Ancora niente audizioni per il Garante dei detenuti scelto dal governo di Giulia Merlo Il Domani, 14 ottobre 2023 Le opposizioni hanno chiesto che intervenisse, ma al Senato l’audizione è stata negata e alla Camera per ora non ci sono risposte. Il nuovo Garante indicato dal governo, l’ex deputato di centrodestra Felice Maurizio D’Ettore, è professore di diritto privato non si è mai occupato di carceri. Non c’è pace per l’ufficio del Garante delle persone private della libertà: dopo un lungo braccio di ferro e polemiche sui nomi, il governo ha indicato come nuovo presidente l’avvocato e professore di diritto privato nonché ex deputato del centrodestra, Felice Maurizio D’Ettore. Però preferisce non fargli aprire bocca. La richiesta delle opposizioni di audirlo in commissione al Senato è stata negata e la stessa richiesta in commissione Giustizia alla Camera di svolgere le audizioni dei candidati designati dal governo per l’ufficio del Garante nazionale dei detenuti è ancora in sospeso. Una reticenza insolita, che secondo fonti parlamentari nasconderebbe un elemento: nè D’Ettore, nè gli altri due nomi indicati dal governo per guidare l’ufficio - la penalista romana Irma Conti e il professore fuori ruolo Mario Serio - hanno esperienza in materia di carcere. Quindi, rischierebbero di non fare una gran figura davanti alle domande dei parlamentari, soprattutto i più esperti in materia come i radicali. Sul tema è intervenuta la senatrice Ilaria Cucchi: “Personalmente non ho nulla contro queste persone, ma da quello che so manca loro un requisito fondamentale: quello della competenza. Non mi risulta che nessuna di queste figure si sia mai occupata del tema delle carceri. Noi siamo abituati a un ottimo garante come Mauro Palma, che del tema delle carceri ne ha fatto quasi un motivo di vita, siamo abituati a una forte umanità da parte di chi si occupa di questi temi che a mio avviso è fondamentale. Inoltre, quello che sarà il Garante viene a mancare del tema dell’imparzialità, in quanto nella scorsa legislatura era un parlamentare. Detto questo, mi auguro che la maggioranza torni sui propri passi e si decida a farci incontrare i candidati”. Lo scontro sui nomi - Dal 2016, il ruolo di presidente dell’ufficio del Garante è stato ricoperto da Mauro Palma, esperto in diritto penale e fondatore dell’associazione Antigone negli anni Novanta, affiancato dalla avvocata penalista Emilia Rossi e dalla giornalista Daniela De Robert. Dopo due anni di proroga, il governo ha individuato la nuova rosa dei sostituiti ma la prima terna, proposta in luglio, è stata fermata dalle polemiche. L’elenco, infatti, comprendeva sempre l’ex deputato oggi di Fratelli d’Italia Felice Maurizio D’Ettore per il quale Nordio aveva riservato la presidenza, il professore fuori ruolo di diritto civile in quota opposizione (suggerito da Roberto Scarpinato del Movimento 5 Stelle) Mario Serio, e il magistrato in pensione Carminantonio Esposito. I tre nomi, però, avevano immediatamente sollevato vari livelli di critica: la prima sulla mancanza di una rappresentanza di genere; la seconda sul fatto che nessuno dei tre si sia mai occupato di carcere nella pur brillante carriera professionale; la terza e probabilmente più rilevante, il fatto che il presidente non possa essere considerato imparziale - requisito previsto per chi riveste l’ufficio - vista la sua chiara provenienza politica. Per questo tutto è rimasto sospeso nel corso dell’estate, fino a quando un compromesso è stato trovato: il Consiglio dei ministri, su proposta del ministro Nordio, ha infatti confermato l’indicazione del professore e avvocato Felice Maurizio D’Ettore come presidente, ma gli ha affiancato dall’avvocata penalista romana Irma Conti insieme a Mario Serio. Il governo, dunque, ha ceduto sulla questione della rappresentanza di genere, non nel merito della specifica formazione e dell’imparzialità. La nomina dei tre profili però non si è ancora perfezionata: la proposta spetta al ministero della Giustizia, ma la nomina formalmente è della presidenza della Repubblica: Due civilisti al Garante - In questo modo dovrebbe chiudersi la procedura: una penalista e due civilisti, nell’ufficio che ha la maggiore responsabilità a livello nazionale nella salvaguardia dei diritti dei detenuti e di tutte le persone private della libertà. L’ufficio nazionale del garante, infatti, ha prerogative molto invasive: ha infatti la funzione di presidio dei diritti di chi è posto sotto il controllo dello Stato ed è composto da un collegio di tre persone. Ha compiti rilevanti e poteri di ispezione molto pervasivi non solo nelle carceri, ma in tutte le strutture di privazione della libertà, come i luoghi di polizia, le Residenze per le misure di sicurezza, i reparti dove si effettuano i trattamenti sanitari obbligatori. E i centri per i rimpatri, che oggi il governo Meloni vorrebbe aumentare, costruendone uno in ogni regione. Per questo il timore sia delle opposizioni che di chi opera nel settore è che il governo voglia definitivamente silenziare l’Ufficio del garante, che fino ad oggi è stato tra le voci più forti di denuncia sia delle condizioni delle carceri che della gestione dei centri per i rimpatri. Fonti interne al mondo degli operatori vicino al Garante, infatti, sottolineano: “Nessuno dei tre è esperto di carcere, quindi chissà se sarà in grado di svolgere le ispezioni individuando ciò che normalmente nelle strutture si vuole nascondere”. Ma soprattutto, quanto sarà indipendente dal governo Meloni nel presentare le relazioni o esaminare le situazioni di rischio, soprattutto per quanto riguarda i Cpr, che sono ormai il punto nevralgico della strategia del governo per gestire il problema immigrazione. Meglio non far parlare troppo il Garante dei detenuti D’Ettore. Per evitare imbarazzi a lui e a Nordio di Liana Milella La Repubblica, 14 ottobre 2023 Le commissioni Giustizia di Camera e Senato, nonostante le richieste delle opposizioni, non hanno ritenuto necessario l’audizione dei tre candidati. Se come Garante dei detenuti fosse stata scelta Rita Bernardini - che non ha neppure bisogno di presentazioni vista la sua storia personale - di certo non ci sarebbe stato bisogno di alcuna audizione in Parlamento. Sa tutto sulle carceri, e non solo, visto che stiamo parlando del Garante delle persone private della libertà, che non stanno solo nelle patrie galere. Ma visto che il lungimirante Guardasigilli Carlo Nordio - obbedendo ai criteri della lottizzazione anche per questo delicatissimo incarico che dura per cinque anni ed è rinnovabile per altri due - ha scelto un futuro Garante di cui non si riesce a trovare una sola dichiarazione dedicata alle carceri, allora c’è da chiedersi perché mai le due commissioni parlamentari che si occupano di giustizia, una alla Camera e una al Senato, come ha scritto sul Dubbio Valentina Stella, abbiano respinto la richiesta delle opposizioni di audire i tre candidati. Parliamo del meloniano ed ex forzista Felice Maurizio D’Ettore, dell’avvocata in quota Lega Irma Conti e di Mario Serio, civilista palermitano indicato dalla sinistra. Per chi non lo sappia le audizioni non si negano a nessuno in Parlamento. Prova ne è che al Senato, per il disegno di legge Nordio che vuole cancellare l’abuso d’ufficio, la commissione Giustizia sta risentendo magistrati e giuristi che già sono stati auditi alla Camera sullo stesso argomento. Bastava chiedere le registrazioni. Invece vanno avanti da tre settimane. Per sentirsi dire che l’abuso d’ufficio non deve essere cancellato. Ma loro, per obbedire a Nordio, vogliono eliminarlo lo stesso. Ore e ore di audizioni. Poi arriva la nomina del Garante dei detenuti, su cui le due commissioni potrebbero anche pronunciare un niet, o sollevare almeno dei dubbi. Comunque è un loro dovere ascoltarli, sentire cosa hanno da dire, porre domande intriganti. Ma forse proprio questo è il problema. Perché - è l’interrogativo - D’Ettore saprebbe rispondere a quesiti complessi sulle carceri, oppure rivelerebbe subito che forse quel ruolo non è per lui? Meglio allora “proteggerlo” e non farlo parlare troppo. D’altra parte, a chi importa se i detenuti continuano a morire in galera, se le celle sono invivibili, se i bambini sono ancora dentro con le madri, se proseguono le violenze delle guardie? Questo non interessa a una maggioranza che si professa garantista, a parole, solo quando ci sono da ridurre le intercettazioni, quando bisogna buttare via le leggi che evitano ai processi di morire per prescrizione, quando c’è da separare le carriere per poi mettere il pm sotto l’esecutivo. Felice Maurizio D’Ettore può stare tranquillo. Nessuno gli farà domande difficili che potrebbero mettere in imbarazzo lui e il Guardasigilli Nordio che lo ha scelto. Mantovano striglia le toghe: “Non tocca a voi fare le leggi” di Simona Musco Il Dubbio, 14 ottobre 2023 Il sottosegretario interviene sul caso Apostolico, senza nominare la giudice, e invita gli ex colleghi a rivolgersi alla Consulta in caso di dubbi di costituzionalità. Mentre in Parlamento il governo continua a evitare le domande delle opposizioni, decise a scoprire chi, come e perché ha fatto venire fuori un filmato della giudice Iolanda Apostolico - “colpevole” di aver disapplicato in aula il decreto Cutro e di aver partecipato, cinque anni fa, ad una manifestazione in difesa dei diritti umani mentre i migranti rimanevano chiusi per volere del ministro Matteo Salvini per giorni in una nave -, in campo neutro, senza contraddittorio, è la toga prestata alla politica e sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano, a bacchettare le toghe sul loro protagonismo e sui margini d’azione concessi. Chiarendo un punto: il compito dei giudici non è quello di disapplicare le norme non “gradite”, ma valutarne la compatibilità con la Costituzione e le norme europee e seguire la via della questione di legittimità. Perché è la politica, e non la magistratura, a decidere come gestire i fenomeni sociali. Mantovano ha pronunciato la sua arringa in difesa del governo a Palermo, al convegno della Corte dei conti sulla giustizia, alla presenza del capo dello Stato Sergio Mattarella. Pur senza mai nominare la nuova nemica pubblica numero uno del governo, la giudice Apostolico, il riferimento è chiarissimo: “Non compete alle Corti né l’invenzione del diritto, né la teorizzazione della maggiore idoneità della procedura giudiziaria a comporre quei conflitti che richiedono esercizio di discrezionalità politica - ha sottolineato Mantovano -, né la sostituzione a organi nazionali o sovranazionali nel qualificare le relazioni fra gli Stati; e ciò per doveroso rispetto sia dei parametri costituzionali, sia del mandato ricevuto da chi, a scadenze periodiche, esercita il diritto di voto. Compete alle Corti esprimersi “in nome del popolo italiano”, non “invece del popolo italiano”“. Ma non solo: “Il parametro per il giudice - ha aggiunto - non è la condivisione o la non condivisione dei contenuti della norma che è chiamato ad applicare: a meno che non dubiti motivatamente della sua coerenza con la Costituzione. E se nel nostro ordinamento il controllo di costituzionalità non è rimesso a un’iniziativa diretta e diffusa da parte del giudice, parimenti non può esistere una verifica diffusa della conformità delle leggi alla normativa europea. Il potere-dovere di disapplicazione di una norma nazionale contrastante con il diritto europeo deve intendersi limitato ai soli casi di contrasto diretto e immediato tra i due precetti tale da rivelarne l’incompatibilità. Non può invece trasmodare in una revisione da parte dei giudici nazionali dell’applicazione della normativa interna sulla base di incerte e opinabili interpretazioni della relazione tra le due fonti”. Tocca alla politica, “la funzione di confrontarsi col reale, non già per recepire e regolare tutto quello che si presenta, ma per coglierne l’essenza, per affiancarla ai valori di riferimento e per trarne le scelte necessarie assumendone la relativa responsabilità, pur essa di natura politica”. Dunque, “la gratitudine verso le Corti sarà tanto più grande quanto più il servizio che esse rendono sarà rispettoso dei confini delle proprie competenze e delle attribuzioni affidate agli altri poteri. Ciò anche quando l’indirizzo politico degli organi democraticamente rappresentativi sia diverso da quello auspicato dai giudicanti”. Ai giudici, dunque, non resta che una possibilità: in caso dubitino motivatamente della coerenza di una norma con la Costituzione, “la strada obbligata è non già la disapplicazione, bensì la questione di legittimità”. È suo, dunque, l’attacco più duro, mentre non accenna a placarsi la polemica. Parole pronunciate mentre a Catania e Potenza il decreto Cutro viene nuovamente disapplicato, in quanto considerato in contrasto proprio con la Costituzione e le norme sovranazionali. