La “punizione” tra carcere e Costituzione di Bruno Ferraro* Libero, 11 ottobre 2023 Le problematiche legate all’esecuzione penale e, in particolare, alla natura delle pene e del giusto trattamento punitivo dei soggetti che violano la legge commettendo reati, sono al centro del dibattito pubblico. Si scontrano in questo campo esigenze contrastanti che rendono difficile l’individuazione del punto di equilibrio, tra chi giustamente richiede la comminazione di pene adeguate rivendicandone efficacia ed eseguibilità e chi invece si appella all’art. 27 della Costituzione che contempla l’esigenza della rieducazione e dell’emenda del reo come finalità ultima del sistema. La riforma varata dal Governo Draghi e dalla Ministra Cartabia ha introdotto misure che hanno come obiettivo primario l’alleggerimento del numero dei detenuti in carcere: obiettivo sicuramente giusto ma che spesso, nei singoli casi, induce forti perplessità a livello di opinione pubblica e sconcerto nelle vittime delle azioni criminose o nei loro familiari. L’obbligo del giudice di tener conto della particolare tenuità del fatto, come pure di sospendere l’esecuzione delle pene mettendo alla prova il condannato, estendono ai condannati adulti misure che furono pensate per i minori degli anni diciotto: estensione condivisibile solo se non si incorre in abusi di tale trattamento (una sorta di perdono giudiziale applicato in passato ai soli minorenni) e se si è in grado di valutare con il giusto rigore l’esito della messa alla prova (cosiddetta probation). Lo stesso può dirsi, più o meno, per l’irrogazione di pene sostitutive in luogo delle pene detentive brevi, che richiedono un metro non lassista di valutazione giudi7iale per evitare che si trasformino in una sorta di amnistia o di indulto applicati dal giudice in assenza di una normativa autorizzatoria. Merita sicuramente adesione la scelta della cosiddetta giustizia riparatoria, basata sul presupposto che chi ha, con il reato, procurato un danno ad un soggetto deve attivarsi al massimo delle sue possibilità per ridurre od eliminare le conseguenze dannose del proprio comportamento. Non più, si spera, in futuro il “regalo” delle attenuanti generiche e della sospensione condizionale a soggetti che non si dimostrano meritevoli di tale concessione. Il legislatore ha operato anche una revisione del trattamento per una cospicua serie di fattispecie criminose. Mi limito a ricordarle senza scendere nel dettaglio per carenza di spazio: lesioni personali, lesioni stradali, sequestro di persona, violenza privata, minacce, violazione di domicilio, furto, invasione di terreni o di edifici, danneggiamento, molestie e disturbo. Si tratta di comportamenti di importanza basilare per il corretto vivere della società civile e l’intento che ha mosso la riforma è perfettamente comprensibile. La conclusione? Intervenire si doveva, il come è ovviamente discutibile, la ricetta non è semplice, le esigenze da tenere presenti sono varie e spesso contrastanti. Non è comunque un problema di quantità della pena ma di serietà ed effettività del sistema punitivo nei singoli casi. *Presidente Aggiunto Onorario Corte di Cassazione Gli attacchi alle toghe ricompattano le correnti. In campo anche i giuristi di Simona Musco Il Dubbio, 11 ottobre 2023 L’annuncio, da parte del ministro della Giustizia Carlo Nordio, di possibili accertamenti preliminari sulla giudice Iolanda Apostolico, “colpevole” di aver disapplicato il decreto Cutro e di aver preso parte ad una manifestazione in difesa dei diritti umani mentre l’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini voleva impedire lo sbarco di decine di migranti stremati e scioccati, ha ricompattato le correnti all’interno del Csm. O almeno questa è la sensazione che circola tra alcuni togati a Palazzo dei Marescialli. Non per una comunanza di idee, ma con lo scopo, preciso, di difendere la magistratura dagli attacchi ormai più nemmeno troppo velati sferrati dal governo. Un po’ com’era successo con il caso Artem Uss, l’imprenditore russo figlio di un oligarca vicinissimo a Putin evaso dai domiciliari, che ha spinto il guardasigilli a “indagare” sulle toghe milanesi. Le opinioni sul comportamento di Apostolico non sono unanimi. C’è chi, pur avendo invocato la pratica a tutela, non approva né il merito della decisione né la scelta della giudice di partecipare alla manifestazione sul molo di Catania cinque anni fa, quando nemmeno si occupava di immigrazione. Ma un concetto è chiaro ed è stato evidenziato dal segretario nazionale dell’Anm Salvatore Casciaro, in quota Magistratura Indipendente: “C’è stata un’aggressione violenta e personale della collega dal momento che ha disapplicato il decreto per contrasto con le norme comunitarie - ha dichiarato in un’intervista al Corriere della Sera -. E ancora non c’era alcun video” che testimoniasse la sua presenza alla manifestazione. L’appartenenza culturale di Casciaro non è secondaria, dal momento che MI - considerata vicina al governo, tanto da rappresentare la maggioranza delle toghe fuori ruolo a via Arenula - è l’unica corrente a non aver sottoscritto la richiesta di pratica a tutela, pratica che approderà in prima commissione la prossima settimana. Una scelta dettata dalla necessità di “non fare politica”, ma anche di non blindare la pratica, come aveva chiarito il segretario Angelo Piraino. Di certo, qualora la questione dovesse arrivare in plenum, a votare contro saranno i laici di centrodestra. Convinti non solo che Apostolico avrebbe dovuto astenersi dal trattare la questione, ma anche dal lavorare in un settore come quello dell’immigrazione. Non c’è stato, però, il paventato scatto in avanti per richiedere un trasferimento per incompatibilità ambientale, così come ipotizzato da Repubblica nei giorni scorsi. Allo stato, infatti, in segreteria non risulta depositata alcuna richiesta. E anzi la sensazione, si sussurra tra i togati, è che i laici provino a prendere tempo, nella speranza che la pratica non arrivi in Consiglio prima che Nordio faccia le sue mosse. In plenum sarà battaglia, ma la sensazione, spiega un togato, è che alla fine Magistratura Indipendente possa votare assieme agli altri colleghi. “Se la pratica arriverà in Consiglio - spiega una fonte - dovremo votare un testo pacato, composto, istituzionale, che non metterebbe in difficoltà MI. Ciò che conta è prendere posizione, per guardare avanti, non indietro”. Molti togati sono decisi, comunque, ad approfittare della situazione per affrontare due questioni in un colpo solo: difendere, da un lato, l’indipendenza della magistratura, che non può fare da “stampella” alle politiche del governo, e chiarire, dall’altro, anche cosa comporti per le toghe, al tempo dei social, l’obbligo di apparire indipendenti, oltre che esserlo. “Credo che il tema dei limiti ai comportamenti del magistrato vada certamente affrontato, anche al nostro interno”, ha detto in una recente intervista a La Stampa Alessandra Maddalena, di Unicost, vicepresidente dell’Anm. Ma “scavare nel passato di un giudice è un’operazione preoccupante - ha aggiunto -. Temo diventi un metodo”. Insomma, il clima è quello della caccia alle streghe. E le differenze correntizie sembrano destinate a non contare più. Nel frattempo sono decine le firme raccolte in un documento che esprime solidarietà alla giudice catanese. Dal giurista Luigi Ferrajoli all’ex magistrato Livio Pepino, passando per il giudice Riccardo De Vito e decine di docenti, avvocati, giornalisti e attivisti, i firmatari - al momento oltre un centinaio - denunciano “un’aperta aggressione a due fondamentali principi della Costituzione repubblicana”. Da un lato, il principio della separazione dei poteri e dell’indipendenza della giurisdizione, dal momento che il potere politico, anziché criticare nel merito il provvedimento, finisce per aggredire chi lo ha emesso “con insulti e minacce dotate di una carica intimidatoria senza precedenti”. Dall’altro, la libertà di riunione di Apostolico, aggredita “con l’ausilio di un’illegittima operazione di dossieraggio”. È evidente, prosegue il documento a suo sostegno, “che questa seconda aggressione, mirata oggi contro Iolanda Apostolico, minaccia potenzialmente l’esercizio dei diritti politici di tutti e tutte”. Ma non solo: lo stupore e lo sdegno per la mancata convalida dei provvedimenti di trattenimento “fanno supporre che i nostri governanti ne ignorino l’ovvia legittimità e normalità e diano per scontata la subalternità dei magistrati, in deroga a quei due limiti costituzionali, ai poteri sulle libertà dei migranti comunque esercitati dalle forze di polizia dipendenti dal potere esecutivo”. La prescrizione muova dai tempi del reato e della pena e non dai tempi del processo di Alessandro Parrotta* Il Dubbio, 11 ottobre 2023 Ritorna a gran voce il dibattito intorno ad uno degli istituti più dibattuti e divisivi del sistema processuale penale italiano: la prescrizione. Sebbene considerata, da alcuni, indispensabile strumento di civiltà giuridica e di contrasto all’irragionevole durata dei processi, da altri, strumento che frusta le esigenze di chi, domandando giustizia, per via del mero decorso del tempo, se la vede negare a tutto “vantaggio” di chi quel reato ha commesso, non andrebbe tuttavia mai dimenticata la sua intima finalità: l’istituto della prescrizione è espressione prima di tutto - di un ben preciso concetto, ossia che con l’allontanarsi del momento della commissione del reato si affievolisce sempre piu? la funzione della pena, dal punto di vista general- preventivo e, ancor piu?, da quello special-preventivo. A dimostrazione di quanto questa materia sia più viva che mai, valga ricordare come non meno di un paio di settimane fa chi scrive commentava (con qualche riserva) l’intenzione attribuita al guardasigilli Nordio di modificare il regime di decorrenza del termine prescrizionale non più, come ora, dal tempus commissi delicti - quindi dal momento di consumazione del reato - bensì da quello della scoperta da parte dell’Autorità inquirente, momento che formalmente si fa coincidere con l’acquisizione della notizia di reato e la sua immediata iscrizione a registro da parte del Pubblico Ministero. È notizia di pochi giorni fa quella per cui la Commissione giustizia della Camera ha votato come testo base la proposta di Pietro Pittalis di Forza Italia, che, come detto sia dallo stesso autore sia dal relatore di maggioranza Andrea Pellicini (FdI), porterebbe a un ritorno alla ex Cirielli, dunque ad un’autentica prescrizione a carattere interamente sostanziale. In buona sostanza il tempo di estinzione dei reati correrebbe in tutti i gradi di giudizio, cancellando tanto l’improcedibilità della riforma Cartabia quanto il blocco dopo la sentenza di primo grado della riforma Bonafede e impedendo la dichiarazione della prescrizione in fase di impugnazione come previsto dalla riforma Orlando. La riforma Cartabia, come noto, introduceva una prescrizione processuale (rectius improcedibilità dell’azione penale) fissando un termine temporale entro il quale avrebbero dovuto concludersi i giudizi di impugnazione, altrimenti il processo si sarebbe estinto. Molteplici - come noto sono state le questioni sollevate dal nuovo impianto normativo, tanto sul piano della costituzionalita? quanto dal punto di vista processual- penalistico e operativo. Con l’attuale proposta si va verso un ritorno anche in secondo e terzo grado della prescrizione sostanziale (cioè l’estinzione del reato e non del processo) che scatta una volta trascorso un tempo equivalente al massimo della pena prevista (aumentato, di regola fino a un quarto, per effetto delle interruzioni). Sulla base del testo licenziato, del tutto provvisorio, si tratterebbe di una modifica ai due articoli del codice penale in materia di sospensione e interruzione del corso della prescrizione. L’idea della prescrizione processuale nasce, per l’appunto, dall’equivoco che la prescrizione sostanziale sia funzionale a garantire la ragionevole durata del processo. E, tuttavia, tale assunto è destinato a rivelarsi fallace se si guarda alle due finalità effettive della prescrizione sostanziale: da un lato, la funzione rieducativa della pena, che sarebbe frustrata se la pena fosse eseguita a troppa distanza dalla commissione del fatto, dall’altro, l’oblio che il decorso del tempo determina sulla memoria del reato, riducendo progressivamente l’interesse alla sua persecuzione. Tanto la funzione rieducativa della pena quanto l’oblio sulla memoria del reato, connesso al trascorrere del tempo, esigono che i termini di prescrizione siano commisurati non alla durata del processo ma alla distanza tra il tempo di commissione del reato e quello di espiazione della pena; dunque, è solo in rapporto a tali estremi che va valutata l’adeguatezza dei termini di prescrizione. Le tappe successive della proposta di legge seguiranno l’ordinario iter parlamentare: successivamente alla presentazione degli emendamenti al testo base adottato in Commissione Giustizia, per la cui scadenza era stata calendarizzata la data del 9 ottobre, il provvedimento sembrerebbe esser atteso in Aula alla Camera il 27 ottobre; sempre che non arrivi prima il Guardasigilli Nordio, anch’egli deciso a rinnovare la materia, con un disegno di legge di fonte governativa. *Avvocato, Direttore Ispeg “Nordio si era presentato come ministro delle riforme liberali, e invece…” di Angela Stella L’Unità, 11 ottobre 2023 Ha passato il testimone a Petrelli al termine del Congresso di Firenze, disertato dal Guardasigilli. “Delusi? Dovrebbe esserlo lui: si era presentato come il ministro delle riforme liberali, e invece...”