Scontro sul Garante dei detenuti, Pd contro Conte: “Tratta in segreto con la destra” di Giuseppe Salvaggiulo La Stampa, 12 ottobre 2023 Via libera alle nomine. Opposizioni divise. Dubbi sui titoli del presidente D’Ettore voluto da Fratelli d’Italia. Il parto delle nomine è stato faticoso e lungo: almeno quattro le terne bruciate in roghi diversi. Doppio scontro politico sulla nomina del nuovo Garante dei detenuti. Una nomina strategica per il ruolo di vigilanza su carceri e immigrazione. Da una parte le opposizioni contestano la designazione del presidente Felice Maurizio D’Ettore, docente di diritto fiorentino, ex deputato di Forza Italia transitato con Fratelli d’Italia a fine legislatura, fortissimamente voluto da Palazzo Chigi. Dall’altro si registra l’ira del Pd nei confronti di Giuseppe Conte, accusato di aver “trattato in segreto con la destra” usurpando al Pd il nome che era stato concordato per l’opposizione e assestando sulle nomine di sottogoverno un altro colpo di un metodo già sperimentato con successo su altri dossier, dal Consiglio di presidenza della Corte dei Conti alla Rai. Il Garante dei detenuti è un ufficio composto da trenta funzionari, al vertice un collegio di tre esperti. Il parto delle nomine è stato faticoso e lungo. Se ne parla da mesi e sono almeno quattro le terne bruciate in roghi diversi: all’interno della maggioranza, tra maggioranza e opposizione, nei passaggi istituzionali prima e dopo Palazzo Chigi. Inizialmente, la destra aveva pensato di decidere unilateralmente in tre nomi, pur incasellandone uno in quota minoranza. Si era parlato dell’ex deputata del M5S Giulia Sarti, ma anche della radicale Rita Bernardini. Quando questa opzione si era rivelata impraticabile (Bernardini ha un paio di condanne per le disobbedienze civili sulla cessione di droga), la destra aveva accettato di dare un posto su tre all’opposizione. Il Pd aveva dato il suo nome, una donna con esperienze istituzionali. Ma l’intesa era saltata dopo gli attacchi a Nordio sul concorso esterno. La destra era tornata allo schema di partenza e il Pd aveva deciso di salire sull’Aventino. A questo punto si è insinuato il Movimento 5 Stelle. Che ha fornito a Nordio il nome del giurista palermitano Mario Serio. Nome gradito e portato in Consiglio dei ministri. Fonti del M5S sostengono che a farlo sia stato l’ex magistrato Roberto Scarpinato, ora senatore M5S. Serio fu difensore della Procura di Palermo nel conflitto tra poteri sollevato dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano davanti alla Corte Costituzionale per le telefonate intercettate nell’ambito dell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia. Il Pd storce il naso perché Serio, oltre vent’anni fa, era stato componente del Csm oltre vent’anni fa su designazione di Forza Italia. Ma è anche columnist di Questione Giustizia, rivista giuridica di Magistratura Democratica, ed è stato relatore all’assemblea dell’Anm convocata per protestare contro le iniziative disciplinari di Nordio. Dunque la faccenda è politica. Il Pd ce l’ha con Conte. Anche perché il M5S non ha sostenuto la richiesta di audizione dei nominati. C’è poi una questione istituzionale (quella di genere è stata risolta inserendo Irma Conti, avvocata designata dalla Lega). D’Ettore, presidente designato da Fratelli d’Italia, è docente universitario. La legge prescrive che i componenti del Garante non appartengano alla pubblica amministrazione. Il Pd intende sollevare formalmente una questione di incompatibilità, per far saltare tutte le nomine. Garante dei detenuti, negata l’audizione dei candidati. Pd e Avs: “Scelta grave” di Valentina Stella Il Dubbio, 12 ottobre 2023 A sollevare la polemica ci hanno pensato ieri gli esponenti del Pd e di Avs. Perché la maggioranza non vuole audire nelle Commissioni parlamentari competenti i tre membri - Felice Maurizio D’Ettore, Irma Conti e Mario Serio - scelti dal ministro della Giustizia Carlo Nordio per ricoprire il ruolo del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale? A sollevare la polemica ci hanno pensato ieri gli esponenti del Pd e di Avs. “È molto grave che la maggioranza si sia opposta oggi (ieri, ndr) in commissione all’audizione dei candidati al ruolo del collegio dei garanti dei detenuti. Si tratta di un organo di garanzia molto delicato, al quale devono essere chiamate persone con caratteristiche di indipendenza e riconosciuta competenza nel campo dei diritti umani. Negare la possibilità di audire i candidati significa impedire di fare una scelta consapevole e ragionata, e costituisce l’ennesimo atto di arroganza di una maggioranza che occupa anche le istituzioni di garanzia senza alcun rispetto per l’opposizione”, scrivono in una nota i senatori del Partito democratico Alfredo Bazoli, Anna Rossomando, Franco Mirabelli, Walter Verini, membri della commissione Giustizia a Palazzo Madama. La stessa richiesta è stata avanzata anche dal deputato dem Federico Gianassi e dal suo collega della Commissione Giustizia della Camera di Alleanza Verdi e Sinistra Devis Dori: “Abbiamo anche oggi (ieri, ndr) richiesto al presidente della Commissione Ciro Maschio di procedere con le audizioni dei candidati designati dal Governo per l’ufficio del Garante nazionale dei detenuti. Si tratta di una scelta delicatissima perché riguarda la situazione delle persone private della libertà. Sono note a tutti le condizioni difficilissime del carcere e da tutti è ritenuto una priorità”. Ma non hanno ottenuto risposta: tutto rimandato al prossimo ufficio di presidenza. E allora i due parlamentari concludono: “auspichiamo che i gruppi di maggioranza, che anche oggi (ieri, ndr) non si sono espressi, possano farlo favorevolmente e definitivamente nei prossimi giorni. Un rifiuto di procedere alle audizioni sarebbe incomprensibile, gli stessi soggetti certamente non possono avere difficoltà a presentarsi in Commissione. Quanto avvenuto al Senato, dove la maggioranza ha deciso di negare le audizioni, ci preoccupa perché delegittima gli stessi soggetti auditi e su questo non potremo stare in silenzio”. Telefonate tra detenuti e difensori: Nordio conferma i paletti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 12 ottobre 2023 Rispondendo all’interrogazione di Giachetti (Iv), il guardasigilli ribadisce che bisogna comunicare i motivi della chiamata. Bernardini: “E se devono denunciare un pestaggio?”. A rischio la privacy. La scorsa settimana, il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha risposto all’interrogazione del deputato di Italia Viva Roberto Giacchetti sulle modalità organizzative per i permessi delle telefonate dei detenuti con i loro difensori presso l’Istituto Penitenziario Pagliarelli di Palermo. Ma la risposta non soddisfa e conferma che il problema rimane. Nell’interrogazione posta dall’esponente di Italia Viva, viene denunciata una vera e propria violazione sulla modalità in cui si permettono le telefonate dei detenuti con i propri avvocati difensori. In particolare, Giachetti ha fatto riferimento a una denuncia presentata dall’avvocato Vito Cimiotta, secondo la quale ai detenuti viene richiesto di specificare i motivi della richiesta di colloquio telefonico con il loro difensore. Dall’interrogazione emerge che tale pratica sarebbe estesa in molti istituti penitenziari, specialmente per i detenuti condannati a pena definitiva. A riferirlo al deputato Giachetti è stata Rita Bernardini, presidente di Nessuno tocchi Caino. Tanto l’avvocato Cimiotta quanto il dirigente penitenziario Sergio La Montagna hanno confermato che tale pratica è ampiamente consolidata in vari istituti penitenziari, subordinando le telefonate dei detenuti ai loro avvocati alla preventiva autorizzazione prevista dall’articolo 39 del decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 2000, n. 230. L’interrogazione di Giachetti ha quindi sollevato domande cruciali sulla legalità e sulla costituzionalità di questa pratica diffusa nei penitenziari italiani. La richiesta di motivare il colloquio telefonico con il difensore sembra essere una chiara violazione del diritto di difesa e del diritto alla privacy dei detenuti, aspetti centrali del sistema giuridico italiano e dei diritti umani. Il guardasigilli ha risposto evidenziando che le disposizioni interne del carcere hanno cercato di bilanciare le esigenze di sicurezza e l’abbondante numero di detenuti, fornendo regole chiare per le telefonate. Tuttavia, il ministro Nordio ha anche riconosciuto l’importanza fondamentale del diritto alla difesa, sottolineando che il diritto di conferire con il proprio difensore è inviolabile e non può essere compresso dalla detenzione, a meno che non siano coinvolte altre questioni come le limitazioni temporanee stabilite dalla legge. Nella sua risposta, il ministro ha spiegato che le telefonate con i difensori sono strettamente regolate in base alle specifiche esigenze dei detenuti. Ad esempio i detenuti con posizione giuridica di imputati possono intrattenere colloqui senza restrizioni, mentre per gli appellanti l’autorizzazione è subordinata a determinati motivi, come udienze in corso o imminenti. Per i detenuti definitivi l’autorizzazione è concessa solo in presenza di specifiche motivazioni, quali l’imminenza di attività processuale. Nordio, nella sua risposta, ha sottolineato che, sebbene le telefonate siano regolate, l’obiettivo principale è garantire l’accesso al difensore in modo equo e non discriminatorio. Le restrizioni sono applicate in modo differenziato, considerando le situazioni individuali e le esigenze processuali dei detenuti. Inoltre, il ministro ha riconosciuto le differenze nelle modalità organizzative tra gli istituti penitenziari in tutto il Paese. Ogni istituto ha disposizioni interne che tengono conto della tipologia e del numero dei detenuti, delle tecnologie disponibili e dei mezzi a disposizione. “La risposta è un continuo arrampicarsi sugli specchi!”, tuona a Il Dubbio l’avvocato Vito Cimiotta, che ha difeso il detenuto colpito dalle restrizioni nel carcere Pagliarelli di Palermo. “Il ministro - prosegue l’avvocato - cerca di spostare l’attenzione su problemi organizzativi, quando invece il fulcro della questione riguarda diritti inviolabili, come la difesa”. Ma aggiunge: “A ogni buon conto ammette che la prassi è quella di dare priorità a una esigenza piuttosto che ad un’altra. Nella sostanza si demanda agli organi dell’istituto penitenziario una certa discrezionalità, che, a parere del sottoscritto, non ha modo esistere”. E chiosa: “Chiedere al detenuto il motivo della telefonata al proprio difensore è, già di per sé, una grave violazione”. Ancora più dura è Rita Bernardini di Nessuno Tocchi Caino che, ricordiamo, sollevò e confermò la questione denunciata dall’avvocato Cimiotta: “Nella sostanza, il ministro ribadisce che per parlare con il proprio difensore i detenuti devono essere autorizzati dalla Direzione indicando nella richiesta i motivi per i quali si intenda telefonare: Il diritto di difesa viene così compromesso nella fase dell’esecuzione penale”. Bernardini, quindi, si chiede: “Se un detenuto deve consultarsi con il proprio legale perché ha subito un pestaggio, ha senso che motivi al Direttore la sua richiesta? Non so chi prepari le risposte a Nordio, ma un’occhiata la vuole dare per valutare ciò che gli fanno dire?”. Tortura, riformare la legge ora vuol dire affossare i processi di Patrizio Gonnella* Il Dubbio, 12 ottobre 2023 Appello. Non c’è Paese democratico al mondo che, per salvare un manipolo di poliziotti accusati di questo reato, abbia cambiato in corso le regole del gioco mettendo mano al delitto. Deputati e senatori della Repubblica non si rendano complici di questo misfatto giuridico. È di due giorni fa la notizia delle accuse di tortura nei confronti di 23 agenti di polizia penitenziaria a Cuneo. Ancora una volta, in alcuni commenti, piuttosto che soffermarsi su quanto accaduto si evoca la necessità di mettere mano alla legge che proibisce la tortura. È come se a seguito di una persona ammazzata si discutesse di abolire il reato di omicidio. Chiunque assecondi, promuova, voti un provvedimento di legge che cancella o modifica l’articolo 613-bis, introdotto nel codice penale nel 2017, si renderà complice di un atto di impunità di massa. Esistono vari disegni di legge pendenti a riguardo e pare sia intenzione del Governo mettere mano alla norma. In premessa va ricordato che la legge contro la tortura fu approvata dopo un’intollerabile attesa di quasi trent’anni. Era il 1988 quando l’Italia si era impegnata a prevedere un reato che punisse i torturatori, ratificando la Convenzione dell’Onu. Per trent’anni, in particolare a destra, c’era chi aveva remato contro la codificazione del delitto di tortura affermando che non andassero criminalizzate le forze dell’ordine alle quali bisognava lasciare le mani libere. Dal 2017 ad oggi il testo ha dimostrato di avere una ragionevole capacità di impatto. Guardando al mondo carcerario, vi sono state condanne per tortura per violenze avvenute nei confronti di detenuti (come a Ferrara o a San Gimignano), assoluzioni (nel giudizio abbreviato per fatti accaduti nel carcere Torino), rinvii a giudizio (come nel caso delle brutalità commesse a Santa Maria Capua Vetere), riqualificazioni del delitto rispetto alla denuncia iniziale (come per le violenze avvenute nel carcere di Monza). Dunque il testo è stato interpretato non in modo “punitivo” per gli operatori di Polizia, come alcuni vorrebbero far credere. Non è vero che, guardando allo specifico mondo penitenziario, la Polizia non è nelle condizioni di lavorare serenamente. È falso. La Polizia penitenziaria, al pari delle altre forze dell’ordine, ha tutti gli strumenti normativi per un uso della forza ragionevole e misurato nell’ambito dei limiti previsti dall’Ordinamento Penitenziario e dal codice penale all’articolo 51 laddove si afferma che l’adempimento del dovere imposto da una norma giuridica esclude la punibilità. Ricordo che quella norma non è stata scritta da un manipolo di attivisti affetti da lassismo, bensì da Alfredo Rocco nel 1930, giurista dichiaratamente fascista. Nell’ipotesi in cui si metta mano alla definizione di tortura presente all’articolo 613-bis rischiano di saltare tutti i procedimenti pendenti e quelli decisi in primo grado. È un attacco al sistema dei diritti umani e alla Costituzione, tra i più gravi che si possano compiere. L’habeas corpus ha nobili e antichi radici. La sua costituzionalizzazione all’articolo 13 della nostra Carta ha un valore immenso viste le torture di cui si macchiarono i fascisti e le loro guardie. L’Italia, se così fosse, si metterebbe fuori dalla legalità e dalla comunità internazionale. Non c’è Paese democratico al mondo che, per salvare un manipolo di poliziotti accusati di tortura, abbia cambiato in corso le regole del gioco mettendo mano al delitto di tortura. Ci appelliamo a tutti i deputati e senatori della Repubblica affinché non si rendano complici di questo misfatto giuridico. Ci appelliamo anche a tutte le autorevoli voci di questo Paese affinché ricordino che la tortura è anche un crimine contro l’umanità e che non è merce di scambio nelle campagne elettorali. Ci appelliamo anche alla gran massa di agenti penitenziari, poliziotti, carabinieri, finanzieri che ogni giorno lavorano nel solco della legalità costituzionale: dite anche voi no a chi in vostro nome vuole assicurare impunità a chi ha macchiato di fango la divisa che anche voi indossate. *Antigone Ilaria Cucchi: “Il reato di tortura è fondamentale contro gli abusi” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 12 ottobre 2023 In un contesto in cui il dibattito sul sistema giuridico è sempre più acceso, la senatrice Ilaria Cucchi di Alleanza Verdi- Sinistra ha fatto sentire la sua voce contro qualsiasi tentativo di modificare o abrogare il reato di tortura. La sua dichiarazione è arrivata in risposta all’apertura di una nuova inchiesta da parte della procura della Repubblica di Cuneo. L’indagine coinvolge 23 agenti della Polizia penitenziaria, accusati, tra le altre cose, proprio di tortura, afferma Ilaria Cucchi. Secondo quanto riportato dalla senatrice, l’indagine della procura riguarda presunti abusi e violenze avvenuti nella Casa circondariale di Cuneo. Questo caso si aggiunge ad altre inchieste e