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha preferito solo sfiorare l’argomento, concentrandosi più sull’esigenza di accelerare i tempi della giustizia, per garantire l’utilizzo dei fondi del Pnrr ed evitare di perdere punti di pil, facendo giusto un rapido passaggio sull’esigenza che “il cittadino si senta protetto da una giurisdizione rapida ed effettiva” e “da una certezza del diritto dove non sono ammissibili interpretazioni arbitrarie o creative. Su questo quello che ha detto il collega sottosegretario Mantovano mi trova d’accordo al cento per cento”, ha dichiarato aggiungendo un passaggio al discorso originale. E a dare manforte ci ha pensato anche il vicepresidente del Csm Fabio Pinelli: “È proprio dallo sguardo del cittadino che passa la legittimazione esterna, che si affianca alla legittimazione interna (di buon governo delle norme) e che si fonda sull’affidamento da parte del cittadino dell’indipendenza di giudizio del suo giudice - ha dichiarato -. Il cittadino non guarda infatti all’indipendenza del giudice in quanto persona, ma al giudice in quanto espressione di giudizio terzo e imparziale. L’indipendenza ha un contenuto concreto ed è in relazione al giudizio, non è una astratta petizione di principio. Possiamo dire che il valore da perseguire è l’indipendenza di giudizio del giudice, non solo la sua formale indipendenza ordinamentale”. Caso Apostolico, “Il linciaggio mediatico è un segnale, così possono condizionare le toghe” di Paolo Frosina e Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 14 ottobre 2023 In quattro magistrati dicono: “C’è un clima di intimidazione, preoccupante soprattutto per i più giovani”. Gli attacchi politici alla giudice di Catania, Iolanda Apostolico, con tanto di video pubblicato da Matteo Salvini che ritrae la magistrata, nel 2018, a una manifestazione a favore dello sbarco dei migranti bloccati al porto, fanno pensare alle conseguenze possibili sui magistrati che devono prendere decisioni tutti i giorni. Apostolico non ha ceduto alle pressioni, ma c’è il rischio per altri magistrati? Secondo Gaetano Paci, procuratore di Reggio Emilia, ex pm antimafia a Palermo ed ex procuratore aggiunto a Reggio Calabria, il rischio c’è: “Dall’attuale maggioranza emerge una insofferenza crescente verso l’esercizio indipendente della giurisdizione, in linea con quanto sta accadendo in Polonia e in Ungheria. I segnali sono tanti e antecedenti al caso Apostolico, il più eclatante, inaccettabile, vergognoso perché si utilizza il dileggio e la gogna mediatica a seguito di un provvedimento sgradito. Sono metodi che non dovrebbero appartenere a chi ha un ruolo istituzionale. Questo clima favorisce un orientamento difensivo della magistratura, può indurre i giovani magistrati a un atteggiamento autoconservativo, autoreferenziale. Possono cercare non il risultato migliore possibile per la giustizia, nel rispetto delle norme, ma un risultato orientato a salvaguardare solo la loro posizione. L’indipendenza non è privilegio ma è precondizione perché si possa attuare il principio che la legge è uguale per tutti, un caposaldo dello stato di diritto e in definitiva della democrazia”. Per Eugenio Albamonte, pm a Roma, segretario di Area, la corrente progressista, c’è stata intimidazione: “Le dichiarazioni dei vertici istituzionali, i dossieraggi da parte di testate vicine al governo, i video vecchi di anni e di provenienza non chiara: tutto è servito per intimidire la persona e delegittimare la sua decisione. Non c’era mai stata un’offensiva così grave e insidiosa, nemmeno ai tempi di Berlusconi e dei famosi calzini azzurri del giudice del lodo Mondadori (Raimondo Mesiano, ndr). Lo scopo è chiaro: evitare che in futuro si possano prendere decisioni simili”. Secondo Andrea Reale, giudice del tribunale di Ragusa, tra i fondatori del gruppo Articolo 101 “il linciaggio mediatico di un magistrato sul piano personale a seguito di un suo provvedimento diventa sempre un attacco estremo e vigliacco all’esercizio indipendente della giurisdizione. Queste pressioni indebite sul giudice sono altresì capaci di poter condizionare l’operato anche in futuro di diversi magistrati che potrebbero essere indotti ad applicare più che le regole del diritto quelle dell’opportunità e della convenienza politica per non avere ostacoli nel loro percorso professionale”. Per Francesco Pinto, procuratore aggiunto di Genova, “invece di parlare del merito dei provvedimenti si parla delle caratteristiche della giudice per attaccarla sul piano personale, segno che gli argomenti di diritto sono molto poveri. Il clima è preoccupante, soprattutto per chi si appresta a entrare in magistratura”. In merito alle critiche di Nordio alla giudice, per la presenza a una manifestazione, ricorda che il ministro quando era pm “nel 2003 partecipò a una cena riservata con Cesare Previti, allora imputato e poi condannato per corruzione giudiziaria. Credo che questo sia molto più dannoso per l’immagine di imparzialità dell’ordine giudiziario rispetto alla partecipazione a un presidio pro-migranti”. Chi ha il potere da togliere l’altrui libertà deve rinunciare a un pezzetto della propria di Tiziana Maiolo Il Dubbio, 14 ottobre 2023 Monadi senza porte né finestre o soggetti “sociali”? Sarà perché uno ha quarant’anni e gli altri due il doppio ciascuno, ma il confronto a distanza tra il pubblico ministero Alessandro Riello da una parte, e gli ex magistrati Giancarlo Caselli e Livio Pepino dall’altra, segna un solco profondo di visioni diverse sul ruolo del magistrato. Punto di partenza è ancora il comportamento della giudice di Catania, Iolanda Apostolico. La quale, nella sua veste di magistrato, ha ripetutamente disapplicato il “decreto Cutro” del governo, non convalidando la permanenza di alcuni migranti tunisini nei Cpr. Ma che anche, come risulta da un vecchio filmato, ha partecipato, in veste di cittadina, a una manifestazione nel 2018 contro il governo per i provvedimenti che riguardavano la nave Diciotti e l’immigrazione. La vecchia guardia di Magistratura Democratica si è mossa in massa. Addirittura con la sottoscrizione di un appello, in difesa della giudice catanese, promosso dal professor Luigi Ferrajoli, che aveva per breve tempo indossato la toga e aveva in seguito “fiancheggiato” il gruppo più garantista della corrente di sinistra della magistratura. Garantista e fortemente ideologicizzato, allora come oggi, nel testo dell’appello. Speculari le immediate adesioni di due ex magistrati che ebbero, con ruoli diversi, grande peso nella storia di Magistratura Democratica: Giancarlo Caselli, procuratore a Torino e Palermo, che ne ha scritto ieri sulla Stampa, e Livio Pepino, presidente della corrente sindacale delle toghe, in una lettera sull’Unità di due giorni fa. Un mondo che c’era e chissà se c’è ancora. Perché la prima cosa che colpisce, leggendo l’intervento di Alessandro Riello, pm della Dda di Catanzaro, sul Dubbio di ieri, è un altro mondo generazionale. Un giovane magistrato che lavora in un territorio difficile come la Calabria e al fianco fino a ieri di un procuratore come Gratteri, molto discutibile sul piano delle scelte giudiziarie ma sicuramente lontano dalle ideologie, che sa bene quanto siano importanti i comportamenti di ogni giorno. Perché devi stare sempre attento a chi ti trovi di fianco, anche a costo di sacrifici e isolamento. Monade senza porte né finestre. Tutte le parti in commedia citano la Costituzione, chi per valorizzare la parte in cui difende l’indipendenza del giudice, chi per privilegiare quella sull’imparzialità. Due valori fondamentali, che non dovrebbero mai marciare disgiunti. Ma c’è un terzo elemento, ed è quello in discussione, la permeabiltà. Caselli e Pepino compiono indubbie forzature, ricordando che gli esseri umani si distinguono tra donne e uomini, bianchi o neri, atei o credenti. Distinzioni che li rendono diversi l’uno dall’altro e che potrebbero, per paradosso, alterare il loro giudizio quando indossano la toga. Dimenticano, i due illustri ex magistrati, che qui stiamo parlando di comportamenti, non di modi di essere o di scelte culturali. Inutile girarci intorno: se per scelta ideologica partecipo non, come dice il dottor Caselli, a un convegno contro il terrorismo o la mafia, ma a manifestazioni antigovernative, sul tema dell’immigrazione o di altro, posso poi giudicare sulle stesse vicende senza indurre il sospetto di una mia scarsa serenità o presa di distanza dalle mie convinzioni politiche? Sull’Unità il direttore Piero Sansonetti, in dissenso da Livio Pepino, prova a rovesciare le parti, immaginando un giudice che ha partecipato a manifestazioni di estrema destra e poi deve giudicare il comportamento degli occupanti di un centro sociale. Vi piacerebbe, sfida i magistrati di sinistra. Sareste tranquilli sull’imparzialità di quel giudice? Ma il pm Riello pare lontano anche da questo tipo di considerazioni politiche. La sentenza della Corte Costituzionale (n. 224/ 2009) che lui pone a capo di tutto il suo ragionamento, nel collocare il “comportamento” a pieno titolo al fianco dell’indipendenza e dell’imparzialità del magistrato, disegna la carta d’identità di chi indossa la toga. Con qualche dovere in più, e anche qualche sacrificio in più. Non si spinge però, il pm calabrese, fino a quel terreno inevitabile del contrappeso, che gli è estraneo proprio perché un magistrato non lo ammetterebbe mai. Ci pensa però Sansonetti, in buona compagnia con Luca Ricolfi, sul Messaggero di ieri. Quel dovere in più, quel sacrificio a non partecipare anche alla manifestazione più gradita, sono dovuti da parte di chi gestisce un così grande potere, come quello di privare gli altri del loro bene maggiore, la libertà. Come possiamo avere fiducia nella magistratura, scrive Ricolfi, se abbiamo l’impressione che l’assoluzione o la condanna dipendano da “che giudice ti capita”? Il giudicare, oltre che il privare un cittadino della libertà personale, è esercizio di grande potere. Se ne faccia una ragione anche la dottoressa Apostolico, e ascolti le parole del suo giovane collega Riello, lasciando da parte le ideologie che fanno parte di altre storie del passato. Lasci perdere le manifestazioni e il suo giudicare sarà più forte. Chi gestisce, per diritto, così tanto potere, deve per forza di cose pagare un prezzo con doveri speciali, quanto meno quello dell’autocontrollo nelle esternazioni delle proprie opinioni. Un pezzetto di libertà in meno, in cambio del potere di toglierne così tanta agli altri. Omicidio nautico, un altro reato di cui non sentivamo il bisogno di Angela La Gamma* Il Dubbio, 14 ottobre 2023 Sull’onda dell’allarme sociale, in questo caso inesistente, è stata introdotta una nuova fattispecie equiparata all’omicidio e alle lesioni stradali: un ulteriore esempio dell’ipertrofia del diritto penale in un’epoca dominata dal panpenalismo. Ci risiamo. A meno di dieci giorni dall’ormai famigerato decreto Caivano, in cui è contenuta una sfilza di previsioni a carattere fortemente repressivo, con un grave ed intollerabile abbassamento della soglia dell’imputabilità ed una espansione del già eccessivo ambito di applicazione delle misure di prevenzione, prende vita, nell’ordinamento italiano, un nuovo reato. Stavolta il neo-nato delitto porta il nome di “omicidio nautico” e determinerà una modifica agli articoli 589 bis, 589 ter, 590 bis e 590 ter del codice penale, nonché si ritiene, agli articoli 590 quater e quinquies, in tema di omicidio e lesioni stradali. Il disegno di legge, approvato il 21 settembre scorso, in via definitiva, alla Camera con 268 voti favorevoli ed un solo contrario, e che, a febbraio, aveva già ricevuto il via libera in Senato, non avendo subito modifiche, diventerà legge tra una manciata di giorni, dopo la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale. Ed