Dl Caivano, la destra vuole meno alternative al carcere e più controlli sui cellulari per i minori di Luca Pons fanpage.it, 13 ottobre 2023 Dalla possibilità di parental control sui telefoni dei figli fino a 18 anni di età, al divieto di messa alla prova per i minorenni che sono imputati di reati gravi. Sono alcuni degli emendamenti al decreto Caivano, attualmente al Senato, proposti dal governo Meloni, dalla Lega e da Fratelli d’Italia. Reati puniti più severamente, controlli sui cellulari dei figli e “pena fino in fondo” per i minorenni. Il decreto Caivano approvato dal governo Meloni a inizio settembre - che prevede pene più dure per i reati di spaccio e in generale un sistema più punitivo per i minorenni - è in Parlamento, e le commissioni Affari costituzioni e Giustizia del Senato ci stanno lavorando con più di 300 emendamenti. Tra quelli di Lega e Fratelli d’Italia, ancora da discutere, ce ne sono diversi che puntano ad aggravare ulteriormente le punizioni e i controlli per alcuni reati o per chi ha meno di 18 anni. Eliminare la messa alla prova per i minorenni imputati di reati gravi - Ad esempio, ci sono due modifiche annunciate dal governo, che per il momento però non sono ancora state ufficialmente depositate. La prima prevede di introdurre un reato specifico per le cosiddette “stese”, cioè le sparatorie fatte per strada a bordo di motorini per spaventare i residenti. La seconda fermerebbe invece la possibilità di messa alla prova per i minorenni imputati per un reato grave, come l’omicidio, lo stupro o la rapina aggravata. La messa alla prova prevede che il processo venga sospeso e il minorenne sia affidato ai servizi sociali: nel caso in cui mostri un comportamento positivo e faccia vedere una crescita nella sua personalità, il giudice può decidere di estinguere il reato senza effetti penali. Il sottosegretario Andrea Ostellari, spiegando l’emendamento, ha detto che “l’impegno per la prevenzione dei reati e l’educazione dei giovani non impedisce di intervenire anche con strumenti repressivi. Chi uccide, stupra e compie reati gravi, anche se minorenne, sconterà la pena fino in fondo”. Solo ieri, con un parere inviato alle commissioni che stanno lavorando al decreto, l’Autorità garante per i minori aveva sottolineato che “la reclusione dei minorenni è una extrema ratio”, e che “la possibilità di accedere alla messa alla prova deve essere garantita in ogni fase quando si ha a che fare con minorenni, perché questi potrebbero maturare la consapevolezza di quanto commesso in un momento successivo del procedimento: non si possono applicare automatismi”, mentre “inasprire il sistema sanzionatorio o aumentare gli strumenti di repressione non aiuta le vittime”. Suggerimenti che evidentemente il governo Meloni ha deciso di non ascoltare. Lega, pene più dure per chi spaccia e chi scappa dai controlli in auto - Ci sono poi due emendamenti proposti dalla Lega, riguardanti ambiti diversi. Il primo riguarda chi è condannato per lo spaccio di sostanze stupefacenti in locali pubblici o aperti al pubblico, e chiede di limitare la possibilità di una sospensione condizionale della pena. Normalmente, il tribunale può sospendere la pena per cinque anni e, se in quel periodo la persona non commette un altro reato simile, il reato viene estinto. Si può applicare solo se la condanna di partenza è non oltre i due anni di carcere. La richiesta della Lega invece è che si possa usare nei casi di spaccio solo a una condizione: che allo stesso tempo il giudice disponga anche un Daspo, ovvero il divieto di frequentare una città o certe zone di una città. L’altro emendamento riguarda invece i controlli stradali. Chi viene fermato da un pubblico ufficiale per un controllo, e deve mostrare la patente o sottoporsi ad altri accertamenti, e invece scappa, potrebbe finire in carcere. La proposta è di alzare la pena fino a sei mesi di reclusione, nell’ambito del reato di resistenza a pubblico ufficiale. Parental control sui telefoni dei figli fino a 18 anni - Infine, si parla di un allargamento del cosiddetto parental control. Si era parlato a lungo della possibilità di inserire nel decreto una sorta di ‘blocco dei siti porno’, proposto dalla ministra della Famiglia senza chiarire come sarebbe stato possibile a livello tecnico. La misura è poi saltata, mentre è stato inserito l’obbligo per i produttori di dispositivi elettronici di prevedere sempre la possibilità di un parental control gratuito. Un emendamento di Fratelli d’Italia, in particolare del senatore Marco Lisei, vorrebbe estendere l’età massima per il controllo genitori fino a 18 anni (oggi è fissata a 14 anni): “Questo consente fino a quell’età di bloccare ogni contenuto lesivo, come la violenza o la pornografia, consente inoltre ai genitori di autorizzare o meno l’uso di applicazioni e quindi anche di limitarne l’uso”, ha spiegato Lisei. Lo stesso senatore ha anche proposto che lo Stato possa intervenire sulle “piattaforme streaming che trasmettono film e serie tv. Attualmente sono le stesse piattaforme ad indicare l’età consigliata, senza un controllo statale, a differenza dei film nelle sale. Mi è capitato spesso che le indicazioni siano del tutto inappropriate. Credo che anche su questo serva un maggiore controllo”. Torna di moda la prescrizione, i meloniani ritornano ai tempi di Bonafede di Paolo Comi Il Dubbio, 13 ottobre 2023 Per superare la riforma Cartabia, FdI propone di spostare lo stop alla prescrizione dal primo al secondo grado. Protestano i penalisti. Cambiano le maggioranze ma la prescrizione rimane sempre al centro del dibattito politico. L’attuale governo di destra, infatti, ha deciso di mettere le mani sulla riforma voluta dall’allora ministra della Giustizia Marta Cartabia che prevedeva “l’improcedibilità” trascorsi due anni senza che fosse stato celebrato il processo d’appello e che superava, per fortuna, la malsana idea del suo predecessore, il pentastellato Alfonso Bonafede, di stoppare la prescrizione dopo la sentenza di primo grado. Neppure il tempo di verificare gli effetti sui processi della riforma Cartabia, entrata in vigore lo scorso anno, che il governo, come detto, ha dunque messo in cantiere l’ennesima modifica di questo istituto. Inizialmente si era pensato ad un ritorno sic et simpliciter alla tanto vituperata legge ex Cirielli, in quanto il suo promotore, il parlamentare meloniano Edmondo Cirielli, travolto dalle polemiche l’aveva poi disconosciuta. La ex Cirielli, invece, rispetto alle altre leggi al riguardo era sicuramente migliore perché prevedeva tempi di prescrizione in base alla pena prevista per il reato. Guardando il catalogo dei reati di medio allarme sociale, nessuno attualmente si prescrive prima di 15 anni, un tempo assolutamente idoneo, anzi anche troppo, per celebrare i tre gradi di giudizio ed in linea con il principio costituzionale della ragionevole durata del processo. I reati contro la Pubblica amministrazione, ma anche quelli economici come la bancarotta, molto cari a Marco Travaglio, hanno poi pene altissime che li rendono di fatto imprescrivibili. Per questo motivo alla Camera, prima ancora che Carlo Nordio presentasse la sua riforma, erano incardinate tre diverse proposte di legge, a firma Enrico Costa (Azione), Pietro Pittalis (FI) e Ciro Maschio (Fd’I), che puntavano sostanzialmente ad un ritorno alla ex Cirielli. Purtroppo, quella norma è associata nell’immaginario collettivo ad un periodo storico che non si riesce ancora a metabolizzare, quello del ventennio berlusconiano e delle “leggi ad personam” secondo i suoi detrattori. Per evitare, allora, di essere accusati di provare ‘nostalgia’ per quegli anni ruggenti, ecco dal cilindro meloniano la riforma che dovrebbe mettere tutti d’accordo e che invece rischia di essere un pasticcio. Per superare la riforma Bonafede e quella Cartabia, in modo da giungere, ad una legge che non sarà né un ritorno alla Orlando né alla ex Cirielli, Fratelli d’Italia ha pensato bene di spostare lo stop del decorso della prescrizione dal primo grado al secondo grado. Immediata, ovviamente, è stata ieri la reazione dei penalisti per questa iniziativa che suscita “forte perplessità”. L’interruzione della prescrizione dopo la sentenza di appello, dicono dall’Unione delle Camere penali, “lascerebbe la fase di legittimità (nella quale la prescrizione ha attualmente una incidenza irrisoria) priva di ogni presidio con un conseguente rischio di dilatazione dei tempi del processo in contrasto con il principio di ragionevole durata e della finalità rieducativa della pena”. I penalisti a tal riguardo fanno anche un esempio pratico: “se questa fosse la soluzione adottata ci si chiede anche che sorte avrebbero gli assolti in appello nei cui confronti dovesse pendere un ricorso”. La domanda che bisognerebbe porsi, al netto della polemica politica, e che invece sfugge, è molto semplice: se la pena ha una funzione “riabilitativa”, che senso può avere farla espiare a distanza di tanti anni dal fatto commesso? Non è più riabilitazione ma ‘afflizionè. Peccato non si riesca a fare una norma finalmente condivisa. Le sentenze dei giudici e l’incertezza del diritto di Luca Ricolfi Il Messaggero, 13 ottobre 2023 È di ieri la notizia che il Ministro della Giustizia Carlo Nordio ha disposto un’indagine conoscitiva (non un’ispezione, né un procedimento disciplinare) sulla vicenda della magistrata Iolanda Apostolico, da qualche tempo nell’occhio del ciclone per due motivi distinti, anche se collegati. Primo: avere ripetutamente disapplicato il decreto Cutro, non convalidando il trattenimento di alcuni migranti tunisini nel CPR di Pozzallo, in provincia di Ragusa. Secondo: avere in passato (nel 2018) partecipato a manifestazioni anti-governative e pro-migranti. La decisione della magistrata è stata contestata dal governo in quanto fondata, tra l’altro, sulla tesi che la Tunisia non sia un “paese sicuro”, valutazione che, sempre secondo il governo, non spetterebbe al singolo magistrato ma ad organi istituzionali, quali il governo stesso, che fin dal 2008 aveva incluso la Tunisia fra i paesi sicuri (confermando nel marzo scorso la medesima lista di 16 paesi, fra cui la Tunisia). Contro la magistrata è stato anche sollevato il dubbio di parzialità, o scarsa indipendenza di giudizio, stante il suo (documentato) impegno pubblico contro la politica dei “porti chiusi” di Salvini. L’esecutivo impugnerà il provvedimento della Apostolico, e la Cassazione deciderà chi ha ragione. Fine della storia? Direi proprio di no. La vicenda Apostolico, infatti, ci consegna un problema grande come una casa, quale che sia la decisione finale della Cassazione: il problema dell’incertezza delle norme. Quel che è interessante dell’affaire Apostolico, infatti, non è che cosa deciderà la Corte, ma il fatto che - almeno per chi non è accecato dalle sue convinzioni politiche - non è affatto evidente né che Apostolico abbia ragione, né che abbia torto. Ci troviamo, in altre parole, in una situazione di incertezza intrinseca. In una situazione, cioè, nella quale la normale, ordinaria, spesso inevitabile, necessità di interpretare le norme, assume un carattere abnorme, patologico, per non dire perverso. In un recente dibattito, proprio a proposito del caso Apostolico, Luciano Violante, magistrato e parlamentare di lungo corso, ci ha ricordato il perché: il fatto è che, rispetto a 20-30 anni fa, i margini di discrezionalità del magistrato nell’interpretazione della legge si sono enormemente allargati. E questo è avvenuto non solo per la sovrapposizione fra norme di livello differente (internazionale, europeo, nazionale), ma anche per la crescente dipendenza delle sentenze dall’evoluzione del costume e dalla specifica sensibilità del singolo giudice. Esemplare, in questo senso, il recentissimo ribaltamento, in appello, della sentenza che aveva condannato il sindaco Mimmo Lucano a 13 anni di carcere per reati gravissimi, tutti (tranne uno) evaporati nel secondo grado di giudizio. È naturale che il comune cittadino ne sia sconcertato: come è possibile che i medesimi fatti siano valutati così diversamente da due giudici? Come possiamo avere fiducia nella magistratura se, in tante circostanze, constatiamo che l’assoluzione o la condanna dipendono da “che giudice ti capita”? Come difendersi dalle sentenze “creative”, in cui un giudice guarda una vicenda dall’angolo visuale delle sue convinzioni personali e delle sue idiosincrasie? Sono domande cui non è facile dare una risposta costruttiva e praticabile, se non altro perché i responsabili di questo stato di anomia normativa (mi si permetta l’ossimoro), sono almeno tre. Il legislatore, incapace di frenare l’impulso a moltiplicare le leggi, né a badare alla loro coerenza e applicabilità. La lobby dei magistrati, che ha sempre vittoriosamente difeso la sostanziale irresponsabilità dei giudici per i loro errori e i loro arbitrii. I singoli magistrati, troppe volte incapaci di mettere tra parentesi le proprie convinzioni personali. Abbiamo tanto discusso, a proposito del libro del generale Vannacci, della opportunità, per certe categorie (militari, poliziotti, magistrati), di rinunciare alla manifestazione pubblica del loro pensiero a causa del potere esorbitante di cui sono dotati. Ma, forse, non abbiamo abbastanza riflettuto sul fatto che, in fatto di potere, sono i magistrati che dispongono del potere più pericoloso, e malamente esercitato: quello di dare e togliere la libertà. Via Arenula chiede accertamenti su Apostolico, non “ispezioni” di Valentina Stella Il Dubbio, 13 ottobre 2023 Il ministro Nordio precisa di non aver disposto nessun “accertamento ispettivo né tanto meno” l’avvio “di un’azione disciplinare” per la giudice. Nessun “accertamento ispettivo né tanto meno dell’avvio di un’azione disciplinare”: così ieri in una nota il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha smentito una indiscrezione giornalistica secondo la quale un accertamento preliminare era stato avviato dal guardasigilli nei confronti di Iolanda Apostolico, il giudice del Tribunale di Catania che non ha convalidato nelle ultime settimane il trattenimento nel centro per richiedenti asilo di Pozzallo di migranti tunisini