procedimenti in corso, dimostrando l’importanza cruciale del reato di tortura nel sistema legale italiano. La senatrice Cucchi ha sottolineato che il reato di tortura è fondamentale per punire gli abusi commessi dai pubblici ufficiali. Qualsiasi tentativo di modificarlo o abolirlo sarebbe estremamente grave, rischiando di ostacolare, se non bloccare, i numerosi processi in corso nel paese. La sua affermazione riflette il timore che tali modifiche potrebbero compromettere il corso della giustizia e impedire alle vittime di ottenere il riconoscimento e il risarcimento che meritano. Il reato di tortura ha origini internazionali, derivando dalla Convenzione di New York del 1984, che impone agli Stati membri di inserire questa fattispecie nei propri ordinamenti giuridici. Inoltre, la Convenzione di Ginevra del 1949, che tutela i prigionieri di guerra, aveva già vietato la tortura. In Italia, il processo di definizione della legge contro la tortura è iniziato nel 2014, quando un’indagine voluta dalla Camera ha raccolto le opinioni qualificate di sindacati delle forze dell’ordine, avvocati, magistrati e docenti universitari. A luglio del 2017, con il governo Renzi, l’aula della Camera ha approvato in via definitiva il ddl che introduce il reato di tortura nell’ordinamento italiano. I sì sono stati 198 (Pd e Ap), i no 35 (Fi, Cor, Fdi e Lega), gli astenuti 104 (Grillini, Si, Mdp, Scelta civica e Civici e innovatori). Fratelli d’Italia lo vuole modificare, basandosi sull’argomento che il personale delle forze di polizia, che può legittimamente utilizzare la forza in alcune situazioni, potrebbe vedere le proprie azioni limitate nel caso in cui il reato di tortura rimanga in vigore. Ad esempio, un uso rigoroso della forza durante un arresto o durante operazioni di ordine pubblico delicato potrebbe essere interpretato come tortura. Ma sappiamo, che nella pratica non è così. Lo abbiamo visto in numerosi procedimenti dove gli stessi pm non hanno ravvisato la tortura. Mauro Palma: “Il Piemonte è un caso. Fra alcuni poliziotti c’è una cultura violenta” di Flavia Amabile La Stampa, 12 ottobre 2023 Il Garante dei detenuti: “Mancano risorse per gli istituti ma la quasi totalità del personale di custodia è estranea a questi episodi”. Il sistema penitenziario piemontese è in sofferenza, afferma Mauro Palma, presidente del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale. L’ultimo episodio è di una settimana fa. Avvisi di garanzia nei confronti di 23 agenti di polizia penitenziaria accusati con l’accusa di violenze e, in alcuni casi, anche di tortura. Si tratta di un’emergenza? “Premetto di non avere informazioni dirette ma non credo che ci sia maggiore violenza rispetto al passato. Con una punta di ottimismo mi sembra che si possa dire anche che c’è maggiore capacità investigativa interna. Va sottolineato che la quasi totalità del corpo di polizia penitenziaria è estranea a questi episodi, ma all’interno di una minoranza ancora prevalgono delle sottoculture che non aiutano”. A che cosa si riferisce? “Mi riferisco a una cultura che ha perso il senso dell’istituzione. Il carcere non è altro che lo specchio della società, anche dentro i penitenziari esiste la tendenza a esaltare la logica della contrapposizione. C’è chi considera i detenuti un fronte opposto, con un rapporto di inimicizia che non aiuta chi deve assicurare ordine e sicurezza. Seguendo questa logica, in un’istituzione a forte rischio come il carcere, si innalza sempre lo scontro, un errore che crea problemi”. Prima degli avvisi di garanzia a Cuneo ci sono state inchieste a Torino, a Biella, a Ivrea per maltrattamenti. Siamo di fronte a un caso Piemonte? “Che il Piemonte viva una situazione di sofferenza rispetto alla direzione degli istituti è un dato abbastanza noto. C’è stata una forte carenza che certamente non aiuta a gestire nel migliore dei modi i penitenziari. Esiste però anche una grande attenzione da parte del provveditorato quindi, anche su questo aspetto, mi chiedo se l’emergere di questi episodi non dipenda anche dalla volontà di non insabbiarli dimostrata da parte della Procura”. Oltre alle carenze tra i direttori ci sono anche carenze di personale? “Bisogna tenere presente che il sistema penitenziario del Piemonte è complesso, è formato da molte tipologie detentive con l’articolazione psichiatrica, il regime del 41 bis e diverse situazioni che rendono la struttura meno omogenea rispetto a quella di altre regioni. Forse sarebbe necessaria maggiore attenzione sul personale. Però quello che vorrei sottolineare è che, se ci troviamo di fronte a operatori che si esprimono e si comportano in modo violento nei confronti dei detenuti, non si deve puntare il dito contro nessuno ma cercare di capire. Al di là delle indagini della magistratura che accerteranno che cosa è accaduto, dobbiamo riflettere sulla cultura che c’è dietro questi comportamenti e come mai non siamo riusciti a inserire all’interno dei penitenziari una cultura di tipo diverso”. Come si deve intervenire per evitare il ripetersi di questi episodi di violenza secondo lei? “Sarebbe necessario assicurare una maggiore rapidità nell’accertamento dei reati, non si possono tenere persone a lungo in una situazione di incertezza. Va fatta una ricognizione dei bisogni effettivi dei direttori e del personale. Confido molto nelle assegnazioni dei nuovi direttori che hanno appena finito il corso, sono forze che hanno uno sguardo meno assuefatto rispetto al passato. In fine si deve dare continuità alla gestione cercando di far ruotare di meno i provveditori per assicurare maggiore stabilità al sistema”. Garante per l’infanzia e l’adolescenza: “La giustizia riparativa non è uno sconto di pena” ansa.it, 12 ottobre 2023 “La giustizia riparativa funziona” e “non è previsto uno sconto di pena, ma si tratta di uno strumento volontario che si affianca al procedimento giudiziario”. A dirlo è l’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza Carla Garlatti e a dimostrarlo sono le testimonianze raccolte nell’indagine nazionale che l’Autorità ha condotto in collaborazione con il ministero della Giustizia e l’Istituto degli Innocenti, presentata oggi a Roma. La giustizia riparativa è un percorso volontario, basato sul dialogo e guidato da mediatori esperti, che permette di rielaborare quanto accaduto. “La giustizia riparativa produce effetti positivi, sia rispetto alla considerazione che si ha di sé sia in termini di relazione con l’altro e con la giustizia, nella vittima, in chi viola la legge, nelle famiglie coinvolte e nella comunità - spiega l’Autorità garante. Da un lato, attraverso l’incontro con l’altro, il ragazzo che sbaglia prende consapevolezza dell’errore commesso e questo contribuisce a evitare che lo ripeta in futuro. Dall’altro, la vittima che sceglie di partecipare trova finalmente un suo spazio, si sente ascoltata e compresa e questo può aiutare il suo percorso di recupero. In termini più generali, poi, si favorisce la ricostruzione della coesione sociale e si contribuisce ad aumentare il senso di sicurezza nella comunità”. Garlatti ha ribadito che la giustizia riparativa “deve essere la risposta prioritaria da dare ai ragazzi quando sbagliano, anche in maniera grave” precisando che “non bisogna rappresentare la giustizia riparativa in maniera semplicistica attraverso una contrapposizione tra buonisti e forcaioli, come talora è accaduto. Inoltre, non ha senso pensare di circoscriverla solo ad alcuni reati e impedirla per altri: con le opportune cautele è anzi molto utile anche nelle situazioni più complesse”. Sisto: “Prescrizione processuale addio, già pronti due testi” di Errico Novi Il Dubbio, 12 ottobre 2023 L’idea prevalente, ai vertici di via Arenula, è che si debba andare oltre il testo base adottato dieci giorni fa dalla commissione Giustizia di Montecitorio. “Ci sono varie soluzioni. Le valuteremo, siamo aperti ad altre proposte in arrivo. Con i sottosegretari Andrea Delmastro e Andrea Ostellari partiamo comunque da una certezza: l’improcedibilità va archiviata”. Il viceministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto descrive così, interpellato dal Dubbio, la road map sulla riforma della prescrizione. L’idea prevalente, ai vertici di via Arenula, è che si debba andare oltre il testo base adottato dieci giorni fa dalla commissione Giustizia di Montecitorio. Non si resterà dunque fermi alla legge ex Cirielli, ripristinata dalla proposta iniziale, a firma del deputato di Forza Italia Pietro Pittalis. Sisto ne parla a poche ore dalla riunione di maggioranza che, sulla prescrizione, ha presieduto due giorni fa a Montecitorio. Come anticipato da Repubblica, su quel tavolo è stata prospettata, tra le altre, anche un’ipotesi mai discussa finora: lo slittamento del “blocca prescrizione” dalla pubblicazione della sentenza di primo grado al deposito della sentenza d’appello. In realtà, come chiariscono sia Sisto che diversi esponenti del centrodestra intervenuti all’incontro, non si è arrivati ad alcuna conclusione, neppure su quell’ipotesi che, in apparenza, resusciterebbe la legge Bonafede. Soprattutto, l’idea di abolire la prescrizione alle porte del terzo grado di giudizio sarebbe eventualmente bilanciata da una “riattivazione del cronometro” qualora la Cassazione non producesse direttamente una sentenza definitiva ma rinviasse il processo in appello. Tra Sisto e i deputati della commissione Giustizia si è convenuto sulla necessità di introdurre qualche aggiustamento rispetto al testo base. Quanto meno per scongiurare quei casi in cui, come spiega un deputato, un processo rischia di estinguersi, in appello o in Cassazione, senza che si abbia la possibilità di celebrare il successivo grado di giudizio neppure in tempi fulminei. Il viceministro della Giustizia insiste soprattutto sull’urgenza di eliminare il meccanismo dell’improcedibilità, individuato dalla riforma Cartabia per attenuare i guasti del “blocca prescrizione” di Bonafede: “A riguardo c’è assoluta sintonia fra il sottoscritto, Delmastro e Ostellari”, cioè con i due sottosegretari che, insieme con Sisto, proiettano ai vertici di via Arenula la rappresentanza dei tre maggiori partiti di centrodestra: FI, FdI e Lega. “Aspettiamo di valutare altre proposte”, dice il numero due della Giustizia. Ne arriveranno dai deputati, come conferma l’azzurro Pittalis, vicepresidente della commissione presieduta dal meloniano Ciro Maschio. Lunedì sera insomma si è provato a squadernare le varie opzioni, senza “eleggerne” una in particolare. Di certo la riunione ha prodotto lo slittamento del termine per presentare gli emendamenti, inizialmente fissato per ieri e posticipato a lunedì prossimo. Sul blocco della prescrizione dopo l’appello, la giunta dell’Unione Camere penali, appena rinnovata dal congresso dello scorso fine settimana, ha diffuso ieri mattina una nota nettamente critica: “In mancanza di un testo normativo ci asteniamo dal formulare giudizi”, premette l’esecutivo del nuovo presidente Francesco Petrelli, “possiamo certamente apprezzare la scelta, da noi propugnata, del superamento dell’improcedibilità con il ritorno alla prescrizione sostanziale. Desta invece forte perplessità l’interruzione della prescrizione dopo la sentenza di appello, che lascerebbe la fase di legittimità priva di ogni presidio, con un conseguente rischio di dilatazione dei tempi del processo in contrasto con il principio di ragionevole durata e della finalità rieducativa della pena”. Una valutazione severa dettata anche dal fatto che, nell’ipotesi circolata inizialmente, non compariva alcun rimedio per i casi in cui la Suprema corte opti per il rinvio in appello. Come si chiuderà la partita? Tra le ipotesi calde, a parte il “blocco in Cassazione”, sembra assai quotato il modello indicato, nel 2021, dalla commissione Lattanzi: una riformulazione della legge Orlando che bilanci diversamente le sospensioni in appello e in Cassazione, in modo che durino rispettivamente 24 e 12 mesi. Com’è noto, questa tecnica prevede che se si supera il bonus concesso a ciascuna delle due fasi del processo, non solo il cronometro della prescrizione ricomincia a correre, ma il tempo in cui il timer è rimasto fermo viene reinserito nel conteggio, a costo di provocare l’istantanea prescrizione del reato. Rispetto al blocco in Cassazione, c’è il vantaggio di accelerare i tempi del giudizio penale senza lasciare neppure virtualmente aperta l’ipotesi di una durata indefinita del processo. Ma per capire dove tira il vento, basterà attendere il deposito degli emendamenti. A quel punto, immaginare la rotta sarà più semplice. Due strade per la riforma della prescrizione di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 12 ottobre 2023 Si stringono i tempi nella maggioranza sulla riforma della prescrizione. Dopo l’adozione come testo base del disegno di legge Pittalis che rappresenta un superamento del complesso sistema attuale, punto di equilibrio dell’allora assai composita maggioranza che sorreggeva il Governo Draghi, nelle ultime ore hanno preso quota due ipotesi che a breve saranno tradotte in emendamenti da presentare alla Camera, in commissione Giustizia (il termine per la presentazione è slittato di alcuni giorni, dalla sera di ieri, a quella di lunedì prossimo, mentre il provvedimento è atteso in Aula dal 27 ottobre). Dopo un vertice al quale hanno partecipato, tra gli altri, per Forza Italia il viceministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto, per Fratelli d’Italia il sottosegretario Andrea Delmastro Delle Vedove, sul tavolo c’è innanzitutto la volontà di accantonare definitivamente l’attuale sistema di stop alla prescrizione dopo il primo grado e improcedibilità in appello e Cassazione, nel caso di mancato rispetto dei termini di fase. Obiettivo da raggiungere attraverso due strade alternative. La prima consiste nel ripristino della prescrizione sostanziale, con estinzione del reato, in primo grado e in appello, tenendo come regola base quella della “vecchia” ex Cirielli, superata poi dall’intervento voluto nel 2019 dall’allora ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, e quindi con termini sostanzialmente coincidenti quanto a regola base a quelli cristallizzati dal massimo di pena prevista per il singolo reato (con limite predeterminato per reati e contravvenzioni con sanzioni troppo basse). In Cassazione il reato diventerebbe poi imperscrittibile. Una soluzione questa che già vede l’ostilità delle Camere penali, che hanno appena rinnovato il vertice con l’elezione di Francesco Petrelli: “possiamo certamente apprezzare - sintetizza una nota - la scelta da noi propugnata del superamento della improcedibilità con il ritorno alla prescrizione sostanziale. Desta invece forte perplessità l’interruzione della prescrizione dopo la sentenza di appello che lascerebbe la fase di legittimità (nella quale la prescrizione ha attualmente una incidenza irrisoria) priva di ogni presidio con un conseguente rischio di dilatazione dei tempi del processo in contrasto con il principio di ragionevole durata e della finalità rieducativa della pena. Se questa fosse la soluzione adottata ci si chiede anche che sorte avrebbero gli assolti in appello nei cui confronti dovesse pendere un ricorso del procuratore generale”. L’altra via passa dall’applicazione di quanto proposto, e non accolto, dalla commissione Lattanzi che preparò, nel corso dell’amministrazione Cartabia, la complessiva riforma del Codice di procedura penale. Il meccanismo ora riproposto prevede che, dopo la sentenza di primo grado di condanna e dopo la sentenza di appello di conferma della condanna, la prescrizione rimanga sospesa, per due anni, nel primo caso, e per un anno, nel secondo. Se nel periodo di sospensione non interviene la decisione sull’impugnazione cessano gli effetti della sospensione, la prescrizione riprende il suo corso e il periodo di sospensione è conteggiato per la determinazione del tempo necessario a prescrivere. Per 8 italiani su 10 la giustizia è da cambiare di Arnaldo Ferrari Nasi Libero, 12 ottobre 2023 Periodicamente si riapre in Italia un confronto sulla percepita politicizzazione della magistratura, o per lo meno di una parte di essa. È uno dei temi di elezione per Analisi Politica, che da anni propone la domanda nei suoi sondaggi sul grado di accordo o disaccordo riguardo