. Il Congresso di Firenze ha chiuso l’esperienza di Gian Domenico Caiazza come presidente dell’Unione Camere Penali, che ora sarà sotto la guida di Francesco Petrelli. Avvocato, 5 anni da presidente, 3 ministri della Giustizia durante il suo mandato. Cosa le hanno insegnato questi anni in merito al rapporto tra giustizia e politica? Che la politica nelle sue varie forme si è dimostrata almeno inadeguata a gestire i problemi della giustizia, in particolare di quella penale. È una politica che non sa affrancarsi dal peso improprio della magistratura. Non di rado la politica si è dimostrata addirittura lontana dalla Costituzione. Lei qualche mese fa ha promosso con l’Unione una astensione per sostenere il Ministro contro chi gli stava impedendo di fare le riforme liberali. Lo avevate invitato anche al congresso ma non ha mandato neanche un messaggio. La delusione è forte? Credo che la prima persona che dovrebbe essere delusa è lui. È entrato nella scena politica presentato come il Ministro delle riforme liberali. Invece, volendo fare il bilancio di questo anno in materia di giustizia penale, siamo dinanzi alla legislazione più illiberale degli ultimi decenni. Certo, siamo delusi anche noi e credo che dovrebbe darci anche delle spiegazioni. Se non lo fa, evidentemente questa è la sola politica che in concreto è in condizione di esprimere. Di cosa va maggiormente fiero di questi cinque anni e in cosa invece avrebbe voluto fare di più? Sono fiero della crescita impressionante che l’Unione ha avuto in termini di comunicazione culturale e sociale. Abbiamo rotto il muro dell’isolamento, andando oltre l’interlocuzione con i soli addetti ai lavori. Siamo riusciti a crearci un’identità politica riconosciuta dall’opinione pubblica, come la voce più autorevole e più credibile per una idea liberale del processo e del diritto penale. Certo, avrei voluto ottenere più risultati di quelli raggiunti: ma noi rappresentiamo una idea minoritaria nel Paese, quindi tutto quello che riusciamo ad ottenere è sempre una conquista. Avremmo voluto fare di più proprio con Nordio. Io non ci sono riuscito, mi auguro ci riesca il mio successore. Fuori i magistrati dal Ministero della Giustizia: è uno dei principali obiettivi dell’Unione. Ma invece di mandare fuori loro, non sarebbe più semplice far entrare anche voi? Facendo questo ragionamento, facciamo scadere il problema in una contesa corporativa, per cui ‘vogliamo esserci anche noi’. Non credo che un avvocato, come libero professionista, possa essere protagonista del Ministero della giustizia. Quello che affermiamo è che invece non devono esserci magistrati nei ruoli apicali dell’Esecutivo, dove si determina la politica. Giusto interpellare avvocatura e magistratura, ma certe posizioni devono essere ricoperte da funzionari di carriera. Perché il capo di Gabinetto deve essere un magistrato? E perché il capo del legislativo non può essere un professore universitario? Separazione delle carriere. Lei è andato al Congresso di Area a chiedere un dialogo costruttivo. Il segretario uscente Albamonte proprio da questo giornale ha replicato: “è impensabile che si possa aprire una trattativa con la magistratura sull’accettare forme meno virulente di riforma costituzionale”... Vedo indubbiamente un irrigidimento, perciò ho fatto quell’appello. Si va alla ricerca di tutti gli aspetti divisivi della proposta di riforma, dopo che siamo riusciti a fargli capire che non vogliamo porre il pm sotto il controllo dell’Esecutivo. Ora sostengono che il nostro è un disegno di sottomissione della magistratura perché vogliamo togliere al Csm la sua funzione di terza Camera che ha acquisito in maniera autonoma, funzione che la Costituzione non gli assegna affatto. Sono temi però su cui si può discutere, se non lo si vuole fare significa che si vuole rimanere in una posizione ideologica che mi auguro si abbandoni. Sui provvedimenti di Catania, sempre Albamonte dal palco del vostro congresso di Firenze le ha rivolto una domanda: “Non devo rinnovare la mia iscrizione a Nessuno Tocchi Caino? Vogliamo davvero un sistema in cui la terzietà di un giudice può essere affidata ai database delle forze dell’Ordine?”... Non bisogna usare argomenti pretestuosi e suggestivi. Colgo i problemi di delicatezza della questione, quando si parla di manifestazioni pubbliche e di opinioni. Ma il problema che noi abbiamo posto non attiene al merito della decisione della giudice Apostolico che ho difeso perché il provvedimento non ha nulla di politico. Io ho richiamato un principio affermato dalla Cassazione: il giudice deve apparire imparziale. Invece di fare questi giochi provocatori occorrerebbe comprendere che ci sono situazioni che sono rimesse alla sensibilità della giudice e al rispetto della funzione giurisdizionale. Se un giudice va ad una manifestazione così connotata politicamente, dovrebbe essere proprio lui in primis ad astenersi. La magistratura ha raggiunto un tale livello di autoreferenzialità e di arroganza in alcuni casi che non riesce a cogliere neanche le più banali regole di opportunità. Certo, poi è ben chiaro che condivido la necessità di capire come questi video siano stati recuperati, come siano stati catalogati e finiti nelle mani del Ministro Salvini. Quanto è in pericolo il diritto di difesa in Italia? Moltissimo. Non volendo affermare una sorta di presunzione di impunità degli avvocati, è sotto gli occhi di tutti il moltiplicarsi di processi che coinvolgono in prima persona gli avvocati, criminalizzandone la funzione, quasi dando una lettura di favoreggiamento verso il proprio assistito. Ciò rappresenta una crisi gravissima dell’idea dell’avvocato e del diritto di difesa. Cosa farà adesso? Mi riposerò, sentendomi libero dal dovere quotidiano di svegliarmi e pensare a quali iniziative intraprendere. Ritornerò pienamente a fare l’avvocato. Poi si vedrà, la passione civile e politica non si estingue. L’Italia dovrà spiegare alla Cedu come sia possibile togliere i beni a un innocente di Fabrizio Costarella e Cosimo Palumbo Il Dubbio, 11 ottobre 2023 L’ormai nota ordinanza Cedu sul caso Cavallotti/Italia, pone al Governo - tra gli altri - il quesito se la confisca di prevenzione, prevista dall’art. 24 del D.L.vo 159/11, sia da considerarsi una “sanzione penale di punizione” ovvero una pena, alla luce della sua funzione e natura, nonché dei suoi presupposti applicativi. È una domanda che sembra finalmente squarciare il velo dell’ipocrisia che qualifica tale confisca non come actio in rem, ma come mezzo di natura preventiva e ripristinatoria. Natura decisamente stravolta dalla possibilità di confiscare beni non solo intrinsecamente non suscettibili di affermazioni di pericolosità, ma anche appartenenti a soggetti per i quali non è più possibile formulare un giudizio di futura proclività al delitto. Svincolare l’ablazione dalla necessità di - propria di tutte le misure praeter delictum - di sottrarre al singolo gli strumenti di affermazione della propria asocialità, ha inevitabilmente eroso gli ambiti di tutela del diritto di proprietà che, pur non assistito dalla riserva di giurisdizione, è tuttavia costituzionalmente garantito. Mortificarlo “off label”, non per le funzioni preventive proprie del sistema, ma in ottica stigmatizzante di comportamenti passati, significa annettere a tale ablazione natura spiccatamente sanzionatoria. Eppure, la qualificazione della confisca di prevenzione come sanzione è stata sempre esclusa tanto dalla giurisprudenza convenzionale, quanto da quella domestica. Ed anche la Corte Costituzionale, chiamata ad intervenire a seguito della sentenza De Tommaso/Italia, ha fatto leva sulla sua natura non punitiva, ma ripristinatoria, finalizzata ad apprendere beni che sono stati acquisiti illecitamente e dunque sulla base di un atto di acquisto geneticamente viziato. Come ciò possa conciliarsi con una sentenza penale di assoluzione, all’esito di un giudizio connotato da maggiori garanzie di accertamento, di partecipazione, di terzietà del Giudice, di contraddittorio è un interrogativo al quale le varie curie che si sono occupate della questione non hanno mai inteso dare compiuta risposta, sempre rifugiandosi nella diversa finalità della prevenzione. Ma se lo scopo di questa confisca non è più preventivo, ecco allora che si manifesta, in tutta evidenza, quella che la dottrina da tempo ha definito la “truffa delle etichette”, dal momento che, pacificamente, la distinzione tra questo strumento e la confisca penale non è negli effetti, ma nella struttura e nella funzione. Il recupero, solo in apparenza in chiave special preventiva, di misure afflittivo/punitive che l’ordinamento non è riuscito ad irrogare all’esito del procedimento ordinario e fa risorgere nel procedimento di prevenzione è una frode non solo concettuale. Perché ci vorrebbe indurre a non reclamare i nostri diritti fondamentali, affermando l’esistenza di una base legale di tale sacrificio, della quale tuttavia è stata tradita la ratio ispiratrice, per ragioni di politica criminale tipiche dello stato d’eccezione. Un sacrificio ordalico, che si consuma in un rito senza prescrizione, senza una compiuta pregiudizialità penale, senza vincolo di giudicato stabile, senza contraddittorio effettivo. Il procedimento delle privazioni, delle scorciatoie, che diventa tanto più invasivo e commissario, quanto più si amplia il catalogo dei suoi destinatari, in onta al feticcio dell’Antimafia sul cui altare tutto è sacrificabile. Ora il Governo dovrà dare delle risposte ai quesiti della Corte Edu. Dovrà spiegare se due misure ablative identiche possono distinguersi - ed essere perciò ritenute appartenenti a due diversi ambiti ordinamentali - solo sulla base del loro procedimento applicativo. Se tali procedimenti possano avere esiti incompatibili tra loro e se tale incompatibilità possa giustificare il mantenimento di una delle due misure. Se, ancora, si possa essere sottoposti a più procedimenti ed a diverse sanzioni, sia pure di contrabbandata natura eterogenea, alla luce dei principi elaborati dalla giurisprudenza convenzionale, con la progressiva evoluzione che, partendo dal caso Grande Stevens/Italia ed attraverso i casi Engel/Paesi Bassi e Mihalace/Romania, consente la sottoposizione a doppio binario sanzionatorio per idem factum solo a condizione che: ci sia differenza degli scopi dei procedimenti e diversità dei profili della medesima condotta in oggetto; sia prevedibile, in conseguenza alla condotta illecita, la duplicità di procedimenti; i procedimenti siano condotti evitando duplicazione nella raccolta e valutazione delle prove; la sanzione del primo procedimento venga tenuta in conto durante il secondo, garantendo proporzionalità della pena. Fin troppo facile rilevare che Il “doppio binario” italiano non presenta tali requisiti. E pare francamente difficile rispondere in modo credibile ai giudici europei, negando che in Italia un innocente può essere privato di tutti i suoi beni. In Consulta il “Codice Rosso” contro i femminicidi di Eleonora Martini Il Manifesto, 11 ottobre 2023 Al vaglio l’aggravante per gli omicidi parentali, il governo si oppone. Dopo l’udienza pubblica di ieri, la Corte costituzionale deciderà nei prossimi giorni sulla questione di legittimità, sollevata da due tribunali, della norma chiamata “Codice Rosso”, introdotta nel 2019 per punire più severamente gli omicidi commessi all’interno della famiglia, sull’onda della cronaca quasi giornaliera dei cosiddetti “femminicidi”. Ora però al vaglio della Consulta sono arrivati tre ricorsi. Quello presentato nel novembre 2022 dalla Corte d’Assise di Cagliari sul caso di un uomo di 67 anni, R. P., che ha ucciso la moglie alcolizzata e sofferente di disturbo bipolare che negli anni aveva messo in atto comportamenti autolesionistici e aggressivi verso lo stesso marito, la figlia e il nipotino. E altri due atti promossi nel maggio scorso dalla Corte d’Assise d’Appello di Torino. Il primo riguarda il caso di Alex Pompa che il 30 aprile 2020, allora 18enne, a Collegno (Torino) uccise a coltellate il padre mentre aggrediva violentemente la madre per l’ennesima volta. Il secondo atto di promovimento è relativo al caso di Agostina Barbieri, che nel 2021, a Borghetto di Borbera (Alessandria), strangolò il marito dopo essere stata ancora una volta malmenata dall’uomo. Sia i giudici cagliaritani che quelli torinesi sollevano una questione di costituzionalità sulla norma contenuta nella legge 69/2019 che preclude di applicare le attenuanti generiche - per le difficili condizioni vissute o per le provocazioni subite - rispetto all’aggravante prevista per gli omicidi volontari aggravati dal vincolo di parentela. Come esposto ieri in udienza pubblica al Palazzo della Consulta dal giudice relatore Francesco Viganò, nel caso del 67enne di Cagliari, in base al Codice Rosso (nuovo articolo 577 del codice penale), i giudici si vedono costretti ad escludere ogni circostanza attenuante ed infliggere all’uomo, “attualmente sottoposto alla misura cautelare della custodia in carcere”, una pena non inferiore ai 21 anni di reclusione. E così, anche per il 18enne di Collegno, imputato per l’omicidio del padre violento ma assolto in primo grado perché il suo gesto era stato considerato “legittima difesa”, la Corte d’Assise d’Appello si è rivolta ai giudici costituzionali prima di decidere sulla pena minima di 14 anni di reclusione richiesta dal Pg Alessandro Aghemo, che ha ritenuto “di dovere affermare la responsabilità dell’imputato per omicidio volontario, non reputando ravvisabile, contrariamente al primo giudice e come sarà meglio chiarito nella sede di merito, un’ipotesi di legittima difesa reale o putativa”. Quattordici sono anche gli anni di carcere richiesti per la signora di Borghetto Borbera che, stanca di subire continui maltrattamenti insieme ad altri famigliari, somministrò al marito - dichiarato sofferente di disturbi psichici - “un’intera boccetta di sonnifero (Lormetazepam gocce) e quindi strangolandolo con un laccio per scarpe, ne cagionava la morte”, come si legge nell’Ordinanza 88 del 10 maggio 2023. Riconosciutele le attenuanti generiche, la donna venne condannata in primo grado a anni 4 e mesi 10 di reclusione. Dal canto suo, il governo si è opposto alla censura del Codice Rosso perché, secondo l’avvocato generale dello Stato Salvatore Faraci, “per il presidente del Consiglio il Parlamento ha esercitato la sua discrezionalità nel regolamentare il reato che l’ordinamento considera più grave dopo la strage” di donne che tuttora si consuma. Palazzo Chigi, insomma, con la richiesta di dichiarare infondate le eccezioni di incostituzionalità, ha accusato i giudici di voler interferire con le scelte del legislatore. Lazio. Sovraffollamento nelle carceri: le situazioni più preoccupanti di Claudio Bellumori L’Opinione, 11 ottobre 2023 Numeri sui quali è necessario riflettere. E non solo. Il sovraffollamento delle carceri del Lazio “è pari a +1.044 detenuti rispetto alla capienza regolamentare”, considerato che 6.381 risultano essere i reclusi nei 14 Istituti” del territorio regionale, “rispetto a una capienza regolamentare prevista”. Che è di 5.337 unità. Questo quanto sostenuto da Massimo Costantino, segretario generale Fns-Cisl Lazio, il quale fa il punto sulle situazioni dove i tassi effettivi di affollamento sono superiori al 140 per cento. Parliamo di sette istituti penitenziari su quattordici. Ovvero: Latina (170 per cento), Civitavecchia (168 per cento), Regina Coeli (165 per cento); Velletri (147 per cento); Cassino (145 per