sbarcati a Lampedusa. Come spiegato dal comunicato di Via Arenula “a seguito di 4 interrogazioni parlamentari, essendo doveroso rispondere”, Nordio ha dato “mandato alle articolazioni competenti del Ministero di acquisire articoli di stampa e pubblicazioni sui social media relativi alla giudice di Catania, Iolanda Apostolico”. In tale attività non saranno ad esempio interpellati gli uffici giudiziari catanesi. Il perimetro di intervento di Nordio è molto ristretto: una semplice raccolta di materiale per rispondere agli atti di sindacato ispettivo preannunciati dalla Lega e da Fratelli d’Italia che gli hanno chiesto rispettivamente “quali misure intenda adottare per declinare, in termini di legge, le modalità per garantire che il giudice possa essere percepito dalla società civile imparziale” e se ci siano i “presupposti per l’adozione di iniziative di carattere ispettivo al riguardo”. Intanto ieri c’era anche molta attesa per la risposta del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi a una interrogazione al Senato del Partito democratico che gli chiedeva, in merito al video postato da Matteo Salvini lo scorso 5 ottobre in cui si vede Iolanda Apostolico alla manifestazione del 25 agosto 2018 al porto di Catania per il caso Diciotti, “se non ritenga necessario ed urgente intraprendere tutte le iniziative necessarie al fine di chiarire la precisa ricostruzione dei fatti”. Il prefetto ha fornito risposte fumose; le sue parole sono state quasi un copia e incolla di quelle pronunciate il giorno prima dal suo sottosegretario Nicola Molteni in commissione Affari costituzionali della Camera, dove era stato chiamato a fornire dettagli sempre riguardo lo stesso video da Alleanza Verdi e Sinistra e da +Europa. Piantedosi infatti ha detto semplicemente che il video “non proviene da documentazione della Questura di Catania” e che “in nessuno degli atti redatti, all’epoca, dal personale impiegato nei servizi di ordine pubblico e a seguito dei fatti verificatisi nel corso della manifestazione, è menzionata la dottoressa Apostolico”. Ha poi aggiunto: “È notorio ed è stato più volte precisato che i fatti attinenti alla recente diffusione di video riguardanti la manifestazione in questione sono all’attenzione della Procura della Repubblica di Catania”. Insomma, il governo continua a non rispondere e a dribblare le domande dell’opposizione rimasta pienamente insoddisfatta: “Le mancate risposte del ministro Piantedosi in merito alla vicenda del video diffuso dal ministro Salvini sono state imbarazzanti”, hanno commentato i senatori del Pd Anna Rossomando, Walter Verini, Alfredo Bazoli, Franco Mirabelli. “Semplicemente Piantedosi non ha risposto a nessun quesito e il governo prosegue su una linea che rischia di mettere in discussione separazione dei poteri e indipendenza della magistratura. A queste omissioni si aggiunge una difesa impossibile di leggi indifendibili come il dl Cutro in contrasto con normative europee e che era del tutto prevedibile sarebbero state inapplicabili”, hanno concluso i senatori dem. Piantedosi poi, seppur sollecitato dalla vice presidente del Senato Rossomando, non ha detto nulla riguardo alla vicenda del carabiniere che avrebbe girato il famoso video. Facciamo un passo indietro: due giorni fa in Commissione Affari Costituzionali il sottosegretario Molteni aveva detto che “l’Arma dei Carabinieri ha rappresentato che il 6 ottobre un carabiniere aveva riferito di aver girato dei video tra cui uno che ritraeva la magistrata, per poi ritrattare. Dell’accaduto è stata informata la Procura di Catania”. Dopo poche ore era arrivata una nota di smentita del segretario generale del Sim Carabinieri, Antonio Serpi: “Non è vero quanto sostenuto dal sottosegretario all’Interno, Nicola Molteni: il carabiniere non ha mai confessato ai suoi di aver girato e diffuso il video che mostrava la giudice Iolanda Apostolico a una manifestazione a Catania. Né, dunque, avrebbe potuto ritrattare. È stato creato un grave danno al carabiniere e qualcuno ne dovrà rispondere, è stato messo in mezzo per una chiacchiera da bar”. “Ma vi sembra normale - si era chiesto due sere fa l’onorevole di +Europa Riccardo Magi - che un sottosegretario di Stato dica una menzogna durante un Question Time in una commissione parlamentare? Per il governo Meloni sì”. Su questa incongruenza Piantedosi ieri, durante il question time, era stato invitato a rispondere “senza reticenze e omissioni”, tuttavia ha fatto finta di non sentire la domanda. Restano dunque senza risposta le due questioni principali: chi ha girato quel video, la cui prospettiva sembra provenire dal cordone delle forze dell’ordine? E soprattutto, chi lo ha dato al vice premier Salvini? Non sarebbe stato più semplice e comodo per la Bestia di Salvini passare il video ad un giornale amico, evitando tutte queste polemiche? Cosa non ha funzionato? “A questo punto”, dice Magi di + Europa, “non solo è urgente che Salvini venga in aula a riferire su come ha ottenuto quel video e chi l’ha girato, ma è necessario che Molteni chiarisca: non si può mentire di fronte a una commissione parlamentare. Se davvero lo ha fatto, le dimissioni sarebbero inevitabili”. Per Apostolico Nordio si inventa le “non ispezioni” di Mario Di Vito Il Manifesto, 13 ottobre 2023 Il ministro vuole acquisire notizie di stampa e post sui social. Ancora mistero sul video. Piantedosi: “Non viene dalla questura”. Non è un’ispezione. Non è un provvedimento disciplinare. Non è nemmeno l’inizio di un iter di qualsivoglia natura. Per ora si sa soltanto quello che non è l’interessamento del ministero della Giustizia per le attività di Iolanda Apostolico. Secondo Nordio è un atto dovuto che non dovrebbe scandalizzare. Insomma, “a seguito di quattro interrogazioni parlamentari”, dice il ministro, “essendo doveroso rispondere”, è stato dato “mandato alle articolazioni competenti del ministero di acquisire articoli di stampa e pubblicazioni sui social media” che riguardano la giudice di Catania. I punti del contendere sono due: le mancate convalide del fermo nel centro di Pozzallo di otto richiedenti asilo - e conseguente supposta inapplicabilità del decreto Cutro - e la partecipazione di Apostolico alla manifestazione che il 25 agosto del 2018 portò tremila persone a chiedere lo sblocco dei 150 migranti costretti a bordo della nave Diciotti al porto di Catania. A prendere per buona la versione di Nordio, le “articolazioni competenti” di via Arenula stanno facendo solo lo stretto indispensabile per consentirgli di andare prima o poi in aula a rispondere alle domande poste dai parlamentari. Però, dal momento in cui Apostolico è notoriamente al centro della polemica politica ormai da due settimane, una mossa del genere non si può non aggiungere all’ormai corposo pattern di pressioni sulla giudice: dalla discussione sull’opportunità della sua presenza a una manifestazione pubblica (con tanto di ripetute richieste di invio degli ispettori) fino al presunto dossieraggio che ha portato un video - girato non si sa bene da chi ma di certo pubblicato su X da Salvini - a scatenare l’orda più o meno minacciosa dei social network. E sull’ormai famigerato video il mistero permane fitto e assurdo come in una commedia. Rispondendo a un’interrogazione presentata dal Pd, il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha ribadito la confusa linea del governo, ricordando che la ripresa “non proviene da documentazione della questura di Catania” e che “in alcuno degli atti redatti all’epoca dal personale impiegato nei servizi di ordine pubblico e a seguito dei fatti verificatisi nel corso della manifestazione è menzionata la dottoressa Apostolico”. E comunque, aggiunge Piantedosi, tutto il materiale è stato archiviato “senza individuare responsabilità penale da parte dei partecipanti alla manifestazione”. A proposito di archivi, inoltre, il ministro ha anche voluto chiarire qualche dubbio sull’uso che si fanno delle immagini raccolte durante i cortei e i presidi. O almeno ci ha provato. “Gli uffici di polizia non detengono, né tantomeno conservano video o immagini non ufficiali - ha detto - e, per quanto riguarda le riprese non utili effettuate durante i servizi di ordine e sicurezza pubblica, non esiste un archivio informatico o una banca dati per la loro conservazione. Sottolineo infine che le immagini video raccolte dalla polizia di Stato non sono sottoposte a elaborazioni informatiche a fini identificativi”. Tutto questo comunque non ha soddisfatto il Pd, che in una nota firmata dai senatori Anna Rossomando, Walter Verini, Alfredo Bazoli e Franco Mirabelli attacca: “Le mancate risposte del ministro Piantedosi in merito alla vicenda del video diffuso dal ministro Salvini, sono state imbarazzanti. Semplicemente Piantedosi non ha risposto a nessun quesito e il governo prosegue su una linea che rischia di mettere in discussione separazione dei poteri e indipendenza della magistratura. A queste omissioni si aggiunge una difesa impossibile di leggi indifendibili come il dl Cutro in contrasto con normative europee e che era del tutto prevedibile sarebbero state inapplicabili”. Al di là della giornata parlamentare, il carabiniere che inizialmente era stato individuato come autore del video ad Apostolico continua a difendersi e a negare non solo di essere stato lui, ma anche di averlo ammesso. “Il mio assistito non ha confessato nulla e di conseguenza non può aver ritrattato - ha spiegato l’avvocato Christian Petrina -. Peraltro in questi casi ci sono delle procedure previste dalla normativa militare da seguire”. In realtà, però, non ci sarebbe alcuna relazione di servizio stilata dal carabiniere, che, secondo quanto è stato possibile ricostruire, è stato tirato in ballo da alcuni suoi colleghi. Sulla vicenda, ad ogni buon conto, esistono due inchieste in corso. Una a Roma (in seguito a un esposto presentato dai Verdi) e un’altra in Sicilia: dalla Capitale gli atti sono stati inviati a Catania, ma essendo coinvolta una giudice di quel tribunale, le pratiche saranno seguite dalla procura di Messina. Il senso delle istituzioni di noi magistrati si gioca sui nostri comportamenti di Alessandro Riello* Il Dubbio, 13 ottobre 2023 “I magistrati, per dettato costituzionale, devono essere imparziali e indipendenti e tali valori vanno tutelati non solo con specifico riferimento al concreto esercizio delle funzioni giudiziarie, ma anche come regola deontologica da osservarsi in ogni comportamento, al fine di evitare che possa fondatamente dubitarsi della loro indipendenza ed imparzialità”. Non si tratta delle affermazioni di uno degli improvvisati giuristi che spuntano numerosi all’indomani dell’ennesimo scontro politica-giustizia, ma della Corte costituzionale (sentenza n. 224/2009). Chiamata a pronunciarsi sulla legittimità della norma che configura quale illecito disciplinare l’iscrizione o la partecipazione sistematica e continuativa del magistrato a partiti politici, la Consulta dettava alcuni principi che appaiono di stretta attualità nel commentare la oramai nota vicenda della collega di Catania. In quella sentenza, i giudici di legittimità riconoscevano come i magistrati dovessero “godere degli stessi diritti di libertà garantiti ad ogni altro cittadino” e che, quindi, potessero “non solo condividere un’idea politica, ma anche espressamente manifestare le proprie opzioni al riguardo”, sostenendo tuttavia che agli stessi, per la natura delle funzioni svolte, potessero essere legittimamente imposti speciali doveri. Pertanto, era ritenuta pienamente legittima la previsione di un illecito disciplinare non solo nelle ipotesi di iscrizione, ma anche in quella di “partecipazione sistematica e continuativa a partiti politici”, essendo anche quest’ultima suscettibile “di condizionare l’esercizio indipendente ed imparziale delle funzioni e di comprometterne l’immagine”. Non è certo mia intenzione fare un processo sommario e pronunciarmi sulla riconducibilità o meno della condotta della collega Apostolico a questa o ad altre norme. È evidente, peraltro, come non sia in discussione, in detta vicenda, un’attività di collateralismo partitico in senso stretto. Altrettanto incontestabile, tuttavia, l’impossibilità di sminuire le parole della Consulta, degradandole alla decisione di un caso concreto, non scorgendo in esse - invece - indicazioni di principio sull’individuazione della carta di identità del magistrato nell’attuale contesto storico. Indicazioni che militano decisamente nella direzione del self restraint nelle esternazioni delle proprie opinioni. La mia personale esperienza mi porta ad affermare come la stragrande maggioranza dei magistrati, lontani dalle luci della ribalta, conoscano bene le limitazioni della vita privata e i sacrifici personali imposti dall’esercitare le funzioni giudiziarie. Molti di essi, magari al Sud, in centri caratterizzati da una forte presenza della criminalità organizzata, hanno riempito di significato l’altrimenti vacuo concetto di “senso delle istituzioni” con privazioni e limitazioni di ogni tipo. Nelle proprie frequentazioni, nei propri comportamenti. Magistrati del genere esistono da decenni. Esistono tuttora e costituiscono, voglio credere, la maggioranza. Mi auguro fortemente che continuino ad esistere e che siano sempre di più. È proprio questo il tema che dobbiamo affrontare al nostro interno: chi è il magistrato nell’assetto costituzionale. È vero, non è una discussione nata ieri. Tuttavia, essa va oggi affrontata a viso aperto, soprattutto dalle componenti associative: su un tema così essenziale, qual è la posizione di ogni gruppo? Lo si dica chiaramente, soprattutto ai più giovani. Se costoro intendono, auspicabilmente, impegnarsi in modo attivo nella vita associativa, aderendo a questa o quella corrente, devono sapere con chiarezza con chi stanno condividendo il loro percorso, altrimenti il rischio è quello di una cooptazione del tutto inconsapevole. Un rischio che purtroppo è alimentato da una narrazione a mio avviso distorta dei fatti di Catania, che mette nello stesso calderone temi connessi ma ben diversi da quello, più basilare, che ho poc’anzi affrontato. Intendo dire che affermare di non condividere