l’affermazione: “Sovente i magistrati agiscono con fini politici”. Anche nel 2023, poco prima dei recenti fatti di Catania che avrebbero potuto influenzare le risposte - con la magistrata Iolanda Apostolico ripresa a una manifestazione che prendeva di mira l’attuale ministro delle Infrastrutture e vicepremier Matteo Salvini - la questione è stata sottoposta ad un campione di 1.000 italiani adulti. Il risultato ci restituisce la consapevolezza che per la stragrande maggioranza dei cittadini sì, in Italia la giustizia viene spesso avvertita come politicizzata. Altrettanto interessante il fatto che il dato sia in costante crescita negli anni. In qualche modo, in passato la questione sembrava poter essere legata alla vicenda di Silvio Berlusconi, spesso oggetto dell’azione dei magistrati e che per primo e con forza ha rilevato il possibile problema; invece si passa da un 56% di intervistati che nel 2007 si è detto d’accordo con l’affermazione sopracitata, ad un 62% del 2017, fino al 69% del 2023. Ovvero, da un anno in cui Berlusconi era nel pieno della sua attività politica; si passa per un anno in cui il peso del fondatore di Forza Italia risultava molto ridotto; fino a quello della sua scomparsa. Chi sono coloro che oggi sentono questo problema, ma prima non lo sentivano? A livello sociale la crescita risulta abbastanza trasversale, con una piccola accentuazione solo tra i 40-60enni di istruzione media. A livello politico, invece, lo sguardo volge tutto a sinistra - e questa è certo una sorpresa, visto che fino a pochi anni fa si trattava dello schieramento che invece accusava il centrodestra di attaccare strumentalmente la magistratura. E dunque, l’unico partito esistente al tempo, il Partito Democratico, passa dal 35% del 2007 al 47% del 2023. L’Alleanza Sinistra-Verdi è oggi al 68%: nel 2007, la Sinistra Arcobaleno, formazione per molti versi assimilabile, era al 31%. Il Movimento Cinque Stelle nel 2007 non esisteva, ma adesso gli elettori cosiddetti “grillini” che giudicano politicizzatala magistratura sono al 77%, ovvero a livello del centrodestra. Per questo e per altri motivi, più dei quattro quinti degli italiani, vale a dire l’83%, chiede che il sistema della giustizia venga riformato. Un dato quasi plebiscitario, che infatti ancora trova accordo non soltanto nel centrodestra, ma in tutte le pur diverse anime della sinistra: al 90% fra chi si identifica politicamente con il cosiddetto Terzo Polo; all’85% per quanto riguarda Sinistra-Verdi; all’81% nel Movimento 5 Stelle; al 72%, infine, fra gli elettori del Partito Democratico. Dal Ministero della Giustizia “accertamento preliminare” sulla giudice Apostolico di Luca Liverani Avvenire, 12 ottobre 2023 Il ministro Carlo Nordio ha disposto il procedimento nei confronti del magistrato del Tribunale di Catania che in due occasioni non ha convalidato il trattenimento nel Centro per richiedenti asilo. Il ministero della Giustizia ha avviato l’accertamento preliminare nei confronti del magistrato Iolanda Apostolico, il giudice del Tribunale di Catania che non ha convalidato il trattenimento nel centro per richiedenti asilo di Pozzallo di migranti tunisini sbarcati a Lampedusa. A disporre il procedimento è stato il ministro Carlo Nordio attraverso l’Ufficio ispettivo. Proprio ieri il giudice Apostolico aveva annullato il trattenimento di altri quattro tunisini, sbarcati in Sicilia, nel centro per richiedenti asilo di Pozzallo disposti dal questore di Ragusa. È il secondo provvedimento del magistrato, al centro delle polemiche anche per la pubblicazione di video in cui era stata filmata, ad agosto 2018, durante una protesta contro la decisione dell’allora ministro dell’interno Matteo Salvini di non far sbarcare in porto 150 profughi. La giudice catanese non è stata l’unica a mettere in dubbio la correttezza della norma contenuta nel decreto Cutro. Domenica scorsa un altro giudice di Catania, Rosario Cupri, non aveva convalidato sei trattenimenti. Una settimana fa era stata la volta della Procura di Firenze, che aveva annullato l’espulsione di un migrante, considerando il Paese di origine, la Tunisia, non sicuro. La Lega torna all’attacco sul caso, facendo sapere che alcuni dei migranti rimessi in libertà dal magistrato di Catania “si sono già resi irreperibili. Qualora commettessero dei reati - si ipotizza - di chi sarebbe la responsabilità?”. È giustizia per Mimmo Lucano, ribaltata la prima sentenza di Claudio Dionesalvi e Silvio Messinetti Il Manifesto, 12 ottobre 2023 Condannato solo per abuso d’ufficio, per una determina sindacale, a un anno e sei mesi. In molte città italiane ed europee iniziative di solidarietà all’ex sindaco di Riace. Allora non era un “delinquente”. Quel che era chiaro a tutti, specie alle migliaia di attivisti sparsi per l’Europa sempre al suo fianco, nei giorni felici e in quelli cupi, ora lo è anche nelle aule dei tribunali. C’è un giudice a Reggio. L’umanità e la solidarietà alla sbarra possono uscire dalla prigione delle idee, dove le avevano rinchiuse, e tornare a respirare. L’odissea giudiziaria di Mimmo Lucano termina alle 17:13. La corte conclude la lunga camera di consiglio ed esce per deliberare. L’aula al piano terra dello storico palazzo di Piazza Castello, davanti all’antico maniero aragonese, è stracolma di compagni, di militanti giunti da ogni parte della regione. Il principale imputato del processo Xenia non c’è. Ha preferito disertare l’udienza conclusiva, quella delle eventuali repliche della procura generale e della sentenza. Mimmo Lucano è rimasto a Riace mentre i giudici della seconda sezione della Corte di Appello reggina decidevano del suo futuro. I togati, presieduti da Elisabetta Palumbo, sono entrati in camera di consiglio alle 9:40 dopo che i sostituti pg Adriana Fimiani e Antonio Giuttari avevano deciso di non replicare alle arringhe dei difensori di Lucano, Giuliano Pisapia e Andrea Daqua. Il verdetto è un trionfo. La sentenza di primo grado è ribaltata. L’ex sindaco di Riace è condannato ad appena un anno e sei mesi di reclusione per un reato bagatellare amministrativo (abuso d’ufficio per la determina sindacale del 5 settembre del 2017) con pena sospesa. Crollano così le accuse contestategli in primo grado per le quali è stato ritenuto non colpevole: associazione per delinquere, truffa, peculato, falso. La Corte ha altresì assolto tutti gli altri 17 imputati. L’impianto accusatorio è stato dunque demolito. A Riace non c’era un sistema criminale né si faceva business sull’accoglienza. È un successo della difesa e un giusto riconoscimento a un uomo il cui disinteresse personale e la cui probità morale hanno sempre costituito la bussola della propria esistenza. Momenti di commozione, applausi, pugni chiusi e slogan liberatori alla lettura del dispositivo. “Deve essere chiaro a tutti che questo incubo giudiziario che per anni ha rovinato la vita di Lucano ed ha rischiato di cancellare definitivamente il “modello Riace” è stato con molta probabilità il risultato di una inchiesta costruita ad hoc, fortemente voluta dai rappresentanti politici della destra- spiega Filippo Sestito dell’Arci - Noi lo abbiamo sempre saputo e per questo Mimmo non è mai stato solo in questi terribili anni, accompagnato da chi ha creduto e crede nel valore dell’umanità”. Si è respirata un’atmosfera di grande sollievo fuori dal tribunale. La corte d’appello non ha fatto che confermare quel che tutti affermavano a gran voce: accogliere uomini, donne e bambini migranti non è reato. Euforico ovviamente il team legale che ha accompagnato Lucano in questi anni. “Finalmente giustizia è fatta. È un passo in avanti per Mimmo, ma in generale lo è anche per tutto il sistema giudiziario di questo Paese. La sentenza d’appello dimostra ormai concretamente, in maniera insuperabile, che Lucano non ha mai fatto niente per se stesso, bensì ha agito per gli altri, per i più deboli”, dichiara l’avvocato Giuliano Pisapia al manifesto. “È stato distrutto l’impianto accusatorio. Il dispositivo smonta la sentenza di primo grado. Avevamo ragione sia noi che i milioni di persone convinte dell’innocenza dei nostri assistiti: non c’era nulla di tutto quello che l’accusa aveva ipotizzato”, spiega Gianmichele Bosco, difensore di Gianfranco Musuraca, uno degli imputati. Emozionato anche Lorenzo Trucco, avvocato di Tesfahun Lem Lem: “Sono stati tutti assolti, completamente. Smontato il teorema!”. La mobilitazione per la libertà di Mimmo Lucano non si è mai fermata. Negli ultimi giorni, sit-in e presidi solidali si sono svolti a Napoli, Milano, Bologna e Roma. A Salerno il Forum Antirazzista, la Rete dei Giovani per Salerno, l’associazione Cinema e Diritti e il Festival del Cinema dei Diritti Umani di Napoli hanno dato vita a una manifestazione di appoggio alla Riace di Lucano, in continuità con lo sciopero della fame per la giustizia, proclamato da padre Alex Zanotelli. Tante le iniziative anche in altre città europee. A Parigi numerosi manifestanti hanno riposto all’appello “Difendiamo un’accoglienza umanistica dei profughi. Libertà per Mimmo Lucano”, i cui primi firmatari sono i sindaci René Revol, della LFI di Grabels, Michael Delafosse di Montpellier, Firenze Brau di Prades e Veronique Negret, prima cittadina di Villeuneuve lès Maguelone. E adesso tutti pronti a rimboccarsi le maniche. Bisogna riedificare il Villaggio Globale di Riace. Che non è mai crollato, ha resistito agli assalti della destra. E promette di tornare a vibrare di umanità nuova. Processo a Lucano: in appello pena ridotta a un anno e mezzo dopo i 13 anni in primo grado di Carlo Macrì Corriere della Sera, 12 ottobre 2023 “Non ha rubato”. L’avvocato Giuliano Pisapia: “Seguite i suoi soldi, non li troverete. Ha sempre agito per gli altri”. L’ex sindaco era imputato con altre 17 persone sul modello “Riace”. Cadono l’associazione a delinquere, la truffa ai danni dello Stato e il peculato. Può definirsi quasi un’assoluzione. Mimmo Lucano, l’ex sindaco di Riace, è stato condannato a un anno e sei mesi: la Corte d’Appello di Reggio Calabria, dopo sette ore di camera di consiglio ha ribaltato quasi interamente la decisione del Tribunale di Locri che, a settembre del 2021, aveva comminato a 13 anni e quattro mesi l’ex primo cittadino, dopo l’inchiesta sul “modello Riace”. Lucano è stato condannato “solo” per un reato amministrativo, quindi sono cadute tutte le imputazioni, dall’associazione a delinquere finalizzata all’immigrazione clandestina, al peculato alla truffa aggravata ai danni dello stato. Alla lettura della sentenza, nel pomeriggio di oggi 11 ottobre, Mimmo Lucano era assente: l’aula di giustizia, però, al momento del verdetto, era affollata di sostenitori del modello Riace e dell’ex primo cittadino. Un applauso ha accompagnato la lettura della sentenza. Ad applaudire la decisione dei giudici d’appello c’era anche Giuseppe Chiantella, 97 anni, ultimo partigiano reggino. A Lucano veniva contestato un ammanco di 702. 410, finanziamenti dello Sprar, per i richiedenti asilo e rifugiati che, secondo i giudici di primo grado sarebbero stati spesi legittimamente. Il verdetto d’appello ha smontato questo assunto. Il procuratore generale nella sua requisitoria aveva chiesto per Lucano la condanna a 10 anni e cinque mesi di reclusione. “Posso aver sbagliato, ma ho agito per aiutare i più deboli”, aveva detto l’ex sindaco, prima della sentenza. I suoi difensori, Giuliano Pisapia e Andrea Dacqua, avevano parlato di “accanimento non terapeutico”. Pisapia, in particolare, nella sua arringa aveva puntato sulla personalità di Lucano: “In tutta la sua vita ha sempre fatto quello che serviva agli altri e non quello che serviva a se stesso”. L’ex sindaco di Milano nella sua arringa ha voluto concentrare il suo ragionamento sulla sparizione dei soldi. “Falcone, tra le tante cose, diceva di seguire i soldi. Vi prego - aveva detto il penalista milanese - seguite i soldi di Lucano e non li troverete”. L’altro aspetto su cui si era soffermato Pisapia è stato quello politico. “Come si fa a dire che ha fatto quello che ha fatto per motivi politici? Non c’è il dolo e manca la consapevolezza e la volontà di un vantaggio economico” aveva tuonato. “Questa sentenza è importante, soprattutto alla luce degli ultimi avvenimenti - ha commentato Pisapia - Un conto è la giustizia, un conto è la politica”. Carlo Macrì Il modello Riace non era criminale: crolla il processo contro Lucano di Simona Musco Il Dubbio, 12 ottobre 2023 Sentenza ribaltata in appello: l’ex sindaco condannato solo ad un anno e mezzo per un episodio di falso. In primo grado era stato condannato a 13 anni e due mesi, quasi il doppio di quanto chiesto dall’accusa. Il modello Riace non era un modello criminale. E Domenico Lucano non avrebbe sfruttato in alcun modo l’accoglienza a suo vantaggio. È una sentenza clamorosa quella pronunciata oggi dalla Corte d’Appello di Reggio Calabria, che ha letteralmente asfaltato l’impianto accusatorio della procura di Locri, salvando solo un episodio di falso per l’ex sindaco di Riace, condannato solo ad un anno e mezzo con sospensione della pena. Tutti assolti gli altri 17 imputati, a fronte di una condanna in primo grado pesantissima: il Tribunale di Locri, infatti, aveva addirittura raddoppiato la pesante richiesta dell’accusa, condannando “Mimmo il curdo” a 13 anni e due mesi. Ma cinque anni dopo l’arresto, la distruzione del modello più odiato da Matteo Salvini e lo svuotamento del piccolo paesino calabrese, la Corte reggina ha dato ragione alla difesa, secondo la quale a processo non si contestavano reati, ma una visione politica diventata famosa in tutto il mondo, tanto da disturbare i teorici dell’emergenza perenne. Visione che, per anni, è stata usata anche dall’Italia come motivo di vanto, salvo poi scaricare Lucano in una continua battaglia politica giocata sulla pelle dei più deboli. E di mezzo ci sono andati anche lui e Riace. Nessuna associazione a delinquere, nessun peculato, nessuna truffa: l’indagine Xenia era una bufala. Ma ciò ha comunque distrutto la carriera politica di Lucano, indicato tra i potenti del mondo dalla rivista Fortune e finito anche ai domiciliari, nonché quella di altre 17 persone, costrette per cinque anni a difendersi in Tribunale. La decisione arriva in un momento difficilissimo nel rapporto tra magistratura e politica: dopo le sentenze che hanno sconfessato più volte il decreto Cutro, rivelandone tutta la fragilità costituzionale, ora arriva la mazzata più pesante per il nemico pubblico numero uno di Salvini. Che aveva premiato, chiamandolo al Viminale, il prefetto Michele Di Bari, colui che, con le sue ispezioni, aveva avviato la macchina che poi portò alla distruzione del sistema di accoglienza diffusa creato da Lucano. La procura generale aveva provato a chiedere una condanna a 10 anni e cinque mesi, salvo poi, oggi, rinunciare alle repliche. Un segnale che non era sfuggito alle difese, che hanno smontato il teorema su un duplice piano: quello politico e quello tecnico, in particolare dimostrando come l’intercettazione chiave utilizzata per motivare la sentenza, in realtà, non sia mai esistita. Ad attendere la sentenza, pronunciata dopo circa sette ore di camera di consiglio, un centinaio di sostenitori dell’ex sindaco, che hanno atteso la decisione in piazza Castello a Reggio Calabria. Lucano, invece, ha aspettato la pronuncia a Riace, circondato da amici e migranti. “Provo un senso di riscatto immenso - spiega l’ex sindaco al Dubbio -, per me e per chi ha condiviso con me tutta questa sofferenza. Ho agito solo per aiutare gli altri ed è per questo che ho sempre detto che avrei rifatto tutto. L’accoglienza non può essere considerata una storia criminale, dovrebbe essere una storia profetica, come aveva detto monsignor Bregantini”. La sentenza, commenta Andrea Daqua, difensore di Lucano assieme a Giuliano Pisapia, dimostra che “il castello accusatorio non aveva alcuna base su cui poggiarsi. Non ho mai avuto dubbi - spiega - sull’onestà di Lucano e sulla non esistenza di alcun reato. Abbiamo sempre detto che la prima sentenza era aberrante e abbiamo fornito tutti i dati documentali dai quali emergeva in maniera evidente l’erroneità di quella sentenza. L’istruttoria ha fornito tutti gli elementi per capire che quei reati, semplicemente, non esistevano. La cosa positiva di questa storia è