculiare di un vero politico è la capacità di affrontare il nemico con determinazione ma senza odio, perché, come ha scritto sempre Spinoza, “ognuno che è guidato dalla ragione desidera anche per gli altri il bene che appetisce per sé” (Etica, IV, 73). Desideri la terra? Dai la terra anche al tuo nemico. Desideri l’acqua? Dai l’acqua al tuo nemico. E così per ogni altro bene vitale. Dietro queste parole del più grande filosofo ebreo, io rivedo il nobile volto di Yitzhak Rabin. Si fa viva al-Qaeda. Scatta l’allarme terrorismo in Europa di Giuliano Battiston Il Manifesto, 15 ottobre 2023 La cattiva informazione parla di “allarme jihad”, rispolverando formule ben rodate durante gli anni passati, poi accantonate ma oggi di nuovo utili a trasformare come imminente e certa la minaccia del “terrorismo islamico”. La formula ha ripreso vigore in particolare dopo che, ieri, due delle più importanti attrazioni turistiche francesi sono state chiuse ed evacuate per ragioni di sicurezza. La sede del museo Louvre a Parigi è stata chiusa in seguito alla ricezione di un messaggio minaccioso: “Abbiamo scelto di evacuarlo e di chiuderlo per tutta la giornata, il tempo necessario per procedere alle indispensabili verifiche”, ha spiegato all’agenzia Afp un funzionario del museo. Sempre a Parigi un allarme più contenuto per una bottiglia contenente protossido di azoto ha portato a sgomberare la sala d’aspetto della Gare de Lyon. Ed è toccato anche al palazzo di Versailles, i cui visitatori sono stati allontanati dopo la ricezione di un messaggio anonimo relativo a una presunta bomba. Che non c’era. Il fatto che non ci fosse non significa che non ci sarà. Ma parlare di allarme jihad o di terrorismo islamico rischia, al solito, di ostacolare la comprensione, anziché favorirla. A partire dalle differenze storiche, dottrinali e ideologiche tra Hamas, nata all’interno della lunga storia della Fratellanza musulmana, e la vasta rete qaedista che ha sempre visto come antagonista il movimento dei Fratelli musulmani, accusato di collusione con i regimi arabi oppressivi e di praticare anche la via istituzionale e rappresentativa, anziché l’unica ritenuta legittima dagli eredi di Osama bin Laden: il jihad armato. Ma l’azione militare di Hamas ha comunque galvanizzato la galassia dell’islamismo armato. E ricevuto il plauso esplicito di al-Qaeda e dei suoi affiliati, nella cui propaganda “la liberazione di Gerusalemme dall’occupazione sionista” ha sempre avuto un ruolo centrale, anche quando i governi arabi del Medio Oriente impostavano o sottoscrivevano patti con Israele. I PRIMI a congratularsi sono stati i militanti di al-Qaeda nel Magreb islamico (Aqim) e del Gruppo per il sostegno all’Islam e ai musulmani (Jnim), con una dichiarazione congiunta in cui hanno incoraggiato nuovi attacchi e violenze contro gli ebrei. Non solo in Israele. “Inviamo questo messaggio d’amore ai nostri fratelli in Palestina in generale, e a Gaza in particolare, specialmente a Jund al-Aqsa e alla Brigata dei martiri Izz al-Din Qassam”, recita l’incipit del comunicato che, usando una formula retorica ben conosciuta, descrive l’attacco di Hamas come un tentativo per “sollevare la spada dell’umiliazione dal collo” dei musulmani, invita anche i palestinesi della Cisgiordania a sollevarsi e fa appello all’unità della Umma islamica, la grande comunità dei fedeli, grazie a cui sarà possibile liberare Gerusalemme. L’affiliato jihadista con sede nello Yemen, al-Qaeda nella penisola arabica (Aqap), si è congratulato con Hamas per le “vittorie benedette” e le “operazioni audaci” e si è rivolto ai musulmani in Siria, Egitto, Libano e Giordania affinché sostengano i militanti palestinesi “con qualsiasi mezzo possibile”, senza preoccuparsi dei governi arabi che ostacolano la rivolta. Anche questo, un tema ricorrente e di vecchia data. L’ecosistema jihadista in questi anni ha avuto carte facili nella propaganda anti-governativa: ha potuto denunciare da una parte l’ipocrisia dei governi arabi, “pronti a svendere Gerusalemme” e la Palestina nei processi di normalizzazione dei rapporti con Israele e Stati Uniti; dall’altra i leader politici palestinesi, portavoce di progetti nazionalisti sterili e inefficaci, se non controproducenti. Al contrario del jihad, unica soluzione: così racconta la propaganda. Anche quella della branca centrale di al-Qaeda, che in un comunicato successivo a quello dei suoi affiliati locali nel mondo ha invocato l’unità di tutti i jihadisti contro Israele. Senza dimenticare di denigrare e ammonire Tel Aviv: la tecnologia più sofisticata, giurano i qaedisti, non impedirà la riconquista di Gerusalemme. Friedman: “L’invasione? Prima serve un piano per il futuro della Striscia. Due Stati sono l’unica soluzione” di Paolo Valentino Corriere della Sera, 15 ottobre 2023 L’editorialista premio Pulitzer del “New York Times”: “Hamas ha lanciato questo attacco per suscitare una reazione durissima e far saltare gli accordi tra Israele, i sauditi e gli altri Paesi arabi. Ma la leadership dello Stato ebraico dovrà rispondere delle sue responsabilità”. “Io sono convinto che la ragione principale per cui Hamas ha lanciato adesso questo attacco, ordinando anche che fosse il più omicida possibile, è stata di provocare una reazione eccessiva da