e non riconoscersi nella condotta extraprocessuale della collega Apostolico non significa legittimare i frequenti, violenti e spesso aprioristici attacchi all’esercizio della giurisdizione o il cosiddetto dossieraggio dei magistrati: deve essere chiaro che merito della decisione, rispetto della stessa, condanna delle critiche aggressive ed incontinenti sono problemi diversi da quello dei comportamenti del magistrato. Né significa trascurare il pericolo dell’attuale esistenza, in generale, nel percorso decisionale di un giudice, di quella che è stata definita “la seconda domanda” (oltre a chiedersi chi ha ragione in base alla legge, egli si interrogherebbe sulle reazioni, dunque sulle conseguenze a sé favorevoli o sfavorevoli del proprio provvedimento). Ma questo rischio non è nato in questi giorni di aspro dibattito, né in tempi recentissimi. È la conseguenza di anni di politiche di delegittimazione dei magistrati e di provvedimenti dal sapore punitivo, adottati da governi di ogni colore. Prima di guardare a se stesso, tuttavia, un magistrato deve prestare attenzione ai cittadini, in nome dei quali amministra la giustizia, e chiedersi se, ferma la propria buona fede, per effetto delle proprie azioni o dei propri comportamenti, la sua decisione possa essere oggettivamente credibile ai loro occhi. È questa la domanda che egli dovrebbe porsi. *Pubblico ministero presso la Dda di Catanzaro Il caso Apostolico, Nordio e le libertà dei magistrati di Gian Carlo Caselli La Stampa, 13 ottobre 2023 La partecipazione del magistrato alla vita politico-culturale lo rende sospetto a chi non ne condivide le idee. L’affermazione a ben vedere non regge. L’estraneità del magistrato dalla società è semplicemente impossibile. Basti pensare che ci sono giudici credenti e altri no e che tale condizione non è occultabile. L’ateo dovrà rifiutare il giudizio del credente e quest’ultimo quello dell’ateo? O piuttosto dovranno verificare entrambi l’imparzialità del giudice in base alla correttezza delle sue motivazioni? E se ciò vale per le convinzioni più profonde, perché non dovrebbe valere anche per le opzioni ideali, culturali, politiche? Ho preso parte a migliaia di manifestazioni pubbliche contro il terrorismo, contro la mafia palermitana e infine contro gli insediamenti ‘ndranghetisti in Piemonte, proprio mentre mi occupavo di queste forme di criminalità. Manifestazioni che si svolgevano ovunque (parrocchie, scuole, teatri, circoli, fabbriche, sedi di partiti o sindacati, piazze …), con la partecipazione di tantissime persone, giovani soprattutto, che volevano esprimere la volontà di vivere in un paese libero e pulito. Tra gli organizzatori ricordo magistrati e avvocati, preti e politici. In particolare Rita Borsellino, sorella di Paolo, Nino Caponnetto, don Giuliano Zattarin e don Luigi Ciotti coi suoi ragazzi di “Libera”. E non mi sono mai sentito in colpa. Anzi. Credo di aver contribuito a dimostrare che il terrorismo era nemico di tutti e non solo delle vittime colpite, innescandone l’isolamento politico contro i teorici del demenziale “né con lo Stato né con le Br”. E credo altresì di essere riuscito (insieme a tanti altri) a dimostrare che le mafie - al di là delle loro attività gangsteristiche - sono un pericolo mortale per la democrazia in quanto condizionano buona parte della vita politica ed economica del Paese. Il fatto è che non sono le idee e la loro manifestazione, ma le “appartenenze” (in particolare se occulte) a minare l’imparzialità del magistrato. Quella di un bel tempo antico in cui i magistrati erano apolitici è una favola utile solo a occultare (magari nella prospettiva di una riedizione) una stagione di politicità massiccia a senso unico, incompatibile con un indipendente esercizio della giurisdizione. Di più: sono proprio la sedicente apoliticità e l’indifferenza a offrire copertura a subordinazioni o strumentalizzazioni del ruolo. Passione civile e imparzialità nel giudizio non sono concetti incompatibili. L’imparzialità è disinteresse personale, distacco dalle parti, non anche indifferenza alle idee e ai valori (assai pericolosa in chi deve giudicare). Al quadro ora tracciato va ricondotta l’annosa polemica fra politica e magistratura con cui la prima vuole che la seconda si accucci ai suoi piedi. Polemica in questi giorni riesplosa perché alcuni magistrati hanno “osato” contraddire il governo non applicando il decreto Cutro, ritenuto in contrasto con le normative europee. Tutto è cominciato con un provvedimento della giudice Iolanda Apostolico di Catania, che ha “basito” la premier, mentre un giornale non tenero con i magistrati (“il Foglio”) lo ha giudicato positivamente, come del resto fior di costituzionalisti. Il ministro Nordio ha avviato il ricorso e ciò rientra nelle sue prerogative. Ma Salvini, con una personalissima concezione dello stato di diritto, ha riesumato (non si sa come né grazie a chi, tanto che, in attesa di chiarimenti, c’è chi sente puzza di “dossieraggio”) un filmato di ben 5 anni fa in cui compare anche la Apostolico, che non dice una parola né fa un qualche gesto, ma ha il torto di assistere a una manifestazione di protesta contro il divieto di Salvini di far sbarcare alcuni profughi dalla motonave “Diciotti”. Piemonte. Mauro Palma: “Nelle carceri c’è chi esalta la contrapposizione” di Mino Tebaldi L’Opinione, 13 ottobre 2023 Mauro Palma denuncia la “sofferenza” del sistema penitenziario piemontese. Lo dice in un’intervista alla Stampa il presidente del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale. Palma commenta la recente inchiesta giudiziaria che vede 23 agenti di polizia penitenziaria indagati per presunte torture sui detenuti nel carcere piemontese di Cerialdo di Cuneo, dove la Procura del capoluogo della Granda ipotizza che, tra il 2021 e il 2023, si siano verificati episodi sistematici di violenze ai danni di una decina di carcerati. Per il momento, gli agenti non sono stati sospesi dal servizio né sono stati sottoposti a misure cautelari. L’indagine è partita da segnalazioni arrivate da più fonti, riguardanti anche diversi casi di detenuti con segni di violenze accusati di resistenza a pubblico ufficiale: casi considerati sospetti, in quanto possibile copertura dei pestaggi. Da qui gli inquirenti, guidati dal procuratore Onelio Dodero, hanno avviato le indagini e, in questi giorni, hanno recapitato gli avvisi di garanzia agli agenti coinvolti, hanno disposto il sequestro di cellulari e computer e hanno ascoltato le presunte vittime. Si tratta dell’ultima inchiesta giudiziaria in ordine di tempo che ipotizza violenze sistematiche ai danni di detenuti nelle carceri piemontesi. Fascicoli analoghi sono stati aperti a Torino, Biella e Ivrea. Per gli agenti in servizio a Torino è tuttora in corso il processo, mentre su Ivrea e Biella si è ancora in fase di indagine, ma per alcune posizioni l’ipotesi di reato è stata derubricata da tortura a lesioni e abuso di potere. “Premetto - spiega Palma - di non avere informazioni dirette, ma non credo che ci sia maggiore violenza rispetto al passato. Con una punta di ottimismo mi sembra che si possa dire anche che c’è maggiore capacità investigativa interna. Va sottolineato che la quasi totalità del corpo di polizia penitenziaria è estranea a questi episodi, ma all’interno di una minoranza ancora prevalgono delle sottoculture che non aiutano”. Per Palma, c’è “una cultura che ha perso il senso dell’istituzione. Il carcere non è altro che lo specchio della società, anche dentro i penitenziari esiste la tendenza a esaltare la logica della contrapposizione. C’è chi considera i detenuti un fronte opposto, con un rapporto di inimicizia che non aiuta chi deve assicurare ordine e sicurezza. Seguendo questa logica, in un’istituzione a forte rischio come il carcere, si innalza sempre lo scontro, un errore che crea problemi”. Cuneo. Mellano: “Il Cerialdo è un carcere particolare. Nessun detenuto vuole andarci” di Barbara Simonelli targatocn.it, 13 ottobre 2023 Il Garante regionale evidenzia come la struttura penitenziaria di Cuneo sia percepita come punitiva e di massima sicurezza. “Però le cose stanno cambiando”. Il reato di tortura? “Opportuno che ci sia, nell’interesse di tutti”. “C’è stato un periodo in cui avevamo parecchie segnalazioni sulla zona delle celle di isolamento del carcere di Cuneo. Sono stanze nel seminterrato, dove i detenuti vengono trasferiti e separati dagli altri in caso di sanzioni o di reazioni e comportamenti spropositati. A seguito di ciò, era maturata la decisione di mettere delle telecamere nei corridoi e nelle aree di accesso al reparto”. A dirlo è Bruno Mellano, Garante regionale dei detenuti dal 2014, ruolo istituito 20 anni fa. Fossanese, una storia di militanza nei Radicali, sul tema delle carceri Mellano è sempre stato in prima linea. Gli chiediamo del carcere di Cuneo, delle indagini su ventitré agenti della Polizia Penitenziaria. “Come garante, posso entrare nelle carceri senza autorizzazione preventiva e posso avere colloqui personali con i detenuti. In queste circostanze raccolgo segnalazioni e denunce. Tra i miei compiti c’è quello di ascoltare ma anche quello di soppesare. Vengo dal mondo dei Radicali, non mi lascio convincere facilmente e da chiunque”. Una premessa che lascia intendere che in questi episodi al vaglio degli inquirenti c’è, invece, qualcosa che, debitamente soppesato, ha meritato tutta la sua attenzione. “Sono stato ascoltato dal procuratore Dodero”, specifica. “Alcune segnalazioni vanno valutate. Ci si confronta con le direzioni, con l’amministrazione penitenziaria e, se necessario, si prendono altre strade, come è stato in questo caso. Non succede sempre, ma a volte è necessario segnalare alle Procure, a vantaggio di tutte le parti in causa”. In tutte le carceri piemontesi sono state intercettate situazioni da chiarire. Anche a Cuneo, evidenzia ancora Mellano. Il 2 giugno del 2022, su “Radio Carcere” si è parlato proprio del carcere di Cuneo. Un ex detenuto, Alessandro, ha fatto espliciti riferimenti alle celle di isolamento e a episodi dai quali ha preso le distanze lo stesso conduttore della trasmissione radiofonica Riccardo Arena, non avendo riscontri sulle pesanti accuse dell’intervistato. Una cosa evidenziata dall’ex detenuto ha trovato conferma anche in Mellano. I carcerati temono, tutti, il Cerialdo. In qualche modo, anche i reparti con i cosiddetti detenuti comuni è “contaminato” dal carcere duro, il 41bis, cui è dedicato un intero padiglione del penitenziario cuneese. “Cuneo è una realtà particolare, perché è vissuto dalla comunità penitenziaria piemontese come carcere punitivo, di massima sicurezza. Negli anni passati c’era una certa rigidità rispetto alla popolazione detenuta. Da quando sono garante, sono stati introdotti dei percorsi con le scuole, come l’alberghiero o la scuola edile. Abbiamo lavorato e continuiamo a farlo per superare l’idea che se vieni mandato a Cuneo è per essere punito. Va detto che qui sono sempre finiti i detenuti più difficili”. Un riferimento al padiglione Gesso, quello dove sarebbero avvenuti i fatti al vaglio degli inquirenti. Aperto a metà del 2010, “è una struttura limitante”. Celle da 9 metri quadri dove convivono quattro detenuti. Che passano quasi tutta la giornata rinchiusi e senza fare niente. Ha sopperito ai 12 anni di lavori del padiglione Stura, totalmente ristrutturato: “Ha corridoi ampi, celle luminose per due persone. È stato aperto con l’idea di farci stare i detenuti comuni interessati da percorsi di rieducazione e reinserimento. Ma dobbiamo anche fare in modo che il padiglione Gesso non diventi “cesso”: quegli spazi brutti e cupi vanno rivitalizzati con progetti e iniziative a favore dei detenuti”. Cuneo, secondo Mellano, ha indubbie potenzialità, grazie alla sinergia di tanti soggetti che stanno lavorando per rendere il Cerialdo un luogo non solo di detenzione ma anche di riabilitazione, così come dovrebbe essere un carcere. Mellano ha fiducia che si stia lavorando nella direzione giusta, pur nella consapevolezza della presenza di zone d’ombra. “È un bene che ci sia un’inchiesta. Questi episodi grigi devono essere capiti e risolti, per restituire credito e autorevolezza alla struttura, alla professionalità degli operatori, all’amministrazione penitenziaria e ai tanti agenti che lavorano con serietà e dedizione”. Poi un cenno al reato di tortura, introdotto nel nostro ordinamento nel 2017 e adesso messo in discussione. “Da quando è in vigore, il detenuto che dichiara di aver avuto un trattamento violento in genere parla di tortura. Il Piemonte in questo momento è un po’ epicentro. Ci sono procedimenti che interessano Torino, Ivrea, Biella. Ora l’episodio di Cuneo. Siamo in una fase delicata in cui proprio le inchieste e le indagini delle procure da un lato e le decisioni dei giudici dall’altro definiranno la fattispecie di reato. Siamo solo all’inizio. Il reato di tortura è opportuno che ci sia e che sia ben definito, anche per gli operatori penitenziari e le altre forze dell’ordine, che hanno il diritto di intervenire con la forza, quando essa è legittima. È quando non lo è più che diventa abuso di potere o tortura. Non va abolito il reato, va definito attraverso i giudizi di merito. È nell’interesse di tutti, delle vittime, dei possibili autori e della società in generale”. Foggia. Detenuto morto nel carcere, medici e infermieri scagionati statoquotidiano.it, 13 ottobre 2023 L’autopsia svolta pochi giorni dopo il decesso aveva evidenziato l’assenza di traumi ed evidenti segni di violenza. Detenuto deceduto nel carcere di Foggia, scagionati Medici, Infermieri e Agenti Carcerari. Osama Paolo Harfachi fu ucciso dal metadone. Scagionati Medici, Infermieri e Agenti Carcerari a Foggia. Non hanno alcuna responsabilità nella morte di un detenuto, Osama Paolo Harfachi. L’autopsia svolta pochi giorni dopo il decesso aveva evidenziato l’assenza di traumi ed evidenti segni di violenza. Il detenuto, molto giovane, non fu picchiato durante le fasi dell’arresto e non ci sono responsabilità dei medici e degli infermieri che lo ebbero in cura. La Procura di Foggia ha chiesto al gip di archiviare le accuse a carico di 12 dei 13 