che quando si è innocenti ci sono anche i mezzi per dimostrarlo”. In primo grado le motivazioni avevano fatto emergere non solo alcune forzature tecniche, soprattutto laddove il tribunale aveva deciso di bypassare la sentenza Cavallo e dichiarare utilizzabili intercettazioni che, secondo le Sezioni Unite, andavano cestinate, ma anche un mal celato giudizio morale su Lucano, un “falso innocente”, aveva tenuto a sottolineare il presidente Fulvio Accurso. Il collegio sembrava soprattutto volersi difendersi dalle accuse di aver fatto un processo politico, sostenendo che Lucano e i suoi “sodali” avrebbero agito in nome di una “logica predatoria delle risorse pubbliche”, che sarebbero servite a soddisfare “appetiti di natura personale, spesso declinati in chiave politica” - nonostante abbia rifiutato qualunque occasione per “salire” di grado - “e soddisfatti strumentalizzando a loro vantaggio il sistema dell’accoglienza dei migranti”, diventato “un comodo paravento dietro cui occultare le vistose sottrazioni di denaro pubblico che essi attuavano, per fini esclusivamente individuali”. Poco importa se i soldi che Lucano avrebbe sgraffignato all’accoglienza non gli sono mai stati trovati in tasca: il tornaconto sarebbe stato politico, ovvero fare il sindaco di Riace, paesino di poco più di mille abitanti, dove l’indennità prevista non basterebbe comunque nemmeno per sopravvivere. Per i giudici, però, utilizzando i fondi dell’accoglienza per ristrutturare il frantoio e creare l’albergo diffuso, che hanno dato lavoro a migranti e riacesi, Lucano avrebbe creato una sorta di “fondo pensionistico” per gli anni a venire. Sfruttando il suo ruolo di “dominus indiscusso del sodalizio”, un’organizzazione “tutt’altro che rudimentale”, che avrebbe strumentalizzato “il sistema dell’accoglienza a beneficio della sua immagine politica”. Nulla di tutto ciò, però, sarebbe avvenuto. Anche perché, come evidenziato da Daqua, il cuore della sentenza di condanna era rappresentato da una frase mai pronunciata, una trascrizione fatta dalla polizia giudiziaria e smentita poi dal perito nominato dallo stesso Tribunale che però i giudici hanno utilizzato per motivare la sentenza. Una frase importante per l’accusa di peculato, la più grave. Proprio per tale motivo, aveva detto Daqua in aula, ci sarebbe “il legittimo sospetto che il processo contro Lucano sia stato viziato sin dall’inizio”. Anche e soprattutto per il “linguaggio denigratorio” utilizzato dal Tribunale nei suoi confronti. Insomma, “un macroscopico errore” corretto dalla Corte d’Appello. Nel corso della scorsa udienza, Lucano aveva ribadito, tramite una lettera consegnata alla Corte, di aver agito in difesa dei diritti umani. “L’idea del carcere non mi spaventa - aveva spiegato al Dubbio -. Quello che ho fatto interessa me personalmente per questo processo, ma ha un valore molto più grande: Riace ha trasmesso un messaggio al mondo, quello della speranza”. La vera posta in gioco era infatti quella “utopia della normalità” immaginata in un luogo prima marginale, poi diventato all’improvviso centro del mondo, tanto da diventare modello. Un modello spazzato via da una politica migratoria che ha dato importanza più ai numeri che alle persone, trasformate in “pacchi” da spostare da un posto all’altro; un modello pericoloso, proprio perché faceva a pezzi quel concetto di emergenza che serviva a giustificare politiche di repressione prive di risultati. Ed ora ad uscirne a brandelli è quella logica che ha tentato, senza riuscirci, di uccidere il modello Riace. Imputato impugnante detenuto: le notifiche si fanno di persona nel luogo di detenzione di Simone Marani* altalex.com, 12 ottobre 2023 L’obbligo per l’impugnante di depositare la dichiarazione o elezione di domicilio, ai fini della notifica del decreto di citazione a giudizio, si applica solo all’imputato libero (Cass. n. 38442/2023). L’obbligo di depositare, assieme all’impugnazione, la dichiarazione o elezione di domicilio della parte privata, ai fini della notificazione del decreto di citazione a giudizio, non opera nel caso in cui l’imputato impugnante sia detenuto. Questo è quanto emerge dalla sentenza 20 settembre 2023, n. 38442 della Seconda Sezione Penale della Corte di Cassazione. Il caso vedeva la Corte d’Appello dichiarare inammissibile l’appello proposto da un detenuto in quanto in assenza della dichiarazione o elezione di domicilio prevista dall’art. 581, comma 1-ter, c.p.p. Con ricorso per Cassazione l’imputato evidenzia l’errata applicazione della norma in oggetto, posto che nella fattispecie l’elezione di domicilio sarebbe stata del tutto superflua, stante la necessità della notifica personale al detenuto, ex art. 156 c.p.p. Posto che l’art. 581, comma 1-ter, c.p.p., dispone che con l’atto di impugnazione delle parti private e dei difensori è depositata, a pena di inammissibilità, la dichiarazione o elezione di domicilio, ai fini della notificazione del decreto di citazione a giudizio, ci si interroga se detta disposizione trovi applicazione anche nel caso in cui l’imputato sia detenuto e detta condizione emerga nell’atto di impugnazione. Secondo gli ermellini, l’interpretazione logica e sistematica della norma porta a circoscriverne la portata nei soli casi di detenuto libero, posto che solo in tali ipotesi ha senso la dichiarazione o elezione di domicilio che è funzionale ad evitare che, per notificare il decreto di citazione a giudizio, si rallenti la celebrazione del giudizio di impugnazione. Da un lato, l’art. 161, comma 1, c.p.p., stabilisce che il giudice, il pubblico ministero o al polizia giudiziaria, nel primo atto compiuto con l’intervento della persona sottoposta alle indagini o dell’imputato non detenuto o internato, li invita a dichiarare uno dei luoghi indicati dall’art. 157, comma 1, o un indirizzo di posta elettronica certificata o altro servizio elettronico di recapito certificato qualificato, ovvero a eleggere domicilio per le notificazioni dell’avviso di fissazione dell’udienza preliminare e degli atti di citazione a giudizio, escludendo dall’ambito di applicazione dell’invito a dichiarare o eleggere domicilio l’imputato detenuto; dall’altro lato, l’art. 156, comma 1, c.p.p., dispone che le notificazioni all’imputato detenuto, anche successive alla prima, sono sempre eseguite nel luogo di detenzione mediante consegna di copia alla persona. Ciò premesso, laddove il soggetto risulti detenuto per il reato per cui si procede, deve trovare applicazione la norma generale che prevede la notifica personale all’imputato (Cass. pen., Sez. II, 28 maggio 2023, n. 33355). In tal senso si sono espresse anche le Sezioni Unite, con la sentenza del 27 febbraio 2020, n. 12778, anche nel caso di detenuto per altra causa, pur in presenza di una dichiarazione o elezione di domicilio; si privilegia la consegna della notificazione alla persona in quanto, essendo certa la reperibilità del detenuto, la notificazione è agevole. Inoltre, la notifica a mani proprie si spiega con la necessità di portare personalmente a conoscenza del detenuto gli atti processuali, al fine di consentirgli di esercitare la facoltà di una consapevole difesa, tanto più necessaria stante il grave status derivante dalla detenzione. L’applicazione dell’art. 581, comma 1-ter, c.p.p., all’imputato detenuto violerebbe altresì l’art. 3 Cost. e l’art. 6 CEDU, che impone il pieno rispetto del diritto di accesso effettivo alla giustizia per le decisioni relative al merito di qualsiasi accusa penale anche nel giudizio di appello e che richiede che i giudici, nell’applicare le relative norme procedurali, evitino un eccessivo formalismo che pregiudicherebbe l’equità del procedimento. Si ribadisce, quindi, il principio di diritto secondo il quale la nuova disposizione dell’art. 581, comma 1-ter, c.p.p., introdotta dall’art. 33, comma 1, lett. d), del D.lgs. n. 150 del 2023, in vigore per le impugnazioni proposte avverse sentenze pronunciate in data successiva a quella dell’entrata in vigore, che richiede, a pena d’inammissibilità, il deposito, unitamente all’atto di impugnazione, della dichiarazione o elezione di domicilio della parte privata, ai fini della notificazione del decreto di citazione a giudizio, non opera anche nel caso in cui l’imputato impugnante sia detenuto. *Avvocato Al 41 bis vuole leggere il libro di Michele Santoro “Nient’altro che la verità”, no dei giudici di Sandra Figliuolo palermotoday.it, 12 ottobre 2023 “È pericoloso”. Rigettata l’istanza di Francesco Tagliavia, all’ergastolo per l’attentato di via dei Geogofili a Firenze, che voleva acquistare il volume che il giornalista ha scritto basandosi sulle dichiarazioni del pentito catanese Maurizio Avola, giudicato inattendibile dalla Procura di Caltanissetta. “Le esigenze di sicurezza prevalgono sul diritto all’informazione”. Condannato in via definitiva per la strage di via dei Georgofili, a Firenze, e recluso da anni al 41 bis, il boss Francesco Tagliavia, 69 anni, ha rivendicato il suo diritto ad essere informato pretendendo di poter acquistare e leggere un libro molto discusso, “Nient’altro che la verità”, scritto dal giornalista Michele Santoro e che alla sua uscita, nel 2021, aveva scatenato molte polemiche. Per i giudici, però, sul diritto all’informazione del detenuto nel carcere di Sassari prevalgono importanti esigenze di sicurezza, per cui gli è stato vietato di avere il volume. La prima sezione della Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso dello stragista e lo ha condannato a versare 3 mila euro alla Cassa delle ammende, ritenendo corretta la precedente pronuncia del tribunale di Sorveglianza. Il libro che Tagliavia avrebbe voluto leggere si basa sulle dichiarazioni di un pentito catanese, Maurizio Avola, che ha sostenuto di aver partecipato alla strage di via D’Amelio. La Procura di Caltanissetta, con una nota ufficiale, aveva smentito il collaboratore di giustizia, dichiarandolo totalmente “inattendibile”. A Tagliavia, come lui stesso ha dichiarato, il volume interessava per “trarne spunti per un procedimento di revisione di prossimo avvio”. Il magistrato di Sorveglianza aveva inizialmente dato il via libera all’acquisto del libro da parte del detenuto, ma il Dap aveva impugnato il provvedimento davanti al tribunale di Sorveglianza di Sassari, che aveva poi bocciato la decisione precedente, anche perché i motivi che il boss ha manifestato per avere il volume costituirebbero “la prova del fatto che ha un interesse personale alla lettura che travalica il puro diritto all’informazione”. I giudici avevano messo in evidenza come a Tagliavia è già vietato ricevere la stampa palermitana per motivi di sicurezza, che prevalgono sul diritto all’informazione: “L’interruzione dei flussi comunicativi con l’esterno, scopo del regime speciale del 41 bis, potrebbe, infatti, essere vanificata laddove il detenuto potesse apprendere da inchieste giornalistiche notizie sugli assetti di mafia che via via si vanno formando”, dicono i giudici. Ecco perché “è opportuno che il detenuto non possa leggere il suddetto libro-inchiesta, che ripercorre anche fatti di mafia cui ha preso parte l’interessato, e che ancora oggi presentano aspetti oggetto di approfondimento giornalistico e giudiziario”, aveva messo nero su bianco il tribunale. Per la prima sezione della Cassazione, presieduta da Francesco Centofanti, l’ordinanza non contiene alcun vizio di legittimità e per questo il ricorso di Tagliavia è stato respinto ed il detenuto non solo non potrà leggere il libro, ma dovrà anche versare 3 mila euro alla Cassa delle ammende. Cuneo. Torture nel carcere: “Dietro il blitz c’era il capo degli agenti” di Barbara Morra La Stampa, 12 ottobre 2023 La spedizione per punire una protesta, coinvolti colleghi fuori servizio. Sono ventitré gli agenti accusati di torture su detenuti del carcere Cerialdo di Cuneo, ma in particolare sono sedici quelli indagati per aver condotto il presunto blitz nella cella 417 la notte tra il 20 e il 21 giugno di quest’anno. Perlopiù poliziotti fuori servizio, alcuni in abiti civili. A sostenere la spedizione, secondo la ricostruzione del sostituto procuratore di Cuneo Mario Pesucci, c’era anche anche Giovanni Viviani, 51 anni, nato a Grosseto ma residente nel Cuneese, ispettore e responsabile di una sezione del padiglione “Gesso” che ospita i detenuti cosiddetti comuni per differenziarli da quelli in “41 bis”. È la figura apicale che spicca tra i nomi degli indagati protagonisti di quella che sembra essere stata una rappresaglia notturna. Con lui compare chi teneva chiusa la porta di altre celle, chi trasportava di peso i reclusi in una saletta vicino all’infermeria, chi li immobilizzava mentre altri li picchiavano. Tutto sarebbe nato dalla voglia di punizione per la protesta che quattro detenuti di origini pakistane avevano messo in atto nel pomeriggio per far sì che il connazionale della cella vicino venisse visitato, essendo in preda a forti dolori. Nella ricostruzione Viviani, insieme ai colleghi, sarebbe entrato nella cella sferrando calci, pugni oltre che proferire insulti e minacce. Sarebbe sempre lui che, quando la scena si spostò vicino all’infermeria, avrebbe interrotto la visita in corso del medico di turno per dire che i cinque pakistani, compreso quello che stava male già prima, non erano da visitare prima di essere messi in isolamento “perché stanno tutti bene”. Comportamenti, parole e provvedimenti che la Procura sta vagliando “con i piedi di piombo”, come ha dichiarato il capo dell’ufficio, Onelio Dodero. Da ciò che trapela delle investigazioni sembra che un ruolo centrale nella denuncia dei fatti sia da attribuire agli “occhi” esterni che istituzionalmente e professionalmente sono tenuti a vigilare su quanto accade fra le mura soprattutto quando, dalla metà del pomeriggio, la casa circondariale “abbassa le serrande” escludendo gli esterni ovvero medici, educatori, volontari e altri. Uno dei pakistani malmenati la mattina del 21 aveva il colloquio con il proprio avvocato che, vedendolo con il volto tumefatto, fece immediata segnalazione. Un rincaro di dose per la procura che già dall’autunno del 2021 stava tenendo d’occhio i comportamenti di un gruppo di agenti, 23 sui 150 in servizio nel penitenziario. Bruno Mellano, Garante regionale del Piemonte, è tra quelli che la Procura ha sentito nel corso delle indagini: “Più volte a Cuneo ho ricevuto e trasmesso segnalazioni in particolare sulla gestione dell’isolamento che avviene in cinque stanze nel seminterrato: è stato richiesto di mettere le telecamere in quei corridoi”. Riporta di aver avuto “segnalazioni, racconti, questioni da chiarire su Cuneo”. “La procedura - dice-, in accordo col Garante nazionale, è pesare le cose che vengono dette e se appaiono serie si passa a chiedere di indagare”. Aggiunge che nella casa circondariale la prassi di massima sicurezza del “41 bis” condiziona anche il regime dei detenuti comuni. I detenuti a Cuneo, secondo dati di giugno, sono 315 di cui 46 in regime di carcere duro. “Essendo casa circondariale - conclude - c’è poco accompagnamento al reinserimento anche perché in genere i fine pena sono brevi oppure si tratta di persone in attesa di giudizio. Ma non si può pensare di non puntare comunque sul futuro reinserimento: le statistiche dicono che senza accompagnamento al lavoro e formazione la recidiva è del 70 per cento mentre usando questi strumenti scende al 18 e in alcuni casi si azzera”. Piacenza. “Non picchiarono quel detenuto”, due agenti assolti dopo sette anni di processi di Emanuela Gatti ilpiacenza.it, 12 ottobre 2023 Chiuso il processo iniziato nel 2016. Rachid Assarag, in carcere per violenza sessuale, denunciò di essere stato percosso. Agli atti un video del corridoio della sezione. Anche il pm ha chiesto l’assoluzione. Si è concluso dopo sette anni e con due assoluzioni il processo che vedeva imputati per lesioni aggravate Mauro Cardarelli e Giovanni Marro. I due, ex comandante del corpo e ispettore superiore della polizia penitenziaria, erano accusati di aver picchiato il detenuto Rachid Assarag alle Novate: due gli episodi distinti avvenuti la mattina e il pomeriggio del 16 maggio 2016. Il giudice Matilde Borgia ha deciso di assolverli entrambi, così come anche chiesto dal pm Emilio Pisante e ovviamente dagli avvocati Fabio Maria Giarda e Vittorio Antonini. Al