cento) e Rebibbia (142 per cento). Da segnalare, evidenzia Costantino, che “Latina e Civitavecchia figurano tra i primi venti per tasso di affollamento effettivo, rispettivamente al 15esimo e 17esimo posto”. Secondo l’esponente sindacale “si continua a gravare sugli Istituti penitenziari. È una competenza non propria, dato che il personale si trova a gestire anche detenuti con problemi psichiatrici o, peggio ancora, detenuti che dovrebbero essere inviati nelle Rems (Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza, ndr)”. Lo stesso Costantino spiega che, per adesso, risulterebbe “inascoltata” la lettera che la Fns-Cisl Lazio - insieme ad altre sigle sindacali - aveva inviato il 20 giugno scorso al presidente della Regione, Francesco Rocca, “dove si evidenziavano le criticità delle carceri del Lazio, non ultime quelle legate alla gestione di detenuti con problemi psichiatrici e quelli attinenti alle Rems, chiedendo una apposita convocazione urgente. Zero risposte, seppur siano trascorsi quasi quattro mesi della nota unitaria”. Massimo Costantino, a seguire, specifica che “è stato sottoscritto il nuovo Accordo quadro nazionale per il personale non dirigente del corpo di Polizia penitenziaria, sostanzialmente il Contratto integrativo nazionale della Polizia penitenziaria, uno strumento in più per migliorare le condizioni di lavoro del personale penitenziario. Dopo il rinnovo del contratto nazionale delle forze di Polizia del 23 dicembre 2021, mancava questo importante accordo, che sostituisce il precedente in vigore da ben 19 anni, risalendo proprio al lontano 2004”. Un nuovo accordo che, va avanti Costantino, “costituisce il più importante strumento che accompagnerà nel complesso e responsabile compito i nostri rappresentanti sindacali nel tutelare i diritti soggettivi e collettivi di colleghe e colleghi dei baschi azzurri. Viene finalmente archiviato il precedente del 2004, spesso maltrattato da una diffusa disapplicazione che in questi 19 anni molte realtà lavorative hanno svolto, danneggiando i diritti dei Lavoratori, delle persone e delle loro famiglie, ma soprattutto determinando spesso infiniti contenziosi e problemi nella difficile organizzazione del lavoro”. Diverse le novità più importanti: maggiori spazi di partecipazione e trasparenza nelle scelte e nella attività di verifica, controllo ed efficacia degli accordi, che implicano un senso di responsabilità e impegno di tutti gli attori coinvolti nell’applicazione, a livello centrale, regionale e periferico con la contrattazione che diventa ancor più centrale nel quotidiano dei servizi. La Fns-Cisl Lazio, allo stesso tempo, “chiede una forte azione da parte dell’Amministrazione penitenziaria nei confronti del personale di Polizia penitenziaria, direttori inclusi, e una vicinanza maggiore alle richieste di aiuto che pervengono da una realtà già di per sé difficile e peggio ancora provata da frequenti episodi, con un invio consistente e concreto di unità di Polizia penitenziaria tale da garantire, anche, la tutela del personale che opera in sezione”. Cuneo. Agenti penitenziari indagati anche per tortura: il governo vuole azzoppare il reato di Nello Trocchia Il Domani, 11 ottobre 2023 Sono 23 gli agenti della polizia penitenziaria indagati dalla procura della repubblica di Cuneo, guidata dal procuratore Dodero Onelio, per diversi reati, tra questi anche quello di tortura. La pubblica accusa ha notificato, nei giorni scorsi, gli avvisi di garanzia e disposto alcuni decreti di sequestro a carico degli indagati alla ricerca di documenti che possano riscontrare le ipotesi investigative. La notizia, che Domani può rivelare, riguarda la casa circondariale di Cuneo dove sarebbero avvenute le violenze e sarebbero stati commessi gli abusi ai danni dei detenuti. Abusi che sarebbero stati commessi dagli agenti, nei mesi scorsi, e che hanno portato all’apertura del fascicolo giudiziario. Non si tratta di un singolo episodio, ma di più casi contestati. In questo momento i poliziotti penitenziari sono tutti in servizio, la procura non ha richiesto misure cautelari a carico dei coinvolti e il dipartimento dell’amministrazione non ha disposto alcuna sospensione. L’indagine prosegue con molta cautela e si verificano testimonianze e documenti a disposizione. Si tratta dell’ennesima inchiesta che mette nuovamente in imbarazzo il dipartimento e la polizia penitenziaria. “Chi sbaglia va individuato, isolato e perseguito, ma se le indagini per il reato di tortura sono ormai numerosissime e interessano carceri in tutto il Paese, probabilmente, c’è molto di più di qualcosa nell’organizzazione complessiva che non funziona e da correggere. In altre parole, pur essendo convinti che la stragrande maggioranza degli appartenenti al Corpo di polizia penitenziaria coinvolti riuscirà a dimostrare la propria innocenza, appare evidente che vi sia un problema di sistema. In verità, noi siamo convinti che ricorrano entrambe le circostanze: il reato di tortura è costruito male e l’organizzazione carceraria è pessima”, dice Gennarino De Fazio, sindacalista che guida la Uilpa. Il reato di tortura è stato introdotto nel nostro ordinamento in una forma blanda e con colpevole ritardo, solo nel 2017. La notizia della nuova indagine, rivelata da Domani, ha provocato le reazioni anche della politica. “Continua il prezioso lavoro della magistratura nel “difendere” il reato di tortura. Le tante inchieste e i tanti procedimenti in corso dimostrano come il reato di tortura sia necessario e non si può modificare. Il governo e la maggioranza di destra non pensino di toccare il reato di tortura che punisce gli abusi commessi dai pubblici ufficiali. In Parlamento contrasteremo con forza ogni ipotesi di modifica o abrogazione del reato di tortura”, dice Ilaria Cucchi, senatrice dell’Alleanza Verdi e Sinistra. Sul carcere si misura un altro fallimento del governo che fatica a mantenere le promesse se non quella ripetuta più volte di intervenire proprio sul reato rimodulandolo. Al momento l’unica proposta nel settore, infatti, è quella di rabbonire la polizia penitenziaria rivedendo la tortura regalando così licenza di impunità a una minoranza di agenti picchiatori. In questi giorni si parla nuovamente di questa possibilità, un’idea che aveva confermato a Domani, nel dicembre scorso, il sottosegretario meloniano Galeazzo Bignami. C’è un problema gigantesco da affrontare, gli abusi in divisa, e il governo pensa di risolverlo rimodulando il reato. Mancano 18 mila agenti di polizia penitenziaria rispetto al reale fabbisogno, una situazione che si aggraverà nei prossimi anni (entro il 2026) quando ci sarà l’entrata in funzione di nuovi padiglioni detentivi per un totale di 1.690 posti. Una situazione allo sbando considerando che il governo, tra i primi provvedimenti assunti, ha perfino tagliato risorse alla penitenziaria, in particolare le indennità: 25 milioni totali per gli anni 2022 e 2023 e undici milioni di euro dal 2024. In assenza di fondi, di corsi di formazione, di aumenti salariali, di mezzi, di supporto anche psicologico per gli agenti, il governo propone la revisione del reato che potrebbe avere un effetto anche sui processi in corso a partire da quello per le violenze commesse nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Cuneo. “Teste contro il muro, schiaffi e scosse con il taser: così erano puniti i detenuti ribelli” di Simona Lorenzetti Corriere della Sera, 11 ottobre 2023 Le violenze emergono dagli atti dell’indagine che coinvolge 23 agenti del carcere Cerialdo. Sono accusati di tortura, ma loro respingono gli addebiti mossi dagli inquirenti. Prima le botte, le umiliazioni e le minacce. Poi la cella di isolamento. Ecco cosa succedeva all’interno del penitenziario Cerialdo di Cuneo, nel padiglione Gesso, ai detenuti che osavano disturbare la routine carceraria. Gli atti dell’inchiesta raccolgono una serie di crudeli soprusi nei confronti di cinque pakistani, che tra il 20 e il 21 giugno 2023 erano finiti nel girone infernale ideato da un gruppo di agenti della polizia penitenziaria. Quella sera un ragazzo aveva chiesto di essere accompagnato in infermeria, aveva forti dolori a una gamba. Ma nessuno lo stava ascoltando. Ecco perché i compagni, per protesta, avevano iniziato a battere sui blindi per attirare l’attenzione del personale di sorveglianza. Poco dopo l’uomo è stato portato dal medico, ma per gli altri detenuti sono iniziate diverse ore da incubo. Tanto da spingere il procuratore capo Onelio Dodero e il sostituto Mario Pesucci a formulare l’accusa di tortura, sottolineando che le guardie “con crudeltà e con più condotte costituenti violenza e minacce gravi, comportando altresì un trattamento inumano e degradante per la persona, cagionavano acute sofferenze fisiche e un verificabile trauma psichico”. La sequenza degli eventi racconta che gli indagati sarebbero entrati nelle celle e si sarebbero accaniti a suon di calci e pugni contro i cinque pakistani, apostrofandoli con volgari epiteti. Poi li avrebbero “trasportati di peso” sino all’infermeria “continuando a colpirli”, trascinandoli giù per le scale e facendoli sbattere “la testa contro il muro”. I detenuti sarebbero stati poi rinchiusi in una stanza “adiacente a quella delle visite” e ancora una volta brutalmente malmenati. Infine, sarebbero stati messi in una cella di isolamento priva di finestre, materassi, cuscini, lenzuola e acqua in bagno. Gli agenti avrebbero quindi impedito al medico di controllare il loro stato di salute. Una delle vittime sarebbe stata anche costretta a spogliarsi e a rimanere in mutande, “ragione per cui - si legge negli atti - ha pianto tutta la notte”. Precedentemente a questa spedizione punitiva ve ne sarebbero state altre. Il primo pestaggio ricostruito dagli inquirenti risalirebbe al 15 ottobre 2021: un uomo sarebbe stato punito a suon di botte al suo rientro in carcere dopo essere finito in ospedale per alcuni tagli sulle braccia che si era autoinferto. E ancora, nel dicembre 2021, un altro ospite del carcere sarebbe stato picchiato perché aveva avuto un atteggiamento aggressivo: durante il trasferimento nella cella di isolamento, ricostruiscono gli inquirenti, lo straniero sarebbe stato picchiato mentre era nudo e neutralizzato “con uno storditore elettrico”. Nei giorni scorsi la Procura ha eseguito diverse perquisizioni e sequestri. Sono 23 gli agenti indagati: le accuse nei loro confronti sono tortura, lesioni e abuso di autorità. L’inchiesta è partita dalle segnalazioni di alcune vittime e da un esposto del garante regionale dei detenuti. Gli indagati (difesi tra gli altri dagli avvocati Alessandro Ferrero, Paolo Dotta, Susanna Battagli, Leonardo Roberi e Fabrizio Drago) respingono le contestazioni e la ricostruzione delle violenze rappresentata dagli investigatori della polizia penitenziaria. Nel frattempo, i magistrati hanno chiesto al gip di disporre un incidente probatorio per cristallizzare le dichiarazioni delle vittime. Torino. Detenuto morto per un’infezione polmonare: la famiglia si oppone alla seconda richiesta di archiviazione di Ludovica Lopetti Il Fatto Quotidiano, 11 ottobre 2023 Era il 31 dicembre 2019 quando il cuore del 28enne Antonio Raddi, detenuto per rapina e maltrattamenti nel carcere di Torino, smetteva di battere sotto gli occhi dei sanitari che avevano tentato fino all’ultimo di rianimarlo. Ora le circostanze di quella morte, conseguenza di un’infezione polmonare, sono finite in una consulenza tecnica medico-legale disposta dalla Procura di Torino, che ha aperto un fascicolo per omicidio e lesioni colpose. L’obiettivo è accertare se un simile epilogo potesse essere evitato. In passato i pm avevano chiesto per due volte di archiviare la posizione di quattro medici penitenziari: il 10 dicembre, quando già versava in uno stato di “grave deperimento” e tra le mura del carcere si spostava in sedia a rotelle, Raddi rifiutò il ricovero presso il ‘repartino’ dell’ospedale Molinette. Ricovero che secondo i periti avrebbe permesso di curare per tempo l’infezione e salvargli la vita. In sostanza, è la tesi, quel rifiuto ha interrotto il “nesso causale” tra le condotte dei medici e l’evento morte. È di diverso avviso la famiglia Raddi, che a quell’archiviazione si è opposta attraverso i legali Gianluca Vitale e Federico Milano (il gip Luca Del Colle si è riservato e dovrà decidere a giorni): per i genitori e la sorella, le condizioni del giovane avrebbero dovuto allarmare il personale sanitario già da fine agosto, quando aveva perso oltre 13 chili dall’ingresso in cella (arriverà a meno 25 tra fine novembre e dicembre). A segnalare lo stato del detenuto anche la Garante dei detenuti del Comune di Torino, che aveva parlato con lui più volte e inviato una ventina tra email e lettere protocollate in cui chiedeva provvedimenti urgenti ai vertici. La tesi della famiglia ora parrebbe trovare conforto nelle conclusioni messe nero su bianco dai periti: “Risulta il difetto di approfondite verifiche che, in corso di dimagrimento del detenuto, dovevano essere attuate quantomeno dal mese di settembre-ottobre 2019. Se messi in atto, avrebbero potuto arginare lo stato di malnutrizione”. Ad aprile 2019 Antonio Raddi, che sin dall’adolescenza soffriva di ansia e depressione ed era seguito da un Serd per via della tossicodipendenza, era tornato in carcere dopo essere evaso dalla comunità terapeutica dove stava scontando una condanna definitiva. Dopo aver già perso oltre 30 chili dal primo ingresso in carcere, a Ivrea, aveva continuato a perdere peso anche nella casa circondariale di Torino, pur essendo monitorato periodicamente da medici, addetti del Serd, educatori e psichiatri. Al personale aveva raccontato a più riprese delle grosse difficoltà che aveva nell’assumere cibo, della nausea continua e del dolore alle gambe. Tutte circostanze che trovano riscontro nei referti redatti da medici e infermieri, dove si riportano episodi di vomito, svenimenti e un trauma cranico che si era procurato cadendo, quando le gambe non lo reggevano più. Le stesse relazioni segnalano anche il rifiuto verso le cure, a partire dalle semplici flebo: per i consulenti della Procura inscindibile dal “quadro psicoemotivo del soggetto”, che soffriva di disturbi dell’umore e veniva trattato con massicce dosi di metadone. Se in un primo momento questo atteggiamento era stato scambiato per una strategia mirata a ottenere l’incompatibilità con il carcere, a fine novembre i sanitari del carcere avevano preso in mano la situazione e programmato il ricovero nel ‘repartino’ dell’ospedale Molinette, poi slittato al 10 dicembre e