indagati, tutti tranne un detenuto che avrebbe ceduto metadone alla vittima. Sotto inchiesta c’erano 5 agenti polfer, 2 carabinieri e 5 membri del personale sanitario del penitenziario. Già l’autopsia svolta pochi giorni dopo il decesso aveva evidenziato l’assenza di traumi ed evidenti segni di violenza. Un esito che aveva già escluso la pista del pestaggio. All’epoca i genitori del giovane non credettero alla morte per cause naturali e, per questo motivo, presentarono denuncia. Terni. “Fabio Gloria non si è impiccato”: giallo in carcere, nuove indagini di Riccardo Lo Verso livesicilia.it, 13 ottobre 2023 Era detenuto per mafia. La procura generale non archivia. Bisogna indagare sulla morte in carcere del detenuto palermitano Fabio Gloria, di 47 anni. La Procura di Terni aveva chiesto l’archiviazione ritenendola un suicidio, ma il procuratore generale Sergio Sottani ha avocato a sé le indagini. Bisogna fare ulteriori approfondimenti. All’interno del carcere c’era stata una rissa fra un gruppo di napoletani. Il detenuto sarebbe intervenuto in difesa di uno dei detenuti. Al palermitano era stato concesso di fare una videochiamata con i familiari che notarono evidenti segni di ferite al volto dovute ai colpi subiti durante la lite. Fabio Gloria però sarebbe stato di umore tranquillo. Nulla fece presagire il terribile gesto. Avevano deciso che all’indomani si sarebbe confrontato con il suo avvocato. Secondo il pubblico ministero, il detenuto si è impiccato tra le 16:30 e le 18:30 del 28 gennaio 2023 in una cella di isolamento. Il procuratore generale “non ritiene condivisibile la motivazione della richiesta di archiviazione emergendo una necessità di approfondimento investigativo”. E fa l’elenco delle cose da acquisire: l’ordine di servizio della vigilanza nel reparto di isolamento, le immagini di videosorveglianza della videochiamata del detenuto con i familiari per capire se sia avvenuta mentre era in isolamento oppure se Gloria sia spostato, la foto della scena dove è avvenuto il suicidio. Un suicidio a cui i familiari di Fabio Gloria e l’avvocato Salemi mai hanno creduto. Pavia. Cimici in cella e tra i capelli. “Situazione oltre ogni limite” di Simone Marcer Avvenire, 13 ottobre 2023 Il carcere di Pavia è l’ultimo in cui è entrata Antigone. L’associazione che si occupa dei diritti dei carcerati ha trovato una “situazione igienico sanitaria disastrosa con le cimici nei letti dei detenuti”. Di fronte alla richiesta di un intervento d’igienizzazione immediato la direzione dell’istituto penitenziario ha mostrato che tale intervento è effettivamente in corso, relativamente però a uno solo dei due edifici di cui si compone il carcere di Torre del Gallo. Per motivi di costi e copertura economica. “Nel corso della visita abbiamo verificato che nuovo padiglione C (adibito ai protetti) era interessato da una disinfestazione per la presenza massiva di cimici del letto: dove non ancora svolta, la situazione riscontrata era oltre ogni limite. Solo a titolo di esempio, - prosegue la relazione di Antigone - abbiamo incontrato un detenuto che mostrava un nido di cimici tra i capelli, e molti altri hanno sul corpo i segni delle punture”. “Parliamo in particolare di una persona che ha una situazione di fragilità psichiatrica tale che non è in grado di badare autonomamente alla propria igiene personale - spiega Valeria Verdolini, responsabile di Antigone Lombardia -. A maggior ragione la presenza di detenuti psichiatrici richiede un’ulteriore attenzione nella gestione degli aspetti igienico sanitaria. Una delle difficoltà di gestione è connessa infatti proprio alla fragilità psichica di molti dei ristretti; nel carcere è presente un’articolazione di salute mentale; non sempre in grado di provvedere alla propria cura e igiene personale in autonomia, e non aiutati da operatori o piantoni”, ha aggiunto Verdolini. Il reparto di salute mentale inaugurato nel 2013 conta 11 posti. L’intera struttura ospita invece 658 persone e ha un tasso di sovraffollamento del 131%, più o meno in linea con quello delle altre carceri lombarde. 479 sono definitivi; 370 stranieri e 234 sono tossicodipendenti in carico al Serd (la percentuale effettiva di tossicodipendenti nelle carceri supera spesso il 50%). A finire sotto esame è in particolare il padiglione dei detenuti comuni. Qui, nonostante i recenti interventi di ristrutturazione delle aree comuni (teatro, cappella e area verde), “ci sono forti criticità”, segnala Antigone, che ha effettuato il sopralluogo in carcere la scorsa settimana: “Manca in molte celle l’acqua calda e in generale le condizioni dei bagni delle celle vengono definite “inaccettabili”. Lavandini senza rubinetti, docce non funzionanti, pareti macchiate di fuliggine, stanze con poca luce e scarsa areazione; l’elenco delle cose che non funzionano fornito dall’associazione è lungo. “Anche riguardo a ciò il fatto di avere una popolazione problematica incide sui danneggiamenti” spiega ancora Verdolini. “D’altro canto - aggiunge - un ambiente di questo tipo non migliora certo la vivibilità per le persone detenute e può influire sulla conflittualità all’interno del carcere”. Gli ultimi episodi di grande tensione a Pavia non sono recenti, risalgono al marzo 2020, quando ci fu la rivolta dei detenuti per il Covid. Mentre gli ultimi suicidi (tre in poche settimane) sono di fine 2021, quando ci fu la seconda ondata di chiusure. “Nonostante gli sforzi della direzione e del comando quasi la metà delle celle (reparti 5, 6, 7, 8, 11) sono in condizioni igieniche intollerabili per un carcere democratico”, conclude il rapporto. Poi ci sono i problemi comuni a tutti gli istituti: carenza di personale - cronica - e, soprattutto negli ultimi anni, un aumento dei trasferimenti dei detenuti da Milano San Vittore, a sua volta sovraffollato, alle carceri di altre province lombarde. Sono aumentati in particolare i giudizi in direttissima. “Così assistiamo ad un affaticamento costante delle direzioni delle carceri e dei comandi di polizia penitenziaria, nonché di sofferenza dei detenuti. Si demanda al carcere una gestione di problemi psichiatrici e sanitari che dovrebbero essere presi in carico da altri enti”, conclude Verdolini. Prima di Pavia Antigone ha visitato il carcere di Monza, anch’esso con un’articolazione di salute mentale al suo interno (sovraffollato). Poi entrerà nel carcere dei Miogni, a Varese, e nei due istituti bresciani (Verziano e Canton Mombello) Napoli. Viaggio nel carcere di Nisida, dove ai ragazzi in prigione serve un nido di Marianna Aprile oggi.it, 13 ottobre 2023 L’istituto che ha ispirato quello di Mare fuori è a Napoli, su un’isola, e da 27 anni a dirigerlo c’è Gianluca Guida: “Non c’è un’emergenza criminalità minorile. Non servono pene più severe, ma alternative al loro bisogno di affermarsi con la violenza. Partendo dall’asilo”. Poco lontano da qui, c’è Mare fuori. O meglio, il finto carcere in cui si gira la fiction Rai che racconta la criminalità minorile. Il carcere vero (il nome giusto è Ipm, Istituto penale minorile), che ha ispirato la serie, è a Nisida, isola flegrea che affaccia su Procida, Ischia, Capri, sul profilo del Vesuvio che fa capolino dietro Posillipo. Direttore a 29 anni da 27 anni - Da 27 anni, l’Ipm di Nisida è diretto da Gianluca Guida che, dopo un’esperienza di volontariato nella periferia di Napoli e una laurea in Legge, vince un bando per l’amministrazione penitenziaria, scontentando i suoi genitori, presidi, che in carcere non ce lo volevano neanche da direttore. Arriva sull’isola a 29 anni: “Era il 1996, ero inesperto. Il personale mi chiamava ‘ominorenne, ma insieme siamo riusciti a fare di questo un posto che avesse senso, per i ragazzi e la comunità”. Nisida era appena stata bocciata da un’ispezione del Comitato per le torture. Guida e i suoi aumentano il tempo dei ragazzi fuori dalle celle e le attività per aiutarli a prendere coscienza di sé, a volersi bene nonostante il male, subìto e praticato. Il carcere si apre alla città: spettacoli teatrali, laboratori, centro polifunzionale per prevenzione del crimine minorile, incontri con studenti, dalle elementari all’università. Tre anni dopo il Comitato certifica Nisida come un modello. La bellezza per salvarli - Luoghi tristi in contesti punitivi. Le carceri le si immagina così. Nisida affaccia invece sul Golfo più bello del mondo: “Alcuni dei ragazzi il mare lo vedono qui per la prima volta e questa bellezza è parte del trattamento: sono loro a prendersene cura, perché qui lavoriamo “con” i ragazzi non “sui” ragazzi, perché il tempo passato qui non sia perso, per chi ha già perduto infanzia e adolescenza”. In Italia ci sono 17 Ipm. Al momento Nisida, che ha 50 posti, ospita 56 ragazzi ma ha avuto picchi anche di 62. Il numero cambia di continuo e capita, girando col direttore, che l’assistente capo della Polizia penitenziaria Antonio Paciello lo fermi per decidere spostamenti per far spazio ai nuovi arrivi (anche da fuori regione). “I luoghi da cui arrivano sono sempre gli stessi: quartieri patogeni che nonostante isole virtuose non riescono a sviluppare anticorpi, un tessuto sociale che rigetti la criminalità”. Il turnover nelle carceri - La media della permanenza qui è di 3 anni e per la legge possono restarci fino ai 25 d’età. Alcuni hanno condanne anche di 16-18 anni. Sono solo ragazzi, la sezione femminile non c’è più: “La devianza femminile è un fenomeno limitato. In Italia sono rimasti una sezione femminile a Roma e un istituto solo per ragazze a Pontremoli”. Quando Guida è arrivato, Nisida non era così piena di murales, panchine colorate, disegni realizzati con le mattonelle, come quello con i nomi delle 960 vittime della criminalità organizzata censite da Libera: “Sono cose realizzare dai ragazzi perché potessero “fare proprio” questo posto”. Nel parco, panchine realizzate nel laboratorio di ceramica riportano i nomi dei 70 autori che hanno scritto di o per Nisida, da Cicerone a Maurizio de Giovanni. Lungo il sentiero che va dalla cima al mare, steli con stralci degli scritti realizzati nei laboratori di auto narrazione, guidata da scrittori come Valeria Parrella, Viola Ardone, de Giovanni. A non avere le sbarre è solo la scuola, ma sui vetri un cartello invita a tener chiuse le finestre. È per i pavoni. Sono 5, mamma, papà e tre piccoli che scorrazzano liberi in questo luogo di reclusione e fanno di tutto per infilarsi in questi 9 padiglioni fatti costruire nel 1934. La scuola affaccia su un campetto sportivo fatto costruire da Eduardo De Filippo, cui si deve anche il teatro, al momento inagibile, in attesa di restauri importanti e costosi. In cucina, c’è un Commendatore dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana, Don Peppino, al secolo Giuseppe Lavalle, 80 anni, premiato dal Presidente Mattarella per i suoi 45 anni nella cucina di Nisida, un po’ nonno, un po’maestro. Da 12 anni, ad aiutarlo c’è Carla Ruggero: i ragazzi la chiamano “zia”. Un percorso per gradi - Se non fosse per le sbarre, sembrerebbe un plesso scolastico: tranne se in punizione per qualche intemperanza, i ragazzi gironzolano, fanno sport, capannelli e fermano il direttore per chiedere, commentare, fare battute. Pare di andare in giro col preside. “La detenzione qui si snoda per step in cui autonomia e libertà di movimento dei ragazzi aumentano per gradi. Appena entrano, stanno in reparto per 10-12 giorni, con spazi di libertà e attività limitati. È un tempo che serve a noi per conoscerli e a loro per tranquillizzarsi: spesso arrivano qui molto ostili. Una volta ambientati, sono inseriti nel gruppo e accedono a scuola, laboratori e attività”. Quindi accedono al “trattamento avanzato”, in cui si muovono tra lavoro, sport e attività, dalle 8 del mattino alla cena. “Poi c’è una fase di pre-uscita, in un edificio separato, sull’isola ma fuori dalle mura di cinta, e con un rapporto col personale carcerario che non è più guardia-detenuto ma adulto-ragazzo”. Non c’è nessuna emergenza - Guida dirige anche il Centro Studi europeo sulla devianza e la criminalità minorile, con sede sull’isola. “La criminalità minorile cambia di continuo. Gli ultimi anni sono segnati da una violenza irrazionale, immotivata, spesso non riconosciuta. Come fosse ordinaria. La loro rabbia è figlia di una marginalità esasperata, si sentono scartati, rivendicano un ruolo ma non avendo gli strumenti mettono in campo un’affermazione violenta di sé. È una forma deviante di ricerca della felicità: l’adesione alla cultura criminale nasce dal bisogno di riconoscimento”. In questo momento, la maggior parte dei ragazzi sono reclusi per tentato omicidio, omicidio, lesioni gravi, violenza. Ma c’è davvero una emergenza criminalità minorile, come dopo i fatti di Caivano si è sostenuto? “La comunità risponde ai crimini commessi da minorenni con la chiusura. Ma la giustizia minorile funziona; in Italia i numeri sono sotto la media europea, non sono elevati né in crescita: ci sono circa 20 mila denunce l’anno, meno del 5% arriva a misure cautelari”. Quanto all’inasprimento delle pene, Guida non ha esitazioni: “L’approccio deve essere razionale, non emotivo. Le pene più severe non sono un deterrente per chi col carcere ha consuetudine familiare. Non hanno paura di morire - Questi ragazzi non temono di morire, figurarsi del carcere. Non hanno visione del futuro, neanche nella prospettiva della carriera criminale”. Ma se le pene no, cosa? “Una strategia. Chi arriva qui non ha avuto un’infanzia, a stento legge e scrive, molti non hanno la licenza media, anche per inefficienze della scuola. Un esempio: l’Associazione italiana dislessia ha fatto sui ragazzi di Nisida due screening a distanza di 10 anni l’uno dall’altro e ha rilevato lo stesso dato: più del 70% aveva disturbi dell’apprendimento come dislessia, disgrafia, disortografia mai diagnosticati. È un dato che racconta come verso i loro problemi scolastici non ci sia stata l’attenzione che avrebbe forse potuto evitare loro di sentirsi e diventare emarginati. Si deve partire dalla scuola, dagli asili nido - Se si vuole arginare la devianza minorile è sulla prima infanzia che bisogna investire, sugli asili nido, dandosi 20 anni di tempo”. Avesse una