processo terminato il 10 ottobre 2023 si arrivò per un’imputazione coatta. Già all’epoca il pm chiese l’archiviazione ma l’avvocato di parte civile di Assarag (poi non più pervenuto nelle ultime udienze), si oppose, il fascicolo finì al gip che rigettò le richieste del pm e ordinò l’imputazione. Assarag arrivò a Piacenza dal carcere di Parma dove aveva introdotto dispositivi con i quali aveva registrato a loro insaputa agenti e detenuti (il caso finì alle Iene). Alle Novate rimase un mese e mezzo per poi andare a Bollate e infine a Sassari per aver aggredito alcuni poliziotti penitenziari. Da quanto emerso dagli atti, la sua storia carceraria (scontava nove anni per stupro) è costellata da decine di richiami disciplinari e denunce per resistenza, lesioni, danneggiamenti etc. Due le posizioni che si sono contrapposte: la parte offesa che sostiene di essere stata picchiata e invece la difesa che nega le percosse e le violenze, in mezzo c’è il video delle telecamere di sorveglianza del reparto di isolamento e che riprendono però solo il corridoio. Nel processo si tratta di due episodi distinti avvenuti il 16 maggio 2016: una nella mattina, uno nel pomeriggio “La mattina del 16 maggio - ha spiegato Marro - si era messo su uno sgabello in mezzo all’uscio della porta della cella (episodio della doccia, già ampiamente scritto precedentemente). Quella porta era aperta per le visite che il medico eseguiva ogni giorno in quel reparto, ma doveva rimanere chiusa. Voleva essere accompagnato in bagno. A quel punto siamo intervenuti e io l’ho spinto dentro, lui ha preso le stampelle e ci ha aggredito. Lo abbiamo bloccato e lui ha cominciato ad urlare che lo stavamo massacrando, ma non è vero. Gli chiedevamo di smettere ma lui voleva sobillare gli altri detenuti. L’articolo 41 dell’ordinamento giudiziario dice che non può essere fatto uso della forza fatto salvo per la resistenza passiva che in quel caso stava facendo. Quando si verificano situazioni del genere non ti devi preoccupare solo di quello che fa il detenuto ma pensare e prevenire quello che può accadere attorno, non si deve fare male né a lui ma nemmeno a noi o ai colleghi. Se si è in tanti è appunto per intervenire ad ogni evenienza specialmente in un reparto come quello, ma non ho mai picchiato quell’uomo”. “Con Assarag avevamo cercato di instaurare un dialogo. Tentava di insinuarsi nell’amministrazione penitenziaria per tirare fuori anomalie e poi registrarle. Eravamo perfettamente consapevoli della pericolosità passiva perché tentava in ogni modo di mandare in crisi il sistema. In una cella ci si sta al massimo in cinque e si deve fare tutto in maniera rapida. Quella mattina mi sono detto: questo ci vuole tenere tutti qui e ci stiamo cascando, cosi può dire che lo abbiamo picchiato senza che questo fosse vero, dovevamo uscire. Eravamo in tanti non perché tutti dovessero agire ma per esserci in caso di necessità. Diceva e sosteneva di essere disabile, eppure - ha detto Cardarelli - ha sradicato uno spioncino in ferro che pesa alcuni chili e per farlo si deve stare in piedi, come è possibile allora?”. “Di fronte a reati di questo tipo ritengo doveroso spendere tutte le energie, e così fu fatto tanto che il gip ritenne esaustive le indagini svolte. Il risultato sostanziale delle indagini posto alla base della richiesta di archiviazione è stato confermato anche in questa sede e ritengo che si debba escludere un doppio pestaggio cosi come descritto da Assarag in prima battuta. Quanto dichiarato successivamente invece è pieno di contraddizioni e sono parecchi gli elementi che stridono circa la sua versione”, ha spiegato Pisante nella sua requisitoria. “Siamo di fronte a due posizioni opposte: uno dice di essere stato picchiato, l’altro no e come lui anche altri 10 testi dicono che non è avvenuto alcun pestaggio. Assarag - ha detto Antonini - parla di un complotto contro di lui ordito da tutta la polizia penitenziaria perché si batteva per i diritti dei detenuti. Ma la verità è un’altra: Assarag, se guardiamo alla sua storia carceraria, ha collezionato plurime denunce e richiami disciplinari, è stato trasferito in molte carceri, è un soggetto che non si è fatto scrupoli nell’introdurre in carcere dispositivi e con questi registrare a loro insaputa agenti e detenuti per poi formulare denunce che sono state tutte archiviate. È un soggetto radicalizzato che fomentava gli altri a compiere disordini e questi sono dati inconfutabili. Marro chiama il medico perché la normativa lo impone non per precostituirsi un alibi. E sulla sproporzione tra il numero di agenti e un detenuto solo, il gip sbaglia: il requisito di proporzionalità nell’articolo della normativa vigente non c’è. E allora perché in tanti? Perché Assarag era in una sezione di detenuti problematici, lui stesso lo era, l’intervento poteva essere una miccia per situazioni ben più gravi, e pertanto andavano adottate misure idonee”. “L’esaustività delle indagini è emersa dal fascicolo e dai testi. Con Assarag - spiega Giarda - tutti hanno sempre cercato di tenere un atteggiamento accomodante, cercando di venirgli incontro: come farlo accompagnare per fare la doccia, fargli avere una carrozzina o una dieta personalizzata per fare alcuni esempi. A piacenza rimasto un messo un mese e mezzo durante il quale ha collezionato denunce e provvedimenti disciplinari”. Lucca. Nuovo Garante comunale dei detenuti. Un’elezione “thrilling” di Fabrizio Vincenti La Nazione, 12 ottobre 2023 La nomina dell’avvocato Giulia Gambardella scatena le fibrillazioni all’interno della maggioranza: sui 18 voti presenti, solo in 16 l’hanno votata. Tutt’altro che facile e scontata, come si poteva pensare. Ci sono volute ben tre votazioni prima di veder eletta nuova garante dei detenuti l’avvocato Giulia Gambardella, la cui candidatura era sostenuta in consiglio comunale dalla maggioranza del sindaco Pardini. Gambardella, già candidata alle comunali con Lista Civile che in consiglio comunale è rappresentata da Elvio Cecchetti, ha raccolto i 18 voti dei consiglieri di centrodestra presenti (dunque non al completo) solo alla terza votazione. E se la prima richiedeva una maggioranza qualificata, di cui il centrodestra non disponeva, nella seconda, sempre a scrutinio segreto, non sono mancati i colpi di scena, visto che Gambardella ha raccolto solo 16 consensi contro i 18 di cui disponeva sulla carta e che sarebbero a quel punto bastati per garantirle la nomina. I due voti mancanti sono finiti in un caso a Mara Nicodemo di Fratelli d’Italia e nell’altro a Marco Santi Guerrieri, consigliere di Lucca 2032, lista che fa parte comunque della maggioranza. Nove, invece, i voti a favore di Manuele Belloni sostenuto dalle opposizioni. Ma il dato politico, naturalmente, sono stati i due voti mancanti: chiaro che qualcuno, in maggioranza, ha voluto dare un segnale di insofferenza e votare in modo difforme rispetto a quanto stabilito. Un episodio che ha generato tensioni, al punto che nell’ultima votazione, quella decisiva, il centrosinistra ha abbandonato l’aula e il centrodestra, con una prassi abusata da sempre persino, anzi soprattutto, in Parlamento, ha dato indicazioni affinché i proprio consiglieri votassero Gambardella, ma accompagnando la scelta in alcuni casi con il nome di battesimo, in altri con la sola iniziale del nome: un espediente per individuare e neutralizzare da quale gruppo consiliare arrivassero i franchi tiratori, sui quali le ricostruzioni si sprecano, a partire da quelle che portano alle attuali fibrillazioni all’interno di Fratelli d’Italia. Di certo, un segnale di agitazione destinato a ripercuotersi all’interno della maggioranza e sui il sindaco e la sua maggioranza saranno chiamati a riflettere. Roma. Un libro sulla condizione della donna all’interno delle carceri cittametropolitanaroma.it, 12 ottobre 2023 Presentazione del volume “Tutte le cose che ho perso” di Katya Maugeri, con la partecipazione della Consigliera Tiziana Biolghini. La condizione della donna all’interno delle carceri e le loro storie sono state raccontate al convegno promosso dalla Consigliera Delegata della Città metropolitana di Roma, Tiziana Biolghini. Alla presentazione del libro, di Katya Maugeri, “Tutte le cose che ho perso”, hanno partecipato, Marco Patarnello, Magistrato del Tribunale di Sorveglianza di Roma, Sandro Libianchi, Presidente del Coordinamento nazionale Operatori per la salute delle carceri italiane, Valentina Calderone, Garante delle persone private della libertà personale di Roma Capitale, Patrizia di Cinto, Pedagogista del disagio penitenziario e Pisana Posocco, Docente associata di architettura alla “Sapienza” di Roma. “Purtroppo il carcere non svolge appieno la sua funzione, ovvero quella di rieducare per eliminare la recidiva dei reati una volta scontata la pena. Per questo abbiamo necessità di comprendere le storie che raccontano il disagio di vivere in carcere, per entrare in una dimensione che deve essere prima compresa e poi attraverso strumenti specifici, superata con l’aiuto delle istituzioni, attraverso metodi più moderni”. “La realtà delle donne negli istituti pena rappresenta circa il 4,2% in Italia e sono in condizioni preoccupanti con celle sovraffollate, violenze, gestione confusa dei figli. Gli istituti penitenziari non riescono a fornire competenze e servizi specifici alle detenute a causa di un regime carcerario pensato solo per gli uomini. Il risultato è un disastro su tutti i fronti. Si tratta di donne vissute in contesti di povertà, con un bagaglio di vita segnata da violenze e abusi, molto spesso recidive e colpevoli di atti di microcriminalità, per questo per le detenute donne, visti i tipi di reati generalmente commessi e soprattutto in presenza di prole, sarebbe consigliato sperimentare misure alternative alla detenzione. Lavoreremo in questo senso, organizzando incontri con le scuole che sono il luogo dove poter raccontare, anche attraverso le storie racchiuse in questo libro, la condizione delicata della condizione femminile nelle carceri”. Torino. “La mia vita dopo il film alle Vallette” di Francesca Angeleri Corriere di Torino, 12 ottobre 2023 Kasia Smutniak ha recitato in “Tutta colpa di Giuda” di Davide Ferrario, girato 14 anni fa all’interno della Casa Circondariale Lorusso e Cutugno di Torino coinvolgendo il personale e i detenuti di un’intera sezione dell’istituto. La pellicola è inserita nel programma di Liberazioni Festival che è giunto alla sua quarta edizione e che continua fino a domenica in vari luoghi tra cui lo stesso carcere, domani, con Vera Gemma. Forse il peso delle cose lo misuriamo nella memoria. Da come certi momenti ci rimangono appiccicati addosso. Diventano dna. Così è l’infanzia. Ma così sono anche certe esperienze professionali intense, uniche. Tutti i set un po’ lo sono. Altri di più. Certamente lo è stato quello di “Tutta colpa di Giuda” di Davide Ferrario, girato 14 anni fa all’interno della Casa Circondariale Lorusso e Cutugno di Torino coinvolgendo il personale e i detenuti di un’intera sezione dell’istituto. La pellicola è inserita nel programma di Liberazioni Festival che è giunto alla sua quarta edizione e che continua fino a domenica in vari luoghi tra cui lo stesso carcere, domani, con Vera Gemma. Il film fu un “colpo di genio” di Ferrario che mise in piedi una sorta di musical con la colonna sonora dei Marlene Kuntz dove un giovane regista, su richiesta del cappellano della prigione, doveva mettere in scena la Passione di Cristo con i detenuti. Nessuno di loro, però, voleva essere Giuda. Protagonisti erano Fabio Troiano e Kasia Smutniak che ci ha parlato da Roma dove tra pochi giorni presenterà il suo primo lavoro da regista alla Festa del Cinema, il documentario Mur che narra della crisi, creatasi nel 2021, al confine tra Polonia e Bielorussia. “Ho dei ricordi molto vividi - racconta Smutniak - di quella prima volta che varcai la soglia del carcere. Del togliersi gli effetti personali, dare i documenti. Era un distacco totale dal mondo esterno. Un’immersione vera. Sapevamo, fin dall’inizio, che avremmo portato lì dentro dei sogni. E sapevamo anche che ce ne saremmo poi andati via”. È una memoria dolce quella che riporta. Fatta di un tempo che non sarebbe mai potuto ritornare, ma un tempo prezioso, irripetibile: “Ricordo che c’era un bar, subito fuori dal carcere. Servivano la birra artigianale e lo gestiva un ex carcerato. Ci ho pensato spesso a quel posto in questi anni. Perché era un luogo sospeso, una sorta di limbo tra il mondo dentro le sbarre e quello fuori. Un purgatorio. Quando finivamo di girare, quasi nessuno di noi aveva l’urgenza di riprendere il telefonino dalla cassetta di sicurezza e di accenderlo. Avevamo bisogno di passare del tempo in quel bar. Di ritornare alla nostra vita in un modo che fosse morbido e anche paziengiovani: te”. Di quel tempo lento è intrisa la nostra conversazione, perché Kasia dice che quel film l’ha cambiata, “io sono un’impulsiva, una che si butta, che pensa poco e fa molto. Davide non è così, è molto introspettivo. Mi ha insegnato a rallentare. In qualche modo oggi provo a farlo”. Sul set era l’unica donna, ma non si è mai sentita in difficoltà per questo, nonostante si trattasse di un carcere maschile, “sono cresciuta in caserma, in mezzo ai maschi. Ero la figlia del generale. Imbarazzi non ne ho mai avuti. La cosa più difficile per me era ballare, quello sì mi ha mandato in crisi. Passare delle settimane in un carcere a girare un film non fa di te un’esperta della vita. Però io sicuramente lì dentro acquisii un punto di vista molto forte sulle cose: il privilegio della libertà. E della fortuna, che alcuni hanno e altri no, nella vita. A partire da dove nasci e in quale famiglia. Sono questi due elementi che cambiano tutto. Oggi, più che mai, è sotto i nostri occhi”. Alle “Vallette” ci mise piede l’ultima volta parecchi mesi dopo aver finito la lavorazione del film, per la conferenza stampa. Però ci sono persone che sono rimaste nella sua orbita, “uno di loro. Quello che diceva che una volta uscito non sarebbe mai più rientrato. È stato così. E oggi è una delle persone di cui più mi fido al mondo”. La divisione dei poteri e quelle regole violate di Montesquieu La Stampa, 12 ottobre 2023 Nemmeno l’azione della barbarie contro Israele, alla ricerca di un impossibile primato dell’orrore infinito, distoglie la nostra politica dalle sue mediocri, autoreferenziali schermaglie domestiche. Quella in atto da giorni tocca, al livello proprio della nostra politica, un tema, più ancora un principio, fondamentale per ogni organizzazione che voglia dirsi democratica: la terzietà di funzioni come quella arbitrale, giurisdizionale, amministrativa, funzionali alla correttezza e alla regolarità del confronto democratico. Tema che oggi viene dalle forze di governo buttato sul campo con riferimento alla funzione giurisdizionale, che non a caso la Costituzione responsabilizza del dover essere uguale per tutti. Politica compresa, se non in testa. Giustizia e funzioni istituzionali, il baluardo del rispetto reciproco e del potere diffuso. Tema che rasserena, al contempo, per la rappresentanza suprema proprio di terzietà che viene, quotidiana e oramai da lungo tempo, dal colle più alto, non solo morfologicamente. Suprema, oramai, anche per indiscussa e sempre più percepita e percepibile consapevolezza diffusa (confortante replica popolare al populismo dilagato per l’inettitudine dell’offerta politica): ma legata al momento ad una persona, non già ad una condivisa garanzia che venga dalla maggioranza delle forze politiche. Ne da inquietante testimonianza l’insistito indirizzo di modifica costituzionale che da questa maggioranza promana, con l’evidente volontà di sostituzione di quel potere oggi sicuramente terzo con altro potere potenzialmente divisivo; e con contestuale dubbio sull’apprezzamento, da parte di una coalizione che si sente prospetticamente vincente, di una guida sul modello in atto. Per inciso: la complessità del tema della terzietà, su cui ci vorranno ben altro spazio e ben altra occasione di approfondimento, non si presta al semplicismo di facili certezze. Quale quella, diffusa, che vuole la terzietà legata ad assenza di forti convinzioni politiche, travolta dalla attestata, esemplare terzietà del capo dello Stato: se non agevolata da una lunghissima