ecco, quindi, che le pene previste per il delitto di omicidio stradale e per quello di lesioni stradali, diventano applicabili anche ai fatti commessi con violazione delle norme sulla circolazione marittima; pene esemplari, inoltre, anche per chi viene trovato alla guida di un natante da diporto in stato di alterazione psicofisica determinato dall’assunzione di alcol o di sostanze stupefacenti. Non solo. Sotto il profilo procedurale, è stato esteso l’obbligo di arresto in flagranza anche al conducente di un mezzo nautico che sia trovato in stato di ebbrezza alcolica o abbia assunto sostanze stupefacenti o psicotrope. Una nuova fattispecie di reato quindi, in tutto e per tutto equiparata all’omicidio ed alle lesioni stradali della quale, a dirla tutta, non si sentiva affatto la necessità. Ed invero, la circolazione con mezzi da diporto è senza dubbio, ad avviso di chi scrive, completamente differente dalla circolazione stradale, non foss’altro perché più contenuta e limitata oggettivamente e soggettivamente; ciò induce a nutrire serie perplessità sull’adattabilità della normativa (si ricorderà, di tipo emergenziale) dettata in materia di omicidio e lesioni stradali alla differente ipotesi di fatti avvenuti in mare o, comunque, alla guida di imbarcazioni. Quale è stato, questa volta, l’allarme sociale che ha indotto il legislatore ad intervenire facendo ricorso allo strumento penalistico? Nessuno. Sebbene l’emergenzialismo degli ultimi anni non sia affatto una scriminante alla compulsività legislativa, anzi il contrario, stavolta non vi è nemmeno un fatto di grave allarme sociale cui imputare la responsabilità dell’agire irresponsabile del nostrano legislatore. L’introduzione della nuova fattispecie di reato, altro non è, se non l’ulteriore esempio - come se già non bastassero i precedenti - dell’ipertrofia del diritto penale in Italia. Quando si ha un calo del consenso popolare, quando le famiglie sono allo stremo, quando le promesse elettorali sono rimaste, appunto, scatole piene solo di belle parole, ecco che si tenta di riacquistare il rispetto della cittadinanza mediante un inasprimento delle sanzioni ovvero inventando nuove fattispecie di delitti. Un dato deve essere rilevato. Nel caso in esame, l’impatto sotto il profilo formale sarà meno evidente e gravoso, dal momento che non verranno introdotti nuovi articoli nel codice penale, ma verranno, soltanto, apportate modifiche a quelli già esistenti in materia di omicidio e lesioni stradali; quello che deve destare allarme e far riflettere, però, è la facilità con cui si fa ricorso, in maniera ormai quotidiana, al diritto penale, il quale, al contrario dovrebbe rappresentare l’extrema ratio, il rimedio minimale riservato alla repressione di fatti gravissimi e tassativamente tipizzati. Ed, invece, esempi quali il decreto Caivano, il decreto Cutro ed oggi il nuovo reato di omicidio nautico, mettono in evidenza come ci si trovi in un’epoca dominata dal panpenalismo, dalla pervasività del diritto penale, inoculato, ormai, in ogni piega del tessuto sociale, che vede il legislatore nelle vesti di un moderno giustiziere, il cui agire è veicolato, esclusivamente, da emotività momentanea e da un magnetismo ancestrale verso la creazione di nuovi reati. Questa corsa alla repressione, però, sta portando il potere legislativo a non operare una preliminare considerazione della realtà normativa esistente e, di conseguenza, a partorire nuove fattispecie delittuose che, spesso, rimangono puramente simboliche, dettate dalla bramosia di placare e tenere a freno l’opinione pubblica, distraendola dalle effettive criticità. Quale sarà il prossimo frutto di questa deriva giustizialista che sta infettando l’Italia, nella quale il diritto penale è sempre più il mezzo privilegiato per perseguire fini politici o morali? La sensazione è che non passerà molto tempo prima della nuova, improbabile, creazione. *Avvocato e componente Direttivo Camera Penale di Catanzaro Intervista a Mimmo Lucano: “Mi hanno distrutto ma non provo rancore. Riace non morirà mai” di Simona Musco Il Dubbio, 14 ottobre 2023 Parla l’ex sindaco, la cui condanna è stata fortemente ridimensionata dai giudici di secondo grado: “Salvini? Abbiamo visioni del mondo e della vita completamente differenti, non potrei mai accettare una politica da Stato di polizia, in cui la vita delle persone conta meno della burocrazia”. Riace è un via vai di gente. Non solo da mercoledì, quando i giudici della Corte d’Appello hanno sancito che Mimmo Lucano non ha sfruttato l’accoglienza per un proprio tornaconto, ma dal 1998, quando uno sbarco di curdi rese il paesino dei bronzi crocevia di popoli. “Ho sofferto molto”, racconta l’ex sindaco finito a processo per quell’utopia della normalità che altro non è se non la convivenza pacifica tra i popoli. Ma da quel dolore è nata un’altra speranza: “Subito dopo la condanna in primo grado - racconta - ho sentito forte, attorno a me, l’indignazione di molti. Pensavo tutto fosse finito, invece quell’accoglienza che sembrava destinata a morire è rinata. Ancora una volta spontaneamente”. Da 13 anni e 2 mesi a un anno e mezzo il passo è grande. Come si sente a cinque anni dall’arresto che ha stroncato la sua attività politica? Non provo rancore, non voglio vendetta. Ma ho sempre pensato che qualcosa non tornava. Quella inchiesta non aveva a che fare con la mia storia, con il mio impegno, con i miei ideali. Era un mistero. Era facile dichiararsi innocente, ma non ho mai voluto sconti o condizioni particolari. Non mi sono sentito un “prigioniero politico” e non volevo sembrarlo: se ho sbagliato, ho sempre detto, devo pagare. Era una questione d’orgoglio per il mio impegno politico, legato anche alle rivendicazioni non vittimistiche di una terra che, spesso, viene rappresentata per luoghi comuni. Non miravo solo ad accogliere, ma anche a riscattare la Calabria, legata all’immagine negativa della criminalità organizzata. Cosa ha pensato dopo l’assoluzione? Il mio primo pensiero, dopo la sentenza, è andato ad Antonio Mazzone, uno dei miei difensori, morto durante il processo. Sin dal primo istante, mentre la procura si difendeva dall’accusa di voler fare un processo politico, ha deciso di dedicarsi anima e corpo, gratuitamente, per inseguire lo stesso sogno, lo stesso ideale di giustizia e di riscatto. Come si spiega questa differenza abissale tra primo e secondo grado? Me lo domando pure io. L’accoglienza ha avuto sin da subito la fisionomia di un riscatto politico. I primi profughi, nel 1998, provenivano dal Kurdistan. Sono arrivati dicendo: non vogliamo l’elemosina, ma giustizia per il nostro popolo, libertà. Erano combattenti per la libertà ed io sono diventato uno di loro. Questo è stato Riace e la cosa più dura è stata la volontà di stravolgere questa storia. C’è una differenza abissale tra Riace e il racconto criminale che ne è stato fatto. La stessa distanza che c’è tra queste due sentenze. È tutta l’idea di sistema che viene spazzata via: nessuno ha commesso reati, secondo questa sentenza. Vuole sapere chi erano i miei “complici”? Monsignor Bregantini, che in aula ha definito quella di Riace una storia profetica. Padre Alex Zanotelli, che ha speso la vita nelle baraccopoli cercando la luce per le persone povere. Giovanni Ladiana, uno straordinario prete antimafia, il missionario scalabriniano Salvatore Monte. Questa era la mia “associazione a delinquere”. Come poteva essere un crimine la solidarietà? Questo me lo devono spiegare. La mia storia giudiziaria inizia nel 2016, negli anni delle leggi più repressive contro chi si occupa di solidarietà, contro i salvataggi in mare, le ong. Riace era stata presa come esempio: in un’area il cui destino sembra segnato, l’accoglienza aveva prodotto un valore straordinario, capace di rigenerare le realtà. Era diventata un’indicazione per il mondo: raccontava che le migrazioni non sono un’invasione, come ci raccontano oggi, dove ad essere criminalizzate sono addirittura le vittime. Avevamo dimostrato che si poteva fare accoglienza con umanità e che i migranti erano preziosi cittadini per la rinascita dei luoghi. E hanno messo in piedi un teorema. Ma qual era il messaggio pericoloso di Riace? La risposta è semplice: le destre hanno costruito tutto il loro consenso politico su questo unico argomento, il contrasto all’immigrazione. I termini che usano sono ormai nel vocabolario di tutti, occupano tutti gli spazi con l’egoismo. Si vogliono rafforzare i confini, si invoca la sicurezza, che giustifica la produzione delle armi, giustifica la guerra e la morte. Riace era la prova che tutto questo non è necessario. Mentre parliamo Roberto Saviano viene condannato per aver criticato pesantemente queste politiche. Vuole dirgli qualcosa? Che ha tutta la mia solidarietà. È stato tra i primi a capire che non era una storia criminale, la nostra. Mi auguro che ne esca completamente, lui così come tutti coloro che combattono per la libertà. Qual è stato il momento peggiore? La condanna a 13 anni e due mesi, il 30 settembre 2021. Mi sembrava tutto finito, ero smarrito, sconfortato. Non capivo perché stesse accadendo. Non avevo fatto nulla di ciò di cui mi accusavano, non ci avevo guadagnato nulla, anzi, avevo distrutto la mia famiglia, ho creato loro tanti problemi. Facevo il sindaco, ma non ho mai pensato di approfittare del mio ruolo. Ho pagato di tasca mia le carte d’identità che mi venivano contestate. La generosità è reato? Ok, magari posso aver fatto degli errori amministrativi. Ma come si può voler condannare qualcuno che fa una carta d’identità per un bambino di 4 mesi che altrimenti non può curarsi? Gli aspetti burocratici possono prevalere sulla vita delle persone? Becky Moses è morta bruciata in una tendopoli per colpa di norme restrittive che le impedivano di fare ricorso contro il diniego del riconoscimento dello status. La carta d’identità che le ho fatto ha consentito di identificare il suo corpo. Mi hanno detto che non potevo, ma sono orgoglioso di averlo fatto: prima veniva la vita di una ragazza in viaggio con una speranza che si chiama vita, poi la burocrazia. Oggi le politiche sono quelle che lei contrasta... La propaganda su cui si fondano hanno fatto diventare la società egoista e si scontrano con gli ideali che io inseguo. C’è una visione delle cose che rifiuta i valori sociali, il senso di fraternità, la dignità delle persone, i diritti umani. È sorprendente che riescano ad avere consenso. Hanno instillato paura, quella che noi avevamo dimostrato essere inutile: abbiamo solo vissuto nella normalità dei rapporti umani. Dopo la condanna come si è rialzato? Quella sentenza, paradossalmente, è stata l’occasione per una rinascita. Qualche giorno dopo ho ricevuto una telefonata da piazza Montecitorio. C’era tanta gente e a chiamarmi era Luigi Manconi. Sentivo centinaia di voci protestare contro la mia condanna, sentivo molta indignazione e solidarietà. Ho sentito parole bellissime. Era l’inizio di una raccolta fondi per pagare la mia multa da 700mila euro. Ma non mi importavano i soldi, mi importava sapere che tanti condividevano il mio stesso sogno. Quei soldi che fine hanno fatto? Non ho mai voluto che qualcuno pagasse per me quella sanzione. Era una questione di principio. Ma quei fondi - in poco tempo hanno raccolto quasi 400mila euro - non potevano essere usati per altro. Così li ho autorizzati ad usarli per fare accoglienza a Riace. Quei soldi, ora, tengono in vita il villaggio globale, pagano le borse lavoro per le famiglie di rifugiati, hanno salvato quell’idea di accoglienza. Sono tornato a fare, istintivamente, ciò che ho sempre fatto. Come vedete non era una questione di potere politico. A proposito, vuole tornare a fare politica? Ma fare politica cosa vuol dire? La facciamo anche respirando. Non me ne sono mai allontanato. Posso essere sindaco, un volontario, un cittadino attivo: mi basta partecipare. L’accoglienza è il mio orizzonte. E quello che uno è prescinde dal ruolo che occupa. Il senso della politica, spesso, si perde nei formalismi. Vuole dire qualcosa a chi ha esultato per il suo arresto e la sua condanna, ovvero Matteo Salvini? Posso dire solo che abbiamo visioni del mondo e della vita completamente differenti. Non potrei mai accettare una politica da Stato di polizia, una politica in cui la vita delle persone conta meno della burocrazia. Il