bacchetta magica? “Costruirei asili nido: sono i luoghi in cui la comunità si fa carico dei bambini, dando un’alternativa rispetto al contesto familiare”. Bolzano. Il tema del nuovo carcere approda in Senato Corriere dell’Alto Adige, 13 ottobre 2023 Interrogazione del Gruppo per le Autonomie: “Urgente una nuova struttura”. Il tema del carcere approda in senato. Nel corso del Question Time con il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, infatti, la presidente del Gruppo per le Autonomie, Julia Unterberger, ha presentato un’interrogazione sottoscritta dai senatori Spagnolli, Durnwalder e Patton. “Spero che il ministro Piantedosi - ha detto in aula la senatrice Svp - tenga fede agli impegni presi per aumentare la presenza delle forze dell’ordine, rivedere la legge quadro per equiparare le forze di polizia locale alle altre forze di polizia e per un rapido sblocco dei problemi relativi alla costruzione del nuovo carcere di Bolzano”. La presidente del Gruppo per le Autonomie ha aggiunto: “Il Sudtirolo è diventato teatro di frequenti episodi di violenza, anche da parte di minorenni. Soprattutto Bolzano e Merano sono nella morsa della piccola criminalità, che purtroppo vede spesso coinvolti migranti. Tutto questo è motivo di grande preoccupazione per i cittadini. Lo scorso 5 ottobre - ha aggiunto - si è tenuto un vertice nella sede del Commissariato del Governo a Bolzano. Dall’incontro è emersa la necessità di più agenti per le strade e maggiori controlli, specialmente nei luoghi più a rischio e durante le ore notturne. A tal fine, gli organici delle forze di polizia appaiono non solo sottodimensionati, ma anche mal distribuiti sul territorio provinciale: il Commissariato di Merano, comune di 41 mila abitanti, ha 40 agenti a disposizione, lo stesso numero del Commissariato di San Candido, comune di 3 mila abitanti”. Un dato interessante e significativo, quello evidenziato dalla senatrice Unterberger: “Anche le forze di polizia locale, con un totale di 380 agenti su tutto il territorio provinciale - ha aggiunto Unterberger - sono sotto organico: stando alle linee guida del ministero dell’Interno dovrebbe esserci un agente ogni 1000 abitanti. Peraltro, da diversi anni la polizia locale chiede di essere classificata come forza di polizia “paritaria”; il che richiederebbe una modifica della legge 121 del 1981 per cui solo i carabinieri, la polizia di Stato, la guardia di finanza e il Corpo forestale hanno responsabilità di pubblica sicurezza”. La senatrice si è poi concentrata sulla situazione del carcere di Bolzano: “In un’ottica di sicurezza, è ormai indispensabile la costruzione del nuovo carcere. L’attuale struttura carceraria è inadatta, tanto che non sono mancati detenuti che hanno chiesto allo Stato un risarcimento dei danni, perché non gli è stato garantito lo spazio minimo prescritto. Il Ministero intervenga prontamente per risolvere il problema relativo al sotto organico delle unità di polizia in Alto Adige, anche attraverso una migliore distribuzione sul territorio provinciale. E poi valuti seriamente la possibilità di una modifica normativa per equiparare le forze di polizia locale alle altre forze di polizia. E soprattutto - ha concluso la senatrice Julia Unterberger nel suo intervento - si attivi per costruire al più presto possibile un nuovo carcere a Bolzano”. Bergamo. “Forno al fresco”, il pane fatto in carcere tra recupero e prevenzione di Marina Belotti Corriere della Sera, 13 ottobre 2023 I prodotti della Casa circondariale di Bergamo e l’iniziativa della cooperativa sociale Calimero. Il dolce, il salato e la prossima novità dei panettoni. Una pala oltre le sbarre per sfornare una seconda possibilità di vita con il pane, che ne è da sempre il simbolo. “Forno al Fresco”, il nuovo marchio dei prodotti da forno della Casa circondariale di Bergamo gestito dalla Cooperativa Sociale Calimero, è molto più di un gioco di parole: “È un’azione civile, perché offrendo ai detenuti un’opportunità formativa e lavorativa per l’uscita dal carcere, rendiamo le città più sicure”, spiega Rosalucia Tramontano, responsabile di “Dolci Sogni Liberi”, la nuova Cooperativa Sociale spin off della Cooperativa Calimero che ha preso in gestione con ex detenuti il bar di Nembro a cui ha dato il nome. Il laboratorio della Cooperativa Sociale Calimero, ad oggi, vede assunti sei operatori ed un coordinatore, sette detenuti quindi aiutati da quattro volontari, ma dal 2012, anno in cui è stato avviato il progetto, sono stati coinvolti più di 50 detenuti: “La nostra è una mission, l’obiettivo è quello di far imparare un mestiere per favorire il reinserimento una volta usciti dal carcere - aggiunge il presidente della Cooperativa Mauro Magistrati - chi non lavora in carcere, poi ha un rischio recidiva del 70%, mentre per gli altri si abbassa al 2% perché il mestiere li accompagna dall’interno all’esterno e gli dà subito un’alternativa”. Non sono tirocinanti quindi, i detenuti sono dei veri e propri dipendenti specializzati in quattro linee di prodotti: dolce, salato, grandi lievitati e pane. “I tre punti vendita dove trovare i prodotti sono il Bar Dolci Sogni Liberi di Nembro, il negozio della Cooperativa Sociale Aretè nella sede di Torre Boldone, aderente come la Cooperativa Calimero all’Associazione Carcere e Territorio che appoggia il progetto, e infine le botteghe del Commercio Equo Solidale”, elenca il direttore della Cooperativa Calimero Daniele Rota. Le pagnotte sono fatte con il lievito madre e la semola biologica di grano duro di Libera Terra, grano che viene coltivato sui terreni sequestrati alle mafie, mentre il pane viene distribuito una volta a settimana nelle mense scolastiche dei Comuni di Bergamo e Seriate attraverso la Ser Car. “Fondamentale la rete che abbiamo stretto con le associazioni del territorio - conclude Magistrati - da fine ottobre poi sforneremo i nostri panettoni artigianali e vogliamo superare il record del 2022 di 8.200”. Solo il primo dei tre sogni: avere un forno più grande, con l’appalto pronto in Primavera, e un e-commerce per allargare l’offerta. Torino. Sos carcere: quale il ruolo delle Regioni? di Roberto Gramola vocetempo.it, 13 ottobre 2023 “Carcere ed esecuzione penale: quale il ruolo delle Regioni?”. Se n’è parlato il 2 ottobre presso il Circolo dei Lettori di Torino, in concomitanza con il Festival delle Regioni in un incontro promosso dalla Conferenza nazionale dei Garanti territoriali. Bruno Mellano, garante regionale delle persone detenute, ha evidenziato che le Regioni hanno un ruolo fondamentale nell’esecuzione penale e che i detenuti hanno pieno diritto ad essere trattati dignitosamente, curati e istruiti. Sottolinea che: “Come garanti delle persone detenute, sentiamo la necessità di richiamare l’attenzione dei rappresentanti istituzionali e dell’opinione pubblica ai compiti che il quadro normativo vigente, fin dal 1975, mette in capo alle Regioni nella gestione del carcere contemporaneo incominciando dalla sanità che è oggi il tema più caldo”. Stefano Anastasia, garante dei detenuti del Lazio e coordinatore dei garanti territoriali, ha denunciato il sistema sanitario carcerario a causa delle difficoltà di reperire operatori sanitari da destinare ai detenuti perché nessuno vuole andare a lavorare nei penitenziari luoghi percepiti pericoloso e senza adeguati sostegni da parte delle istituzioni preposte. “La situazione dietro le sbarre” ha proseguito “è difficile a causa del costante sovraffollamento che ha portato nel 2022 a 85 suicidi toccando il record degli ultimi venti anni”. Un passo avanti è stata la Riforma Cartabria ma aggiunge: “Il rischio di questa Riforma - che prevede un campo delle opportunità di sanzioni sostitutive sin dal momento del giudizio ma che si basa sulla problematica abitativa (la prima necessità di una persona detenuta una volta uscita dal carcere) - è che riproduca le disuguaglianze di partenza, per cui gli ex detenuti che se lo possono permettere avranno un percorso di reinserimento nella società e chi non ha opportunità ritornerà in carcere”. Emilia Rossi, dell’Ufficio del Garante nazionale delle persone private della libertà personale, fa notare il progressivo aumento della popolazione penitenziaria che da mesi non accenna a fermarsi raggiungendo i 59 mila detenuti attualmente reclusi nelle carceri della penisola. Un incremento “campanello d’allarme perché è una cifra molto molto vicino a quella che ha determinato la sentenza di condanna della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo del 2013 al sistema carcerario italiano”. Emilia Rossi sprona Regioni, enti territoriali e società civile ad offrire opportunità di vita, di reinserimento lavorativo, di istruzione e formazione a chi esce dal carcere. “Sono due gli aspetti su cui le Regioni devono tassativamente intervenire: l’assistenza sanitaria dietro le sbarre e la costruzione della rete sociale all’interno e all’esterno degli istituti penitenziari”. Laura Scomparin, vice rettore dell’Università degli Studi di Torino, ritiene siano due i temi da affrontare per un buon livello di funzionalità del sistema carcere. Il primo, il livello di preparazione nella capacità manageriale di programmare le risorse da utilizzare che provengono dal Pnnr, dalle Regioni e da altre istituzioni; il secondo, la capacità di monitorare le risorse spese per verificare il raggiungimento degli obiettivi. Tra gli altri intervenuti, il provveditore dell’Amministrazione penitenziaria di Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta, Rita Monica Russo, Domenico Rossi, consigliere regionale in Piemonte, Gianna Pentenero, assessore comunale al Lavoro e attività produttive con delega al sistema penitenziario, Monica Cristina Gallo, garante dei detenuti del Comune di Torino. Milano. Detenuti e pazienti raccontano. Quante “Emozioni all’Opera” di Massimiliano Saggese Il Giorno, 13 ottobre 2023 Raccontare sofferenze e conquiste confrontando esperienze diverse eppure vicine. È giunto alla terza edizione “Emozioni all’Opera: detenuti e pazienti psichiatrici si raccontano”, che si è svolto nella sala teatro della Casa di reclusione di Opera. Un progetto unico in Italia che coinvolge detenuti e persone con patologie e disabilità psichiatriche in un percorso di confronto e condivisione reciproca, quest’anno porta sul palco il racconto dei protagonisti. Nato nel 2019 dalla collaborazione tra Fondazione Sacra Famiglia e l’associazione In Opera, con l’edizione Legami in Opera il progetto, inedito in Italia, vede da circa un anno l’ingresso e il coinvolgimento bisettimanale in attività e laboratori ricreativi dedicati al confronto e condivisione di cinque ospiti uomini del centro diurno psichiatrico Il Camaleonte di Cesano Boscone - persone con patologie o disabilità psichiatriche - e di venti detenuti uomini del penitenziario. Gli incontri all’interno del carcere - coordinati da Barbara Migliavacca, responsabile del centro Il Camaleonte, Giovanna Musco, referente dell’associazione In Opera e le educatrici di Fondazione Sacra Famiglia Laura Leone e Antonella Cavallaro - hanno avuto come focus la riflessione e il confronto dei partecipanti sul proprio percorso umano, il concetto di libertà e la percezione dello “stigma sociale” che purtroppo nella nostra società spesso colpisce tanto le persone detenute quanto le persone con patologie psichiatriche. Durante l’evento i detenuti, insieme agli ospiti del Centro diurno psichiatrico Il Camaleonte della Fondazione Sacra Famiglia, ai familiari e agli operatori, sono saliti sul palco per portare in scena le loro testimonianze con performance, letture e video. È seguita poi la tavola rotonda con don Gino Rigoldi, cappellano del Beccaria, lo psichiatra di Fondazione Sacra Famiglia Emilio Castiglioni, la psicologa e psicoterapeuta della Fondazione Melissa Cozzi e la dottoressa Emanuela Butteri, psichiatra dell’ospedale Sacco. La partecipazione è il cuore pulsante della democrazia di Franco Corleone L’Espresso, 13 ottobre 2023 L’ostruzionismo verso referendum e leggi popolari indica una deriva autoritaria. Scendiamo in piazza. Il ritardo nell’attivare la piattaforma digitale per firmare proposte di referendum e di leggi d’iniziativa popolare è uno scandalo che continua. Due anni di sospensione dell’esercizio di un diritto fondamentale sono intollerabili. Nel marzo scorso, il governo promise la soluzione entro pochi mesi, per agosto al più tardi. A maggio il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, rispondendo a un’interrogazione di Riccardo Magi, leader di +Europa, annunciò un “tavolo di lavoro” con una scadenza di dodici mesi. Una vera provocazione da parte di un sedicente garantista. Undici ong, tra cui l’Associazione Luca Coscioni e il movimento paneuropeo d’iniziativa popolare Eumans, reagirono immediatamente presentando una diffida al governo e preannunciando iniziative giudiziarie per il rispetto della legge (dl 31 maggio 2021, n. 77). I tempi annunciati da Nordio sono sconcertanti e inaccettabili: non vi è alcuna ragione tecnica per il ritardo, dal momento che sono in funzione piattaforme private riconosciute e basterebbe copiare il sistema. Il dubbio, se non la certezza, è che il governo abbia voluto boicottare la possibilità di presentare referendum e leggi popolari entro il 30 settembre scorso, data che avrebbe permesso di votare in corrispondenza delle elezioni europee, rendendo così i cittadini pienamente protagonisti del voto della prossima primavera. Come sostiene Marco Cappato, impegnato contro la disinformazione di regime nelle supplettive per il seggio al Senato di Monza, la partecipazione vera, che si costruisce con gli strumenti della Costituzione, è osteggiata. La questione è talmente eclatante nella sua gravità istituzionale e politica che ne è stato investito il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano. Il quale ha interpellato il capo del dipartimento Trasformazione digitale, Angelo Borrelli, e ha segnalato il termine orientativo di novembre per la messa in funzione della piattaforma. ochi giorni fa il capo dipartimento ha indicato la fine dell’anno. Insomma, questa paradossale storia non è ancora conclusa. Che fare? Non possiamo