militanza politica di parte, certamente compatibile con la stessa. Forse addirittura in reciproca sintonia, purché accompagnate da lealtà istituzionale, orgoglio personale, senso della funzione e dell’interesse pubblico. Ma certamente non replicata da altre figure di quasi altrettanta richiesta terzietà, quali i vertici delle Camere, specie se investiti del ruolo di supplenza. Perfettamente sovrapponibili, le figure delle prime due cariche dello Stato, per consolidata militanza politica, seppure in opposti schieramenti. Torniamo a capo, alla terzietà negata al giudice responsabile di una sentenza sgradita alla coalizione che guida il paese. Legittimamente negata: non fosse per i motivi addotti, del tutto estranei al livello giuridico della questione, ed ancorati ad una esasperata ricerca di scollegate espressioni di convinzioni di parte. Nel merito, del tutto pretestuose: ed è questo il limite della politica. Psicologicamente non banali, invece, per chi viva la politica come ricerca di plauso e consenso: ma condivisibili per chi condivide la convinzione pertiniana (uomo di parte assoluta) che la terzietà non sia piena senza l’apparenza della stessa. La terzietà è anche autocontrollo e disciplina di sé. Sei milioni di italiani vivono in povertà alimentare di Giampiero Rossi Corriere della Sera, 12 ottobre 2023 Record al Sud e tra chi non ha studiato, ma è a Milano l’aumento più alto di indigenti. Il rapporto di ActionAid (su dati Istat): il 7,5% delle famiglie in condizioni di povertà assoluta. E almeno 200 mila tra bambini e ragazzi non è in grado di fare un “pasto completo” almeno una volta al giorno. “Distribuire cibo è fondamentale, ma non incide sulle cause dell’emergenza”. In Italia almeno 6 milioni di persone al di sopra dei 15 anni (cioè il 12% della popolazione residente) vivono in condizione di povertà alimentare. Lo rivela l’elaborazione di dati Istat realizzata dalla Ong ActionAid nel suo quarto rapporto sulla povertà alimentare, che restituisce una fotografia dolorosa del Paese che esce dalla stagione della pandemia. Risulta infatti che 4 milioni di persone (8,1%) non sono in grado di fare un pasto completo - con carne, pesce o equivalente vegetariano - almeno una volta ogni due giorni, e che altri 3,3 milioni di cittadini (il 6,5%) non hanno la possibilità di uscire per mangiare o bere qualcosa con parenti o amici almeno una volta al mese. E ci sono anche 1,3 milioni (2,6%) di over 16 che soffrono di entrambe le deprivazioni alimentari: quella materiale e quella sociale. Dopo la pandemia - L’anno di riferimento è il 2021, quando l’emergenza sanitaria ha congelato la vita e scoperchiato i tetti di paglia delle economie familiari fatte di precarietà e sussistenza, allargando la forbice delle disuguaglianze. Secondo l’Istat, infatti, in quel momento in Italia la povertà assoluta si conferma ai massimi storici raggiunti nel 2020, e coinvolge il 7,5% delle famiglie e il 9,4% degli individui residenti, registrando un aumento dell’1,7% rispetto al 2019 e del 5,2% rispetto al 2010. Quello che manca, tuttavia, è un’analisi mirata sulla questione alimentare, per capire quanto incide la fragilità economica sulla possibilità di mangiare cibo adeguato. Ed è per colmare questo vuoto che ActionAid ha elaborato - incrociandole - diverse rilevazioni statistiche ufficiali, costruendo così un indicatore e una mappa della deprivazione alimentare nel Paese. La regola del “pasto completo” - La base la offrono i dati italiani dell’indagine europea sul reddito e le condizioni di vita delle famiglie (Eu-Silc), che oltre a esplorare la questione alimentare, incrocia indicatori riguardanti la povertà, la deprivazione e l’esclusione sociale. “Una delle informazioni più preziose che abbiamo a disposizione per studiare il fenomeno della povertà alimentare in Italia è quella relativa alla deprivazione alimentare materiale, definita da Eurostat come l’impossibilità, per ragioni economiche, di fare un pasto completo, con pollo, carne, pesce o equivalente vegetariano, almeno una volta ogni due giorni - si legge nel rapporto di ActionAid, intitolato Frammenti da ricomporre. Numeri, strategie e approcci in cerca di una politica -. Tale condizione, nel 2021, riguardava il 7,9% della popolazione residente in Italia, ovvero 4,6 milioni di persone. Oltre a ciò, sempre nel 2021, secondo l’indicatore di deprivazione alimentare sociale, il 6,5% della popolazione con oltre 15 anni di età residente in Italia, corrispondente all’incirca a 3,3 milioni di persone, viveva l’impossibilità di riunirsi con amici o parenti per mangiare o bere qualcosa almeno una volta al mese”. Ed è a partire da questi due segnali che si è arrivati alla stima statistica sulla deprivazione alimentare materiale o sociale che in Italia coinvolge complessivamente 6 milioni di persone. Quelli con il piatto vuoto - La deprivazione alimentare materiale o sociale si fa sentire di più tra i disoccupati (28,3%), le persone inabili al lavoro (22,3%), chi ha studiato al massimo fino alle medie (17,4%), i giovani adulti tra i 19 e i 35 anni (12,3%), la fascia tra i 50 e i 64 anni di età (12,7%), gli stranieri (23,1%), quelli che pagano un affitto (22,6%) e le persone che vivono nelle aree metropolitane (13,3%). Soffrono anche genitori single (16,7%) e le famiglie numerose (16,4%). Ma l’incrocio dei numeri rivela anche che 6 persone su 10 tra quelle che si trovano in condizione di deprivazione alimentare materiale o sociale non rientrano nella quota di popolazione (11,8 milioni nel 2021) definite a rischio povertà, poiché hanno redditi superiori al 60% della mediana nazionale. La mappa della sofferenza - Rispetto alle macroaree geografiche, la quota di persone in condizione di deprivazione alimentare materiale o sociale è maggiore al Sud (20,7%) e nelle Isole (14,2%), dove in totale riguarda 3,1 milioni di persone, mentre si registra al Nord Est l’incidenza più bassa, pari al 5,8%. Ma esistono altre informazioni utili alla mappatura del disagio alimentare: secondo il ministero delle Politiche Sociali e del Lavoro, infatti, il numero di chi riceve aiuti Fead (Fondo di aiuti europei agli indigenti) sotto forma di generi di prima necessità è cresciuto notevolmente negli ultimi anni passando dai 2,1 milioni nel 2019 a quasi 3 milioni nel 2021, e registrando un lieve calo nel 2022, per un totale di oltre 2,8 milioni di persone. Gli incrementi più significativi hanno riguardato la Sicilia (+172,5 mila), la Lombardia (+155 mila) e la Campania (+ 98 mila). Milano è la seconda città metropolitana dopo Napoli per numero beneficiari (215mila) ma è quella che ha registrato l’aumento più consistente rispetto a tutte le altre città d’Italia (+115mila) con un’incidenza del 6,7% rispetto alla popolazione residente. “Un dato che può essere interpretato come un ulteriore peggioramento delle condizioni di vita di soggetti già in situazione di forte vulnerabilità”, si legge nel rapporto di ActionAid. L’anomalia dei minori - Sempre nel 2021 almeno 200 mila under 16 (2,5%) non era in grado di consumare frutta e verdura e di fare un “pasto completo” almeno una volta al giorno. E i tassi più alti si registrano nelle regioni del Nord Ovest, dove la quota raddoppia rispetto alla media nazionale, attestandosi al 5,3%, per un totale di oltre 118 mila persone. Nelle altre macroaree, l’incidenza è del 2,8% al Sud, dello 0,2% nelle Isole, dell’1% nel Nord Est e dell’1,2% nel Centro. Le misure di contrasto alla povertà alimentare - “Focalizzandosi esclusivamente sulle determinanti economiche, il reddito, i numeri non sono capaci di cogliere tutte le dimensioni rilevanti dell’esperienza della povertà alimentare come quelle sociali, psicologiche, culturali e territoriali - osserva Roberto Sensi, responsabile del programma Povertà alimentare di ActionAid Italia -. Le politiche di contrasto appaiono frammentate, poco coordinate e definite sempre sull’onda dell’emergenza senza la capacità di esprimere una visione strategica. Nella maggior parte dei casi gli interventi si fermano alla risposta del bisogno. Seppur distribuire cibo sia importante al fine di alleviare le condizioni di indigenza delle famiglie, questa forma di aiuto non incide sulle cause del problema. A tal fine bisogna cercare di intervenire non solo sulle necessità alimentari delle persone ma sulle opportunità che il cibo può rappresentare per il loro benessere sociale, fisico e psicologico”. Migranti. Apostolico non convalida il trattenimento di altri quattro tunisini di Giansandro Merli Il Manifesto, 12 ottobre 2023 La giudice del tribunale di Catania non si fa condizionare dagli attacchi ricevuti. Finora il dl Cutro è stato bocciato in 13 casi su 13. “Contrario alle norme Ue”. La giudice Iolanda Apostolico non ha convalidato il trattenimento di altri quattro richiedenti asilo tunisini. La decisione è stata depositata martedì sera. Salgono così a 13 le sentenze del tribunale di Catania che vanno nella stessa direzione: disapplicare la normativa nazionale per dare attuazione a quella europea. Sette sono state firmate da Apostolico, sei dal collega Rosario Maria Annibale Cupri (a queste va aggiunta la liberazione di un migrante che ha ritirato la domanda di protezione). Le argomentazioni sono sempre le stesse. La prima è che la procedura accelerata di frontiera, un iter rapido per la richiesta d’asilo, vale solo nel luogo di arrivo. Generalmente Lampedusa, comunque mai Modica. Cioè il comune del ragusano dove il governo ha fatto costruire un nuovo tipo di centro con una parte per il trattenimento e un’altra che svolge la funzione di hotspot. Questo in base a una finzione giuridica creata con il decreto del Viminale del 5 agosto 2019, ministro Matteo Salvini, secondo il quale anche le province di Ragusa e Matera andrebbero considerate zone di transito/frontiera. La deroga all’obbligo di applicare l’iter accelerato esclusivamente nella frontiera di arrivo, scrive la giudice, vale solo se è impossibile farlo “non per la mera difficoltà, come invece si legge nel provvedimento del questore”. Venendo meno questa circostanza cade anche il presupposto del trattenimento del richiedente asilo, novità introdotta nell’ordinamento italiano dal decreto Cutro. La sentenza contesta poi la legittimità della garanzia finanziaria. Il decreto attuativo voluto dal governo Meloni la configura come l’unica possibilità per evitare la detenzione e vieta che possa versarla un terzo. Entrambi questi aspetti contraddicono il diritto comunitario. La decisione di Apostolico era prevedibile, sarebbe stato singolare se avesse smentito se stessa. I casi erano uguali al primo round di provvedimenti, è cambiato solo il clima con i pesanti attacchi subiti. Peraltro il suo ragionamento giuridico è stato condiviso anche da un altro magistrato. L’unica novità incorsa nel frattempo è un dettaglio che riguarda la procedura: dopo il primo giro di decisioni giudiziarie il presidente della commissione territoriale di Siracusa, cioè l’organo deputato a decidere sulla richiesta di protezione internazionale, è stato chiamato a emettere un provvedimento per convertire l’iter ordinario in quella accelerato. In questa forma starebbe comunque andando avanti nel centro di Modica per i richiedenti tunisini, sebbene senza privarli della libertà personale. Secondo l’avvocato Biagio Scillia, che ha difeso i quattro ricorrenti, è stato dimostrato che il trattenimento disposto dal questore di Ragusa violerebbe “il principio della proporzionalità della misura e quindi il diritto alla libertà personale”. “Sotto il profilo giuridico la sentenza appare ineccepibile”, dice Scillia. A Roma un migrante minorenne è stato trattenuto per dieci giorni in una cella di Gaetano De Monte Il Domani, 12 ottobre 2023 Ma non è l’unico caso. Diverse fonti che frequentano l’ufficio immigrazione di Roma raccontano che nelle ultime settimane anche altri ragazzi hanno subìto lo stesso trattamento, ma per meno giorni. Ora su questa vicenda la Corte Europea per i Diritti dell’Uomo ha chiesto ieri chiarimenti al governo italiano. C’è un minore straniero non accompagnato che ha vissuto per dieci giorni all’interno di una cella di sicurezza di due diverse questure di Roma. Perché per lui non si trovava un posto nella capitale in una comunità di accoglienza per minorenni. Ora su questa vicenda la Cedu, cioè la Corte Europea per i Diritti dell’Uomo, ha scritto al governo chiedendo chiarimenti. In particolare, i giudici europei hanno chiesto quale siano state le condizioni di detenzione a cui è stato sottoposto il minore nei giorni scorsi, e quali misure sono state adottate “in merito alla collocazione del ricorrente nei locali del commissariato Casilino Nuovo e del commissariato di via Teofilo Patini”. Il minorenne vive al sicuro in una casa famiglia dal 6 ottobre, dal giorno in cui è stata avviata contro il governo di Roma la procedura davanti alla Cedu, che ieri ha chiesto ha scritto all’Italia, chiedendo chiarimenti. Ma andiamo con ordine. Questa è una storia di violazioni che coinvolge vari livelli di responsabilità istituzionali. A cominciare dal fatto che quando il ragazzo è sbarcato a Lampedusa, alla fine di settembre, è stato identificato dalla polizia come maggiorenne, nonostante fosse in possesso di un certificato di nascita attestante la minore età. E, da qui, è stato trasferito in un centro di accoglienza straordinario per adulti nella capitale. Quando però dopo qualche giorno si è recato nel commissariato Casilino Nuovo per dichiarare le proprie generalità e segnalare la propria presenza sul territorio nazionale, i poliziotti hanno scoperto che aveva soltanto 14 anni. Odissea - Da allora il ragazzo ha vissuto una vera e propria odissea nelle celle di sicurezza di due questure romane. Perché gli agenti del commissariato, fin da subito, avevano contattano la sala operativa sociale del comune di Roma e la procura presso il Tribunale per i minorenni per l’individuazione di una struttura presso cui collocare il minore. “Ma non è stato possibile in tale data individuare un centro di accoglienza per minori o una casa famiglia presso cui collocare il ragazzo e pertanto, dietro indicazioni del pubblico ministero, è stato disposto che il minore rimanesse in custodia del commissariato”, si legge nel ricorso d’urgenza alla Cedu dell’avvocata Vittoria Garosci. Il 6 ottobre scorso, data del ricorso, la legale ha scritto nell’atto che “sebbene siano trascorsi oltre 7 giorni dalla presentazione presso gli uffici di polizia, il minore si trova ancora in custodia della polizia, in attesa di collocamento, e sta vivendo in condizioni disumane e degradanti, oltre che gravemente lesive dei suoi diritti in quanto minore”. E ancora, Garosci ha riferito a Domani che il minore è rimasto all’interno del commissariato Casilino Nuovo per cinque giorni, dal 28 settembre al 3 ottobre, poi è stato trasferito all’interno di un’altra struttura della polizia, in via Teofilo Patini, dove ha sede l’ufficio immigrazione. Vivendo così dieci giorni tra due celle, trattenuto all’interno di una stanza sotto stretta sorveglianza degli agenti, con la possibilità di uscire solo per andare in bagno. Il minore in questione ha consumato i suoi pasti a terra, con il cibo che veniva poggiato sulle gambe, senza alcuna attenzione alle esigenze alimentari, alcune delle quali dettate, tra l’altro, da convinzioni religiose. Ecco, dunque, come ha trascorso le sue giornate un minore straniero non accompagnato che non aveva commesso alcun reato e che è stato rinchiuso per dieci giorni all’interno della camera di sicurezza di una caserma della polizia; per quattro giorni, dal 28 settembre al 2 ottobre, gli è stato sequestrato dagli agenti pure il cellulare, in mancanza di alcun provvedimento formale. Non solo. Mentre è stato detenuto, il ragazzo non ha potuto incontrare un assistente sociale né un avvocato, né risulta che per tutelare la sua condizione sia stato nominato un tutore dal tribunale dei minorenni. Tutti informati - Eppure, sia il Garante nazionale diritti all’infanzia e adolescenza, sia quello regionale, insieme alla procura per il tribunale dei minorenni di Roma, risultavano essere stati allertati attraverso Pec il 2 ottobre scorso, insieme alla sala operativa sociale del Comune, appunto. E qui il quadro delle responsabilità istituzionali nella vicenda si complica