giudice di pace non può negare de plano la tenuità del fatto per lo straniero che viola l’ordine di allontanamento di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 14 ottobre 2023 Anche se non è applicabile l’articolo 131 bis del Codice penale va esaminata la causa di improcediblità dell’articolo 34 del Dlgs 274/2000. Il giudice di pace non può a priori esimersi dall’esaminare l’eventuale sussistenza della particolare tenuità del fatto solo perché il reato è quello previsto dall’articolo 14, comma 5 ter, del Dlgs 268/1998. Cioè la violazione dell’ordine di allontanamento rivolto dal questore allo straniero irregolare. Non può il giudice di pace ritenere che la fattispecie penale rivesta in sé un valore di gravità tale da non consentire un giudizio di tenuità della condotta ascritta all’imputato. La Corte di cassazione penale - con la sentenza n. 41544/2023 - ha annullato la decisione del giudice di pace che intravedeva una “gravità intrinseca” nel reato contestato allo straniero e ha rinviato affinché venga adeguatamente esaminata e motivata l’esclusione o la sussistenza di tutti i parametri della particolare tenuità del fatto che determina l’improcedibilità dell’azione penale davanti al giudice di pace. La Corte di cassazione ha avuto l’ennesima occasione di affermare che pur non essendo applicabile la causa di non punibilità prevista dall’articolo 131 bis del Codice penale, il giudice di pace deve valutare la concorrente causa di improcedibilità per la particolare tenuità del fatto contemplata dal Dlgs 274/2000 che ne regola la competenza penale. Si tratta dell’articolo 34 che a fronte dell’interesse tutelato dalla norma penale definisce i contorni della condotta che non giusitificano l’esercizio dell’azione penale: - esiguità del danno o del pericolo arrecato; -occasionalità della condotta con “basso” grado di colpevolezza e - pregiudizio che l’ulteriore corso del procedimento può recare alle esigenze di lavoro, di studio, di famiglia o di salute della persona sottoposta ad indagini o dell’imputato. La Cassazione penale ha, in sintesi, bocciato il ragionamento del giudice di pace secondo cui data la natura del bene tutelato dalla norma incriminatrice in materia di immigrazione illegale non era ravvisabile in radice una particolare tenuità del fatto. Lombardia. Il 30% dei detenuti ha un lavoro dietro le sbarre di Luca Bonzanni Il Giorno, 14 ottobre 2023 Di fronte a situazioni di affollamento, la fatica di realizzare percorsi professionali mirati. Solo l’8% è impegnato in imprese o cooperative. Nel carcere di Bergamo il progetto “Forno al fresco”. Lavorare per il proprio futuro, superando l’errore del passato. La seconda opportunità scorre da un’occupazione, da una competenza in più, dai rudimenti di un nuovo mestiere. Di fronte a carceri perennemente affollate, la fatica è però quella di costruire un percorso per il maggior numero di detenuti: in Lombardia lavora ufficialmente all’incirca un recluso su tre, ma solo una piccola parte è impiegata alle dipendenze di cooperative o imprese private. Sono le due velocità del lavoro in carcere, come racconta una recente ricerca del Garante nazionale dei detenuti. A fronte di 8.597 detenuti nelle carceri lombarde (ma la capienza è di soli 6.153 posti), gli ultimi dati disponibili raccontano un totale di 3.020 “detenuti che lavorano” (il 35% del totale). Di questi, secondo la definizione ufficiale, 2.347 “lavorano alle dipendenze dell’amministrazione”: sono cioè impiegati in mansioni all’interno dei penitenziari con lavori “svolti a rotazione per periodi brevi - si legge nel report del garante dei detenuti -, in modo da consentire a un numero maggiore di persone di lavorare e di guadagnare nel corso dell’anno”. Se “il motivo è certamente nobile”, premette il garante, allo stesso tempo si tratta di “forme ardite di lavoro atipico”, che portano a “una paghetta” più che a uno stipendio vero e proprio. I progetti più strutturati sono invece quelli degli “enti terzi”: sono così 673 i detenuti lombardi (solo l’8% del totale) che lavorano “per imprese o cooperative” non riconducibili all’amministrazione penitenziaria, in questo caso “con contratti tendenzialmente più duraturi nel tempo”. Lavorare permette anche di attenuare una situazione spesso stressante, acuita dal costante sovraffollamento: l’ultima rilevazione del ministero della Giustizia indica che in tutti e 18 i penitenziari lombardi il numero dei detenuti presenti supera quello dei posti disponibili; Canton Monbello a Brescia (356 presenti a fronte di 185 posti) e la casa circondariale di Como (430 presenti per 226 posti) sono le due strutture col più alto tasso d’affollamento d’Italia, ospitando praticamente quasi il doppio dei reclusi rispetto alla capienza regolamentare. La sfida, appunto, è costruire un percorso per quel pezzo di vita che verrà dopo il carcere. “I detenuti che non lavorano hanno una recidiva del 70%, che si abbassa però al 2% per chi lavora”, ragiona Daniele Rota, direttore della cooperativa sociale Calimero, con sede ad Albino (Bergamo), che proprio ieri ha inaugurato un nuovo progetto per il reinserimento dei reclusi. Si chiama “Forno al Fresco” ed è il marchio dei prodotti di panetteria e pasticceria che prendono forma nel forno del carcere di Bergamo: un’esperienza che ha mosso i primi passi nel 2012, permettendo negli anni il coinvolgimento di una cinquantina di detenuti, e che ora trova rinnovato slancio. La cooperativa occupa attualmente sette detenuti: “L’obiettivo è quello di insegnare un mestiere, con la prospettiva del reinserimento nelle comunità - spiega Mauro Magistrati, presidente di Calimero -. È fondamentale il rapporto col territorio, con le istituzioni, con i consumatori”. Tra gli obiettivi concreti, l’orizzonte è quello di sfornare circa 8mila panettoni in vista del prossimo Natale. Prodotti che saranno venduti anche in uno speciale bar di Nembro, “Dolci Sogni Liberi”, che vede al lavoro degli altri detenuti bergamaschi: “Questo progetto - osserva Rosa Lucia Tramontano, responsabile del progetto - è un’azione civile forte, anche per la sicurezza sociale: aiutare queste persone vuol dire aiutare la comunità, riducendo la recidiva”. Cuneo. “Nelle celle di isolamento 4 persone in 9 metri quadrati” di Barbara Morra La Stampa, 14 ottobre 2023 La denuncia di un ex detenuto: “Poco spazio anche per il passeggio nell’ora d’aria, restavamo quasi sempre chiusi”. “Delle celle di isolamento la numero 1 è quella cosiddetta liscia con solo una branda e a volte non c’è neanche il materasso: io stesso ho dormito in mutande sulla rete”. Parole di Alessandro, ex detenuto del carcere Cerialdo intervistato il 6 aprile di quest’anno da Riccardo Arena per “Radio Carcere”, una trasmissione di Radio Radicale. Le sue affermazioni descrivono con dovizia di particolari un punto di vista sul “Cerialdo” di Cuneo. “Sono arrivato lì da Aosta dove si stava meglio” dice. Un operatore del carcere che non vuole essere nominato fa notare che: “Del carcere si parla soltanto quando ci sono questioni scottanti, ma qui si lavora 365 giorni l’anno e i problemi sono tanti”. L’indagine della Procura di Cuneo che ha portato alla denuncia di 23 agenti di polizia penitenziaria per torture, lesioni e abuso di potere può essere un’occasione per prendere atto di che cosa nella casa circondariale non funziona. Alessandro, a Cuneo, ci è stato dal 2020 alla fine del 2022, un ritorno visto che la casa circondariale lo aveva già ospitato dal 2009 al 2018. Ciò che ha raccontato a “Radio Radicale” parte dalla dimensione delle celle, proprio quelle del padiglione “Gesso” dove sarebbero avvenuti i reati degli agenti: “Ospitano quattro persone in nove metri quadrati e andrebbero bene per uno o due detenuti”. Contattato da La Stampa l’ex detenuto aggiunge dettagli: “Lo spazio è ridotto anche per il passeggio della cosiddetta ora d’aria, eravamo in 65 per piano, stretti come sardine, in un luogo non adeguato. Il risultato è che restavamo quasi sempre chiusi in cella pur essendo detenuti comuni che possono avere accesso alle attività lavorative e alla formazione. Così chiusi tutto il giorno in cella fa andare fuori di testa. Nei bagni non c’è una finestra e le ventole sono perlopiù rotte, non c’è il bidet e gli sciacquoni dei gabinetti all’80% sono rotti, per tirare l’acqua si riempie un contenitore dal lavandino e per lavare le parti intime ci si munisce di una caraffa di plastica”. Anche la possibilità di lavarsi sarebbe “a singhiozzo”: “L’acqua calda c’è mezz’ora al mattino, al pomeriggio e alla sera ed è soltanto tiepida, d’inverno quando ci si lava fa freddissimo”. Anche nel suo racconto emerge quello che ipotizza nel capo d’accusa per i 23 agenti la Procura di Cuneo: “Sono stato in isolamento e avrei dovuto essere visitato tutti i giorni ma non è stato così, stavo male e non potevo dirlo a nessuno”. Sull’accesso al lavoro: “Non c’è lavoro utile alla rieducazione. C’è un corso di muratura per operaio e uno di alberghiero ma è accessibile solo a chi la rieducativa ritiene opportuno mandare”. I detenuti a Cuneo, secondo dati di giugno, sono 315 di cui 46 in regime di “41 bis”. Gli agenti sono sotto organico. Essendo casa circondariale c’è poco accompagnamento al reinserimento perché in genere i fine pena sono brevi oppure si tratta di persone in attesa di giudizio. Le statistiche però dicono che, senza accompagnamento al lavoro e formazione, la recidiva è del 70% mentre, usando questi strumenti scende al 18, e in alcuni casi si azzera. In carcere non opera soltanto l’Amministrazione penitenziaria che ha il compito istituzionale di occuparsi della sicurezza, gli enti che interagiscono sono Regione, Comune, anche tramite i servizi sociali, Asl e ministero dell’Istruzione. Ci sono poi svariate associazioni di volontariato a Cuneo come Sesta Opera o Ariaperta. I servizi sociali con la figura degli educatori hanno un ruolo importante per seguire il percorso di reinserimento del detenuto. “Il problema di Cuneo è che si tratta di un carcere di massima sicurezza, non trattamentale - interviene sul punto Bruno Mellano, Garante regionale per i detenuti - si dà la precedenza all’aspetto della sicurezza anche perché, come casa circondariale, ospita più detenuti con fine pena brevi o in attesa di giudizio”. Qualcosa però starebbe cambiando. “Negli ultimi anni riconosco ai direttori di aver fatto accordi con scuole e Comuni come la collaborazione e formazione con la Scuola Edile”. I numeri che dà il Garante, tuttavia, sono bassi: “In Italia ci sono circa 60 mila detenuti, che lavorano sono 22 mila ma è un conteggio che comprende anche il lavaggio dei corridoi delle carceri, i lavoratori veri sono circa 2000”. “I miei colloqui avvengono con i detenuti residenziali e non con chi è di passaggio - dice Alberto Valmaggia, Garante dei detenuti per il Comune di Cuneo- forse per questo non ho mai sentito nulla di quanto è emerso dalle indagini. I detenuti a lunga permanenza mi segnalano perlopiù che la sanità che non dà risposte nei tempi che vorrebbero, che non avvengono i trasferimenti richiesti e che non vengono soddisfatte le richieste di lavoro esterno”. Cagliari. Nomina Garante dei diritti dei detenuti: riaperti i termini per l’invio delle candidature cittametropolitanacagliari.it, 14 ottobre 2023 Le domande potranno essere presentate dal 18 ottobre al 17 dicembre 2023. La Città Metropolitana di Cagliari ha pubblicato un avviso di riapertura dei termini per l’invio delle candidature volte alla designazione del Garante dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale della Città Metropolitana di Cagliari. La riapertura dei termini è stata disposta in considerazione del numero esiguo di candidature finora pervenute a seguito del precedente avviso. Restano valide ai fini della selezione le domande già ricevute. La domanda di candidatura, corredata della relativa documentazione allegata, deve essere presentata dalle ore 12 del 18 ottobre 2023 fino alle ore 12 del 17 dicembre 2023, esclusivamente attraverso la piattaforma “Istanze Online” della Città Metropolitana e secondo le modalità contenute nell’avviso. Il Garante dei diritti dei detenuti è un’autorità indipendente che vigila sul rispetto dei diritti delle persone private della libertà, promuovendone la partecipazione alla vita civile, con particolare riferimento ai diritti fondamentali