rifiutato dal diretto interessato benché fosse gravemente denutrito e debilitato. Il 28enne avrebbe poi raccontato che temeva di impazzire in un posto in cui non è prevista l’ora d’aria. Quella presa in carico “avrebbe consentito di identificare con alcuni giorni di anticipo un processo infettivo ancora latente”. Invece passano i giorni e quando arriva al pronto soccorso, il 14 dicembre, le condizioni di Raddi sono ormai compromesse. Il decesso avverrà per arresto cardiaco alla vigilia di Capodanno, causa shock settico innescato da un comune batterio presente nell’intestino. Che tuttavia può risultare fatale nelle persone immunodepresse, com’era il giovane dopo mesi di malnutrizione. Cagliari. La pena infinita di Beniamino Zuncheddu: sit-in e nuovo rinvio per l’udienza di Francesco Pinna L’Unione Sarda, 11 ottobre 2023 Condannato per omicidio, si è sempre dichiarato innocente: da 33 anni in carcere, aspetta la revisione del processo. Il suo paese, Burcei, lo ha già assolto. Era affollata ieri mattina la scalinata del palazzo di giustizia di Cagliari per la manifestazione indetta dal Partito Radicale per chiedere giustizia per Beniamino Zuncheddu che da 33 anni è detenuto in carcere, nonostante si proclami sempre innocente, per la strage di Cuili is Coccua a Sinnai. I manifestanti hanno ribadito la richiesta che riparta il processo di revisione. Oltre all’avvocato Mauro Trogu, difensore di Zuncheddu, alla manifestazione hanno partecipato anche Irene Testa, garante regionale delle persone private della libertà personale, Maria Grazia Caligaris dell’associazione socialismo diritti e riforme e il sindaco di Burcei, Simone Monni. “Quella di oggi è una testimonianza generazionale”, ha ribadito il primo cittadino, “che vede assieme persone che hanno vissuto la triste vicenda in cui è stato coinvolto Beniamino con quelli che poi l’hanno sentita come se fosse la triste leggenda di una persona che sta pagando le colpe di qualcun altro. Ormai il nome di Beniamino è diventato un simbolo e i simboli sono in grado di riunire le persone”. Nel frattempo si sarebbe dovuta celebrare l’udienza per la libertà condizionale del detenuto di Burcei, ma è stata rinviata a novembre. “Sono ottimista”, ha poi ribadito il cantante Piero Marras che ha partecipato al sit-in, “mi aspetto da Roma un segnale importante e positivo”. Lucca. Giulia Gambardella nuova Garante comunale dei detenuti, ma serve una quarta votazione luccaindiretta.it, 11 ottobre 2023 Salta la nomina al primo voto a maggioranza assoluta e l’opposizione insorge per lo scrutinio a oltranza. Il Comune di Lucca ha una nuova garante dei detenuti. Non senza difficoltà, alla quarta votazione, è stata eletta Giulia Gambardella, già candidata fra le fila di Lista Civile, avvocato di 30 anni, indicata dalla maggioranza, che aveva di fronte Manuele Bellonzi, attuale difensore civico di Barga, preferito dalla opposizione. Tre le votazioni per la nomina. Nella prima, in cui serviva la maggioranza qualificata dei due terzi, Gambardella, nell’urna a voto segreto come sempre quando si effettuano votazioni su persone, ha collezionato 17 voti su 27 votanti a fronte dei 4 voti di Bellonzi, i 4 a Lodovica Giorgi, avvocato ‘anima’ di Lista Civile in campagna elettorale, e ai voti ‘dispersi’ per Bianucci e Lucchesi. Nel secondo voto, in cui bastava la maggioranza assoluta (18 voti), Gambardella ha ricevuto 16 voti sui 28 presenti in aula. Ai voti della prima tornata sono mancati due volti che sono andati all’avvocato di Fratelli d’Italia, Mara Nicodemo e all’esponente di Lucca2023 Marco Santi Guerrieri. Nove voti dell’opposizione sono andati a Bellonzi, una la scheda bianca. Dopo la mancata proclamazione il capogruppo di opposizione Francesco Raspini ha sollevato il dato politico, chiedendo che non si proseguisse a oltranza: “È evidente - ha detto - che non si può andare avanti finché la maggioranza non ha i voti necessari, anche perché è evidente che è emersa una frattura politica laddove qualcuno ha votato per la consigliera Mara Nicodemo, e non siamo stati noi. È evidente che qualcuno ha voluto usare la cronaca quotidiani per forzare la mano sulla maggioranza”. Il riferimento è al fatto che l’avvocato Nicodemo figura nel collegio difensivo del presidente della Real Academy, Claudio Polonia, attore del braccio di ferro contro l’amministrazione comunale sul caso della gestione dei campi di San Cassiano a Vico. Dopo una prima sospensione il capogruppo della Lega, Armando Pasquinelli, ha chiesto di proseguire con una nuova votazione, il capogruppo di opposizione Francesco Raspini ha chiesto una nuova sospensione motivando il no del voto a oltranza. Dopo questa il consigliere di Lucca Futura, Gabriele Olivati, ha chiesto una conferenza dei capigruppo nella quale presentare una proposta. Alla fine si è deciso di votare per la quarta volta, sempre a scrutinio segreto, ma l’opposizione, dopo le parole di Raspini, ha deciso di abbandonare l’aula. Solo a quel punto sono arrivati tutti i voti necessari per l’elezione di Giulia Gambardella come nuova garante dei detenuti del Comune di Lucca: i 18 voti della maggioranza. Così commenta la Lega per Salvini Premier a margine della votazione, così come aveva fatto il capogruppo Pasquinelli per spiegare i motivi della quarta votazione: “È importante ribadire il fatto (elezione del garante dei detenuti) che la maggioranza comunque ha votato all’unanimità la propria candidata Gambardella alla carica di garante dei detenuti. È fondamentale al di là del risultato della terza votazione, precisare che il regolamento del consiglio comunale non norma la pluralità delle votazioni successive alle prime due per le quali prevede la maggioranza qualificata dei due terzi dei componenti dell’assemblea e lo statuto del comune che niente dice in proposito. Quindi, il dato politico è che la maggioranza è compatta e risoluta. All’opposizione ed al suo leader consigliere Raspini diciamo che la Lega e le altre componenti della maggioranza sono unite con il sindaco Pardini e la sua giunta”. Milano. Lavori finiti all’Ipm Beccaria. Dopo 16 anni d’attesa comincia il trasloco di Marianna Vazzana Il Giorno, 11 ottobre 2023 Completati i lavori infiniti al carcere minorile Beccaria: “Ci stiamo trasferendo nel nuovo padiglione con i primi 40 posti”, annuncia la direttrice reggente Cosima Buccoliero. Finora, di posti nel vecchio padiglione ce n’erano 26, più i 6 della sezione per i detenuti lavoratori. La capienza passa quindi da 32 a 46. Un traguardo raggiunto dopo 16 anni di attesa, ritardi e riflettori puntati sui cantieri-lumaca, ancora di più dopo la maxi evasione di 7 detenuti nel giorno di Natale dello scorso anno che avevano approfittato di una breccia nella recinzione per fuggire. Quando sono stati completati i lavori? Cosa cambierà? “Nelle ultime settimane. Ora che anche le rifiniture sono ultimate, è in atto il trasloco graduale. Formeremo quattro gruppi da dieci posti nel nuovo padiglione svuotando a poco a poco il vecchio, una sezione del quale sarà ristrutturata. L’intento è riuscire ad aprire due padiglioni (operazione che porterebbe la capienza totale a 80 posti, ndr) ma per fare questo sarà necessario anche incrementare il personale, sia di agenti e sia di educatori. Già ora la situazione è difficile, nonostante il Dipartimento della Giustizia minorile si sia dato da fare per sopperire alle carenze. L’auspicio è che possano arrivare funzionari dell’Area pedagogica, selezionati nell’ultimo concorso nazionale. Già, peraltro, è arrivato un direttore aggiunto che è presente tutti i giorni, mentre io mi divido tra il Beccaria e l’istituto penitenziario di Monza per adulti”. Adesso quanti sono i ragazzi detenuti? “Ne abbiamo 40, soprattutto sedicenni e diciassettenni. Ora riusciamo a gestire la situazione a Milano ma ci sono stati momenti di sovraffollamento in cui abbiamo dovuto chiedere la sospensione delle assegnazioni per mancanza di posti. Inviare dei ragazzi in altre città o regioni comporta sempre delle complicazioni perché occorre impiegare personale per il viaggio e far rientrare i ragazzi per udienze o altro. Non è semplice”. Quali sono i reati principali per cui finiscono al Beccaria? “Reati contro il patrimonio, come furti e rapine, ma anche spaccio di droga”. E le nazionalità dei ragazzi? “Abbiamo sia italiani e sia stranieri. Negli ultimi tempi è aumentata la presenza di minori stranieri non accompagnati: con loro si fa molta fatica anche solo a comunicare, perché non parlano italiano. Sono arrivati in Italia senza un adulto che potesse guidarli, non hanno punti di riferimento. Il lavoro da fare con loro è enorme, per questo serve personale preparato. È una delle criticità”. Altre problematiche? “Crescono i disagi a livello mentale. Anche legati ad assunzione di farmaci e droghe”. Il mese scorso c’è stato un altro tentativo di evasione; a volte scoppiano liti o risse da sedare: sono episodi frequenti? “No, sono casi isolati ma da non sottovalutare mai. A livello psicologico è complicato già per un adulto trovarsi ristretto, a maggior ragione per un ragazzo nel pieno dell’età evolutiva. Dobbiamo cercare di far comprendere ai nostri giovani detenuti che lavoriamo per garantire loro una libertà reale, che non sia solo fisica. Dobbiamo far sì che il periodo di detenzione sia il più breve possibile e anche costruttivo”. Sentono la mancanza del cellulare? “Moltissimo. Sono nativi digitali, abituati ad avere sempre con sé lo smartphone. Però notiamo che molti non sanno utilizzare il computer, e noi facciamo in modo che prendano dimestichezza con il pc durante le attività formative (a cura della Fondazione Francesca Rava) per introdurli a poco a poco nel mondo del lavoro. Abbiamo anche un laboratorio di prodotti da forno, uno di falegnameria e un altro di elettrotecnica. E naturalmente c’è la scuola. Stiamo cercando di incrementare gli agganci verso l’esterno, per favorire l’inserimento al lavoro anche nell’edilizia e nella carpenteria. Preziose pure le attività teatrali, con la compagnia Puntozero, e quelle sportive nella palestra”. Le è capitato di rivedere qualche ex detenuto? “Sì, tanti. Molti che si appassionano al teatro, per esempio, continuano a recitare anche una volta usciti dal Beccaria. Sono felice quando ciascuno trova la propria dimensione. Il suo posto nel mondo. Lasciandosi alle spalle un periodo buio ma che in qualche modo gli è servito a trovare la sua strada”. Milano. Salute mentale, risultati preziosi dal confronto tra detenuti e persone con disabilità di Barbara Migliavacca* Il Sole 24 Ore, 11 ottobre 2023 Oggi, 11 ottobre, a Milano all’interno della Casa di Reclusione Milano-Opera, alcuni ospiti del Centro diurno psichiatrico Il Camaleonte della Fondazione Sacra Famiglia, persone con disturbi psichiatrici e lieve ritardo mentale, accompagnati da famigliari ed educatori, saliranno sul palco del Carcere di massima sicurezza insieme ad alcuni detenuti, per raccontare il loro comun sentire e il percorso umano ed emozionale che stanno affrontando insieme grazie al progetto Emozioni All’Opera, frutto della collaborazione tra Fondazione Sacra Famiglia, il carcere di Milano-Opera e l’associazione interna al carcere In Opera. Nato nel 2018 con l’edizione Legami in Opera, il progetto, unico in Italia, porta ogni due settimane cinque ospiti del Centro diurno, accompagnati da tre educatrici, all’interno del carcere per svolgere attività ricreative, di scambio e confronto emozionale con 20 uomini detenuti. Importanti i benefici, anche terapeutici, che i due gruppi, entrambi impegnati in un percorso di recupero e avvicinamento o riavvicinamento alla “normalità”, stanno riscontrando. Un aspetto essenziale, infatti, del principio del Recovery di cui per primo parlò Liberman nel 2005, e che la Fondazione sposa, è proprio quello di mettere al centro del progetto di cura la persona, in tutte le sue sfaccettature, non solo contemplando la sua patologia. Come dimostra l’entusiasmo, la fatica, ma anche la grande soddisfazione che sia i partecipanti del progetto, sia l’intera comunità del Centro diurno psichiatrico, sta vivendo rispetto all’iniziativa, è proprio l’approccio terapeutico che contempla l’esperienza della “normalità” e dell’”utilità” dell’individuo, uno dei tasselli fondamentali per incoraggiare il rafforzamento dei lati “sani” della mente e togliere spazio ai “lati” più colpiti dalla patologia e per cui serve un accompagnamento farmacologico. Gli ospiti della Fondazione che hanno partecipato sono cinque uomini con nevrosi, schizofrenia, disturbo di personalità o disturbo ossessivo-compulsivo: persone che spesso soffrono di manie, pensieri deliranti e persecutori, che a volte impediscono loro anche di raggiungere il Centro diurno che, insieme alla Struttura residenziale psichiatrica della Fondazione, rappresenta un punto di riferimento fondamentale per il territorio per l’accompagnamento e il recovery terapeutico di cui i pazienti, e sempre più pazienti, hanno bisogno. Basti pensare, che solo nel 2022 la Fondazione nelle sue unità di accoglienza presenti in Lombardia, Piemonte e Liguria ha assistito circa 13.000 persone con gravi disabilità psichiche e fisiche, offrendo circa 142 mila prestazioni sanitarie e socioassistenziali. Nonostante alcune remore iniziali dovute alla novità del progetto di Emozioni All’Opera, quasi tutti i partecipanti sono riusciti a trovare proprio all’interno del carcere e nel confronto con i detenuti, non solo un terreno familiare e sicuro di confronto rispetto alle proprie fragilità e alla percezione di sé stessi, ma anche l’occasione per diventare loro stessi “volontari” nel percorso di recupero di qualcun altro. Un risultato prezioso e un aspetto, quello della valorizzazione dell’essere umano a 360°, che la Fondazione Sacra Famiglia coltiva da oltre 125 anni e che i professionisti del Centro diurno semi-residenziale della Fondazione portano avanti accogliendo e incoraggiando percorsi terapeutici che, quando possibile, mirino il più possibile a sviluppare quelle competenze necessarie per poter affrontare la vita quotidiana e che sono prima di tutto un diritto di ogni essere umano. *Responsabile del Centro diurno psichiatrico Il Camaleonte di Fondazione Sacra Famiglia “La scrittura in carcere è una via di fuga che aiuta a cambiare vita” di Claudio Cugusi quotidianosociale.it, 11 ottobre 2023 “La scrittura per un detenuto è un modo per rivisitare il proprio passato e talvolta per allontarsi da quello”. Parla Paola Da Ros, presidente della Federazione Nazionale Italiana Società di San Vincenzo De Paoli ODV che ha promosso anche quest’anno il