ulteriormente. Nel frattempo in questi ultimi dieci giorni i minori stranieri non accompagnati “ospiti” nelle cellette dell’ufficio immigrazione di Roma sono stati diversi, una decina. Parcheggiati lì in attesa di un posto in accoglienza. “I tempi di attesa sono di circa una settimana/10 giorni, nel corso dei quali i minori non potranno fare ritorno al Cas, e saranno in custodia al commissariato stesso”, racconta a Domani una fonte ben informata di quanto accade negli uffici di Via Patini. È in questo limbo del diritto che minorenni stranieri arrivati senza la famiglia in Italia si ritrovano detenuti, sempre più spesso, senza alcuna convalida giudiziaria. Per questo l’avvocata Garosci ha denunciato alla Cedu l’Italia per aver violato una serie di articoli della Convenzione per i diritti dell’uomo. Nel suo ricorso si chiede “l’immediato collocamento del minore in una struttura adeguata alle sue esigenze, di assistenza, informazione e protezione”. E questa volta non saranno i giudici italiani a valutare le azioni del governo sul rispetto dei diritti fondamentali e della dignità delle persone migranti, ma quelli europei. Destra, sinistra e gli equilibrismi sulla questione palestinese di Flavia Perina La Stampa, 12 ottobre 2023 I partiti ripassano a suon di mozioni la loro “linea storica”, ma nessuno conosce davvero la Gaza di oggi. Nel Paese di Machiavelli pure la risoluzione su una strage di innocenti diventa un esercizio di equilibrismo e sottigliezza, e così la mozione unitaria sull’attacco di Hamas a Israele non c’è stata ma il voto incrociato delle destre sulla mozione della sinistra, della sinistra sulla mozione delle destre e del terzo polo su quelle degli altri due, ha tenuto insieme le cose. Dicono che una parte delle destre, la Lega e qualche pezzo di FdI, puntasse al voto contrapposto per poter accusare gli avversari di occulto sostegno ad Hamas. Dicono che in extremis Palazzo Chigi e soprattutto la Farnesina ci abbiano messo una pezza (il voto incrociato) rendendosi conto dell’enormità della cosa. Ma il background della confusa giornata parlamentare di martedì è storia che precede di gran lunga l’attualità, i melonismi, i salvinismi, gli schleinismi, i bonellismi, vecchia quanto la nostra democrazia, e persino precedente. È la storia della nostra iper-fedeltà atlantica e al tempo stesso dei nostri patti segreti con i movimenti palestinesi, della destra innamorata di Moshe Dayan ma al tempo stesso memore della spada dell’Islam alzata da Benito Mussolini in Libia, della sinistra resistenziale, antifascista, antirazzista, culla della denuncia di ogni riflesso antisemita ma al tempo stesso incline a fischiare la Brigata Ebraica ogni 25 aprile. Se oggi, in una mozione di condanna e solidarietà che poteva parere scontata, si pesano pure le virgole è perché ogni virgola sarà soppesata e valutata dai quadri politici minori e dalla vecchia guardia dei rispettivi elettorati, quella che sulla questione palestinese (per decenni l’abbiamo chiamata così) si è accapigliata nei licei degli anni Settanta, ai tempi del Kippur o addirittura della Guerra dei Sei Giorni. Settantenni che hanno una vecchia kefiah nel cassetto dei ricordi o che scrivevano sui muri Arafat Assassino, mica tutti dalla stessa parte, anzi piuttosto confusi trasversalmente agli schieramenti. Sì, perché prima dei macellai di Hamas, prima dell’Isis e di Al Qaeda, prima della minaccia nucleare iraniana, prima che gli Usa si ritirassero nel loro angolo di mondo, prima dello scontro di civiltà, quando ogni conflitto era territoriale, politico, laico, e le guerre di religione risultavano un capitolo ancora da scrivere, il “peccato originale” (cit. Shimon Peres) del popolo senza terra fu l’epicentro di ogni ragionamento sui diritti dei popoli, tema che più di ogni altro appassionò la generazione dei boomer. C’era l’Irlanda, certo. C’era la mite resistenza del popolo tibetano, e ovviamente il Vietnam (a sinistra) e le rivolte di Budapest e Praga (a destra), gli armeni e i curdi. Ma la Palestina sovrastava tutto grazie alla leadership carismatica di Yasser Arafat, l’uomo che nel Duemila la portò a un passo dai “due popoli e due Stati” e poi si tirò indietro, temendo forse di perdere il controllo sulla sua organizzazione. “Una personalità veramente eccezionale, che per anni, per decenni, è stato il centro significativo di una grande battaglia, di grandi drammi, di una terribile tragedia”: non sono parole di Nicola Fratoianni ma di Mirko Tremaglia, colonna del vecchio Movimento Sociale, guardiano della sua collocazione atlantica e filo-americana, l’uomo che nel 1985 si dimise da responsabile Esteri del partito a causa di un voto del Comitato centrale ostile agli Usa sulla crisi di Sigonella. E al tempo stesso, nel mondo della destra missina, era diffusa l’ammirazione per Israele: non l’Israele dei kibbuz e delle esperienze di socialismo comunitario ma l’Israele in armi, l’Israele di Moshe Dayan, l’eroe dei Sei Giorni, e degli studenti capaci di lasciare i libri e imbracciare il fucile per difendere la loro terra minacciata. A sinistra le contraddizioni furono minori. L’abbraccio alla “vecchia” causa palestinese è stata una costante della politica estera del Pci, delle sue relazioni, delle battaglie diplomatiche per la legittimazione dell’Olp, tantochè Yasser Arafat seppure inseguito da un mandato di cattura dei pm di Verona (traffico d’armi con le Br, accusa finita in fumo) riuscì a partecipare ai funerali di Enrico Berlinguer ottenendo per vie politiche la garanzia che nessuno lo avrebbe arrestato allo sbarco a Fiumicino. E tuttavia anche lì la Questione Palestinese si è fatta via via secondaria, evanescente, seppellita dalle nuove urgenze internazionali scatenate dall’Undici Settembre. Nessuno ne ricorda gli sviluppi. Pochi hanno presente che la Gaza di oggi, la Gaza imprigionata tra muri e reticolati, senza acqua né luce e presto senza cibo e medicine, nasce nel 2005 da una scelta che sembrò felice e positiva, il completo ritiro degli israeliani dalla Striscia con lo sgombero concordato o forzato di tutti i coloni. Che quel ritiro fu festeggiato come un segnale di speranza. Che un anno dopo i falchi di Hamas vinsero le elezioni e anziché inaugurare una nuova fase festeggiarono facendo fuori ogni esponente di rilievo di Al Fatah, il partito fondato da Arafat. Che da allora i palestinesi non hanno più potuto votare e il loro status di doppia prigionia, un agguerrito esercito oltre i muri e inflessibili milizie all’interno, è sempre peggiorato. Insomma, l’eco novecentesca della questione palestinese andrebbe aggiornata, ma le classi dirigenti, i partiti, le persone, se ne sono dimenticati per così tanto tempo che risulta difficile farlo. Nella manifestazione milanese in favore di Hamas e contro Israele si sono sentiti gli stessi slogan che sentivamo da ragazzi su Al Fatah, e brillavano non solo di scarsa umanità verso le vittime innocenti delle stragi di sabato ma anche di ignoranza e approssimazione. E tuttavia si capisce che le singole forze politiche, davanti all’urgenza di trovare una posizione unitaria, si siano arrese e abbiano prodotto, alla fine, lo spettacolo di quattro mozioni diverse e però votate da (quasi) tutti con uno scambio incrociato di cortesie. Ciascuno ha il suo tributo da versare alle suggestioni del passato, ciascuno ha studiato la frase di riferimento che sarà percepita dai suoi come “fedele alla linea”, anche se quella linea almeno da un ventennio è stata fatta in pezzi dagli eventi. Israele-Gaza, il confine dell’odio di Domenico Quirico La Stampa, 12 ottobre 2023 Da una parte centinaia di ragazzi, musica, balli, la “globalizzazione della felicità”. Dall’altra giovani con coltelli e kalashnikov, il “kit per il paradiso”, il massacro e il martirio. Due mondi divisi da pochi chilometri, una recinzione l’immagine della nostra fragilità e insicurezza. Lo sbarramento, la frontiera di ferro e cemento, l’argine tecnologico sofisticato robusto, insomma moderno, sabato scorso stava lì a poca distanza, un chilometro. Rincuorava, nel fatalismo orientale di questa guerra che dura da settanta anni, così crudele da consistere, non come le altre, in una serie di battaglie ma in una serie di tragedie. Era, comunque la si guardasse da entrambe le parti, la fine di un mondo, del mondo. Israele e Gaza, di qui Israele di là Gaza. È difficile, lo so, sfuggire a questo incantesimo, che una muraglia si carichi di un effetto magico, guardandola dai due lati, e sia una garanzia incrollabile o uno sbarramento invalicabile. Si fa in fretta a venderla come eterna. Si crede a questa eternità come gli indigeni delle foreste credevano nelle forza dello stregone. Ora dobbiamo ricostruire le due scene, mettendo insieme i frammenti: come i brani di una lettera strappata, pazientemente. Per la parte israeliana non è difficile: le scene, i rumori della festa musicale che si svolgeva a pochi passi dal confine più gonfio di rabbia del mondo, più impregnato di odio, sono così forti e vivi che hai l’impressione, dolorosa, di sentirli fisicamente. Perché sai che cosa accadrà poco dopo, il massacro i sequestri la guerra. È dall’altra parte che la lettera è stata nascosta così bene che si può partire, per rimetterla insieme, solo dal momento in cui la barriera è stata abbattuta, perforata, scavalcata, sorvolata dai miliziani di Hamas. Quello che ci interessa non è sapere come questo organismo altamente sviluppato sia stato trasformato in una medusa amorfa, le sue ossa di ferro e di cemento siano diventate molli e i suoi tendini, i suoi nervi sensibilissimi si siano in pochi istanti decomposti. Ci interessa fissare i due mondi separati, ancora per poco, dal muro. Allora. Da una parte c’è un popolo di ragazzi che vive. Ovvero cerca con la musica il ballo l’amore la festa di essere se possibile felice o meno infelice per qualche ora. Il tutto si svolgeva all’aperto. Questo aiuta. Non ci sono monumenti, indicazioni stradali architetture tipiche; solo alberi e sabbia. Se sfuocate il paesaggio della Palestina e lasciate in primo piano solo i protagonisti del festival potreste spostare questa scena in qualsiasi luogo dell’isola Occidente, il Nord America, l’Europa, l’Australia, il Giappone. C’è la musica, così anonima, banalmente universale che potrebbe sbucar fuori da ogni autoradio occidentale. Non è importante il tipo della festa, “rave”, alcol spinelli modeste trasgressioni. Porta fuori strada. È una istantanea di vita della gioventù del nostro mondo. Israele è un pianeta molto complesso e drammatico, per storia, cultura, teologia, politica, vi convivono negli ultimi tempi con attriti e rifiuti comunità diverse. Ma per coloro che stanno al di là di quel muro Israele, dal 1948, è una scaglia dell’Occidente ricco, potente e tracotante che lo ha piantato con la forza sulle loro divisioni e debolezze. E questo non lo pensano solo gli estremisti e i fanatici religiosi. Siamo noi da questa parte del muro, il nostro modo di vivere nel bene e nel male, la nostra idea del mondo che è il diritto anche alla felicità. Non c’era traccia di paura di allarme tra quei ragazzi, non la paura che viene per quello che potrebbe accadere ma neppure per quello che c’è già stato. Eppure in occidente la paura esiste, paura della povertà della malattia del diventare poveri. Sì, la paura è un lusso e noi ce la possiamo permettere. Cinquanta anni fa sarebbero stati nei kibbutz, in uniforme anche per una festa, l’Uzi il fucile sempre a porta di mano, pronti a respingere l’attacco che poteva arrivare da ogni lato come una nebbia che ristagna sempre. Erano i figli e i nipoti di pionieri, erano nati e cresciuti nella guerra, nella minaccia. Quel tempo lo sentono come passato: con la certezza della superiore potenza, con la pace raggiunta con gli stati vicini, i loro raiss e presidenti, forse come si stava annunciando addirittura con emiri e monarchi wahabiti. Sì, c’erano i palestinesi, inaggirabili come un macigno. con loro tutto era eternamente sospeso in un vuoto di patti e rifiuti. ma in fondo gli eredi dell Olp di Arafat sono un branco di politicanti addomesticati dalla predilezione per il potere e per la corruzione. Innocui. Adesso spostiamoci dall’altra parte. Perché davvero, sabato scorso, dal rassicurante al terrificante non c’era che un passo. Mentre il dj manovrava i suoi strumenti e alzava la musica, a poca distanza dalla recinzione, c’erano altri giovani che controllavano le armi, infilavano i curvi caricatori con trenta colpi nei kalashnikov, cercavano il loro posto sui pick-up, avvolgevano il capo nelle kefiah, accarezzavano le bombe a mano. Immaginiamo questo: la musica ad altissimo volume che viene dall’altra parte, le risate li avviluppa, li afferra in tutta la sua acutezza lacerante, distruttiva. Ma loro si difendono sillabando preghiere in cui un dio promette loro vendetta, ricapitolano le fasi dell’operazione dove dovranno colpire senza pietà, senza fare distinzioni, pensano ai loro morti. I loro morti i soli che contano, non quelli dell’altra riva. un baratro che purtroppo si riempie metro dopo metro da metà del secolo scorso. Attenzione: non sono i vecchi guerriglieri palestinesi con il loro stock di credenze disponibili e di sussulti identitari, nazionalismo comunismo. Sono i funzionari del jihad, cercano nella strage un lasciapassare per il cielo, bombe e mitra sono un kit per la resurrezione una volta compiuto il misfatto. Mai, credo, la separazione tra l’Occidente della (finta, ristretta) globalizzazione della felicità e l’altro mondo, quello dell’esclusione e del kalashnikov, è stata così esemplarmente evidente. perché qui i due estremi si toccano in spazi ridottissimi. In quell’altro mondo non c’è solo Hamas perché è gonfio fino a scoppiare, questione palestinese, fanatismo religioso, segregazione urbana, fascinazione mediatica, miseria economica, degrado, l’umiliazione dell’escluso, anche a fame. A trascinar via gli ostaggi non erano solo gli uomini di Hamas, c’era gente comune a caccia del suo trofeo di un giorno memorabile, di un nemico da umiliare in diretta del telefonino. La musica e il kalashnikov: semplificazione che gli estremisti hanno imposto e che noi non abbiamo per pigrizia ipocrisia e viltà saputo contrastare. Non dite che non lo conosciamo quel mondo, ci assedia un po’ come Israele avvolge Gaza. Solo che ci separano distanze rassicuranti e narcotiche, sono immagini parole. Poi un sabato di ottobre dei miliziani con uniforme nere fanno cadere un muro... I dotti Settanta che ad Alessandria d’Egitto hanno tradotto la parola ebraica Eden con il termine greco, ricalcato sull’iraniano, “paradeisa” ovvero giardino chiuso, sarebbero meravigliati della modernità di quella scelta linguistica. Quella furia contro i piccoli che mi fa ripensare ai nazisti di Dacia Maraini La Stampa, 12 ottobre 2023 Anche per chi crede nella vendetta la furia contro gli innocenti è ripugnante. Le SS cacciavano nelle camere a gas i piccoli perché erano il futuro di un popolo. Il primo nome che viene in mente è Erode, che avendo saputo da profezie ripetute, della nascita di un piccolo re che l’avrebbe spodestato, decise di fare uccidere tutti i bambini nati a Betlemme. Lo racconta Matteo nel Vangelo. Disegni e quadri di tanti secoli ci mostrano piccoli corpi afferrati per i piedi e fatti a pezzi con la spada, minuscole creature trascinate sulle strade per porgerli al soldato boia. Eppure, in tanti dipinti anche raccapriccianti, a nessun pittore è venuto in mente di rappresentare decapitazioni di bambini. Tagliare la testa ha un significato simbolico forte... Per un adulto significa rendere chiaro che si vuole eliminare il pensiero di quella testa, la parola diabolica, pericolosa, di quel capo. Ma cosa significa la decapitazione di un bambino, così sadica e brutale, ma anche così priva di senso logico? Si può provare piacere a tagliare la testa a un bambino? La ragione ci dice che solo un pervertito può provare questo piacere. Ma quando i pervertiti sono tanti, viene da pensare che si tratti di un piacere condiviso, che non deriva da un gusto privato, ma da un valore comune che riguarda il rapporto con un dio feroce e vendicativo. Il fanatismo religioso, che non riesca a riconoscere l’umano, ma solo il nemico da eliminare, diventa una spinta al massacro. C’è chi trova legittima questa vendetta, per le