al lavoro, alla formazione, alla cultura, all’assistenza, alla tutela della salute e all’affettività, nell’ottica dei principi di recupero e reintegrazione sociale. È nominato dal sindaco metropolitano tra persone di comprovata esperienza e prestigio nel campo delle scienze giuridiche, dei diritti umani, delle attività sociali negli istituti di prevenzione e pena e nei centri di servizio sociale. L’incarico è gratuito fatto salvo il rimborso delle spese sostenute e documentate per lo svolgimento dello stesso. L’avviso è pubblicato nell’albo pretorio della Città Metropolitana di Cagliari al link: https://istanze.cittametropolitanacagliari.it/openweb/albo/albo_dettagli.php?id=11720 Carinola (Ce). Trattamento penitenziario, convegno nella casa di reclusione ilroma.net, 14 ottobre 2023 Convegno sui “contenuti e metodologie del trattamento penitenziario” dal titolo “Oltre il Muro” nella casa di reclusione di Carinola, organizzato dal Centro Italiano per la Mediazione Penale e dalla Direzione del carcere. Dopo un saluto iniziale del direttore del carcere di Carinola, Carlo Brunetti, e i saluti del presidente CIPM Campania, Roberto Iannucci, ha preso la parola il Garante campano dei detenuti, Samuele Ciambriello, che ha moderato l’incontro. Ciambriello ha ritenuto opportuno sottolineare quelli che sono gli elementi del trattamento penitenziario ai sensi della legge 354 del 1975 soffermandosi su quelli, ritenuti da lui fondamentali, che sono il lavoro, l’istruzione, le attività culturali, ricreative e sportive e i contatti con il mondo esterno. Successivamente è intervenuta la presidente del Tribunale di Sorveglianza di Napoli, Patrizia Mirra, che, a partire dalla legge Gozzini, ha menzionato tutte norme sulle buone prassi del Trattamento dei detenuti anche attraverso le sfide dei Magistrati di Sorveglianza nel promuovere i permessi premio. Il trattamento arriva dopo un periodo di osservazione sulle persone che sono in carcere che tiene conto della capacità del singolo di aderire alle regole, consapevoli però della possibilità del venir meno, tante volte, delle condizioni generali della vita negli istituti: il vitto e l’alloggio. È intervenuta poi, l’avvocato Angela Del Vecchio, Presidente dell’Ordine degli avvocati di Santa Maria Capua Vetere. Infine, Paolo Giulini, presidente e co-fondatore del CIPM, ha portato una testimonianza di un progetto relativo al trattamento già sperimentato nel carcere di Bollate e ha definito “Ibernato penitenziario” il detenuto sex offender. Giulini ha evidenziato la polifunzionalità della pena che è afflittiva, rieducativa e riparativa. Così ha esordito il Garante Ciambriello all’uscita dal carcere: “Un plauso va agli organizzatori del convegno che hanno acceso i riflettori sul tema del trattamento che io chiamerei programma di inclusione sociale per il detenuto. Su questo tema nella nostra regione emerge un quadro insoddisfacente, ad eccezione fatta di qualche istituto penitenziario per quel che concerne l’offerta culturale, ricreativa e anche scolastica che non è consona alle esigenze dei diversamente liberi e del dettato costituzionale. Le attività culturali e ricreative sono meglio distribuite e hanno coinvolto un maggior numero di persone detenute negli Istituti di Secondigliano, Santa Maria Capua Vetere, Bellizzi Irpino, Aversa, Carinola ed Eboli”. Nell’istituto di Carinola oggi erano presenti 454 detenuti, 45 sex offender in una sezione dalla capienza di numero 41, 7 detenuti in articolo 21 o.p. (lavoro retribuito) e 5 in articolo 20 ter o.p. (lavoro di pubblica utilità gratuito). Pistoia. Colori di speranza, storie di vite. I murales dei detenuti in carcere di Gabriele Acerboni La Nazione, 14 ottobre 2023 Presentate le opere realizzate nell’ambito del progetto voluto dalla direzione con Edf e fondazione Caript. Viaggiare fuori dallo spazio e dal tempo in una bolla, un’astronave, in un universo disegnato su un alto muro di cinta. E poi c’è un orologio sulla luna, che conta il tempo che deve trascorrere per poter riabbracciare il figlio, dedicato ad Adel che ha collaborato col gruppo di artisti e che purtroppo è morto una volta riacquisita la sua libertà. Sono alcuni dei murales creati all’interno della casa circondariale di Pistoia, risultato di un progetto voluto dalla direzione del carcere in collaborazione con l’associazione culturale Elektro Domestik Force e grazie al sostegno di Fondazione Caript. I dipinti, iniziati i primi di luglio e inaugurati ieri, si trovano su un arco del piano superiore della sezione, su una parete della sala polivalente e sul muro del campetto da calcio. Le opere sono intrise di storie, amalgamate dai pensieri, dal confronto tra persone anche di nazionalità diverse, che ha portato a imprimere sui muri monocromatici del carcere i colori delle vite e i sentimenti che le animano. Così si scorge una donna che rialza da terra una persona, è il ringraziamento di un uomo a sua moglie. E la costellazione dell’abbraccio, evocazione di sostegno. O un albero maestoso con su scritto “sacrificio, libertà e speranza”, che racconta anche come sia la saggezza a rendere liberi. Ma sui muri si trovano disegnate anche le passioni, come il celebre salto di Jordan e il logo dell’Us Pistoiese. “Nell’ambito delle iniziative trattamentali a favore della popolazione detenuta abbiamo pensato di realizzare questi murals - ha dichiarato la direttrice della casa circondariale Loredana Stefanelli -. L’obiettivo è stato di rendere gli spazi fisici quali spazi vitali, nei quali i detenuti possono ritrovare le loro radici, le paure, le attese ma anche la speranza che il carcere da isola di disperati divenga, per quanto possibile, anche territorio di vita”. La realizzazione delle opere è stata preceduta da quattro incontri a giugno di coprogettazione tenuti da Nico “Lopez” Bruchi e Marco “Sera” Milaneschi di EDF con i detenuti coinvolti: il video-maker Carlo Settembrini ha effettuato delle riprese per documentare ogni fase del progetto. “Abbiamo molto apprezzato - ha detto il presidente di Fondazione Caript Lorenzo Zogheri - la partecipazione attiva dei detenuti, per noi l’aspetto più bello del progetto. La Fondazione è a servizio della comunità e questi murales veicolano il messaggio che chi si trova in carcere ne è parte integrante, con quanto ne consegue in termini di necessità di attenzione e di sostegno”. Nella sala polivalente è arrivato il mare, visibile da una stanza detentiva la cui parete è stata abbattuta. In primo piano le mani che spezzano delle catene e, fuori, alcune bandiere e parole di diverse nazioni. “I nostri interventi sono di arte sociale - commenta Nico “Lopez” Bruchi, direttore artistico di EDF -, nascono sempre da volontà espressive condivise con le persone che vivono i luoghi dove questi sono ospitati e è stato essenziale avere dei momenti di scambio con i detenuti per comprendere la direzione che questa operazione artistica doveva prendere. Guidati dalle loro idee abbiamo progettato i murales cercando di trovare canali comunicativi semplici ed efficaci. Non è mai un lavoro facile mettere insieme molte idee e farle confluire in un unico progetto. Creare bellezza insieme è una cosa che non capita tutti i giorni all’interno di un carcere. Il sostegno da parte di tutti i detenuti è stato emozionante - conclude -, il loro profondo coinvolgimento ha fatto sì che si respirasse uno spirito di collaborazione per migliorare gli spazi comuni del carcere”. Milano. Emozioni all’Opera: racconti di esperienze di lotta e resilienza di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 14 ottobre 2023 Un connubio tra il dolore e la speranza, tra la sofferenza e la determinazione. Questo lo spirito del progetto “Emozioni all’Opera: detenuti e pazienti psichiatrici si raccontano”, ha aperto le porte a un dialogo profondo e commovente tra due mondi apparentemente distanti ma sorprendentemente simili. L’evento culminante di questo straordinario progetto è stata la performance tenutasi mercoledì scorso sul palco della Sala teatro della Casa di reclusione di Opera a Milano. Detenuti e ospiti del Centro diurno psichiatrico Il Camaleonte, uniti dalle loro esperienze di lotta e resilienza, hanno dato voce alle loro storie attraverso potenti performance teatrali, letture avvincenti e commoventi video. Queste testimonianze hanno svelato l’umanità dietro le sbarre, spazzando via stereotipi e pregiudizi. La tavola rotonda che ha seguito l’evento ha riunito esperti e sostenitori del progetto, tra cui don Gino Rigoldi, cappellano del Beccaria, lo psichiatra di Fondazione Sacra Famiglia Emilio Castiglioni, la psicologa e psicoterapeuta della Fondazione Melissa Cozzi ed Emanuela Butteri, psichiatra dell’ospedale Sacco. Questi professionisti hanno condiviso conoscenze preziose e hanno offerto un’illuminante prospettiva sulle sfide della salute mentale e sulla necessità di abbattere le barriere sociali per promuovere la comprensione e l’inclusione. Nato nel 2019 dalla collaborazione pionieristica tra la Fondazione Sacra Famiglia e l’Associazione In Opera, il progetto ha portato alla creazione dell’edizione ‘ Legami in Opera’, un’esperienza senza precedenti in Italia. Da circa un anno, venti detenuti uomini del penitenziario di Opera e cinque ospiti uomini del Centro diurno psichiatrico Il Camaleonte di Cesano Boscone si sono incontrati regolarmente in attività e laboratori ricreativi, guidati con cura da Barbara Migliavacca, responsabile del Centro Il Camaleonte, Giovanna Musco, referente dell’Associazione In Opera, e dalle educatrici di Fondazione Sacra Famiglia, Laura Leone ed Antonella Cavallaro. La Fondazione Sacra Famiglia, un faro di speranza nella Lombardia, è un’organizzazione non profit che da oltre 125 anni dedica le sue energie a coloro che soffrono di complesse e gravi fragilità fisiche e psichiche. Grazie ai suoi 1.800 dipendenti e 200 professionisti, nel 2021 ha offerto supporto a circa 10.000 persone, tra cui 1.500 minori, oltre 2.700 adulti e circa 5.600 anziani, attraverso una rete capillare di strutture e servizi residenziali, diurni, ambulatoriali e domiciliari. Quando il pianto è il canto dei detenuti verso la libertà di Giacomo Puletti Il Dubbio, 14 ottobre 2023 “Colmare/ il vuoto che mi hai lasciato/ è difficile/ in questa vita ristretta/ dove ogni giorno/ è uguale/ a quello lasciato/ la sera prima/ alle spalle”. Si apre così la prima poesia, dedicata alla madre da un detenuto della casa di reclusione di Maiano- Spoleto, delle tante raccolte nella silloge “Quando il pianto è un canto”. Un insieme di poesie scritte dai detenuti dei penitenziari umbri di Spoleto e Perugia, frutto di un eccezionale lavoro introspettivo, che farà da apripista per la creazione di una nuova sezione speciale del Premio letterario Città di Castello, riservata a tutti i penitenziari italiani, dal titolo “Destinazione altrove - La scrittura come esplorazione di mondi senza tempo”. Il volumetto, pubblicato su iniziativa dell’Associazione culturale Tracciati Virtuali e della casa editrice LuoghInteriori, è il risultato del fortunato progetto promosso dalla curatrice Francesca Gosti, che ha ideato un Corso di Scrittura Creativa nei due penitenziari umbri, affiancata dall’Associazione “Nel Nome del Rispetto”. I proventi della vendita verranno utilizzati per arricchire e integrare il fondo dei volumi all’interno delle due case di reclusione. A credere fermamente nel progetto, che si sposa con gli obiettivi di reinserimento e rieducazione dei detenuti iscritti nell’articolo 27 della Costituzione, è stato tra gli altri Walter Verini, segretario della commissione Giustizia del Senato. “D’accordo con l’editore Antonio Vella - ha detto Verini nel corso della presentazione del volume, avvenuta giovedì scorso a Perugia - abbiamo pensato di strutturare questo progetto, istituendo una sezione del Premio letterario Città di Castello dedicata a tutti i detenuti d’Italia”. L’iniziativa è stata accolta favorevolmente dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Ma Verini si spinge oltre. “Mi auguro poi che prima possibile - ha aggiunto l’esponente Pd - vengano prese decisioni sul Provveditorato per le carceri: è necessario e urgente che si ripristini il Provveditorato regionale in Umbria, come nelle altre regioni, per avere una struttura vicina agli istituti, in grado di rispondere al meglio, ogni