premio Castelli per i reclusi. Presidente, cosa significa la scrittura per chi è detenuto? Che si tratti di un’opera di fantasia od autobiografica chiunque di noi si accinga a scrivere deve attingere al proprio bagaglio di esperienze. Per il detenuto questa operazione è un modo per rivisitare il proprio passato, talvolta prenderne le distanze e, si spera, superare i propri errori. La scrittura può rappresentare per un ristretto l’unica “via di fuga”: un modo per recuperare la propria libertà interiore. E tante volte lo aiuta a cambiare vita. Quali sono i numeri di questa edizione del premio Castelli? Siamo molto soddisfatti perché sono arrivati 220 componimenti: è più del doppio rispetto agli ultimi anni. Per questa edizione del Premio abbiamo volutamente scelto un titolo molto ampio perché desideravamo lasciare agli autori la massima libertà espressiva. Ma un altro fattore determinante del successo è che dalla scorsa edizione abbiamo deciso di far vivere il Premio tutto l’anno, rileggendo i testi nelle scuole ed in altri eventi sul territorio e questo ha amplificato la diffusione del nuovo bando. Sarebbe bello conoscere anche i nomi dei tre vincitori e sapere qualcosa delle loro storie… La Società di San Vincenzo De Paoli desidera tutelare l’anonimato degli autori. Vorremmo che a parlare fossero i racconti e non il passato di chi li scrive. I detenuti, per riconquistare la loro dignità e potersi reinserire nella società, devono potersi scrollare di dosso l’etichetta del reato che hanno commesso: hanno sbagliato e stanno pagando. Allo stesso tempo pensiamo che sia importante portare il massimo rispetto verso chi ha subito i reati ed i loro familiari, sarebbe doloroso oltre che inutile riaprire una ferita con il ricordo In quale carcere sarà la prossima edizione? Il Premio Carlo Castelli è aperto a tutti gli istituti penitenziari italiani, così come gli elaborati arrivano da ogni regione d’Italia. Ogni anno, poi, scegliamo la struttura che ospiterà la cerimonia conclusiva, che consiste nella premiazione. La XVI edizione si è celebrata a Torino, città dove operava Carlo Castelli come volontario penitenziario, nel venticinquesimo dalla sua scomparsa. Quella 2024 si terrà a Verona. Gaia Tortora: “Il documentario Rai su mio padre e la presentazione alla Camera una vera cialtronata” di Vanessa Ricciardi Il Domani, 11 ottobre 2023 La figlia di Enzo Tortora non è stata nemmeno avvertita dell’esistenza del nuovo video, e nessuno l’ha invitata alla presentazione: “Dove c’era solo la destra, avrebbero dovuto coinvolgere tutte le parti politiche”, accusa. “Le spiegazioni vanno chieste a Rossi o a Rai documentari”, diretto da Zappi. Gaia Tortora riassume così: “Una vera cialtronata”. Martedì 10 ottobre alle 16, nell’Aula dei Gruppi parlamentari della Camera dei Deputati, è stato proiettato il docufilm “Enzo Tortora - Ho voglia di immaginarmi altrove”, regia di Tommaso Cennamo, coproduzione Rai documentari e Moviheart. Il parterre è quello delle grandi occasioni. Indirizzo di saluto del presidente della Camera, Lorenzo Fontana (Lega). Tavola rotonda con Francesco Paolo Sisto, vice ministro della Giustizia (Forza Italia), Maurizio Gasparri (Forza Italia), vice presidente del Senato, Federico Mollicone, presidente della Commissione Cultura della Camera (Fratelli d’Italia), Francesco Rutelli, presidente Anica, Fabrizio Zappi, direttore Rai documentari. Moderatrice Francesca Scopelliti, presidente della Fondazione per la giustizia Enzo Tortora e ultima compagna del celebre volto Rai. Nessuno ha invitato la figlia, che non sapeva nemmeno dell’esistenza del documentario: “Ne sono venuta a conoscenza per caso, tre giorni fa, da una pubblicità”. Enzo Tortora è stato l’esempio più celebre di malagiustizia in Italia. Arrestato 40 anni fa, il 17 giugno del 1983, con l’accusa di associazione camorristica e spaccio, venne assolto dopo quattro anni. Il suo caso è diventato un simbolo, anche perché Tortora morì nel 1988, a 59 anni, un anno dopo la definitiva assoluzione in Cassazione, combattendo di fatto fino all’ultimo per la sua innocenza. Rai e politica - La figlia non ha mai messo limiti alle ricostruzioni giornalistiche, né impedito che il caso Tortora accendesse il dibattito ancora 40 anni dopo. Il problema non è quello, racconta. “La Rai - spiega - fa un documentario che può essere di qualunque tipo, non mi interessa, e neanche si degna di dirmelo. E in più lo presenta e neanche viene invitata l’unica che è di fatto l’erede, perché la signora che modera la tavola rotonda ha fatto parte parte della famiglia per un periodo della sua vita che è passato”. Tortora non ha dubbi: “Una strumentalizzazione”. Una strumentalizzazione politica: “Io l’avrei fatto allargando a una platea politica di tutti gli schieramenti perché la giustizia è un argomento che appartiene a tutti”. Non vuole però aggiungere altro e specificare ulteriormente: “Andatevi a cercare i personaggi coinvolti e il perché chiedetelo a loro. Non è maleducazione, siamo oltre, a partire dalla Rai. Mio padre non appartiene a uno schieramento politico, ma rappresenta un caso giudiziario, ritengo che sia da poveretti ridurlo a una parte politica”. Da Gasparri a Mollicone, Tortora vicedirettrice del Tg di La7 e capo del servizio politico li conosce tutti: “È abbastanza curioso e fuori forma, se dietro c’è una regia non lo so. Nessuno si è chiesto come mai non sia stata coinvolta la figlia. So che i fatti sono questi, è un cambiamento di stile. Chiedete a Giampaolo Rossi o al nuovo presidente Rai, o a Rai documentari. Io so solo che è una cialtronata, destra o sinistra non mi interessa”. Lei non contatterà nessuno: “Ho fatto dei tweet, poi ognuno si guarda allo specchio”. In uno dei tweet Tortora menziona anche Rai documentari, braccio Rai diretto da Zappi, dato in quota lega: “Questo tipo di strumentalizzazione mi fa schifo”. Michele Santoro: “Perché nasce il partito della Pace, non è solo una mia trovata” di Umberto De Giovannangel L’Unità, 11 ottobre 2023 “Io penso che la pace sia la precondizione di qualunque programma serio che si possa fare nel nostro Paese ma soprattutto in Europa. La pace vuol dire la fine di una ostilità che ha distrutto il sogno di una Europa politica”. Hanno provato a liquidare l’iniziativa come l’”ennesima trovata mediatica di Michele”. L’hanno tacciato di megalomania. Si sono inventati candidature ultrasenili, rispetto alle quali gli iscritti allo Spi Cgil sembrano dei giovani pionieri. Tutto, meno che incalzarlo nel merito. “Adesso parlo io”. La parola a Michele Santoro e al suo “partito della Pace”. “La nostra parola d’ordine - dice - non è ‘basta con l’invio delle armi, è ‘uscire dalla guerra’”. Ed ancora: “Il sistema di guerra è diventato il vero sovrano e comanda ogni cosa, pervade l’economia e domina la politica anche quando la guerra non c’è o non è dichiarata. È questa la ragione per cui la stessa guerra d’Ucraina non riesce a finire”. Il mondo riscopre l’orrore del conflitto-israelo palestinese... Da questo focolaio può davvero partire la terza guerra mondiale. Parliamo di un crocevia del mondo. Quelle immagini di orrore ci colpiscono in profondità, perché quei giovani israeliani uccisi o rapiti al rave party hanno le stesse sembianze dei nostri figli. Li sentiamo vicinissimi a noi. Ma attenzione a non assumere soltanto questo come sguardo, senza comprendere che Israele è in qualche modo quasi un’anticipazione del mondo che noi stiamo costruendo con la guerra in Ucraina. Vale a dire? Un mondo di apartheid, dove l’Occidente si rintana in se stesso e vive tutto quello che lo circonda come un possibile nemico, e non si rende conto che se la forza delle armi, la potenza militare viene usata per soffocare la speranza, questo favorisce e alimenta il terrorismo. Il terrorismo nasce dal fatto che la speranza politica si attenua, nasce dal fatto che non c’è più una trattativa in corso alla quale si affida una possibile soluzione. Quando prevale soltanto il sistema di guerra, è chiaro che il terrorismo diventa un modo asimmetrico di portare avanti la guerra. Ma in questo caso si tratta di qualcosa di pericolosissimo perché innesca un possibile conflitto mondiale. Si guarda all’Iran, alle relazioni tra l’Iran e Hamas, tra l’Iran e la Russia, e ti rendi conto pure di cosa significhi destabilizzare il mondo con la guerra. È evidente che ci sono connessioni tra tutti questi scenari di guerra. Andare ad alterare gli equilibri senza avere delle soluzioni in mano, volendo magari imporre la tua idea di democrazia con la forza delle armi, alla fine sconquassi e i risultati sono come onde che vanno ad infrangersi in altri posti. Bisogna essere molto attenti a ricostruire un quadro di pace. Io sento la mancanza dell’Europa. Vanno adesso le navi americane e noi ci dobbiamo imbarcare. È assurdo. L’Europa dovrebbe vivere la questione israelo-palestinese come una sua questione, da protagonista. Quello che manca è il ruolo di una Europa disarmata che si oppone al sistema di guerra. Ed è un’assenza drammatica. Il “partito della Pace”. Su questa iniziativa si è montata una campagna mediatica affossatrice di una violenza verbale estrema. Come risponde a questo fuoco di fila? Intanto c’è stato un appello che è stato firmato da migliaia di persone. Partirei da questo. Definirla una trovata di Santoro mi sembra molto riduttivo. Ci sono tantissime personalità che hanno sottoscritto questo appello, ma ancora più importanti sono i riscontri che riceviamo quotidianamente, a dimostrazione che c’è una fetta di opinione pubblica che pensa di non essere rappresentata assolutamente dalla politica che c’è. A quelli che ci accusano di voler accentuare la frammentazione, di alimentare le divisioni, rispondiamo che il nostro principale problema è far esprimere quelli che hanno perso la fiducia e che non votano più. Noi ci rivolgiamo soprattutto a loro. Trovo abbastanza miope l’atteggiamento che hanno certi giornalisti nei nostri confronti, che poi riflettono quelli dei loro partiti di riferimento, perché non capiscono che noi ci rivolgiamo soprattutto a chi non vota, a chi in questo momento fa prevalere il disincanto nelle sue valutazioni, a chi non vede più speranza in quello che accade in politica. È soprattutto a questa gente qui che vogliamo parlare. Se c’è una parola abusata, quella parola è “pace”. Ma una pace non declinata politicamente, non è un mero esercizio retorico? Io penso che la pace sia la precondizione di qualunque programma serio che si possa fare nel nostro Paese ma soprattutto in Europa. La pace vuol dire la fine di una ostilità che ha distrutto il sogno di una Europa politica. Oggi la guerra in Ucraina rappresenta questo. Rappresenta la ricostruzione di una barriera tra Occidente e Oriente che ci fa tornare indietro nel tempo. Rappresenta un comando americano in Europa, un’assenza di strategia europea sia sul terreno militare sia in politica estera. Non c’è un punto di vista europeo in questo momento in campo. C’è un punto di vista americano a cui gli europei si accodano. La pace non è solo un bisogno spirituale. È anche quello, soprattutto per quanto riguarda i giovani, per le tantissime persone che pensano che anche all’interno di noi stessi dobbiamo bandire la violenza. Non solo nei rapporti politici. Dobbiamo superare la dicotomia amico-nemico. Ma pace è anche bisogno di una Europa politica che faccia sentire la sua presenza. Di una Europa economica che badi ai propri interessi. Perché l’altro elemento è che con questa guerra sono stati completamente distrutti gli interessi economici dell’Europa. Che non ha alcun vantaggio nel creare una barriera di non collaborazione con la Russia. Nella mia visione, la Russia fa parte dell’Europa. Qui si parla di “Piano Mattei”, Giorgia Meloni lo sventola in ogni dove. Ma forse qualcuno dovrebbe sprecare un po’ di tempo per spiegare che cosa fu, a suo tempo, il “Piano Mattei”. Ci provi lei a spiegarlo... Quando c’era un modo diviso in blocchi, fu il tentativo di costruire una rete di collaborazione con l’Unione Sovietica, non con la Russia di Putin, con l’Urss, cioè con l’Unione Sovietica comunista. Questo era il Piano Mattei. Con tutta probabilità Mattei fu ammazzato da Cosa nostra per fare un favore alle 7 grandi sorelle del petrolio, perché lavorava su quest’asse, sia con l’Africa che con la Russia, non in chiave anti americana, ma non americana. Certamente in chiave europea. Questa è la ragione per cui Mattei è morto. Adesso parlare di Mattei mentre stiamo facendo i vassalli degli Stati Uniti, mi sembra veramente un sacrilegio. Perché queste tematiche non possono essere la base di un’alleanza con le altre forze dell’opposizione di sinistra? Possono esserne la base. Quello che noi intendiamo fare è innanzitutto agire da motore per costruire un’alleanza ampia per l’uscita dell’Italia dalla guerra. Per fare in modo che le posizioni che Elly Schlein esprime, ma che vengono “edulcorate” dalle mediazioni interne al Pd, possano diventare più chiare e risolutive. Vale a dire? Abbandonare la logica delle armi. Su questo la Schlein mantiene ancora una forte ambiguità. Lo fa, credo, non tanto per convinzioni personali quanto per non avere il partito contro. Ma su questo occorre prendere una posizione chiara. Non si può continuare a sfilare per la pace tutti quanti insieme, quelli che sono contrari alle armi e quelli che invece pensano che bisogna mandare più armi ancora all’Ucraina per risolvere il conflitto. Gino Strada ci ricordava che non si può essere pacifisti e per l’invio delle armi. È una contraddizione che non si può consentire. Questo vale per la Schlein, ma anche per il Movimento 5Stelle. Teoricamente l’M5S è la forza che con più chiarezza è contraria all’invio di armi, però non fa del tema della pace la bandiera principale della sua iniziativa politica, la considera con un certo imbarazzo. In questo assomiglia un po’ alla Schlein, sia pure in meglio dal mio punto di vista. E vale anche per Sinistra Italiana di Fratoianni, che è insieme ai Verdi. Siccome i Verdi a livello europeo sono favorevoli all’invio di armi, anche lui è imbarazzato ad alzare questa bandiera. Chi per una ragione chi per un’altra, chi più chi meno, sono tutti imbarazzati. Costruire un motore, un competitor è uno stimolo, non un impedimento. Noi siamo un “partito”, nel senso che prendiamo parte per la pace. È l’unica accezione che oggi diamo a questo termine. Siamo un “partito” preso per la pace. Oggi il nostro obiettivo è fare in modo che l’opinione pubblica che non ha potuto manifestare la sua critica nei confronti dell’andamento di questa guerra, possa farlo e trovare persone che la rappresentino. Questo è il nostro obiettivo prioritario, ma c’è anche quello di essere il motore che accende una maggiore energia nelle altre forze che potrebbero essere sensibili rispetto a questo discorso. Fin qui ho citato forze di sinistra, ma credo anche in Forza Italia e perfino in certi settori del partito della Meloni, ci possano essere forti resistenze ad essere così inclini a seguire gli americani in tutto e per tutto. Attizzare una competizione su questo argomento, vuol dire accendere tante scintille in tutto il campo, non solo in quello di sinistra ma anche nel campo della destra. Abbiamo parlato di contenuti. Ma se fossimo in un salotto mediatico l’avrebbero interrotta per chiederle, “sì vabbè, ma chi candidate?”