rimanere inerti, dobbiamo essere certi che il 2024 possa vedere protagoniste le associazioni impegnate sul terreno dei diritti civili e sociali. Questa vicenda è indicativa della crisi democratica. Il Parlamento è ridotto a camera di registrazione delle prevaricazioni dell’esecutivo col ricorso continuo e indiscriminato a decreti legge esaminati da una sola Camera (con la semplice ratifica dall’altra) e votati con la fiducia. Lo stato di diritto è nei fatti cancellato. C’è un modo per opporsi alla deriva autoritaria: dare la parola ai cittadini e alle cittadine su temi importanti e discriminanti di progresso civile. I.a Società della Ragione ha pronte due proposte di legge per ricondurre la Corte costituzionale nei limiti dell’articolo 75 per il giudizio di ammissibilità dei referendum: impedendo sentenze “creative” e politiciste, come quella del febbraio 2022 che respinse i quesiti sulla cannabis e sull’eutanasia. Da questa settimana inizieranno i “venerdì della democrazia”: nel giorno di uscita de L’Espresso, cittadini e cittadine militanti presidieranno Palazzo Chigi per chiedere il rispetto della legge. La partita è decisiva, ognuno faccia quel che deve e accada quel che può. Inasprire le pene (anche a scuola): ecco l’ultima trovata della Lega di Claudio Cerasa Il Foglio, 13 ottobre 2023 Il testo presentato dal deputato Rossano Sasso punta a tutelare presidi, bidelli e insegnanti, dopo un anno scolastico che per quanto riguarda le aggressioni a scuola il ministro Valditara ha definito “un bollettino di guerra”. È l’ennesimo esempio di panpenalismo della maggioranza. Per le troppe aggressioni dietro i banchi scolastici, la Lega ha scelto di correre ai ripari. Come? Cercando di introdurre pene più severe per chi fa violenza contro professori, presidi e bidelli. In pratica, dando sfoggio dell’ultima trovata panpenalista di questa maggioranza, che per ogni nuovo reato da punire, sull’onda dell’emotività ha avuto un’unica soluzione: inasprire le pene. Come ha fatto con il decreto anti rave, nel contrasto al traffico di migranti in seguito alla strage di Cutro, con l’omicidio nautico, con l’introduzione del reato universale di gestazione per altri, solo per fare alcuni esempi. Ma anche in casi più singolari, come il “reato di uccisione dell’orso marsicano”, punito con due anni di reclusione. O l’introduzione del reato di “stesa”, proposta dopo i fatti di Caivano. Ma torniamo a ieri. La Camera ha approvato la proposta di legge con primo firmatario il deputato leghista Rossano Sasso che inasprisce la pena per aggressioni agli insegnanti da parte dei genitori e degli alunni: si parla di sette anni di carcere. Il testo, che ora passa al Senato, arriva dopo un anno scolastico che ha visto numerosi casi di violenza all’interno delle aule e punta a tutelare maggiormente tutto il personale scolastico, spesso vittima di intimidazioni e aggressioni, sia fisiche che verbali, da parte degli studenti e da parte dei genitori o altri parenti. Cinque aggressioni al mese - I dati di riferimento sul numero di aggressioni avvenute nell’ultimo anno scolastico sono stati presentati dal ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara. In un’intervista al Corriere della Sera ha affermato come “da settembre 2022 a maggio 2023 gli episodi di violenza sono stati 5 al mese, in quasi la metà dei casi erano coinvolti i genitori”. Per Valditara, i numeri delle aggressioni ormai rappresentano “un bollettino di guerra” e anche con l’apertura del nuovo anno non sono diminuite. È di pochi giorni fa la notizia di un insegnante aggredito - e poi finito al pronto soccorso - in un istituto comprensivo a Cosenza da entrambi i genitori di un alunno. Mentre il 2 ottobre a Bari due ragazzi hanno sparato dei pallini al petto di un professore con una pistola finta. Sicuramente l’episodio più grave dello scorso anno scolastico è stato quello accaduto ad Abbiategrasso, in provincia di Milano, e che ha visto un alunno aggredire con un grosso fendente la sua insegnate per un brutto voto. Una scia di episodi di violenza che hanno portato non solo la politica a interrogarsi su provvedimenti da prendere. Sul Foglio abbiamo sostenuto la necessità di proteggere i docenti dalle ingerenze dei genitori. Una prima risposta è arrivata con una modifica all’iter per la valutazione per la condotta e le sospensioni. La Lega però ha deciso di presentare una proposta di legge che mira a punire più duramente gli aggressori anche con risvolti penali pesanti. Ma è tutto da vedere se e quanto sarà utile a prevenire eventuali aggressioni. La proposta di legge - “Si tratta di aggravare le pene per il reato di violenza, minaccia e oltraggio al personale scolastico - ha spiegato Sasso parlando della norma - Si va a punire fatti che accadono all’interno della scuola, in quanto luogo di formazione e di educazione e per la presenza di minori”. L’obiettivo è dunque tutelare di più il personale scolastico - da presidi a bidelli - modificando gli articoli 61, 336 e 341-bis del codice penale, intervenendo a livello repressivo e preventivo. A questo scopo, l’intenzione è quella di modificare l’articolo 61 del codice penale, introducendo l’aggravante per chi aggredisce un docente e si modificano gli articoli 336 e 341 bis del codice penale. Nel concreto vale a dire che la pena - ora prevista per un massimo di 5 anni - viene portata a 7 e mezzo nel caso in cui la persona aggredita sia una figura del personale scolastico e l’aggressore sia un genitore o un alunno dai 14 anni in su. Oltre all’inasprimento delle pene, la proposta di legge vorrebbe istituire la giornata nazionale contro la violenza sul personale scolastico e un Osservatorio che avrà il compito di monitorare l’andamento di aggressioni nei confronti di professori, bidelli e presidi, creare corsi formativi per il personale e sensibilizzazione per gli studenti. Si punta dunque a educare, oltre che punire. Ma sono molti i punti interrogativi che si lascia dietro l’indirizzo leghista. E cioè quello di assecondare l’indirizzo punitivo espresso da questa maggioranza sin dall’inizio della legislatura. “È incredibile che in ogni progetto di legge che portano in Aula ci sia un’aggravante, un inasprimento di una norma penale. Non è così che si risolvono i problemi”, ha commentato il deputato di Azione Enrico Costa. Come si parla con gli uomini che fanno violenza contro le donne? di Gianluca Monastra La Repubblica, 13 ottobre 2023 Siamo stati nel primo “Centro per uomini maltrattanti”, quello di Firenze. Vi si arriva su richiesta di un giudice o su invito di avvocati e medici. Dai colloqui individuali alle terapie di gruppo, ecco come funziona. molte volte, ma non sempre. “È stato solo uno schiaffo”. “Se l’è cercata lei”. “Ci sono momenti in cui dentro di me si risveglia una bestia”. “Non la conoscete, chiunque al mio posto avrebbe reagito così…”. Firenze, mattina di fine estate, periferia nord-ovest della città. Condomini anni Sessanta, poche botteghe di quartiere, i vetri oscurati di una banca a tratteggiare un paesaggio urbano da graffitari. Accostata a un caseggiato, una palazzina dell’Asl con scampoli di verde sul davanti. Era una scuola, è diventato un Centro di salute mentale. Non ci sono insegne alla porta, meglio l’anonimato in certi casi. Dal 2009 ospita il Cam, Centro ascolto uomini maltrattanti, il primo in Italia, apripista di tante esperienze gemelle fino a tessere una rete europea. Nel silenzio delle stanze vuote è come se rimbombassero le frasi di chi qui viene per scelta o costrizione. Uomini che non odiano le donne - dicono - ma le picchiano, le umiliano. Nel tinello, per strada. Nella solitudine della camera da letto o sotto gli occhi dei figli. Ogni anno aumentano - Dove c’è chi soffre, c’è chi la sofferenza l’ha provocata. Alessandra Pauncz, psicologa con una laurea in filosofia, da sempre è interessata alle questioni di genere. Nei primi anni Novanta si è avvicinata ad Artemisia, storica associazione fiorentina che aiuta le donne vittime di violenza. A un certo punto - insieme a un altro psicologo, uno psichiatra e un criminologo - ha sentito il bisogno di spostare lo sguardo: parlare con lui. Non si è più fermata. “Da allora” spiega “non è cambiato il fenomeno, semmai la sua percezione. La violenza contro le donne non si è arrestata. Per fortuna è aumentata la risposta sociale, anche se molte cose devono ancora cambiare. I dati Istat raccontano di un sommerso quantificabile nel 90 per cento del totale. Per capirci: i casi che finiscono in tribunale, sui giornali, sono la punta della punta dell’iceberg”. Se a al Cam di Firenze, nel 2018, gli ingressi di uomini accusati di aver maltrattato la donna con cui avevano un rapporto erano 56, nel 2022 sono stati 169. E quest’anno, sino a giugno, le chiamate al Cam (che ha aggiunto uno sportello in carcere) sono già 126. Italiani e stranieri, di ogni classe sociale, età media sui 44 anni, anche se aumentano i giovani tra i 18 e i 25 anni e compaiono i minorenni accusati di diffondere in rete foto e video di ex fidanzate, compagne di classe, amiche. Al Cam si arriva dopo la sospensione della pena o un patteggiamento, a fine procedimento, su invito di avvocati e medici, per la sentenza di un tribunale o la richiesta di un magistrato di sorveglianza all’avvicinarsi del rilascio. Talvolta è lei a pretenderlo (“o ci provi o me ne vado di casa”), altre volte lui stesso lo chiede: “Sto male, sento il bisogno di lasciarmi aiutare”. Funziona così: si parte con colloqui individuali (dai tre ai cinque) durante i quali gli operatori ascoltano la storia personale, leggono i documenti giudiziari e abbozzano un piano di lavoro. Se non vengono riscontrati seri problemi di salute mentale, alcol o droga, parte l’inserimento in gruppi di otto-dodici persone per incontri settimanali di un’ora e mezza ciascuno che possono andare avanti sei, otto mesi. Racconta Alessandra Pauncz: “Spesso la vergogna impedisce di comprendere la portata della violenza. In alcuni maschi esiste un corto circuito tra codice della tradizione - la donna non si picchia neanche con un fiore, sentono dire sin da bambini - e il proprio comportamento che soltanto visto addosso a un altro riconoscono come atto da vigliacchi. Così l’esperienza di gruppo diventa fondamentale. Un contesto collettivo, sicuro ma “scomodo”, nel senso che durante gli incontri non vanno lasciati liberi, ma riportati sempre sul tema”. Empatia, consapevolezza delle barriere che talvolta impediscono di chiedere aiuto, ma sempre tenendo la guardia alta. Queste le regole degli operatori seduti sui divani viola del Centro davanti a chi cerca di aprirsi, controllarsi oppure manipolare. Uomini che possono ammettere colpe, ma anche innescare meccanismi di minimizzazione, negazione e colpevolizzazione della vittima. Sono confronti lunghi, meticolosi e incalzanti allo stesso tempo, al chiuso di stanze ricoperte da scaffali pieni di videocassette di vecchi film, con al soffitto un paio di mappamondi appesi a fili sottili come a ricordare la precarietà di ogni esistenza. Succede da anni. Tentativi instancabili, senza sosta. Persino durante la pandemia, grazie a una rete da remoto che garantì il servizio. Se il percorso funziona, gli operatori lo accompagnano fino alla fine. Se appare incompleto insistono, e solo quando diventa inevitabile si arrendono. Qualche anno fa, al Cam avevano deciso di aprire le sedute ai giornalisti per documentare le attività all’esterno e magari incentivarne la partecipazione. “Ma leggendo le proprie testimonianze riportate anche correttamente sul giornale, qualcuno si è vergognato al punto da protestare. Anche alcune delle loro compagne non hanno gradito il sentirsi chiamate in causa senza il diritto alla propria versione. Così abbiamo lasciato perdere”. Come testimonianza restano le tracce tangibili registrate negli appunti degli psicologi o nelle pubblicazioni ufficiali, a cominciare dai libri della stessa Alessandra Pauncz. Il sessantenne che confessa di replicare sulla moglie le violenze a cui ha assistito da bambino, quando il padre maltrattava sua madre: “Certe volte la sopporto, altre no, magari perché sono triste, stanco, ansioso. Succede allora che perdo il controllo e divento violento”. Chi invece ricorda “un’infanzia felice” e dopo “una escalation nella quale ancora oggi stento a riconoscermi” ammette: “Ho cominciato a reagire in modo violento”. Spiega Pauncz: “Dobbiamo essere in grado di spostare l’attenzione. Scavare oltre il dramma dei femminicidi, gli stupri. Perché è necessario intercettare in tempo i comportamenti a rischio per non precipitare nei delitti”. Un principio da rammentare: se le parole sono importanti, certe avvisaglie lo sono ancora di più. “Bisogna” dice “riconoscere i maltrattamenti sottili, la gelosia, denormalizzare alcuni sentimenti. Prendete le frasi: “Questo vestito non ti sta bene”. “Esci ancora con quell’amica? Quel giro mica mi piace”. E poi il controllo sui movimenti, sui soldi, un fenomeno molto diffuso. E sottovalutato. In pochi sanno che sempre più uomini, tramite app o cellulari da loro stessi regalati, di nascosto hanno un accesso totale sui dati della compagna. Messaggi, chiamate, foto, post sui social. Ogni cosa”. Servono passi avanti, un lavoro sociale, culturale. “Devono essere gli uomini a cambiare” continua la psicologa “in tutti i sensi. È necessario mettere in discussione certi modelli. In Italia, ad esempio, siamo particolarmente indietro. Il peso degli impegni famigliari, la cura dei pasti, i figli, la gestione degli anziani, il bucato da stendere, ricade per la maggior parte sulle spalle delle donne. Una divisione ineguale che non produce niente di buono”. Sopra la scrivania della psicologa sono già pronti i questionari per le sedute dei nuovi arrivati. Su un armadietto è appeso un post it con un cuore rosso disegnato sotto la scritta “buon San Valentino”. “La sera di un 14 febbraio se lo regalarono delle operatrici del Cam, mentre erano qui da sole, a lavoro fino a tardi”. A modo suo, un segnale di speranza. Migranti. A Torino chiude il Centro stranieri di Via Traves di Marina Lomunno vocetempo.it, 13 ottobre 2023 L’hub allestito all’ex Mattatoio per l’accoglienza