giorno, alle esigenze di Capanne, Terni, Spoleto e Orvieto. Confidiamo che questa esigenza possa venire accolta”. La consigliera delegata della Provincia di Perugia, Erika Borghesi, ha definito l’iniziava un “progetto nel progetto”. Nel suo saluto ha colto l’occasione per rivolgere parole di gratitudine verso tutti i soggetti che “in maniera instancabile e con grande passione hanno condotto questa attività presso i due penitenziari”, spiegando poi che “il progetto ha portato ad una grande produzione letteraria con risultati di notevole spessore”. Secondo la consigliera delegata “la scrittura creativa riesce a scavare interiormente e dà modo ai reclusi di riacquisire consapevolezza e l’auspicio di poter riprendere il proprio percorso di vita” e per questo “va seminato il seme del rispetto” e “le istituzioni hanno il dovere di agire affinché la dignità delle persone non venga umiliata in alcuna situazione”. Un richiamo che si evince anche da alcune delle poesie raccolte nella silloge, come quella in cui un detenuto parla dell’esperienza scolastica in carcere, grazie alla quale ha ritrovato dignità. “È l’arma vincente/ lo posso dedurre/ della mia esperienza/ trovandomi dentro queste/ mura fredde/ ma con uno spirito propositivo/ voglio affrontarla”. Un altro detenuto parla di una donna che ama, anche se solo col pensiero (“Solo tu/ donna/ riesci/ a farmi/ attraversare/ le sbarre”); un altro ancora del figlio che cresce lontano (“Fare il padre/ è un compito/ molto difficile/ Non smetterò mai/ di chiederti scusa/ per non averlo/ potuto fare”). Il refrain è la dignità, che deve essere talvolta recuperata, talvolta difesa da un sistema penitenziario che tende a fartela perdere a suon di sovraffollamento, sporcizia, disagio psicologico, caldo torrido d’estate, freddo pungente d’inverno. Condizioni la cui gravità è stata tristemente dimostrata dagli 82 suicidi avvenuti nelle nostre carceri nel 2022. Un pensiero, quello sulla dignità dei detenuti, condiviso anche dall’assessore alla Cultura del Comune di Città di Castello, Michela Botteghi, secondo la quale “la riabilitazione di un condannato deve partire da un lavoro sulla sua stessa dignità”. Quel lavoro che la curatrice del volume ha portato avanti anche con le detenute della sezione femminile della casa circondariale di Capanne- Perugia. Nella sezione dedicata alle loro poesie ci sono amori che nascono, bambini che crescono, errori commessi in passato e prospettive di vita per il futuro. E c’è anche la poesia che chiude la silloge, firmata da Irene. “Fuori/ bisogna lottare/ non puoi stare fermo/ qualcosa devi fare/ togli quello schermo/ ed inizia ad amare”. Tre milioni di lavoratori in nero, il Pil illegale vola a 192 miliardi di Giuliano Balestreri La Stampa, 14 ottobre 2023 Il rapporto Istat sul sommerso: irregolare il 12,7% degli occupati, boom nei servizi alla persona. Tre milioni: sono i lavoratori in nero in Italia. Quasi un quarto del totale degli inattivi: quei 12 milioni di persone tra i 15 e i 64 anni che potrebbero lavorare, ma non hanno alcun impiego e neppure lo cercano. La crisi del sistema previdenziale si spiega con questi numeri: a fronte di 23 milioni di occupati e 1,8 milione di disoccupati, ci sono tre milioni di lavoratori che non versano un euro di contributi, che sono completamente sconosciuti al fisco e che incassano milioni di euro sotto forma di sussidi. Ma sono pure i più esposti ai salari poveri, agli infortuni e alla tragedia delle morti sul lavoro. È la fotografia scattata dall’Istat sull’economia non osservata che nel 2021 è cresciuta del 10% rispetto al 2020, l’anno della pandemia globale. Il dramma dei lavoratori invisibili è una delle facce del sommerso che in Italia vale 192 miliardi di euro: il 10,7% del Pil. Una cifra identica all’intero importo del Pnrr. A spingere il fenomeno sono i consumi di droga e sostanze stupefacenti che sono saliti a 15 miliardi e mezzo di euro, mentre la spesa per le prostitute raggiunge i 4,5 miliardi. E con la ripresa economica trainata dalla fine del Covid e dei lockdown, l’economia non dichiarata è cresciuta a un ritmo più veloce del Pil (+8,3%) arrivando a un livello “indegno di un paese civile”, come lo definisce l’Unione nazionale consumatori, ma ancora inferiore a quello di prima della pandemia. Il Pil ha poi superato il livello del 2019 a metà 2022 e solo con i dati dell’anno prossimo si capirà se lo stesso andamento hanno avuto le attività illecite e criminali o se effettivamente il loro impatto si sta riducendo. L’Istat per il momento registra, sull’occupazione in nero, un possibile ridimensionamento di quella che definisce “una caratteristica strutturale del mercato del lavoro italiano”. L’incidenza dei lavoratori irregolari nel lavoro domestico e negli altri servizi alla persona supera il 40% del totale, in agricoltura è oltre il 16% e si attesta intorno al 13% anche per il commercio, i trasporti, l’alloggio e la ristorazione. “Rimane altissimo il numero di lavoratrici e lavoratori a cui non si applicano contratti collettivi, diritti e tutele”, commenta la segretaria confederale della Uil Ivana Veronese che chiede più assunzioni di ispettori e misure di emersione per evitare un flop del piano nazionale per il contrasto al lavoro sommerso, previsto dal Pnrr. Nel complesso dell’economia italiana il tasso di irregolarità dell’occupazione è del 12,7%, un valore preoccupante, secondo tutte le analisi, ma in diminuzione dal 13,6% dell’anno precedente. Questa riduzione del lavoro nero si riflette anche in un miglioramento del peso del sommerso sul Pil che è “lento ma continuo”, a partire dal picco registrato nel 2014. Ci sono quindi alcuni indizi di possibili avanzamenti in un settore critico come quello del lavoro nero, che si accompagnano a passi indietro in altri campi, a partire da quelli su evasione ed elusione fiscale in merito alle comunicazioni volutamente errate del fatturato e dei costi delle attività economiche. Migranti. Raddoppiati i minori stranieri a Milano, arrivano da soli e per il 98% sono maschi di Chiara Baldi Corriere della Sera, 14 ottobre 2023 Secondo quanto previsto dal sistema di accoglienza, ogni minore rintracciato sul territorio comunale deve essere preso in carico dall’Amministrazione. I minori stranieri non accompagnati in carico al Comune sono 1.300, quasi il doppio rispetto a prima del Covid: tra il 2019 e il 2020, infatti, erano 650-700. Secondo quanto previsto dal sistema di accoglienza, ogni minore rintracciato sul territorio comunale deve essere preso in carico dall’Amministrazione. I primi 30 giorni si dovrebbero trascorrere nei centri di prima accoglienza gestiti dal ministero dell’Interno attraverso le prefetture, ma la Lombardia, in questo caso, costituisce un’eccezione. A Milano è il Comune - così come in altre città lombarde - a farsi carico di questa funzione: oggi ci sono tre centri di prima accoglienza per 110 posti. Una volta identificati e ascoltati, i minori vengono collocati nei centri di seconda accoglienza Sai (Sistema accoglienza e integrazione) che in città contano 400 posti autorizzati dal governo e attivati da Palazzo Marino. Quando si esauriscono, si procede all’allocamento nelle comunità socio educative. Ma anche queste sono sature, per cui il Comune ha dislocato in 30% di minori fuori città o regione, continuando a sostenere le spese: a Genova, Pordenone, Udine, Trieste e, a breve, Benevento. Oggi il 98% degli accolti è maschio e per la maggior parte si tratta di adolescenti (dai 15 anni). Migranti. Cassano Valcuvia, il paese della valle rinato grazie ai baby migranti di Andrea Galli Corriere della Sera, 14 ottobre 2023 “Lavoro e volontariato, il nostro viaggio è finito”. Varese, il laboratorio di Cassano Valcuvia: 600 abitanti e 43 ospiti. Mentre la popolazione invecchia, negli ex locali dei frati arrivano ragazzi dall’Africa. Questo in cima alla strada è un paese piccolo, invecchiato e in speranzosa ma forse vana attesa di nuove generazioni, come il resto d’Italia. Invece no, a esplorarlo, e soprattutto a trascorrere una mattina nel colossale antico eremo dei frati carmelitani - rimasti appena in tre, i religiosi se ne andarono anni fa -, Cassano Valcuvia, in provincia di Varese, appare addirittura un laboratorio futurista. O forse no, una soluzione fisiologica, obbligata. Premesso che quell’”addirittura” è una dedica rivolta a chi vive lontano dalla realtà inquadrando il luogo, e i suoi residenti, come un’unica fonte di guai e pericoli, una sciagura per la povera Patria, ecco, bastino pochi elementi: il paese conta 600 abitanti, e nell’ex eremo, preso in comodato d’uso dalla Cooperativa San Martino, specializzata in minori non accompagnati, possono abitare cinquanta adolescenti. Adesso ce ne sono 43: originari di Egitto, Costa d’Avorio, Burkina Faso, Benin, Camerun, accomunati dai percorsi d’orrore, tra lager e rastrellamenti, fino alla Tunisia, quindi il Mediterraneo, infine Lampedusa, arrivano, sostano, e appena maggiorenni lasciano la struttura, come da legge. Nel periodo tra l’ingresso e l’uscita, il personale governato dalla responsabile, la 38enne Camilla Galliani, donna pratica, di forza e insieme di calma, lavora affinché i ragazzini recuperino le fatiche fisiche e mentali - da casa ai barconi anche un anno, un anno e mezzo -, e possano, quando sarà, lasciare la comunità “strutturati al massimo”. E dunque, qui sul posto si va in classe per l’alfabetizzazione, quando si è pronti si esce per frequentare le scuole, oppure imparare un mestiere; con novembre, su convinta adesione della sindaca Serena Barea, i migranti inizieranno a fare volontariato nelle strade: non meri progetti creativi bensì opere di pulizia, assistenza agli anziani, manutenzione dell’arredo urbano. Non che manchi la creatività, attenzione: per dire, il locale teatro, che ha già assunto un paio di ospiti dell’ex eremo, ha organizzato un percorso per scovare, chissà mai, talenti recitativi, di sceneggiatura o regia. Del resto, tutti quanti siamo quel che siamo anche in conseguenza delle persone che incrociamo strada facendo. Il caso, la fortuna, le rinascite. Sicché, pur se un po’ persa tra le valli, la geografia di Cassano Valcuvia, non lontano dalla Svizzera, dall’inaugurazione della struttura avvenuta nel 2021 ha registrato assunzioni in un ristorante di sushi, interessi delle società calcistiche, famiglie ignare dell’Africa che si son ritrovate in salotto a discutere del continente dopo il fidanzamento tra le figlie e i ragazzini, insomma, un’inevitabile condivisione di step culturali magari ritenuti impossibili, se non degradanti, fino a un secondo prima. Dopodiché, osserva con frequenza la dottoressa Galliani, “non siamo un posto magico, di sorrisi e armonie, senza problemi”. La fatica la si può soltanto immaginare, e forse nemmeno. Il vissuto degli adolescenti, i traumi, gli episodi di razzismo, e la costante, per i neo-arrivati, di saper utilizzare un’unica forma di comunicazione: la violenza. E ancora, le ovvie contrapposizioni tra nazionalità, la consapevolezza, laddove presente un identico passaggio in Libia, d’aver avuto trattamenti antitetici a seconda che si fosse di carnagione chiara o scura, l’abituarsi alle regole, tassative come in caserma altrimenti non se esce, evidente. Il prefetto di Varese, Rosario Pasquariello, ha gestito con sapienza i momenti di tensione tra ragazzini e residenti. Non mancano le fughe, anche di massa, ché l’Italia non sempre è il punto d’approdo definitivo. Non sono mai transitate coetanee, a Cassano Valcuvia: per loro, i trasferimenti dall’Africa alle citte europee sono “protetti”. Nel senso che, ancor prima di sbarcare, sono prese in consegna dai soldati delle bande di sfruttatori, mentre i ragazzini possono pure annegare. L’Iran, i sauditi e il terrorismo. Chi ci guadagna? di Federico Rampini Corriere della Sera, 14 ottobre 2023 È difficile distinguere tra complicità ideale e pianificazione dell’attacco. Ma chi aveva più da guadagnarci? Dopo l’11 settembre 2001 Bush proclamò “l’equivalenza tra i terroristi e i governi degli stati che li appoggiano”. Dopo l’11 settembre 2001 l’America di George W. Bush affermò un principio: l’equivalenza tra i terroristi e i governi o gli Stati che li appoggiavano. Una nazione colpevole di aver protetto e foraggiato Al Qaeda meritava lo stesso tipo di castigo dell’organizzazione