. I giornali si sono sbizzarriti su questo... Ho una certa fama come scopritore di talenti. Direi che la gente si fida di me anche da questo punto di vista. Non c’è televisione che conta dove non c’è qualcuno che non sia stato mio allievo o comunque persone che abbiano lavorato insieme a me. Vuoi che non abbia l’occhio per capire quali siano i giovani giusti da mettere in una lista, o le donne…La rappresentazione che vogliono dare di noi, come quelli che faranno una lista di soli vecchi, a me fa solamente ridere. D’altro canto, bastava vedere la nostra recente assemblea, per capire il ruolo che avevano i giovani dentro quella riuscitissima iniziativa. Se poi al Corriere della Sera interessa solo chi ha più di 70 anni, non so che farci. Non posso inseguire questa informazione che ormai ha perso qualunque senso del pudore. Montano la polemica sulla “tassa” per partecipare ad un’assemblea, quando invece dovrebbero apprezzare il fatto che uno non soltanto partecipa all’assemblea ma la finanzia pure. Qualcuno mi ricordava che i socialisti, quando ancora esisteva un partito socialista unitario, prima della scissione di Livorno, quando partecipavano ad un’assemblea nazionale, documentavano le loro spese, e tutti contribuivano a creare una medietà di costo di partecipazione: chi stava più vicino dava il suo contributo per quello che veniva più da lontano. È una cosa meravigliosa. Il fatto che questi giornali abbiano perso il ricordo, la memoria di cos’erano le società di mutuo soccorso, le prime iniziative solidali del movimento operaio, è gravissimo. Vabbè che Repubblica è il giornale di Elkann-Agnelli, e non possono avere una sensibilità per questo argomento, però nel loro Dna c’è anche il fatto di essere stati un giornale, importantissimo, di riferimento per la sinistra italiana. Invece hanno smarrito qualunque tipo di memoria. Cercheremo di ricordarglielo, ovviamente in maniera amichevole. Papa Francesco è stato il primo ad utilizzare la definizione, molto efficace, di una “terza guerra mondiale a pezzi” in atto. Nel mondo ci sono più di 50 conflitti in corso. In Nagorno Karabakh è in atto un genocidio. Perché ci si dimentica? Si dimentica perché l’Azerbaigian è il nostro fornitore di gas. La questione dell’Europa, come la poniamo noi, non è semplicemente quella di costruire un soggetto che esca dalla guerra, ma che sia una Europa disarmata. Una Europa che agisca per la soluzione dei conflitti su tutto il pianeta. In particolare in quella parte del mondo che è di più stretta competenza dell’Europa. Vale a dire? L’Africa. Anzitutto l’Europa non deve creare una barriera tra Occidente e Oriente, e questo è prioritario, ma l’altra azione è quello di agire nel continente africano, da protagonista. E deve farlo anche per quanto riguarda la questione palestinese, completamente dimenticata e che torna all’attenzione quando si trasforma in guerra con Israele. Una Europa che divenga grande protagonista della pace su scala mondiale. È questa l’Europa che noi vogliamo, l’Europa che sogniamo. Poi c’è un altro punto dirompente, che vorrei fosse chiaro. Noi siamo già sul bordo di un cratere. E questo cratere si chiama regressione. Noi dobbiamo sperare che l’inverno sia mite, perché ci saranno seri problemi per riscaldarsi, seri problemi per le condizioni di tantissime persone. Dai nostri conti correnti sono già stati “tagliati” 25 miliardi di euro. L’inflazione ha rosicchiato il valore dei nostri risparmi per una montagna di miliardi. Tutto questo noi non lo vediamo ma si riflette sul fatto che anche i figli del ceto medio fanno fatica ad andare all’università. Bisogna capire perché in Italia il conflitto sociale sia così basso, ma questo non vuol dire che le condizioni di sofferenza siano basse. Non vuol dire che riguardino sola la parte più marginale della società, i più poveri. C’è un impoverimento generale. Tutti i servizi sociali più importanti sono peggiorati. Quando sento parlare la Meloni che decanta questi suoi risultati economici, dico sempre che la gente dovrebbe semplicemente guardare la sua esperienza concreta e capire quello che sta succedendo. Il costo per andare all’università è diventato insopportabile. Noi ci dovremmo porre il problema della gratuità, per lo meno per gli studenti che vengono da famiglie dove il disagio è maggiore, invece abbiamo una diminuzione di studenti universitari, una fuga dei giovani dall’Italia. Sono i giovani migliori che se ne vanno. Il sole “europeista” si è oscurato ancora di più in Italia. Noi vorremmo riaccenderlo. Salute mentale, il bollettino di guerra che facciamo finta di non vedere di Josè Mannu Il Domani, 11 ottobre 2023 Secondo l’Oms le diagnosi per questi disturbi sono cresciuti di circa il 30 per cento, anche per effetto della pandemia. Ma i servizi di salute mentale pubblici continuano ad assottigliarsi e sono ormai sotto il 3 per cento del fondo sanitario nazionale. La salute mentale rappresenta una delle principali emergenze che stanno deflagrando in questi anni, a causa di un combinato disposto di fattori che si è acuito durante l’emergenza pandemica. I dati riportati dall’Oms sono eloquenti: le diagnosi per questo tipo di disturbi sono cresciuti di circa il 30 per cento, superando addirittura quelle legate alle malattie cardiovascolari. Un fenomeno che si declina con particolare gravità in Italia e che, contestualmente, si scarica violentemente sulle categorie più fragili. L’erosione dei servizi per la salute mentale si innesta, infatti, nel più complessivo processo di indebolimento del welfare che sta fiaccando il nostro paese. Nel complesso non è eccessivo sostenere che i numeri della malattia mentale sono ormai sempre più simili ad un bollettino di guerra in crescita costante. Si tratta di un dramma che riguarda in primo luogo i giovani: ogni anno nel mondo si contano circa 46mila suicidi tra gli adolescenti. La maggior parte delle 800mila persone che muoiono ogni anno per suicidio sono giovani - ricorda l’Unicef - e il suicidio è la quarta causa principale di morte tra i giovani fra i 15 e i 19 anni, con 46mila adolescenti suicidi ogni anno, più di uno ogni 11 minuti. I dati - In Italia numeri così inquietanti affondano le radici in meccanismi e dinamiche che da tempo si agitano nelle viscere della società e ora stanno affiorando e si stanno propagando. Istituzioni che rappresentano la prima linea di contatto con i cittadini subiscono un depotenziamento e una conseguente e crescente difficoltà a intercettare i bisogni reali delle persone, come avveniva invece in precedenza. Le politiche caratterizzate da tagli e riduzione della spesa pubblica si sono tradotte in indiscriminate sottrazioni di risorse, che sono andate a ledere la capacità di erogazione di servizi fondamentali da parte di regioni e comuni. I presìdi sul territorio mostrano un calo costante e progressivo, in primis per la penuria di personale, proprio mentre gli enti locali e le strutture di prossimità perdono capacità finanziaria e vedono restringersi il perimetro di intervento. Sulla base dei rilevamenti effettuati dalla Società italiana di psichiatria (Sip), risulta che i servizi di salute mentale pubblici continuano ad assottigliarsi e sono ormai sotto il 3 per cento del fondo sanitario nazionale, mentre l’indicazione europea è del 10 per cento per i paesi a più alto reddito. I dipartimenti di salute mentale (DSM) sono diminuiti di numero (dai 183 del 2015 ai 141 del 2020), mentre la stessa Sip prevede che entro il 2025 mancheranno all’appello altri mille psichiatri. Disuguaglianze - All’interno di questo scenario sta diventando ormai fisiologico e consolidato l’allargamento della forbice delle disuguaglianze. Una dinamica che riguarda i gruppi sociali, con la quasi estinzione del ceto medio determinata dalla difficoltà per un numero crescente di persone di accedere ai servizi pubblici e dall’impossibilità per gli stessi di rivolgersi al privato. Contestualmente le disuguaglianze si stanno materializzando anche nello spazio e tra spazi diversi, realizzando vere e proprie barriere geografiche. La differenza nella quantità e nella qualità dei servizi è sempre più ampia, a partire dallo storico divario tra nord e sud che sta raggiungendo picchi probabilmente senza precedenti. Anche all’interno della stessa Regione, infatti, il divario tra due Comuni limitrofi è questione sempre più diffusa. La latitanza delle istituzioni - come ribadiva assiduamente Don Luigi Di Liegro - assume una connotazione particolarmente dolorosa nella sua dimensione locale. Ed è proprio lì che il terzo settore, il volontariato e il privato sociale operano per colmare falle e lacune e per supplire a mancanze esiziali. Si tratte di carenze che si stanno caratterizzando sempre più come un vulnus democratico. La sfida risiede quindi nel ricomporre il mosaico - lasciato sbiadire negli anni - delle politiche urbane, come motore di una nuova stagione improntata alla solidarietà. Un percorso che potrebbe approdare e trovare il suo compimento dei 50 anni del “Convegno sui mali di Roma”, che organizzò proprio don Luigi Di Liegro e che costituisce lo scrigno di tutti i valori che stiamo smarrendo. Non possiamo e dobbiamo arrenderci: la presenza di tante realtà sui territori restituisce la speranza di poter rianimare lo stato sociale e lo stato di diritto. Per farlo, occorre volgere lo sguardo alla costruzione di nuove identità collettive e di un nuovo senso di appartenenza a una comunità condivisa. Il costo delle dipendenze: ogni anno bruciamo l’1% del Pil a causa di droghe e alcol di Cecilia Rossi La Repubblica, 11 ottobre 2023 Più di 8 miliardi di costi diretti, senza contare il prezzo che pagano i pronto soccorso e le carceri. Ecco i dati di Oised sull’impatto economico degli abusi di sostanze. Ogni anno l’Italia perde 22,5 miliardi di euro, pari a un punto percentuale di Pil, a causa delle dipendenze da droghe e alcol. Sono le stime prodotte dall’Oised, l’Osservatorio sull’impatto socio-economico delle dipendenze che quest’anno ha pubblicato il suo primo rapporto sull’impatto socio-economico dell’abuso di sostanze nel nostro Paese. I costi diretti dell’assistenza annuale ammontano a 8,3 miliardi. Precisamente, 7 miliardi per chi fa uso di stupefacenti e 1,3 per chi abusa di alcol. Ma si tratta di un dato spurio perché non prende in considerazione tutti i costi indiretti prodotti dalle esternalità negative legate a questo fenomeno, come la perdita di forza lavoro e di produttività, gli strascichi delle patologie riconducibili all’alcol, e poi il valore delle droghe che viene stimato complessivamente ogni anno in oltre 15 miliardi di euro. Il prezzo nascosto per ospedali e carceri - Sono oltre 250.000 le persone che nel 2022 sono state prese in carico presso i Ser.D (Servizi per le dipendenze), che su tutto il territorio nazionale hanno più di 600 sedi attive. Significa che è presente un centro ogni 100 mila abitanti, con differenze tra i vari territori: il Molise è la regione con più strutture in relazione alla popolazione, mentre la provincia autonoma di Trento quella con il valore minore. Della spesa complessiva, oltre 1,5 miliardi di euro sono destinati alla presa in carico nei Ser.D, con un aumento nel post-pandemia del 6% rispetto al 2019. Nel 2022 questi costi sono serviti a garantire l’assistenza, ogni 100 mila abitanti, di 20 utenti per dipendenza da droghe e di 12,4 per alcol. A sobbarcarsi di parte dei costi però sono anche gli ospedali: nel 2022 si sono registrati 8.631 accessi al pronto soccorso a causa del consumo eccessivo di stupefacenti e ben 29.362 per problemi legati all’alcol. Ma non solo. A farne le spese infatti non è solo il lato sanitario, ma anche la macchina della giustizia. Nella popolazione carceraria, i detenuti colpevoli di reati connessi agli stupefacenti, come lo spaccio di sostanze, rappresentano un terzo. I detenuti con problemi legati alla tossicodipendenza sono quasi 17 mila, in leggero calo rispetto al 2019. Soluzioni e proposte - Di fronte all’elevato impatto che il consumo patologico di droghe ed alcol hanno a livello sociale ed economico, l’Oised suggerisce di intraprendere una serie di misure volte alla prevenzione di questi fenomeni, che in realtà “generano complessivamente dei risparmi per la società”. “Sarebbe auspicabile che il momento terapeutico fosse sempre preminente rispetto a quello sanzionatorio e che, nella difficile ricerca di un punto di equilibrio tra pena e terapia, prevalesse sempre il rispetto del principio del corretto sviluppo della persona”, si legge nel report di Oised, che ha deciso di rendere la propria banca dati sulle dipendenze consultabile liberamente tramite una piattaforma dedicata. Migranti. L’ultimo blitz della Lega: “Nuove regole per scegliere i giudici” di Alessandra Ziniti La Repubblica, 11 ottobre 2023 Salvini intende proporre l’affidamento della giurisdizione sull’immigrazione al Tar o alle Corti d’appello. Attesa per oggi una nuova sentenza della Apostolico sul trattenimento di quattro tunisini. Da dieci giorni sulla graticola, Iolanda Apostolico non si lascia condizionare dalla bufera che l’ha investita e torna a decidere sul trattenimento di alcuni richiedenti asilo rinchiusi nel centro di Pozzallo. Proprio nelle stesse ore in cui la Lega decide di alzare ulteriormente il tiro e proporre una riforma di quelle sezioni immigrazione che, pezzo dopo pezzo (come già avvenuto con i decreti sicurezza Salvini) stanno smontando le nuove norme. E allora - è la proposta alle forze di maggioranza - meglio togliere la giurisdizione ai tribunali in cui le toghe di sinistra offrono la loro disponibilità ad occuparsi della materia e affidarla al Tar o alle Corti d’appello dove si ritiene che siedano magistrati più terzi. Attesa per il nuovo provvedimento - Qualunque sarà la sua decisione, il nuovo provvedimento che la giudice