parte di Israele, tipo un’invasione della striscia di Gaza, che farebbe migliaia di vittime civili fra i palestinesi. Questo a sua volta forzerebbe l’Arabia Saudita a uscire dalle trattative per un accordo con Israele, in corso sotto l’egida degli Stati Uniti. Così come forzerebbe i Paesi firmatari degli accordi di Abramo - Emirati Arabi, Bahrein e Marocco - a fare un passo indietro”. Tom Friedman le ha viste tutte in Medio Oriente. L’editorialista principe del New York Times, più volte Premio Pulitzer, se ne occupa da quasi cinquant’anni. Ma gli mancava la “furia barbarica” di Hamas nell’assalto di giovedì scorso, “quando i miliziani radunavano uomini, donne e bambini e gli sparavano guardandoli negli occhi”. Una cosa simile, racconta al telefono da San Francisco, “l’avevo vista soltanto nel 1982 a Sabra e Shatila, quando le milizie cristiane massacrarono centinaia di rifugiati palestinesi, donne, bambini e anziani in primo luogo: la prima vittima che incontrai era un vecchio con la barba bianca e il foro di una pallottola alla tempia”. Il sentimento prevalente in Israele è che Hamas debba essere distrutta come forza militare e Gaza demilitarizzata. Questo significa soltanto una cosa per l’esercito israeliano: entrarci, impegnarsi in una battaglia sanguinosa, eventualmente occuparla. Ma tu suggerisci che non dovrebbe farlo, proprio perché è l’esito che vuole Hamas... “Si, è quello che vogliono Hamas e l’Iran, il Paese che li sponsorizza. Regola numero uno per loro è che Israele rimanga nella Cisgiordania e ora possibilmente anche nel Nord di Gaza, in modo che le sue forze siano sottoposte in modo permanente a una eccessiva estensione, portando a una continua tensione tra israeliani e palestinesi. Questo renderà impossibile per i Paesi arabi normalizzare le relazioni con lo Stato ebraico”. Ma c’è un’alternativa a rinunciare a entrare a Gaza? “Sinceramente non lo so. Dico soltanto che una cosa è entrare a Gaza e smantellare Hamas, obiettivi sicuramente alla portata dell’esercito israeliano sia pure con alti costi in termini di vittime civili. E un’altra è quale sarà la struttura di potere che la sostituisce: c’è una sola cosa peggiore di Hamas che controlla Gaza ed è che nessuno controlli Gaza o che Israele controlli Gaza. C’è chi propone che a farlo siano i sauditi, gli Emirati, una forza di pace araba. Ma in quale pianeta vivono? Pensiamo veramente che Israele affiderebbe Gaza a una forza saudita o interaraba? Per questo dico agli israeliani, prima di entrarci, mostratemi il piano. Altrimenti state attenti: non entrate a Gaza prima di avere una idea chiara e precisa di come ne uscirete”. È chiaro, come ha detto l’ex inviato americano in Medio Oriente Dennis Ross, che “Hamas non può essere un partner per la pace”. Ma chi può esserlo? “Ripeto, non lo so. Il controllo di Gaza da parte di Hamas è un problema malvagio. Non c’è una soluzione ovvia tranne quella di vivere con lo scenario meno cattivo possibile”. Che sarebbe? “Rendere sicuri i confini, in modo che Hamas non possa più ripetere quello che ha fatto giovedì e soprattutto che non possa più ricevere forniture militari. Ma ci rendiamo conto che sono stati in grado di costruirsi un intero arsenale missilistico, senza che gli apparati di sicurezza di Israele se ne accorgessero?”. In che modo gli Stati Uniti e i Paesi occidentali possono aiutare Israele, oltre a stargli accanto e sostenerla, difendendo il suo diritto a proteggersi? “Questa è stata la più grave perdita di vite ebraiche in un solo giorno dai tempi dell’Olocausto. E dobbiamo far sì che Israele abbia tutti i mezzi militari necessari per difendersi. Ma dobbiamo anche aiutare Israele a porsi le giuste domande. Per esempio: cosa vuole che io faccia il mio peggior nemico e in che modo posso fare l’opposto? Hamas e Iran vogliono che Israele entri a Gaza e rallenti i negoziati per normalizzare i rapporti con Riad, un accordo nel quale Israele dovrebbe impegnarsi e fare concessioni reali all’Autorità Palestinese nella Cisgiordania”. Ma l’Autorità Palestinese è un fantasma... “Non a questa ovviamente, corrotta e guidata da un signore ultraottantenne che non ha vinto un’elezione in venti anni, ma a un’Autorità Palestinese riformata. È il solo piano di lungo termine che abbia una chance di funzionare. Abbiamo bisogno dei migliori israeliani al governo di Israele e dei migliori palestinesi al governo della loro area, purtroppo abbiamo sperimentato i peggiori di tutti e due”. Stai dicendo che anche Netanyahu ha iniziato il suo lungo addio, come accadde a Golda Meir dopo lo Yom Kippur? “Io spero che, quando questa crisi sarà finita, ci sarà un’elezione e gli israeliani lo manderanno via per sempre, per sempre e per sempre. Se un giorno faranno una commissione d’inchiesta, Netanyahu e Yariv Levin, il ministro della Giustizia, dovranno essere i testimoni uno e due, e fosse per me non ci sarebbe bisogno di nessun altro. Loro hanno ingannato Israele prima dell’attacco”. Sono in molti a dire che la soluzione due Stati due popoli, prevista dagli accordi di Oslo, è finita. Sei d’accordo? “Qualcuno mi indichi una soluzione migliore, io non ne ho ancora vista una. Se questi popoli non possono vivere uno accanto all’altro in due Stati, come si può pensare che possano farlo in uno solo?”.