tante prepotenze degli israeliti che piano piano hanno tolto gli spazi vitali ai palestinesi. Ma anche le vendette hanno un limite che riguarda l’umano. Erode, ricordiamolo, aveva ucciso i suoi figli e varie mogli. Era un uomo privo di ogni sentimento, che godeva del male che faceva. E infatti rimane un governante isolato e unico nella Storia per i suoi atti crudeli. Anche per chi crede nella legittimità della vendetta la furia contro dei corpi innocenti appare ripugnante. Ricordiamo che i palestinesi sono altra cosa da Hamas. E per quanto desiderosi di riprendersi i terreni occupati non si accanirebbero contro degli esseri non responsabili. Cosa tipica del razzismo. Ricordiamo che le SS cacciavano nelle camere a gas proprio i bambini prima di tutto perché rappresentanti del futuro di un popolo da eliminare. I palestinesi, che in tanti anni di battaglie hanno sviluppato una loro etica guerresca, non esprimerebbero la loro rabbia decapitando degli innocenti. Il gesto è iniquo, vigliacco e nessuna religione l’ha mai teorizzato. Ma sappiamo che l’essere umano è capace di ogni scelleratezza attribuendola spesso ignobilmente alla volontà di un Dio. Prendersela con i più deboli per colpire i più forti, prendersela con i figli per punire i genitori ripugna anche a chi è assetato di rivalsa. Infatti molti, non sapendo a chi paragonarli, tirano fuori gli animali, chiamandoli bestie. Ma gli animali non straziano i loro figli per ragioni di potere. Gli animali non decapitano i piccoli per mostrare al nemico che sono forti. Queste estreme forme di sadismo sono segni di estrema debolezza, a cui per nessuna ragione, che sia storica o politica, si può acconsentire. Spero solo che alla ferocia di una vendetta territoriale non si risponda con altrettanta ferocia vendicativa. Le vendette, ce lo dice la ragione ma anche l’esperienza, non servono assolutamente a niente, salvo soddisfare una breve e viscerale voglia di rivalsa. Medici Senza Frontiere: “A Gaza è la catastrofe, no alle bombe su ospedali e ambulanze” di Paola D’Amico Corriere della Sera, 12 ottobre 2023 In tre giorni utilizzate le scorte di tre mesi. L’allarme dei team di medici e infermieri della Ong che opera nella striscia di Gaza. Danneggiato dai bombardamenti anche l’Indonesian Hospital. Ospedali sovraccarichi, centinaia di feriti sia israeliani sia palestinesi. Il grido di dolore è dei team di Medici Senza Frontiere (Msf) impegnati da giorni in una estenuante e immane opera di soccorso. La situazione a Gaza viene definita catastrofica. Dopo i continui bombardamenti e attacchi aerei, gli ospedali sono sopraffatti dall’elevato numero di feriti. I team lavorano incessantemente per trattare le persone ferite e donare forniture mediche. Le équipe oltre a essere attive all’ospedale di Al-Awda hanno allestito una clinica anche nel centro di Gaza e inviato team chirurgici in due ospedali. In tre giorni sono stati utilizzate le scorte di forniture mediche di tre settimane. “Abbiamo ricevuto nel nostro ospedale un ragazzo di 13 anni il cui corpo era quasi completamente ustionato dopo che una bomba è caduta vicino alla sua abitazione e ha innescato un incendio. È molto difficile trattare casi come questi nelle condizioni in cui ci troviamo ad operare e quando sono coinvolti dei bambini è molto difficile da accettare” spiega Léo Cans, capomissione di MSF in Palestina. Le bombe sull’ospedale - I bombardamenti a Gaza hanno colpito edifici residenziali, scuole, campi rifugiati, ospedali e ambulanze. Tra questi è stato danneggiato l’Indonesian Hospital supportato da Msf, un’ambulanza che trasportava un ferito è stata distrutta di fronte all’ospedale in cui Msf lavora e in totale quattro ambulanze sono state colpite dagli attacchi, causando almeno un morto. Inoltre, a causa dei bombardamenti un’équipe di MSF ha dovuto interrompere un’operazione chirurgica e lasciare in fretta l’ospedale. Secondo le ultime stime, ci sono attualmente almeno 200.000 persone sfollate a Gaza in cerca di un luogo sicuro. Mancano acqua, elettricità e carburante, e alcuni ospedali - le cui attività dipendono dai generatori - hanno carburante a sufficienza solo per pochi giorni. Un ospedale supportato da MSF ha riferito che sta allungando i turni del personale per risparmiare carburante per i veicoli e anche la rete telefonica è stata gravemente danneggiata. “Le strutture mediche devono essere rispettate e su questo non si può negoziare. Questo conflitto non deve, in nessun modo, portare alla punizione collettiva della popolazione di Gaza. Tagliare le forniture di acqua, elettricità e carburante è inaccettabile, e colpisce l’intera popolazione privandola dei suoi bisogni primari” conclude Cans. Gaza travolta dai raid e senza elettricità: “Abbiamo perso tutto, che Dio ci aiuti” di Francesco Battistini Corriere della Sera, 12 ottobre 2023 Niente acqua né cibo, attacchi ogni mezz’ora e 1.000 palazzi distrutti. Gli ospedali si aggrappano ai generatori di corrente. L’appello di Biden: “Israele rispetti il diritto di guerra”. A un certo punto, mentre il piccolo mondo di Gaza tutt’intorno grida e scappa, Mohammed Abu Rahma perde Ayman. Il bambino piccolo. “S’è sentita un’esplosione. Crollava tutto. Ayman dà sempre la mano alla mamma, ma s’è terrorizzato e l’ha mollata. E’ scappato dentro il nostro palazzo, sotto le bombe”. A Mohammed si ferma ancora il cuore, mentre racconta al telefono: “L’ho inseguito, spintonando la folla impazzita. L’ho trovato nell’ascensore. Strillava. Sono riuscito a prenderlo in braccio, a fuggire. Appena prima che il condominio crollasse”. A Gaza, Mohammed è un attivista di Al-Haq, s’occupa di diritti umani, aveva uno stipendio: “Abbiamo perso tutto. Dormiamo dai parenti. Ayman è sotto choc. Quel che è successo a noi, succederà a tutta Gaza. Che Dio ci aiuti”. Se c’è un inferno, è già questo: che Dio li aiuti, lo dice anche il Papa. Telefona due volte, Francesco. Si fa passare padre Youssef, il viceparroco della Sacra Famiglia. E benedice in vivavoce chi s’è riparato là dentro: vi penso, vi benedico. Dalla Striscia non esce nulla e nessuno, a parte le storie raccontate. Quella di Hamdi Shaqura, che ha lasciato sotto le macerie moglie, fratello, figlia e cognato. D’Iman Radnan, rimasta senza padre, madre, marito e figlio. O di Ala Al-Kafarneh, che era scampato a due bombardamenti, ma al terzo tentativo ce l’han fatta ad ammazzargli otto persone: “Non so perché abbiano colpito sempre noi - piange- , siamo gente normale, non c’entriamo nulla con Hamas!...”. I media palestinesi la chiamano già La Catastrofe, ed è una citazione della madre di tutte le disgrazie, la Nakba, la grande cacciata che nel ‘48 costrinse un intero popolo a esiliare appendendo una chiave (“un giorno ritorneremo”) sulla soglia d’ogni casa abbandonata. Stavolta però è peggio: non se ne può andare nessuno, e molte case non esistono più. La Nuova Catastrofe non fa distinzioni, potenti o tapini: Husam Zomlot, ambasciatore a Londra dell’Autorità palestinese, ha sei familiari uccisi e deve piangerli lontano, non potendo rientrare; Humza Yousaf, premier della Scozia con moglie palestinese, ha i suoceri intrappolati e deve preoccuparsi da là, non potendo rimpatriarli. Muoiono sei giornalisti, nove funzionari Onu, due barellieri della Mezzaluna rossa. “Ci sono 22 grandi famiglie gazali - spiega Xavier Abu Aid, funzionario palestinese a Ramallah - che non esistono più. E parliamo di centinaia di persone”. L’ora della vendetta scatta alle due del pomeriggio. Quando si spenge la luce, con la speranza. E finiscono la benzina e le parole. E cadono le linee e le forze. E l’unica centrale elettrica di Gaza, che andava sì e no quattro ore al giorno, non ha più energia e stacca. Clic. Tutti al buio. Gli ospedali s’appiccicano ai generatori, finché ce n’è. Il resto s’arrangi. È l’inizio vero del Grande Assedio. Il peggiore. Due milioni di palestinesi che da sedici anni dipendevano all’80 per cento dagli aiuti, e adesso neanche da quelli. Niente acqua, niente cibo, niente telefoni, niente carburante, ora niente elettricità. E dal cielo un raid ogni mezz’ora. I droni picchiano duro il nord di Beit Hanoun come il sud di Khan Younis, il centro di Gaza City e il valico di Rafah verso l’Egitto, il campo profughi di Bureij e le serre, le banche e i tunnel. Mille palazzi rasi al suolo, dodicimila danneggiati, 48 scuole e dieci ambulatori medici colpiti, 2.250 obbiettivi centrati, dall’Università islamica alla torre della tv. Gli ospedali buttano fuori i morti, perché non sanno dove metterli. All’operazione Tempesta di Al Aqsa, che in un sabato ha preso ostaggi e sgozzato 1.200 agnelli innocenti, Israele risponde con un diluvio di fuoco che, d’innocenti, ne seppellisce 1.100 in tre giorni. I signori di Hamas se ne infischiano: l’ultima guerra, a partire da Ismail Haniyeh, se ne stavano al sicuro negli albergoni qatarini, ora chissà. Ma i sudditi, no: Hamas li spinge a morire da “martiri” nelle loro case. Anche quando arriva la telefonata dell’aviazione israeliana, che avverte del bombardamento. Anche se in molte di quelle case si nascondono i jihadisti, e tocca fare da scudi umani. In 400mila sono già a corto d’acqua e di cibo, 260mila sono sfollati nelle scuole ancora in piedi, nei campi, lungo le strade. Impossibile passare per Rafah, sognando un altro Egitto. Anche perché nessun Egitto al mondo se li prenderebbe, tutti questi profughi. “Questo è un vero genocidio, andremo al Tribunale dell’Aja!”, grida nel suo ufficio di Ramallah il capo di Al-Haq, Shawan Jabareen, legato ad Abu Mazen: “Chiederemo un’inchiesta internazionale. C’è un doppio standard: il mondo fa distinzioni fra sangue e sangue, quello palestinese non vale nulla. I media parlano sempre dei morti israeliani. E per quel che fa a Gaza, Israele gode dell’impunità”. Scusi, ma lei che pensa del massacro di Hamas? “Io non difendo Hamas. A Ramallah non amiamo Hamas. Ma se devo pensare al terrorismo, io penso a Israele. Quella di Hamas è resistenza”. Se Gaza è impanicata ed esausta, la Cisgiordania ribolle di rabbia. Il venerdì di preghiera sarà un test, c’è chi sogna l’intifada definitiva. A un quarto piano di Ramallah, un anziano in pigiama blu guarda Al Jazeera e accarezza il suo barboncino: si chiama Nabil Shaath, ha 85 anni, fu il principale consigliere di Yasser Arafat. “La mia famiglia è a Gaza e non so nulla…”, scuote la testa. Arriva un messaggino della sorella: “Ma è vero quel che sta succedendo?”, c’è scritto. “Solo l’Egitto può mediare”, dice Shaath: “Ma alla fine sarà Israele, a decidere tutto”. Che cos’avrebbe detto Arafat, di questo massacro organizzato da Hamas? La domanda cade nel vuoto. Eludere, come insegnava il maestro di tutte le kefieh: “Non so di cosa parlate, non sono informato”. Lettera da un carcere iraniano di Narges Mohammadi* Internazionale, 12 ottobre 2023 Da anni in prigione per aver difeso i diritti umani, Narges Mohammadi ha appena ricevuto il Nobel per la pace. A giugno ha scritto un testo che dà voce a chi lotta contro i regimi autoritari Lo scopo delle mie parole è dare un volto agli esseri umani che, ovunque nel mondo, subiscono una prigionia, tra le mura di un carcere o di un paese oppressivo, e che nonostante tutto aspirano a far cadere questi e altri muri: quelli dell’ignoranza, dello sfruttamento, della povertà, della privazione e dell’isolamento. Sentite in Iran il rumore sordo del muro della paura che s’incrina? Presto lo sentiremo crollare grazie alla volontà implacabile, alla forza e alla determinazione incrollabile degli iraniani. In quanto donna, e come milioni di altre donne iraniane, mi sono sempre dovuta confrontare con la prigionia imposta dalla cultura patriarcale, dal potere religioso e autoritario, dalle leggi discriminatorie e repressive e da ogni tipo di restrizione in qualsiasi ambito della mia vita. La nostra infanzia non è sfuggita a questa prigionia culturale. “Loro” non ci hanno permesso di vivere la nostra giovinezza e, in una parola, la nostra vita. La triste verità, in fondo, è che il governo autoritario, misogino e religioso della Repubblica islamica ci ha rubato la vita. Da una parte e dall’altra delle mura del carcere di Evin, dove siamo state imprigionate, non siamo rimaste immobili. In quanto donne, a volte sole e senza sostegno, spesso travolte da accuse e umiliazioni, abbiamo spezzato a una a una le nostre catene fino a quando è nato il movimento rivoluzionario Donna, vita, libertà. Allora abbiamo mostrato la nostra forza al mondo. Colpevole di vivere - Al liceo ho studiato matematica e fisica, poi ho proseguito all’università gli studi di fisica applicata. Sono diventata ingegnera. Tuttavia, a causa del mio impegno per i diritti umani, la mia formazione e la mia carriera si sono scontrate con “il muro dell’ostruzione”. Ho fatto la giornalista ma, per ordine della guida suprema della Repubblica islamica e dopo la chiusura dei mezzi d’informazione indipendenti, i nostri giornali e le nostre riviste sono finite sotto il “muro della censura” e la nostra libertà d’espressione è stata imbavagliata. Sono diventata portavoce del Centro per la difesa dei diritti umani, per partecipare alla formazione in Iran di un grande movimento associativo e tentare di dare corpo a una società civile organizzata, reale e forte. Ahimè, queste organizzazioni si sono scontrate con la barriera innalzata dalle autorità, dopo attacchi ripetuti delle forze di sicurezza, sostenute dai servizi segreti e dai guardiani della rivoluzione. Ho protestato e lottato contro le politiche distruttive e repressive, al fianco di migliaia di manifestanti e oppositori che sono stati anch’essi accerchiati dalle mura della prigione, dell’isolamento e della tortura. Infine, sono diventata “madre”, ma da molto tempo tra me e i miei figli si è levato “il muro dell’emigrazione e dell’esilio forzato”, come per centinaia di migliaia di altre madri che soffrono l’allontanamento dai propri figli. Mi mancano le parole per descrivere questa maternità rimasta dietro “il muro della crudeltà e della violenza”. Nonostante questa prigione in cui ci troviamo non abbiamo mai smesso di batterci. Siamo diventate madri e padri universali, abbiamo conservato i nostri valori, il nostro entusiasmo, il nostro amore, la nostra forza e la nostra vitalità, abbiamo ricreato la vita vera. Anche se ostacolate da tutte queste serrature, siamo state capaci di far emergere il potere di chi si oppone e la forza della contestazione. Il nostro impeto ci ha portato più in alto dei muri che ci opprimono e ora siamo più forti e solide di loro. Se le nostre sbarre sono l’immobilità, il silenzio e la morte, noi siamo movimento, eco e vitalità, ed è qui che si disegna la promessa della nostra vittoria. Il governo della Repubblica islamica nega i diritti fondamentali alla vita, alla libertà d’opinione, d’espressione e di religione; il diritto a praticare la danza e la musica, e perfino il diritto all’amore. Se guardate con attenzione la società iraniana vedrete che ciascun individuo, in ogni momento della sua vita e in ogni luogo, è colpevole del desiderio di vivere. Rischia per questo reato le sanzioni peggiori, di essere punito, umiliato, arrestato, tenuto in carcere e perfino di essere condannato a morte. Ognuno di noi è diventato un oppositore al regime. Il mondo è testimone delle proteste in Iran e della creatività del movimento, che ogni giorno inventa nuove forme di mobilitazione. Questo movimento conduce a una transizione che passo dopo passo allontana la Repubblica islamica e ci porta verso la democrazia, l’uguaglianza e la libertà. Il ruolo dei mezzi d’informazione indipendenti, della società civile, delle organizzazioni per i diritti umani, in tutto il mondo, è cruciale in questa lotta. Care lettrici, cari lettori, la pubblicazione di questa lettera dimostra che la nostra voce è stata abbastanza potente da raggiungervi. Siate anche voi la nostra voce, trasmettete il nostro messaggio di speranza, dite al mondo che noi non siamo dietro queste mura per nulla e che ora siamo più forti dei nostri aguzzini che usano tutti i mezzi possibili per mettere a tacere la nostra società. Questa voce risuonerà nel mondo. Questo orizzonte ci motiva e ci rallegra. Trionferemo insieme. Sperando di veder arrivare molto presto quel giorno. *Carcere di Evin, Teheran, giugno 2023 (Pubblicata inizialmente da Le Monde)