terroristica che aveva materialmente organizzato gli attentati. Fu così che l’America andò in guerra in Afghanistan, per punire e rovesciare il regime dei talebani che aveva dato ospitalità e sostegno a Osama Bin Laden e ai suoi uomini. Se davvero questo è stato “l’11 settembre d’Israele”, Benjamin Netanyahu dovrebbe colpire non solo Hamas, ma anche l’Iran che lo ha armato e guidato? Le prove del sostegno iraniano per adesso vengono maneggiate con cautela dal governo Netanyahu e dall’Amministrazione Biden. Si capisce perché. Israele non è l’America, non sarebbe saggio impegnarsi in una guerra su troppi fronti dopo la terribile batosta subita. L’Iran non è l’Afghanistan, la sua potenza militare è assai superiore ed è vicinissimo ad avere armi nucleari, se non le ha già. Questo obbliga a porsi la domanda: che cosa vuole l’Iran? Quale calcolo strategico ha spinto il regime degli ayatollah a dare il suo sostegno e la sua regìa alla più feroce delle offensive di Hamas? Perché adesso? Dopotutto, in tempi recenti da Teheran erano giunti segnali di tipo diverso. Con la mediazione diplomatica della Cina, il governo iraniano aveva ristabilito relazioni diplomatiche con l’Arabia Saudita, la rivale storica numero uno. Con il recente accordo per liberare ostaggi americani dalle carceri iraniane, in cambio dello scongelamento di 6 miliardi di dollari bloccati dalle sanzioni, Teheran aveva perfino segnalato un inizio di distensione con l’Amministrazione Biden. Alla luce di queste mosse era parso che la teocrazia sciita volesse uscire dal suo isolamento, per inaugurare rapporti più normali con i propri vicini e con l’Occidente. I tragici eventi di Gaza contraddicono quella lettura. O almeno costringono ad aggiungervi delle importanti correzioni. Noi di solito ci occupiamo dell’Iran per denunciare gravi abusi contro i diritti umani, soprattutto contro le donne, perpetrati dal regime. Ma parlare di “isolamento” di Teheran è una nostra distorsione. L’Iran ha continuato a rafforzare le sue relazioni economiche, finanziarie e militari con Cina e Russia: in quel mondo, sempre più antagonista all’Occidente, non è isolato anzi è un membro rispettato e riverito. La Cina lo ha sponsorizzato come nuovo membro dei Brics in occasione dell’allargamento di quel club di Paesi emergenti. Non sono mai cessate le forniture di petrolio iraniano alla Cina, e i due Paesi fanno un uso crescente del renminbi in sostituzione del dollaro (che è proibito all’Iran con le sanzioni). È noto inoltre il ruolo dei droni iraniani negli attacchi russi contro l’Ucraina. Per Russia e Cina i vantaggi da una nuova guerra in Medio Oriente sono evidenti: si apre un secondo fronte che obbliga l’America a venire in aiuto a un secondo alleato aggredito. Dopo l’Ucraina, ora Biden deve ripartire delle risorse scarse indirizzandone una parte verso Israele. “Risorse scarse” in due sensi. Anzitutto perché gli arsenali americani già soffrivano di scarsità, per esempio nelle munizioni richieste dalle forze ucraine. Secondo, le risorse militari americane sono soggette a una scarsità di tipo politico: sull’appoggio all’Ucraina c’erano vistose defezioni in campo repubblicano, sul sostegno a Israele Biden deve fare i conti con la sinistra democratica filo-palestinese. In conclusione, il duo Iran-Hamas ha fatto un regalo a Putin aprendo un fronte che distrae l’America dall’Ucraina; un regalo pure a Xi Jinping perché quest’America ha meno attenzione e risorse da destinare all’Estremo Oriente. L’Iran oltre a favorire i propri alleati ha poi un interesse strategico in proprio, in questa vicenda. L’accordo che veniva dato imminente, per il riconoscimento diplomatico d’Israele da parte dell’Arabia Saudita, va sabotato ad ogni costo perché può consolidare un asse israelo-sunnita, un cordone sanitario anti-Iran. Di più: quell’accordo stava maturando in una triangolazione con gli Stati Uniti, che avrebbero offerto come compenso al principe saudita Mohammed bin Salman (MbS) una protezione militare, e perfino una cooperazione in campo nucleare. Di recente MbS ha definito “inaccettabile” che l’Iran diventi una potenza nucleare. Poiché è chiaro che l’Iran sta per diventarlo, se non lo è già, Riad vuole pareggiare il conto. Ora, lo spettacolo delle vittime civili tra i palestinesi quando l’esercito israeliano inizia l’occupazione di Gaza, renderà più difficile per MbS riconoscere lo Stato d’Israele. MbS è un autocrate però è sensibile allo stato dell’opinione pubblica nel suo Paese, nel mondo arabo, nella comunità sunnita mondiale di cui la sua nazione è una guida come custode dei luoghi sacri dell’Islam. Anche negli Stati Uniti per Biden sarà più arduo fare approvare dal Congresso una protezione militare dell’Arabia, se MbS si schiera con i palestinesi. La grande svolta storica, la riconciliazione arabo-israeliana, diventa molto più complicata. Questo è un vantaggio strategico per l’Iran. Il regime degli ayatollah pagherà dei prezzi su molti terreni, a cominciare da quello economico, se i tenui segnali di distensione con l’Occidente vengono spazzati via dalla tragedia di questi giorni. Che riflessi può avere questo su un consenso interno già precario? In occasione di un mio viaggio in Iran ricordo di aver sentito molte lamentele di cittadini iraniani contro un regime che “spreca i nostri soldi nelle guerre arabe”, mentre la popolazione langue nella povertà. Ma non è la prima volta che un regime in difficoltà con il proprio consenso interno sceglie l’escalation di tensioni internazionali e la militarizzazione. Anzi, è un caso da manuale su come sopravvivono i sistemi autoritari. Dopo l’attacco di Hamas, verso un nuovo equilibrio del terrore di Massimo De Carolis Il Manifesto, 14 ottobre 2023 Un sintomo inquietante è la tendenza diffusa a registrare questo attacco come crimine di guerra, equiparando la milizia islamista a un surrogato dell’autorità statale. Da tempo l’ordine politico globale riserva al terrore un ruolo di primo piano. Almeno in superficie, però, il riferimento al terrore ha mutato drasticamente segno nel passaggio dal Ventesimo al Ventunesimo secolo. Schematicamente, si è passati dall’equilibrio del terrore, che aveva dominato lo scenario della Guerra fredda, alla guerra globale al terrorismo inaugurata dalla reazione americana all’11 settembre. Sono vicende lontane, in apparenza. Eppure, riportare alla mente uno sfondo così remoto può aiutarci a cogliere i significati più profondi della crisi attuale in Israele e Palestina, perché gli eventi innescati dall’attacco omicida dei miliziani di Hamas presentano, per la prima volta in modo nitido, una sorprendente mescolanza tra le due facce del terrore che ci erano già note. Annunciano forse, perciò, un genere nuovo e molto più distruttivo di equilibrio del terrore, al quale dovremo imparare a reagire con strumenti diversi dal passato, per non rischiare di esserne sopraffatti. Come si ricorderà, la formula dell’”equilibrio del terrore” fu coniata per descrivere la paradossale stasi indotta dagli armamenti atomici, che costringevano le due superpotenze a evitare uno scontro diretto, destinato a sfociare in una catastrofe planetaria. La minaccia nucleare imponeva insomma una specie di cooperazione fra i due fronti, rafforzando le politiche di deterrenza. Il terrore fungeva così non solo da collante dell’ordine globale, ma anche da solido criterio di legittimazione del potere. Si tendeva a supporre, infatti, che solo un fedele allineamento all’uno o all’altro campo potesse davvero proteggere dalla minaccia atomica. La minaccia teneva quindi in riga oppositori e alleati recalcitranti, perpetuando lo status quo, pur restando qualcosa di virtuale: un’angosciosa possibilità destinata a non realizzarsi, finché si rimaneva sotto l’ombrello del potere costituito. Nel terrorismo degli ultimi decenni, il panico ha assolto invece una funzione opposta. Scopo dei terroristi era mostrare che la protezione offerta dal potere era in realtà illusoria e inefficace. Non si trattava affatto di cementare l’ordine costituito, ma di produrne la frana. Distruzione e violenza, perciò, dovevano essere reali e non virtuali. Bisognava esibirle in modo spettacolare, per spingere all’azione il più alto numero possibile di potenziali ribelli, inclusi lupi solitari, imitatori e psicopatici. L’aggressione di Hamas ai civili israeliani ha un’evidente affinità con questo uso recente del terrore. Lo confermano le analogie con l’attentato al Bataclan o con le tecniche mediatiche dell’Isis. L’efferatezza è stata spinta ed esibita platealmente per cancellare ogni illusione di sicurezza, irridere la promessa di protezione dello Stato e incitare i palestinesi alla rivolta. Eppure, c’è qualcosa di più inquietante in questo attacco che un’ennesima variante del terrorismo islamista. NE è un sintomo la tendenza diffusa, anche nei paesi occidentali, a registrare l’azione di Hamas non tanto come terrorismo quanto come crimine di guerra, equiparando la milizia islamista a un surrogato dell’autorità statale, sia pure per denunciarne l’azione criminale. Un’opacità che non è solo ignoranza del diritto (come pure è stato suggerito), ma è radicata nell’ambiguità effettiva della situazione. Per rendercene conto, basta ricordare che molti osservatori, a cominciare dal segretario delle Nazioni Unite, hanno preso spunto dagli ultimi eventi per rilanciare la formula “due popoli, due Stati”, che sembrava ridotta a poco più di un rituale fittizio. L’intenzione, ovviamente, è ribadire il diritto di entrambi a una patria e all’autodeterminazione. D’altra parte, riconoscere i palestinesi come un popolo, quindi come una soggettività politica unitaria e, in prospettiva, come una virtuale autorità sovrana (uno Stato), vuol dire tributargli anche il diritto di designare i rappresentanti della propria volontà collettiva, che di un tale potere sovrano diventano i legittimi depositari. Chi propone la formula “due popoli, due Stati” ha di solito in mente l’Autorità Nazionale Palestinese, che da anni si candida a rappresentare l’ipotetico Stato di Palestina. Per quanto possa non piacerci, però, il dato di fatto è che è stato Hamas, e non l’ANP, a vincere le elezioni a Gaza e in Cisgiordania nel 2006; e sarebbe oggi quasi certamente Hamas a vincere le elezioni in Cisgiordania (che, per questo, vengono procrastinate da quindici anni). Il dato è paradossale, perché l’organizzazione islamista non ha mai mostrato alcun vero interesse alla creazione di uno stato palestinese accanto a quello di Israele, se non a parole. Una posizione esattamente speculare a quella delle frange più estremiste del governo Netanyahu, che ai non ebrei negano esplicitamente il diritto di avere diritti, raccogliendo proprio per questo un consenso tanto più diffuso quanto più esteso è il terrore. Proprio come durante la Guerra fredda, insomma, in entrambi i campi il terrore permette al potere di legittimarsi, conquistare la fedeltà delle masse e liquidare ogni opposizione come una forma di alto tradimento. Solo che, a differenza dal passato, a trarre vantaggio dal panico di massa sono ora le fazioni più intolleranti, le più interessate a esasperare il terrore e le più pronte a scatenare una distruzione reale contro ogni ipotesi di compromesso. È un equilibrio del terrore di segno rovesciato, che svuota di senso ogni appello alla moderazione e al dialogo. Ma da cosa dipende un simile rovesciamento? Quale rete di fattori fa sì che l’incitamento all’odio si affermi non solo e non tanto nelle masse spaventate e rancorose, quanto nel calcolo politico delle fazioni prevalenti sull’uno e l’altro fronte, che si legittimano così a vicenda in una specie di cooperazione distruttiva? Quello che sembra certo è che a incidere sia la logica segregazionista con cui un unico Stato, Israele, amministra di fatto il territorio su cui vivono due comunità, riservando a una sola delle due ogni vero diritto. Una spinta alla segregazione che ci riguarda da vicino perché, sia pure in tutt’altro contesto, sta animando anche in Europa la reazione ai flussi migratori Hamas può essere perseguita dalla Corte penale internazionale di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 14 ottobre 2023 Benché Tel Aviv non sia parte dello Statuto di Roma, la Palestina lo ha ratificato: la Corte ha giurisdizione su crimini commessi nel territorio della Striscia di Gaza ma