Apostolico depositerà oggi rinfocolerà le polemiche. Presumibile che non convalidi neanche questa volta, come per altro fatto anche dal collega Rosario Cuprì che domenica ha, a sua volta, disposto la liberazione di altri sei tunisini trattenuti a Pozzallo. Anche se, questa volta, il decreto di trattenimento emesso dal questore di Ragusa Vincenzo Trombadore non è una fotocopia dei due precedentemente bocciati. Non più solo la generica provenienza dalla Tunisia, ritenuto dall’Italia Paese sicuro, a motivare il trattenimento nel centro richiedenti asilo di Pozzallo ma argomentazioni più articolate e il parere della Commissione territoriale per l’asilo sulle procedure accelerate di frontiera. E resta insuperabile l’obiezione che le procedure accelerate di frontiera vanno fatte nel luogo di sbarco (in questo caso Lampedusa e non Pozzallo) e che la cauzione in cambio della libertà è ritenuta illegittima. Il braccio di ferro governo - giudici - Qualunque sarà, il verdetto che la giudice Apostolico si appresta ad emettere andrà ad innestarsi nel braccio di ferro tra il governo e i tribunali che in questi giorni e nei prossimi mesi si troveranno a dover applicare molte delle nuove norme contenute nel decreto Cutro e in quelli collegati con il rischio di vederle demolire una sentenza dietro l’altra. Anche per questo ieri la Lega ha pensato di tirare un altro sasso nelle acque già agitate, annunciando l’intenzione di riformare le sezioni immigrazione dei tribunali, quelle nelle quali - a suo avviso - si annidano le toghe di sinistra che avversano la politica migratoria del governo. La Lega: l’immigrazione al Tar o alla Corte d’appello - L’idea - che atterrerà nei prossimi giorni in un vero e proprio testo da sottoporre alle forze di maggioranza - è quella di “ rivedere composizione e prerogative delle sezioni, per garantire una maggiore celerità nei responsi e una piena terzietà dei pronunciamenti”. Cento giuristi con la Apostolico - Per oggi, in Parlamento è attesa la risposta del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi alle interrogazioni che chiedevano di chiarire origine e modalità di trasmissione del video diffuso da Matteo Salvini sulla giudice Apostolico. A sostegno della quale è arrivato un documento sottoscritto da cento giuristi, primo firmatario Luigi Ferrajoli. L’attacco che le è stato “rivolto dal governo, e in particolare del ministro Matteo Salvini è un’aperta aggressione a due fondamentali principi della Costituzione repubblicana: la separazione dei poteri e l’indipendenza della giurisdizione e la libertà di riunione esercitata dalla cittadina Apostolico”, affermano i firmatari secondo i quali “ non è tollerabile, in uno stato di diritto, che il potere politico aggredisca il/la giudice che lo ha emesso, con insulti e minacce dotate di una carica intimidatoria senza precedenti nel pur lungo e penoso conflitto tra politica e giustizia che avvelena il nostro paese da oltre trent’anni”. Migranti. Non cambiano le sentenze e allora Salvini vuole cambiare i tribunali di Mario Di Vito Il Manifesto, 11 ottobre 2023 Sulla giustizia ormai è scontro frontale: la Lega vuole riformare le sezioni per i migranti. Se il mazzo è regolare, si può sempre pensare di truccare il tavolo. È con questo spirito che, dopo aver verificato quanto il decreto Cutro non riesca a funzionare nelle aule di giustizia, la Lega starebbe pensando di risolvere il problema alla radice con una riforma delle sezioni dei tribunali specializzate in immigrazione. La notizia è stata fatta filtrare dell’entourage di Matteo Salvini, senza chiarire se si tratti di un progetto già con una sua struttura o se, più probabilmente, è solo un’idea gettata sul tappetone dell’opinione pubblica tanto per vedere l’effetto che fa. Per ora, dunque, si sa solo che l’obiettivo è “garantire una maggiore celerità nei responsi e una piena terzietà dei pronunciamenti”. Il sottinteso è palese: dalle parti della Lega si dubita dell’efficienza e soprattutto dell’imparzialità dei magistrati delle sezioni dedicate all’immigrazione. che, detto per inciso, sono magistrati ordinari, dunque l’attacco è da intendere a tutta la categoria, nell’ennesimo capitolo della guerra senza quartiere che da un paio di settimane a questa parte Salvini ha deciso di combattere con la giurisdizione italiana. Il caso Apostolico è stato soltanto la miccia, adesso il tiro si alza e, in attesa della più volte annunciata e più volte rimandata riforma della giustizia di Nordio, ci pensa la Lega a surriscaldare gli animi. Salvini, che ieri era a Trento per la campagna elettorale, non si è espresso sul punto, ma in compenso ha rilanciato i suoi slogan sui Centri di permanenza per il rimpatrio, senza i quali, a suo dire “è più difficile espellere i clandestini che commettono dei reati”. Per quello che riguarda invece la riforma delle sezioni immigrazione dei tribunali, i magistrati si interrogano su cosa prevedrà - se prevedrà qualcosa - la proposta della Lega. Da notare che, dopo la loro istituzione frutto del decreto Minniti-Orlando del 2017, le “Sezioni specializzate in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini nell’Unione Europea” (26 in totale, una per ogni distretto di Corte d’Appello) hanno portato diversi giudici a specializzarsi in una materia assai complessa che, oltre alle leggi italiane, prevede anche un’approfondita conoscenza delle normative comunitarie. Lo spettro che aleggia è quello dei tribunali speciali di infausta memoria, ma tra le ipotesi più papabili c’è quella di trasferire le competenze sull’immigrazione ai giudici amministrativi. Una scelta che, con la presunta maggiore celerità delle decisioni, maschererebbe in realtà un tentativo del governo di controllare questo ramo della giurisdizione: parte dei giudici amministrativi, infatti, sono di nomina politica, basti pensare al Consiglio di Stato. L’escamotage, però, sarebbe a serio rischio di costituzionalità, dal momento che non si può sottrarre alla magistratura ordinaria una materia che riguarda direttamente i diritti della persona. Si tratta, a ben guardare, di un rebus che si regge proprio sulla mancanza di elementi concreti a supporto dell’ipotesi fatta circolare da “fonti della Lega”, come recitano tutte le agenzie: forse, dunque, è solo un tentativo di intorbidire le acque mentre la partita sulla giustizia si complica via via sempre di più. Le mancate convalide dei fermi dei migranti nei centri di detenzione continuano ad ammucchiarsi, mentre il linciaggio della giudice Iolanda Apostolico con la pubblicazione di video che la vedevano partecipare alla manifestazione per la nave Diciotti del 25 agosto 2018 sta portando solo guai a chi ha deciso di diffonderlo, cioè Salvini. Sulla diffusione del video pubblicato via social dal vicepremier - realizzato per sua stessa ammissione da un carabiniere di Catania - non solo ha prodotto due diverse inchieste giudiziarie (una a Roma e una in Sicilia), ma anche una serie di interrogazioni parlamentari: dopo quella scritta dal tandem democratico Verini-Rossomando, ieri anche il leader di Sinistra Italiana Nicola Fratoianni ne ha presentata una. “Quel filmato è stato diffuso con il chiaro e dichiarato intento di screditare l’operato e l’imparzialità della giudice - si legge nell’interrogazione -. Davvero grave che un vicepresidente del Consiglio e ministro della Repubblica abbia voluto utilizzare quel video sui propri canali social per tentare di screditare l’operato della magistratura, soltanto perché ha assunto decisioni a lui non gradite”. Droghe. Vienna 2024 non solo un rituale? di Susanna Ronconi Il Manifesto, 11 ottobre 2023 “Abbandonare gli approcci punitivi è cruciale per affrontare le sfide sul piano dei diritti umani causate o facilitate dalle politiche repressive sulle droghe. (…) Adottare alternative alla criminalizzazione, alla tolleranza zero e all’abolizione delle droghe attraverso la decriminalizzazione del consumo (…) Assumere il controllo dei mercati illegali attraverso una regolazione responsabile”. Questa una delle raccomandazioni elaborate dall’Alto Commissariato Onu dei diritti umani (UNHCR) nel rapporto redatto su incarico del Consiglio dei diritti umani (HRC) in vista della sessione della Commission on Narcotic Drugs (CND) che nel marzo 2024 a Vienna avrà il compito di valutare progressi e risultati della strategia globale sulle droghe varata nel 2019 e in scadenza nel 2029. Il rapporto - stilato sulla base di oltre cento contributi di stati, agenzie internazionali e ONG (fra cui quello di Forum Droghe) - rappresenta la base su cui a Vienna il tema dei diritti umani sarà portato dallo HRC come elemento di valutazione della adeguatezza, sostenibilità ed efficacia delle politiche globali, avendo il rispetto dei diritti come fattore dirimente. La CND del prossimo marzo si annuncia come un passo avanti non di poco conto, se davvero gli organismi Onu sui diritti conquisteranno, come annunciato e perseguito in tanti atti negli ultimi anni, un ruolo istituzionalmente più forte nell’ambito delle politiche sulle droghe. Una sfida sempre aperta, perché se senza dubbio gli ultimi dieci anni hanno visto crescere la serrata critica alla war on drugs da parte di un crescente numero di agenzie, le resistenze e le controffensive sono molte, sia da parte degli enti preposti (UNODC e INCB) che dal cartello degli stati iper-proibizionisti, Russia e Cina in testa. Il Rapporto è il più radicale ad oggi tra i tanti documenti Onu che nel tempo hanno preso posizione sul nesso politiche globali-violazioni dei diritti: presenta una impressionante disamina di tutti i diritti fondamentali violati nell’ambito e a causa della war on drugs - salute e accesso ai servizi e alla Riduzione del Danno, iper-incarcerazione, militarizzazione nei processi di controllo, sproporzione nelle pene soprattutto per i reati minori, pena di morte, discriminazione di alcuni gruppi sociali ed etnica, impatto sui popoli indigeni - ma soprattutto dimostra e denuncia il nesso criminalizzazione-violazioni, con un appello, mai così esplicito, non solo a rinunciare all’approccio repressivo, ma, per la prima volta, a considerare l’opzione di una regolazione legale dei mercati. Le raccomandazioni finali, che articolano quello slittamento strategico citato qui in premessa, a ben vedere suonano come un programma di riforma, e questo a molti non piacerà. Per esempio al governo italiano, che pur se ha sottoscritto l’impegno dello HRC per Vienna 2024, sta marciando contro corrente: se l’UNHCR raccomanda di decriminalizzare i reati minori, l’Italia inasprisce le pene per i fatti di lieve entità; se raccomanda la RdD come politica cruciale per il diritto alla salute, l’Italia la stigmatizza e la boicotta; se invita a considerare ipotesi di controllo legale dei mercati l’Italia demonizza la legalizzazione della cannabis; se considera fondamentale il rispetto di chi consuma, la destra italiana rigetta l’acronimo PUD, Persone che usano droghe, perché legittimerebbe l’uso di sostanze. E via elencando. È pensabile che l’Unione Europea si presenterà compatta a Vienna, e che vorrà sostenere le raccomandazioni dello HRC. Come movimento per la riforma delle politiche sulle droghe abbiamo da lavorare perché Mantovano non reciti il ruolo che fu di Giovanardi nel 2009, quando alla CND che doveva varare la nuova strategia ONU, l’Italia si alleò con Russia e Cina contro la RdD (vedi F. Corleone in questa rubrica del 25 febbraio 2009). Un brutto film. Medio Oriente. La fine dell’odio mai così lontana di Paolo Giordano Corriere della Sera, 11 ottobre 2023 Abbiamo ripensato a noi stessi, all’Occidente in senso largo, e all’illusione di vivere quasi spensieratamente. A Kfar Aza, Hamas ha sterminato i bambini di Israele. Kfar Aza è un nome che abbiamo sentito per la prima volta poche ore fa e che non dimenticheremo mai: l’esercito israeliano ha reso noto ieri che nel kibbutz sono stati trovati, fra le decine di morti lasciati da Hamas, anche quaranta bambini, alcuni dei quali decapitati, e alcuni dei quali ancora neonati. Forse un editoriale dovrebbe interrompersi qui, lasciare che quest’unica frase irradi attorno a sé il suo portato, in onde concentriche. Lo sgomento, o meglio la nausea fisica che mi è capitato di provare ieri, sono reazioni più esaustive di molti ragionamenti. Ma qui abbiamo l’obbligo, o almeno l’abitudine, di intercettare queste onde e di provare ad analizzarle mentre ci stanno ancora attraversando. Consapevoli di muoverci attraverso un campo ideologico minato da ogni parte, in cui ciascuna frase viene passata ai raggi X perché dovrebbe contenere in sé la consapevolezza di decenni di violenze, quando è evidente che non può farlo. Ma consapevoli anche che certi eventi costituiscono dei salti quantici, delle singolarità tali da meritare quel coraggio. È strano e irriverente da dirsi, ma la strage del rave sembra quasi rientrare, all’improvviso, in un ambito di normalità. Nel suo modo scandaloso di pesare gli orrori uno rispetto all’altro, la nostra mente la pone a confronto con i bambini decapitati, e sceglie. D’altronde, i ragazzi e le ragazze del rave ballavano a cinque chilometri dal confine con la Striscia, erano stati avvisati della possibilità di colpi “sporadici” di artiglieria, e comunque erano maggiorenni. I bambini erano in casa loro e probabilmente dormivano. La tentazione comune è stata da subito di considerare quanto è accaduto sabato 7 ottobre come una voce in più da aggiungere alla timeline del conflitto israelo-palestinese, un conflitto che con maggiore o minore intensità ha fatto da rumore di fondo all’interezza delle nostre vite. Ma alcuni elementi hanno reso chiaro fin dall’inizio, e forse per la prima volta in decenni, che quel conflitto era d’un tratto molto più vicino a noi, molto più rischioso, addirittura personale. Per il momento in cui è avvenuto, cioè dopo un anno e mezzo di una guerra di invasione dell’Ucraina che ha minacciato fin dall’inizio di espandersi; per la sovrapposizione, evidente o meno, di alcuni attori, dall’Iran fino all’assurdità di Ramzan Kadyrov, il “macellaio” ceceno che davamo per morto e che ora si propone come elemento di peacekeeping. Le notizie si sono innestate su un’inquietudine preesistente, hanno aggredito il nostro senso di sicurezza già fiaccato. D’un tratto Israele e Gaza non erano più “laggiù”, non erano la questione mediorientale. Se la prima e la seconda Intifada, i razzi e gli attentati “sporadici” ci convocavano per lo più politicamente, come una specie di corollario delle nostre posizioni ideologiche, la carneficina del rave ci ha chiamato in causa