straordinaria dei migranti in attesa di ricollocazione. Il nuovo Prefetto di Torino Donato Giovanni Carfagna ha annunciato nei giorni scorsi, durante la conferenza stampa di insediamento, che entro il 16 ottobre il centro di accoglienza di via Traves - attualmente utilizzato per i migranti sbarcati a Lampedusa - verrà svuotato e restituito al Comune di Torino per ospitare i senza fissa dimora in vista della stagione invernale. Secondo i dati forniti dalla Prefettura, in provincia di Torino 4.900 immigrati sono attualmente alloggiati in 328 Cas (Centri di accoglienza straordinaria) e altre 150 persone si trovano nei Sai (Sistema di accoglienza e integrazione); mentre andiamo in stampa, in via Traves rimangono circa 100 immigrati che dovrebbero essere trasferiti in altre strutture attraverso la rete Cas. La chiusura del centro di accoglienza presso l’ex Mattatoio delle Vallette, luogo “improvvisato” per dare appunto un tetto ai migranti sbarcati a Lampedusa, risulta prorogata di due settimane (la serrata era fissata il 30 settembre), ma la necessità di trovare una sistemazione a chi giunge in Italia dai barconi rimane impellente. La situazione di via Traves, secondo Sergio Durando, referente per la Pastorale dei Migranti della Diocesi - che in questi giorni a Torino promuove “Il Festival dell’Accoglienza” - evidenzia una criticità nel sistema di accoglienza nazionale che ha ripercussioni nei territori e sulle comunità locali. “Purtroppo non si è riusciti in 30 anni a mettere in piedi un sistema di accoglienza e ci troviamo continuamente con periodi di emergenza, quando invece questo dovrebbe essere un fatto strutturato senza ricadute così drammatiche. D’altronde l’edificio di via Traves, già di per sé poco adatto ad un’accoglienza dignitosa, quando viene investito di un sovraccarico di quasi quattro volte la sua capienza (si è arrivati a 600 persone, a fronte di una capacità di 140 posti, ndr.), diventa disumana”. Secondo Durando il problema di avere un tetto, una casa decorosa, uno spazio dove poter vivere è sempre più drammatico a fronte di città con grandi spazi vuoti, abbandonati, sfitti. Urgenza che va affrontata. “A farne le spese sono coloro che approdano nelle coste del sud Italia, arrivano a piedi dalla rotta balcanica e non vengono inseriti nei sistemi di accoglienza, chi esce dai progetti o riceve uno sfratto. E poi le persone che vengono ‘sgombratè, chi vive per strada o si sposta da una città all’altra”. Ma anche - conclude Durando - gli universitari che oggi protestano per il caro-affitti “e non riescono a sostenerne le spese o chi, pur avendo un lavoro a tempo determinato e uno stipendio per pagare un affitto, viene costantemente ‘espulso’ dal mercato immobiliare perché straniero”. Anche la garante dei Detenuti del Comune di Torino Monica Cristina Gallo - che, tra i compiti istituzionali, ha quello di verificare il rispetto dei diritti nelle strutture di detenzione e anche nei luoghi in cui viene privata o comunque limitata la libertà delle persone - ritiene che l’ex Mattatoio fosse una toppa in un sistema che fa acqua. “Nonostante il lodevole impegno degli operatori della Croce Rossa Italiana, la buona volontà e la disponibilità di tutti, ospitati e ospitanti, l’hub di via Traves adattato a centro straordinario di accoglienza per i migranti si è rivelato, come peraltro evidenziato da alcuni consiglieri comunali che lo hanno visitato, strutturalmente inadeguato per dare dignitosa ospitalità a un numero così alto di persone. Anche per questo ritengo saggia la decisione annunciata dal Prefetto di chiudere via Traves come hub straordinario per i migranti. Il nostro sistema di prima accoglienza ha bisogno di strutture, servizi e procedure ben diverse”. Elena Ferro, della segreteria Cgil con delega alle Politiche per il Lavoro e per i Diritti di cittadinanza dei migranti, il 29 settembre ha visitato l’ex Cpr di corso Brunelleschi (chiuso il 5 marzo scorso, cfr. La Voce e il Tempo, domenica 1 ottobre) e poi l’hub di via Traves: “L’impressione è di due strutture del tutto avulse dal contesto sociale ed economico della città. In particolare via Traves è completamente inadeguata per accogliere migranti che provengono da rotte a rischio di vita fra cui numerosi minorenni. Durante la visita ho incontrato 40 minori in promiscuità con adulti e privi di qualunque assistenza specifica da luglio, perché le strutture assistenziali del Comune di Torino per i minori sono ormai da tempo stracolme”. Elena Ferro rimarca che l’emergenza migranti e il decreto del Governo che affida alle Prefetture la gestione, prorogata di 56 mesi, non tiene conto che “le migrazioni non si fermano e non ci sono elementi di cambiamento del quadro internazionale, tantomeno ipotetici accordi che possano prevedere una riduzione della presenza di persone migranti nel Paese e quindi a Torino. Quando chiuderà via Traves, dove saranno accolti i migranti? In che modo? Dobbiamo supporre che magicamente spariscano o, piuttosto, che carsicamente si collochino sul territorio incrementando il disagio e il senso di insicurezza per poi governarlo?” Resta poi ancora irrisolta la questione dell’Ufficio migranti della Questura di corso Verona con continue code e tempi di attesa lunghissimi, segnali di un sistema non adeguato a svolgere i compiti che le leggi assegnano, conclude Ferro. “E intanto le persone sono trattate come merci da accatastare e poi smistare. Come sindacati pensiamo che si debba diffondere più consapevolezza e che, insieme alle associazioni che si occupano di questi temi, si possa lanciare una discussione che metta al centro un modello di accoglienza alternativo e democratico che guardi al lavoro, alla lotta all’illegalità e alla piena applicazione dei diritti. Solo così le tensioni sociali possono stemperarsi e costruire una città più inclusiva”. Medio Oriente. I danni collaterali della guerra: chi fermerà antisemitismo e antislamismo? di Piero Sansonetti L’Unità, 13 ottobre 2023 È la negazione dell’oppressione, e dell’oppressione reciproca. Nasce così il razzismo. E il razzismo porta al sonno o alla morte della civiltà. È molto difficile oggi trovare nell’opinione pubblica, e sui giornali, punti di vista - a proposito della tragedia del Medio Oriente - che non risentano di un pregiudizio razzista. È esploso, e sembra inarrestabile, l’antisemitismo - che è la madre di tutti i razzismi - largamente accompagnato dalla xenofobia e dal razzismo antislamico. Speculari e contrapposti. Difficile che nei prossimi anni questa ondata malefica possa fermarsi, perché l’idea della superiorità o dell’inferiorità di alcuni popoli è stata sdoganata, ha travolto l’opinione pubblica placida e borghese e ha invaso i grandi giornali. Io non credo che si possa misurare la gravità del razzismo semplicemente rendendola inversamente proporzionale alla gravità dei crimini compiuti da una o l’altra delle parti coinvolte nel conflitto. Anzi, penso che proprio la gara alla valutazione della barbarie sia il carburante del razzismo. Il meccanismo che è scattato è questo. Se io mi indigno per la ferocia dei miliziani di Hamas su civili inclusi i bambini, tu mi rispondi che l’esercito israeliano ha fatto esattamente la stessa cosa. Viceversa se io sostengo che l’occupazione della Palestina da parte delle forze armate israeliane è un sopruso, tu mi rispondi che un sopruso maggiore è la calata dei deltaplani armati sul rave dei ragazzi israeliani. Sarà anche tutto vero. Anche i paragoni sono veri. Per esempio Beppe Severgnini ieri si è scagliato contro la Bbc che definisce militanti di Hamas quelli che Severgnini ritiene vadano chiamati solo terroristi perché - spiega - chi uccide i civili è terrorista e basta. Già. Ma chiunque potrebbe invitarlo a chiamare terroristi anche i comandi militari di Israele che in questi anni hanno ucciso migliaia di civili e molti bambini palestinesi a Gaza. Non è il paragone che mi atterrisce, anche perché il paragone può servire a far capire cosa sia una guerra e quanta infamia sparga nel mondo. È la gara dei paragoni. È l’estremismo di pensiero e verbale che sento nei paragoni. È l’uso di parole come “animali”, usate per definire i nemici. È l’estensione ai popoli della responsabilità per la violenza e la ferocia dei propri governanti. È la ricerca faziosa e spasmodica della ragione da una parte sola. È la negazione dell’oppressione, e dell’oppressione reciproca. È il richiamo a Dio, o ad Allah, che sono la stessa persona. Nasce così il razzismo. E il razzismo porta al sonno o alla morte della civiltà. Medio Oriente. L’indignazione e la pietà, insieme di Aldo Cazzullo Corriere della Sera, 13 ottobre 2023 Ci sono gli ostaggi israeliani e occidentali. E ci sono i civili di Gaza. Evitiamo che pure loro diventino ostaggi di Hamas. La pietà per i civili di Gaza non diminuisce di un’oncia l’indignazione per il massacro di ebrei innocenti. Non sono due sentimenti in contrasto. Sono complementari, e si tengono insieme. È impressionante la rapidità con cui sembra che nella discussione pubblica ci si sia scordati dei 1.200 civili israeliani assassinati. Uccisi in quanto ebrei o amici degli ebrei. “Prendi quell’ebreo!” si sente urlare nei video. E qui per noi si apre un bivio: o la si pensa come Hitler e Mussolini; o la si pensa come san Giovanni XXIII, che elimina dalla liturgia cattolica ogni residuo di antigiudaismo, e come san Giovanni Paolo II, che visita la sinagoga di Roma e definisce gli ebrei “i nostri fratelli maggiori”. L’attacco di Hamas segna un punto di non ritorno nel conflitto israelo-palestinese. Come ha ricordato ieri sul Corriere Lorenzo Cremonesi, nel 1987 i palestinesi tiravano pietre e i soldati dell’Idf tentavano di fronteggiarli con lacrimogeni e proiettili di gomma. Poi si passò ai kamikaze e ai proiettili veri. Ora siamo agli sgozzamenti e ai bombardamenti. Occorre dirlo con chiarezza: Hamas non può essere un interlocutore. Lo si può solo sconfiggere militarmente, eliminarlo dalla scena o comunque infliggergli il colpo più duro possibile. Tuttavia ci sono ostaggi di cui non è possibile disinteressarsi, considerarli come se fossero perduti, vittime pure loro del 7 ottobre. Ci sono gli ostaggi israeliani e occidentali. E ci sono i civili di Gaza. Occorre fare di tutto per evitare che pure loro diventino ostaggi di Hamas. Il quadro militare è già abbastanza drammatico. Hamas controlla il sottosuolo della Striscia. Piazza i suoi comandi e i suoi uomini anche all’interno di edifici civili, che vengono colpiti. Si fa scudo dei corpi dei due milioni e trecentomila abitanti di Gaza. È necessario togliere loro questa arma. E salvare più vite possibili. Per questo il valico di Rafah con l’Egitto deve essere aperto. E devono essere aperti altri corridoi umanitari, anche via mare. L’Egitto non può chiamarsi fuori e rifiutare di accogliere i profughi; ma non può neppure affrontare la crisi umanitaria da solo. Serve una mobilitazione internazionale per consentire a chi intende lasciare Gaza di farlo. E l’Europa deve essere in prima fila. È sempre molto difficile misurare il grado di consenso a una dittatura. A maggior ragione quando la dittatura è imposta con il terrore. A Gaza Hamas ha avuto certo anche una base di consenso, alimentata sia dal welfare - sanità e sussidi, pagati da potenze islamiche e indirettamente pure dall’Occidente - sia dall’odio per Israele e gli Stati Uniti. Del resto, quando dopo le primavere arabe si poté votare liberamente, quasi ovunque hanno prevalso gli integralisti islamici: anche a Gaza. Dopo, però, Hamas ha preso tutto il potere con la forza e l’ha mantenuto con la violenza. Quali alternative hanno ora gli abitanti di Gaza, oltre alla fuga? Oggi sarà un giorno molto importante. È venerdì, ci saranno manifestazioni in molti Paesi musulmani. In Cisgiordania Hamas soffia sul fuoco, la leadership di Abu Mazen è debole, la politica degli insediamenti condotta da Netanyahu non ha certo aiutato a stemperare la tensione. Il quadro internazionale è già abbastanza complesso. Basta confrontare sull’atlante i Paesi che hanno condannato Hamas e quelli che rifiutano di farlo, quando non lo sostengono apertamente. Hamas è appoggiato dall’Iran, che è appoggiato dalla Russia e ha ottimi rapporti con la Cina: serve aggiungere altro? Questo non significa rinunciare al diritto di critica. La critica è la forza delle democrazie. Anche quando sono divise, anzi polarizzate come oggi gli Stati Uniti, le democrazie sono più forti non perché hanno armi più potenti, ma perché hanno cittadini più consapevoli. Un massacro indiscriminato a Gaza non sarebbe soltanto un lutto per l’umanità, un’arma nelle mani dei nemici dell’Occidente, un’ulteriore spinta al vortice dell’odio. Sarebbe una sconfitta anche per noi. Eliminare Hamas senza spargere altro sangue di innocenti è molto difficile, forse impossibile. Ma deve essere la bussola che guiderà le prossime, delicatissime e decisive giornate. Medio Oriente. Quei due popoli sotto assedio di Domenico Quirico La Stampa, 13 ottobre 2023 Assedio. La definizione sembra facile: una città, un castello, un luogo munito di mura, torri, bunker che viene circondato da ogni lato dal nemico che vuole prenderlo d’assalto o costringerlo alla resa per fame e disperazione. Gaza è di fatto una città assediata, come Leningrado dai tedeschi o Parigi ai tempi della Comune, una città immensa lunga quarantadue chilometri e larga otto. Prima, fino a ieri, era solo una immensa prigione, l’assedio l’ha fatta diventare una fortezza, un bunker con due milioni di persone. L’assedio, come ogni impresa umana, avviene secondo regole precise. Una operazione concertata, pianificata e realizzata con burocratica minuzia. L’assedio è stabile, non più una questione di attacchi sporadici, è una realtà al tempo stesso più terribile e più semplice di quanto si potesse immaginare. Dopo poche ore è già la vita negli scantinati senza più luce, in mezzo a giacigli improvvisati, con scorte accuratamente razionate ma che si riducono a vista d’occhio. Le rovine si riempiono di ombre vacillanti, qualche palazzo è ancora in piedi, si corre allora negli appartamenti e si scende con pacchi che si nascondono in posti forse sicuri. Giovani