anche in Israele. In Israele l’obiettivo politico e l’obiettivo militare coincidono. Il governo (militare) di unità nazionale ha come obiettivo lo sradicamento di Hamas dalla Striscia di Gaza. L’esigenza di rispondere agli attacchi barbari di una settimana fa può trasformarsi in desiderio di vendetta? La risposta potrebbe essere anche affermativa, ma i rischi sono dietro l’angolo. Per neutralizzare una volta per tutte “gli animali” di Hamas, che “vanno trattati come animali” - questa espressione è del generale Ghassan Alian (coordinatore delle attività del governo israeliano per i Territori) -, radere al suolo o comunque distruggere gravemente Gaza sarebbe inevitabile. Per una operazione militare del genere, quando circolano ancora le foto degli eccidi nei kibbutz e della festa nel deserto, i favori della comunità internazionale sono vivi. Violenza chiama violenza, ma con l’esacerbarsi del conflitto siamo così sicuri che l’appoggio della comunità internazionale resterà invariato, con lo stesso trasporto emotivo di questi giorni? Promuovere la giustizia e la responsabilità è possibile. Gli strumenti della giustizia penale internazionale esistono. Al momento però sono tenuti in un cassetto, chiuso a chiave, mentre sono stati aperti gli arsenali. Il tema dell’applicazione della giustizia internazionale nel conflitto Israele-Hamas è al centro di dibattito aperto da diversi commentatori. L’altro ieri, Mark Kersten, professore di criminologia e diritto penale della University of Fraser Valley (Canada) ha sottolineato sul sito di Al Jazeera l’importanza dell’unica “istituzione internazionale indipendente che potrebbe indagare e perseguire i crimini commessi o in via di commissione: la Corte penale internazionale”. Dall’Aja, fino ad oggi, a differenza di quanto accaduto e sta avvenendo in Ucraina, il Procuratore Karim Khan ha assunto una posizione molto prudente, senza alcuna dichiarazione pubblica. “La Corte penale internazionale - rileva Kersten - ha giurisdizione sul territorio di Gaza e sui crimini internazionali commessi dalle fazioni palestinesi, inclusa Hamas. Nel 2021, l’ufficio del Procuratore della Cpi ha aperto un’indagine ufficiale sulla situazione in Palestina. Ciò è avvenuto sulla scia della decisione dell’ufficio del Procuratore, secondo cui “crimini di guerra sono stati o vengono commessi da attori palestinesi e israeliani in Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, e nella Striscia di Gaza”. Un passaggio non di poco conto che in futuro, dopo la conclusione del conflitto, potrebbe aprire scenari diversi rispetto a quelli ai quali siamo stati abituati. Interpellato da Alice Speri del giornale online “The Intercept”, l’ufficio del Procuratore della Corte penale internazionale, con una dichiarazione ufficiale, ha affermato di essere attivo e vigile.”All’inizio del suo mandato nel 2021 - spiega la Cpi -, il Procuratore ha istituito una squadra dedicata per portare avanti le indagini in relazione allo Stato di Palestina. Per la prima volta è stata istituita una squadra dotata di risorse proprie”. Sul ruolo che potrebbe avere la Cpi interviene il professor Marco Pedrazzi, ordinario di diritto internazionale nell’Università di Milano “Statale”. “Benché Israele non sia parte dello Statuto di Roma della Corte penale internazionale - dice al Dubbio l’accademico -, la Palestina lo ha ratificato. La Corte ha già accertato di avere giurisdizione su crimini commessi anche nel territorio della Striscia di Gaza. Ma a seguito della ratifica palestinese, la Corte può occuparsi anche di crimini commessi da “cittadini” palestinesi al di fuori della Palestina, quindi anche sul territorio dello Stato di Israele. Va inoltre considerato il fatto che alcuni dei crimini di Hamas, pensiamo alla presa di ostaggi, continuano ad essere perpetrati sul territorio della Striscia. La Corte ha giurisdizione sui crimini commessi nella Striscia di Gaza, anche da parte di cittadini di Stati non parti dello Statuto, quale Israele. Su richiesta della Palestina, il Procuratore ha del resto già avviato un’indagine sui crimini commessi nel territorio della Palestina stessa, inclusa la Striscia di Gaza, negli anni scorsi”. La Corte penale internazionale può pertanto anche dei gravi crimini internazionali commessi nel corso dell’attuale conflitto, che vede contrapposti Hamas e lo Stato di Israele. La giustizia internazionale, in questo delicatissimo momento storico, è, dunque, per usare un efficace linguaggio nautico, un “punto cospicuo”. Emma Bonino: “Da amica di Israele dico che lasciare Gaza senza acqua e luce è un crimine di guerra” di Umberto De Giovannangeli L’Unità, 14 ottobre 2023 “Lasciare Gaza senza luce e acqua significa violare il diritto internazionale, e significa anche cadere nella trappola di Iran e terroristi che vogliono una guerra casa per casa”. “Da vera, sincera, amica d’Israele mi sento di dire a Benjamin Netanyahu: non cadete nella trappola che ha preparato Hamas. L’invasione di Gaza è quello che vogliono i terroristi e i loro burattinai iraniani”. A parlare è Emma Bonino, già ministra degli Esteri e Commissaria europea per le emergenze umanitarie, leader storica dei Radicali. “Ad Hamas - rimarca Bonino - non interessa conquistare terreni, il loro obiettivo è costringere Israele ad una operazione terrestre che trasformerebbe la Striscia di Gaza in una trappola mortale. Comprendo l’orrore, la rabbia, il dolore di fronte allo scempio di vite umane perpetrato da Hamas, ma oggi la leadership israeliana non deve agire di pancia ma con la ragione”. E la ragione dovrebbe spingere anche Israele a ripensare al blocco totale di luce, acqua, elettricità deciso in risposta agli attacchi di Hamas. “Sarà - dice l’ex ministra degli Esteri - che porto con me il retaggio della mia esperienza da Commissaria europea per le emergenze umanitarie, ma continuo a pensare che ordinare un assedio totale di Gaza, come ha fatto il ministro della Difesa di Israele - niente acqua, niente cibo ai civili, niente elettricità - non è un semplice errore in una escalation del conflitto. Questo è un crimine di guerra”. Orrore e morte in Israele e nella Striscia di Gaza. È una situazione senza via di uscita? Nel breve, temo di sì. Vedo che in modo disordinato si sta muovendo il mondo intero. La Turchia si è proposta come mediatrice tra Hamas e Israele. In questo ruolo è la meno credibile possibile, visto che ha Turchia ha protetto Hamas, anche recentemente. Poi si è impegnato l’Egitto, dichiarando la sua disponibilità a riaprire il valico di Rafah, a condizione che Israele accetti la tregua. Ma Hamas ha proposto una tregua? Non mi risulta. Ha deciso di liberare le donne, gli anziani, i bambini che tiene in ostaggio? Non mi risulta neanche questo. Israele con chi dovrebbe farla questa tregua? In modo unilaterale? È sempre molto difficile reagire nei primi giorni, ma come amica da sempre, senza titubanze, del popolo israeliano, io spero solo, mi auguro, che Netanyahu non faccia errori e non cada nella trappola, che a me pare così evidente, come scrive oggi (ieri per chi legge, ndr) Thomas Friedman sul New York Times, che Hamas e l’Iran hanno escogitato, e cioè che Israele occupi Gaza per lungo tempo e in profondità con l’effetto che verrebbe coinvolto l’esercito di terra, si combatterebbe casa per casa, e tutto quello che ne consegue. Capisco che Israele debba reagire in qualche modo. Spero, auspico, provo a farmi sentire per evitare che lo faccia in modo sbagliato e non cada nella trappola Iran-Hamas. Con Friedman, dico che Israele non ha mai dovuto essere più intelligente di quanto non lo debba essere ora. Quello che si sta consumando, in questi giorni, in queste ore, in quel martoriato angolo del mondo, non è anzitutto un grande fallimento politico che chiama tutti in causa? Assolutamente sì. È il fallimento dell’Europa, quanto dell’Italia, che non per demerito né di Meloni né di Tajani ha la forza per essere un interlocutore credibile. Perfino Biden ha difficoltà a farsi ascoltare da Netanyahu. Il problema, a mio avviso, è che con gli Accordi di Abramo si stava avverando un’apertura degli Stati arabi a cooperare con Israele. Cosa che Hamas e l’Iran non volevano nel modo più assoluto. Hamas ha sempre avuto come obiettivo la distruzione dello Stato d’Israele, come l’Isis. Gli attacchi suicidi, le uccisioni di massa, la pratica terroristica portata ai livelli più barbari, non sono funzionali per Hamas alla conquista di territori ma a costringere Israele ad entrare nella trappola di Gaza, entrarci con l’esercito. Ha ragione Friedman: questo è il più grande “regalo” che Israele potrebbe fare ad Hamas. Costringendolo ad andare casa per casa, a cercare i terroristi. Per tornare sul mondo che disordinatamente si sta muovendo. La Russia? La Russia ha già offerto sostegno non a Israele ma ai palestinesi, ad Hamas. D’altro canto, non bisognerebbe dimenticare che Netanyahu ha avuto per anni rapporti con Hamas, dopo che Hamas aveva vinto le elezioni a Gaza, mettendo da parte al-Fatah, screditando Abu Mazen, favorendo la delegittimazione di un interlocutore che si mostrava più disponibile ad un negoziato. Questa è la situazione ad oggi. Come amica d’Israele, non mi stancherò di insistere su questo, orripilata come tutti dalle immagini sconvolgenti di civili massacrati, massacrati da terroristi, perché tali sono quelli di Hamas, e non generici “combattenti”, o “militanti”, o “resistenti”. Il popolo d’Israele non è terrorista. Non si deve rispondere sangue a sangue. Però non avrà scelta. Anche se per un periodo breve, almeno nelle intenzioni, dovrà occupare Gaza, con tutto quello che ciò comporta, temo. Come si può non tener conto che in quella immensa prigione a cielo aperto, isolata dal mondo, che è la Striscia di Gaza, vivono in cattività 2,1milioni di palestinesi, la maggioranza sotto i 18 anni. Forse perché sono stata commissario europeo per le emergenze umanitarie e certe sensibilità me le porto dietro, questo è uno dei problemi più grandi, assieme a quello degli ostaggi. 2,1 milioni di persone non sono tutti terroristi. Circola l’idea di evacuare da Gaza anziani, donne, bambini, i civili insomma. Sarebbe già qualcosa. Ma soluzioni a breve o medio termine io non ne vedo. Se Israele occupa Gaza, poi la deve anche amministrare e ricostruire. Per tanti anni la comunità internazionale, e in essa l’Europa, è andata avanti evocando la soluzione “a due Stati”. C’è ancora spazio per questa prospettiva? Arrivati a questo punto temo che non ci sia più spazio per progetti come quello di “land for peace”. Si possono e si debbono, ci mancherebbe altro, avanzare critiche a certe politiche, penso ad esempio allo sviluppo degli insediamenti, condotte nel tempo dai governi d’Israele, ma questo non toglie nulla al fatto che Hamas non vuole conquistare terreno. Vuole attirare Israele in questo trappolone criminale e criminogeno. Questo è quello che hanno in testa, e non da oggi. Io spero e mi auguro che il governo israeliano, che adesso è stato ampliato al centro di Gantz - e mi dispiace che non sia entrato Lapid - possa fare funzionare non solo la pancia, come è evidente, ma anche la testa. E capire cosa gli sta avvenendo intorno. Aspetto ancora di vedere cosa intende fare Hezbollah, per esempio. È chiaro che se Israele si trovasse a dover aprire due fronti, uno a Gaza, per conquistarla, e l’altro a Nord, con il Libano, questo aggraverebbe ulteriormente una situazione già esplosiva per tutto il Medio Oriente. L’obiettivo politico, non so se di Hamas ma di certo dell’Iran, è quello di bloccare gli Accordi di Abramo, su questo non mi sembra che si possano nutrire dubbi. Cosa significa oggi essere per davvero amico d’Israele? Sostenere Israele consigliandolo - non io ma gente molto più autorevole di me - di non fare passi falsi. Che debba esercitare il diritto di difesa, specie dopo un attacco così virulento e barbaro, questo non può negarlo nessuno, ma evitare di cadere nelle trappole ed evitare di fare passi falsi. Questo dovrebbe fare un vero amico d’Israele. E un vero amico del popolo palestinese? Altrettanto. Certo, l’autorevolezza di Abu Mazen e di al-Fatah è pressoché sparita, ma Israele, e non solo, tenga conto che non tutti i palestinesi sono terroristi. Anzi. Io spero che questo corridoio di evacuazione dei civili si realizzi. E su questo proverò a impegnarmi di più.