rischiano ad uscire in strada, tra un bombardamento e l’altro, per avere e portare notizie: di stragi, vittorie, miracolose sopravvivenze. L’acqua non esce più dai rubinetti, c’è il pellegrinaggio furtivo con secchi e brocche per avvicinarsi ai pozzi. I palestinesi di fatto sono assediati, prigionieri da decenni, ma la realtà di un assedio così, totale, implacabile, forse definitivo, è completamente diversa da come si era immaginata. Così quando giunge non è solo iniziato, non è più una ipotesi, un forse e un chissà, ma una realtà come la vita e la morte. C’è una sola unità di misura del tempo, una unica dimensione: l’assedio. Ma che succede i due attori della tragedia della guerra si scambiano i ruoli o meglio: li ricoprono entrambi? Che assedio è quello in cui il Muro è stato costruito non da quelli che si difendono, i palestinesi, ma da quelli che assalgono, gli israeliani? Che ora proprio quel muro devono espugnare, con grandi rischi, per procedere, come annunciano, alla rioccupazione fisica della striscia e all’annientamento di Hamas? E poi chi è l’assediante e chi è l’assediato? i palestinesi certo, che non hanno vie di fuga. Una delle antiche regole della poliocertica’, l’arte di assediare le città, sapere complicato che dava, da solo, diritto alla fama come accadde a Demetrio Antigonide, uno dei mediocri eredi del divino Alessandro, intimava di non concedere mai alla popolazione assediata, quella degli inermi, di lasciare la città. Offrire oggi si direbbe l’invocato “corridoio umanitario”. Perché sono bocche da sfamare, grida, pianti, disperazione che intaccano la volontà di battersi anche dei fanatici più puri del resistere fino alla morte. Una arma in più nel cuore stesso delle mura. Ma lo Stato ebraico non è esso stesso una città assediata fin dalla sua nascita, circondata come era da regimi arabi che ne invocavano la distruzione? Con guerre vittoriose poteva finora illudersi di aver allentato quell’assedio. Ma oggi, dopo il sabato sanguinoso di Hamas, si volge intorno e vede i quattro fronti da cui nemici altrettanto implacabili lo minacciano di un assalto generale per purificare il peccato originale della sua esistenza. A Nord dal Libano l’esercito sciita di Hezbollah di cui ha sperimentato l’efficiente furore, e la Siria di Bashar ma soprattutto dei guardiani della Rivoluzione, la Wagner degli ayatollah; a est la Cisgiordania dove ribolle, forse ancor più insidiosa, la enorme quinta colonna degli altri palestinesi pronti a muovere, sull’esempio delle sanguinarie vittorie di Hamas, verso intifade più radicali; e a sud il fortilizio-emirato di Hamas. Il loro raid oltre il Muro non è forse una di quelle sortite che i tecnici della guerra consigliano per indebolire l’assediante e rendergli il compito ancor più costoso? L’assedio è una realtà e segue una serie di regole interne ed esterne. L’assedio c’è, ben riconoscibile nelle rovine, nei rifugi di fortuna. Ormai riconoscere questo dato di fatto, questa realtà, dà consistenza e senso alla vita. Quello che è iniziato finirà una volta che si sarà compiuto il suo tempo e allora tutto sarà diverso: il compito è semplicemente sopravvivere fino a quel momento. Non è un caso che la storia delle guerre inizi con un assedio, il più celebre, il più indimenticabile, quello di Ilio. La guerra vi acquista la sua monumentalità fisica ben più che in una battaglia e il significato sacrificale, il complesso di Abramo, si fa completo: perché chi comanda non invia a un ordinato combattimento ma a morte certa. Hitler la personificò perfettamente quando spedì il telegramma con cui ordinava ai trecentomila prediletti assediati a Stalingrado, il fior fior dell’esercito tedesco, di morire sul posto. Stalingrado: dove gli assedianti erano diventati assediati... dentro e fuori le mura i combattenti si consacrano ancor più alla prova di una obbedienza passiva e attendono che si ordinino loro sacrifici inauditi. L’assedio modella gli spiriti. E per questo ben suggeriva Machiavelli: l’assedio perfetto è quello che è breve. Il tempo che passa inutilmente deprime gli assedianti. Dall’altra parte rende anche i tiepidi e gli indifferenti dei fanatici disposti a combattere fino alla morte. La fame e le bombe sigilleranno il controllo totale di Hamas su due milioni di assediati, li spingeranno a compiere il passo che finora hanno rifiutato, superare la linea che li divide da una realtà in cui la morte e non la vita è la principale certezza. Gli estremisti del jihad che sabato scorso hanno sconfitto Israele non saranno più i colpevoli della ennesima disgrazia che si è abbattuta sui palestinesi inermi ma solo uomini che, con ogni strumento a disposizione, lottano per cambiare un destino. Sotto le bombe con il nemico aldilà del suo Muro, affamati, senza medicine in quel groviglio di calcinacci e di fumo che una volta erano case, ogni evento diventa memorabile: i bambini uccisi... i razzi che restituiscono paura e morte anche dall’altra parte... i luoghi dove sono caduti gli eroi... L’assedio è un paesaggio interiore che diventa a poco a poco mito e che sarà impossibile sradicare. Medio Oriente. La resa dei conti è con Hamas, non con tutti gli abitanti di Gaza di Gedeone Levy* Il Dubbio, 13 ottobre 2023 Anche a Gaza vivono esseri umani. In questo momento è difficile anche solo menzionare questo fatto. Quando a parlare di “animali” è il ministro della Difesa in persona, allora è difficile parlare degli abitanti di Gaza come esseri umani. La verità è che “animali” non è nemmeno un termine appropriato per i crimini commessi sabato dagli invasori di Hamas: nessun animale commette atti di ferocia come loro. Tuttavia, Gaza ospita più di due milioni di persone, circa la metà delle quali discendenti di rifugiati, un aspetto che dovrebbe essere tenuto presente anche adesso, nonostante le difficoltà. Gaza è tormentata da Hamas, e Hamas è un’organizzazione spregevole. Ma la maggior parte dei residenti della Striscia di Gaza non è così. Prima di iniziare ad appiattire, distruggere, sradicare e uccidere, dovremmo tenerne conto. La resa dei conti deve essere con Hamas, non con tutti gli abitanti di Gaza. Il nostro cuore deve essere vicino a loro, indipendentemente dalla nostra profonda solidarietà con le vittime di Israele. Dovrebbe essere possibile stare dalla parte degli abitanti del sud, pur ricordando che dall’altra parte vivono esseri umani proprio come loro. Dovremmo essere in grado di temere per il destino degli abitanti di Gaza e distinguere tra loro e la leadership di Hamas. Dovrebbe essere possibile, anche nell’attuale clima, parlare di Gaza in termini umani. Ho visitato il sud questa settimana, ho visto il massacro di Sderot a Rèim, e sono rimasto completamente inorridito. Era impossibile non esserlo. Ho incontrato persone che hanno vissuto un incubo indimenticabile e il mio cuore è vicino a loro. Ma non ho potuto fare a meno di pensare che a pochi chilometri da loro un disastro molto più grande si sta abbattendo sugli abitanti di Gaza. Le immagini provenienti da Gaza sono già scioccanti. Si dice che nelle strade ci sia già il fosforo bianco. Ma soprattutto è l’impotenza delle persone che non hanno nessun posto dove scappare, nessun modo per proteggere i propri figli, nessun posto dove nascondersi. A Gaza non c’è rifugio né via d’uscita. Questa settimana nel sud c’è stato un allarme rosso e ogni pochi minuti correvamo in una stanza sicura. Anche a Tel Aviv hanno suonato le sirene. A Gaza non esiste l’allarme rosso, né la sirena, né la stanza sicura. Hamas ne è criminalmente responsabile, ma la popolazione è completamente abbandonata al suo destino: donne, bambini e anziani non hanno più nulla che possa ripararli dai bombardamenti. Provate ad immaginarlo: bombardamenti incessanti senza preavviso. Bombardamenti indiscriminati, come dice il portavoce dell’Idf, “L’enfasi è sui danni, non sulla precisione”. È difficile immaginare il terrore a Sderot. È ancora più difficile immaginare il terrore nel distretto Rimal di Gaza. Non è necessario che ci sia una competizione su chi debba soffrire di più per riconoscere che anche la sofferenza a Gaza è sconcertante. Per anni ho visitato le case lì. Ho incontrato persone oneste, coraggiose, determinate e con uno speciale senso dell’umorismo. Ho documentato terribili sofferenze in molti posti nel mondo, ma lo spirito delle persone lì non è mai crollato. Diciassette anni di blocco mi hanno impedito di visitare Gaza. Presumo che sia cambiato da allora. Una nuova generazione è nata in una disperazione ancora maggiore. Ma è possibile restare indifferenti, perfino scherzare in alcuni casi, davanti alle immagini provenienti da Gaza? Com’è possibile? Come dimenticare che si tratta di esseri umani i cui antenati furono espulsi dalla loro terra e collocati in campi profughi dove sarebbero rimasti? Si trattava di esseri umani che Israele ha espropriato ed espulso, riconquistato nella loro terra di rifugio e poi trasformato in animali in gabbia. Hanno già sperimentato bombardamenti indiscriminati, ma ora il peggio è davanti a loro. Israele ha già annunciato che questa volta tutte le restrizioni presumibilmente utilizzate negli attacchi precedenti verranno rimosse. Sì, centinaia di abitanti di Gaza hanno commesso crimini atroci, ma non tutta Gaza è da biasimare. Mentre sono seduto nella stanza sicura del mio vicino a Tel Aviv, non posso fare a meno di pensare al mio amico Munir, che non ha nessun posto dove scappare nella sua casa a Lakiya, e nemmeno la capacità di correre dopo l’ictus che ha subito. Sto pensando agli abitanti di Gaza adesso che sembra che a nessun altro al mondo importi più cosa succede loro. *Redattore di Haaretz (Giornale di Israele) Tunisia. Schiaffo all’Ue: Saied restituisce 60 milioni di Marina Della Croce Il Manifesto, 13 ottobre 2023 Il presidente: “Non accettiamo la carità”, ma vorrebbe più soldi. Memorandum sempre più in bilico. Bruxelles: “Andiamo avanti”. Per la seconda volta in meno di due settimane Kais Saied assesta uno schiaffo all’Unione europea. Il presidente tunisino ha infatti restituito a Bruxelles 60 milioni di euro previsti da un programma di ripresa e sostegno all’economia del paese nordafricano dopo la pandemia. I tunisini “rifiutano tutto quello che assomiglia alla carità” avrebbe spiegato Saied al premier Ahmed Hachani e alla ministra delle Finanze Sihem Boughdiri in un incontro che, stando a quanto riferito dall’emittente “Mosaique Fm”, si sarebbe tenuto mercoledì sera a Cartagine. Con le stesse motivazioni solo pochi giorni fa, il 3 ottobre, Saied aveva rifiutato altri 127 milioni di euro, prima trance questa volta del finanziamento previsto dal Memorandum Ue-Tunisia, l’intesa di cooperazione economica e controllo delle frontiere siglato lo scorso luglio dalla presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen con la mediazione di Giorgia Meloni. Secca, e improntata alla diplomazia, la risposta dei vertici comunitari: quanto accaduto, ha spiegato ieri una portavoce della Commissione, “non cambia il fatto che continuiamo a lavorare sui cinque pilastri del Memorandum d’intesa”. In realtà dietro il linguaggio felpato di Bruxelles c’è la consapevolezza che l’ennesimo rifiuto di Saied rende ancora più complicata una situazione che, sia per la Tunisia che per l’Ue, è già fin troppo difficile. Il paese nordafricano vive infatti da tempo una crisi economica che colpisce in maniera pesantissima la popolazione, costretta a ore di fila anche solo per poter acquistare del pane. Difficile, in questa situazione, che siano in molti a comprendere le ragioni del rifiuto di finanziamenti che, per quanto esigui rispetto alle esigenze reali del paese, rappresentano pur sempre un aiuto. Come se non bastasse, poi, c’è la repressione politica con Saied che continua a liberarsi degli oppositori. L’ultima a finire in carcere, solo pochi giorni fa, è stata la leader del Partito desturiano libero, Pdl, di fatto l’unica vera rivale del presidente alle elezioni previste nell’autunno del 2024. È probabile che dietro quello che Saaied vorrebbe far apparire come orgoglio anticolonialista ci sia in realtà il tentativo di ottenere subito dall’Unione europea molti più soldi rispetto ai 205 milioni di euro iniziali previsti dal Memorandum. L’accordo di luglio prevede infatti stanziamenti superiori a un miliardo di euro subordinando però gli ulteriori 900 milioni al via libera da parte del Fondo monetario europeo del prestito di 1.9 miliardi di dollari, prestito condizionato a sua volta dall’avvio di una serie di riforme economiche e sociali che finora Saied non ha mostrato nessuna intenzione di voler attuare. Per quanto riguarda l’Unione europea il Memorandum rappresenta invece una parte consistente della strategia messa in campo per fermare gli sbarchi di migranti in Italia. La Tunisia è infatti il principale punto di partenza dei 139.049 arrivi registrati dal Viminale fino a ieri, sbarchi che Saied si è impegnato a fermare in cambio appunto del sostegno economico. Una situazione che rende ancora più in salita il via libera al Memorandum da parte dei leader europei, un buon numero dei quali non condivide l’idea di finanziare un presidente che imprigiona gli oppositori e non si fa scrupoli di calpestare i diritti umani dei migranti. A fare resistenza è in particolare la Germania. Al vertice informale di Granada del 6 ottobre scorso la premier Meloni ha presentato come una vittoria l’aver superato lo scontro sulle ong e ha assicurato la piena condivisione da parte del cancelliere Scholz delle politiche italiane, Memorandum compreso. Berlino, però, continua a considerare la Tunisia un paese non sicuro per i migranti e in quanto tale impossibile da finanziare. È probabile che il dossier finisca tra i temi che verranno trattati nel prossimo Consiglio Ue del 26-27 ottobre, ma sono in molti ormai a credere che tutto finirà con lo slittare al prossimo anno. Non certo una buona notizia per il governo Meloni che a causa del conflitto tra Hamas e Israele è stato costretto a far slittare “all’inizio del 2024” la conferenza Italia-Africa prevista inizialmente per i primi di novembre e dove avrebbe dovuto essere presentato ufficialmente anche il Piano Mattei.