come cittadini di stati democratici. Ci ha fatto ripensare a noi stessi, all’occidente in senso largo, come non succedeva da un po’, e alla nostra illusione di poter vivere quasi spensieratamente in prossimità di forze sempre più ostili e dirompenti, che contiamo di poter dominare, gestire con gli strumenti avanzati in nostro possesso, o ignorare e basta. Ci ha ricordato che il nostro vivere democratico è in fin dei conti una fede, come ne esistono altre, evidentemente non conciliabili, ed è una fede che contiene grani di responsabilità storiche incastonati al suo interno, impossibili da rimuovere. Ma l’eccidio di Kfar Aza è ancora diverso. Ci interroga come esseri umani, punto. È sempre Israele-Palestina, certo, ma fuoriesce dalla cornice, per quanto ci si sforzi di allargarla. Credo che nemmeno l’anti-israeliano più irremovibile, nemmeno il più consapevole delle privazioni e della violenza a cui la popolazione di Gaza, con i suoi bambini, è da lungo sottoposta, possa oggi immaginare sé stesso al posto dei terroristi che hanno fatto irruzione nelle case di Kfar Aza. Ma nessuno di noi può escludere che avrebbe potuto trovarsi in una di quelle case. Ogni sforzo delle prime ore di racchiudere ciò che sta accadendo nella narrazione fino a qui del conflitto israelo-palestinese è saltato e si rivela adesso, nella sostanza, un tentativo di normalizzazione a nostro esclusivo beneficio. Tutti i “cosa vi aspettavate?”, i “non conoscete la storia della Palestina?”, i “nulla di nuovo sotto il sole” vengono polverizzati da Kfar Aza. A Kfar Aza, Hamas ha sterminato i bambini di Israele e in questo modo ha sacrificato anche i bambini che vorrebbe vendicare o proteggere, i bambini di Gaza, sapendo di farlo. Quanto a noi, il terrore fondamentalista, quello buio e cupo del triennio 2015-2017, quello dei kamikaze e delle teste mozzate è tornato a mostrarsi, con il suo vuoto di senso buio e impossibile da maneggiare. È tornato in un continente già traumatizzato da una guerra in corso, negli anni più difficili dalla seconda guerra mondiale. Che epoca ci è stata assegnata per vivere? È questa la domanda idiota che mi trovo a formulare di continuo in queste ore. Nell’estate del 2018 ero presente a uno degli ultimi interventi pubblici di Amos Oz, a Taormina. Quel giorno ero stanco per non so quale motivo e ricordo di essere stato titubante sull’andarci, ma alla fine mi ero costretto. Le parole che Oz aveva pronunciato sul fanatismo, sul suo gene “cattivo” che sarebbe presente in tutti noi, sono fra quelle che mi sono trovato più volte a ripetere negli anni. Il fanatismo, disse a Roberta Scorranese che lo intervistava, “è il rischio più grande del nostro tempo”. Lo shock dei totalitarismi ha raggiunto la propria data di scadenza, i giovani non lo conoscono direttamente, quindi sono più vulnerabili. Eppure aveva una calma di fondo, Amos Oz, anche nel parlarne, anche nel parlare di terrore, una specie di ottimismo pacato ma non privo di fermezza. Concreto. Sulla questione territoriale, continuava ad avere fiducia che prima o poi si sarebbe arrivati a una divisione pacifica della Palestina in due stati, “un doloroso compromesso” per il quale aveva lottato più di sessant’anni e che avrebbe infine risolto una lotta tragica “tra giusto e giusto”. Si augurava un finale alla Checov per quella tragedia, in cui tutti i protagonisti sono tristi, arrabbiati e delusi ma almeno sono vivi. Non un bagno di sangue shakespeariano. Ora sappiamo che il finale non è checoviano. Non so se in Shakespeare ci siano anche finali con bambini decapitati, ma qui sì. Intanto Amos Oz non c’è più e la cura per quel gene con cui sperava di vincere il Nobel per la medicina al posto di quello per la letteratura non è mai sembrata lontana, irraggiungibile come adesso. Medio Oriente. Le punizioni collettive allargano il conflitto di Riccardo Noury* Il Manifesto, 11 ottobre 2023 Sangue su sangue. Non esiste un “sì, però” ma la necessità di capire che il massacro di civili israeliani e palestinesi e l’ignoranza delle cause di fondo non porterà sicurezza e pace a nessuno. Da un lato, il numero più alto di civili ebrei assassinati dopo l’Olocausto. Dall’altro l’ennesima punizione collettiva ordinata contro la popolazione civile di Gaza. La storia si ripete, e si ripete in peggio. All’orizzonte non c’è ancora, come in passato, un tentativo di negoziato, una tregua in vista. C’è, al contrario, il rischio di un allargamento della guerra. Chi si occupa di diritti umani e vuole avere uno sguardo imparziale su quanto accade durante la guerra deve concentrarsi sulle azioni e non sugli attori. Chi guarda agli attori, troverà sempre una giustificazione per il comportamento del lato per cui parteggia. Se invece guardiamo alle azioni, ci troviamo di fronte a crimini di diritto internazionale, per l’esattezza crimini di guerra, perpetrati da una parte e dall’altra. Non può esservi altra sensazione se non quella dell’orrore nel vedere le immagini dei miliziani palestinesi che atterrano coi parapendii a motore su un rave facendo un Bataclan moltiplicato per tre o per quattro. Né vale l’artificiosa distinzione tra “civili” e “civili anormali”, fatta da un portavoce di Hamas, secondo cui gli israeliani e gli stranieri uccisi o presi in ostaggio sarebbero tutti “coloni armati”, dunque bersagli legittimi. Tra questi ultimi, peraltro, c’erano e ci sono attivisti e pacifisti noti per la solidarietà espressa nei confronti dei palestinesi, così come bambini e lavoratori migranti. L’espressione “civili anormali” è speculare a quella, usata dal ministro della Difesa israeliano il 9 ottobre, di “animali umani” contro i quali sarebbe di lì a poco partito l’attacco militare contro Gaza. Le azioni, dunque, sono crimini di guerra, senza se e senza ma. Quelle di Hamas e quelle dell’esercito israeliano. L’annuncio di sospendere forniture essenziali (elettricità, acqua, cibo, carburante) a Gaza rischia di condannare alla fame due milioni di persone, tra cui moltissimi bambini. Il diritto internazionale la chiama “punizione collettiva”. A Gaza, l’aviazione israeliana sbriciola edifici su edifici in pieno centro urbano. La popolazione è intrappolata e non ha alcun posto per mettersi al sicuro. Dicono: “La popolazione viene preavvisata per avere tempo di evacuarli”. Siamo sicuri? I bambini, le persone anziane e quelle con disabilità riescono a fare in tempo? E, quando a causa della sospensione delle forniture di elettricità, i telefonini non potranno più essere caricati, come si potrà ricevere l’sms che avvisa dell’imminente bombardamento? E, ammesso che l’sms arrivi e che il palazzo si evacui per tempo, dove andranno i residenti che non avranno più un alloggio? Resteranno parcheggiati per tempo immemore nell’ennesimo campo profughi, stavolta in Egitto, che non pare esattamente uno stato amico? Le responsabilità di Hamas e Israele per quanto sta accadendo in questi giorni non devono farci ignorare le “cause di fondo”: il decennale controllo della potenza occupante, quale è Israele nei confronti di Gaza (e della Cisgiordania occupata, Gerusalemme est compresa) fatto di oppressione, uso ripetuto della forza letale, spossessamento, frammentazione, acquisizione illegale di terra, narrazione criminalizzante nei confronti dei palestinesi, inclusi i gruppi per i diritti umani; impunità per i coloni e per le forze armate. Le organizzazioni israeliane, palestinesi e internazionali che si occupano di diritti umani definiscono questo sistema con un nome, apartheid. Parlo di questo solo alla fine dell’articolo, per ribadire che non c’è un “sì, però” da sollevare in questi giorni. C’è solo da condannare l’orrore, da pretendere il rispetto del diritto internazionale umanitario, da sollecitare la protezione dei civili su ogni lato del conflitto. Una cosa è chiara: il massacro di civili israeliani e palestinesi non porterà sicurezza e pace a nessuno. *Portavoce di Amnesty International Italia Caro Zaki, perché quel silenzio sulle vittime israeliane? di Luigi Manconi La Repubblica, 11 ottobre 2023 Si è trattato di una forma di esplicito e dichiarato terrorismo. Non un atto di guerra, bensì una operazione esclusivamente destinata a produrre terrore indiscriminato e ad annientare ogni vita umana. Caro Patrick Zaki, mi rivolgo a te perché la tua personale esperienza dell’ingiustizia e della sopraffazione e la storia della comunità copta cui appartieni ti fanno particolarmente sensibile al dolore del mondo e alle infinite sofferenze di chi lo abita. La tua attenzione è attratta in particolare da quanto accade nella Striscia di Gaza e dalla sorte di coloro che si trovano sottoposti alla controffensiva di Israele e che, prevedibilmente, lo saranno nei prossimi giorni e nelle prossime settimane. Ricordi, e fai bene a farlo, Aya Al-Najjar, la bambina uccisa dalle forze di occupazione israeliane nella sua casa a est della Striscia di Gaza; e le bombe sull’ambulanza che trasportava palestinesi feriti verso il campo profughi di Jabalya. E, ancora, parli dell’assedio a Gaza e del taglio delle forniture di cibo, acqua, elettricità e carburante annunciato dal ministro della Difesa israeliano. Ovvero ciò che, secondo il diritto internazionale, configura un crimine di guerra. Condivido il tuo sconforto. Ma resto amaramente sorpreso perché non trovo, nei tuoi messaggi, parole altrettanto forti a proposito di quanto è accaduto poche ore prima in quella stessa martoriata regione. Non ho trovato, cioè, alcuna parola sulle vittime civili del lancio di missili sul territorio di Israele; e non ho trovato, incredibilmente, un sentimento di lutto per “la strage dei ragazzi”: centinaia di giovani uccisi mentre si trovavano al festival musicale Supernova, nel Sud di Israele. Riflettiamo su questo. Si è trattato di una forma di esplicito e dichiarato terrorismo. Non un atto di guerra, bensì una operazione esclusivamente destinata a produrre terrore indiscriminato e ad annientare ogni vita umana. E nemmeno un atto di terrorismo classico - quello politico o etnico o irredentista del secolo scorso - bensì un’azione interamente ricalcata sul modello jihadista, dove lo sgozzamento diventa un messaggio pubblico per definire la propria identità e per annichilire persona e immagine del nemico. Una manifestazione illimitata e istintuale di violenza fondamentalista dove il bersaglio - giovani liberi, emancipati, cosmopoliti - diventa l’oggetto di una ostilità di natura anche religiosa. Qui si impone una domanda: che relazione ha tutto ciò con “la causa del popolo palestinese”? Possiamo essere d’accordo, caro Patrick, che non c’è alcuna relazione? E che quella strage è l’espressione di una perversione ideologico-confessionale che non può rivendicare alcuna causa sociale e, tantomeno, alcuna giustificazione morale? Possiamo dire che l’aver fatto di Gaza un campo profughi a cielo aperto non attenua in alcuna misura e nemmeno aiuta a comprendere l’orrore di quella mattanza di ragazzi e ragazze e il sequestro di bambini, donne e vecchi? Tu hai conosciuto l’ignominia delle carceri egiziane ma non ne sei uscito limitato nel tuo senso di umanità, bensì accresciuto nella tua consapevolezza. Perché mai accettare che la brutale disumanità di chi decapita bambini contamini le cause più giuste? In altre parole penso che la radice del terrorismo di Hamas risieda, più che nella tragedia del popolo palestinese, nell’infamia del regime teocratico dell’Iran. E dovremmo conoscere abbastanza del mondo e dei suoi orrori per sapere che il male manifestatosi nel “massacro dei ragazzi” non potrà mai essere attenuato o ridimensionato, compensato o risarcito, dal male commesso dagli altri. La nostra capacità di sottrarci a quel male, di non essergli subalterni e tantomeno conniventi, dipende interamente dal fatto di riconoscerne il carattere assoluto e incomparabile. Le cause antiche e prossime, le ragioni geopolitiche e demografiche, la genealogia dei processi storici: tutto ciò è fondamentale per analizzare come si è arrivati alla situazione attuale. Ma tutto ciò non giustifica e non spiega la degenerazione del quadro politico-militare e le reazioni estreme che vi si palesano. Battersi contro queste non significa ignorare il contesto generale o dimenticare una parte delle vittime. Al contrario: si tratta di intraprendere l’impresa di dividere Hamas dai palestinesi costretti ad affidarsi a quel regime terroristico per cercare scampo alla condizione di oppressione e umiliazione cui li sottopone la politica israeliana degli insediamenti. È qualcosa di molto difficile, forse impossibile, ma se non si va in quella direzione la sorte dei palestinesi resterà segnata irreparabilmente. Nel tuo messaggio più recente, caro Patrick, scrivi che è necessario “distaccare” la tutela dei diritti dei palestinesi dalle “politiche religiose conservatrici e oscurantiste di Hamas” (magari anche criminali, no?). È proprio questa la posta in gioco. E va sostenuta con la massima chiarezza. È esclusivamente un simile atteggiamento che ci renderà credibili quando di fronte al progredire della controffensiva israeliana e alle sue atrocità alzeremo la voce e diremo, senza infingimenti, quali sono le terribili responsabilità del governo di Benjamin Netanyahu e di quelli precedenti nel determinare questa sciagurata spirale di morte. “A Gaza pagheranno solo gli innocenti”. Parla l’avvocato Raji Sourani di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 11 ottobre 2023 Il legale e consulente Onu è impegnato da anni nella difesa dei diritti umani: lo abbiamo raggiunto al telefono nella sua casa di Gaza City, mentre le bombe piovono senza tregua. Una vita dedicata alla difesa dei diritti umani che in questi giorni possono essere polverizzati per sempre sotto le bombe israeliane. L’avvocato Raji Sourani vive a Gaza City ed è la colonna portante del “Palestinian Centre for Human Rights”, organizzazione indipendente che collabora con le Nazioni Unite affiliata all’ICJ (International Commission of Jurists) di Ginevra. Siamo riusciti a contattare Sourani in un momento che solo apparentemente si è dimostrato tranquillo. Durante l’intervista, abbiamo dovuto interrompere un paio di volte la conversazione a causa dei bombardamenti. Abbiamo contato otto esplosioni. Sourani, con la calma di chi è abituato a vivere situazioni pericolose, è anche in grado di ironizzare. Alla settima bomba esplosa a poca distanza dalla sua casa, in neanche venti minuti di intervista, Raji dice: “È il nostro party notturno con il suono delle bombe, con le case che ballano e i vetri che sembrano frantumarsi da un momento all’altro. Non oso immaginare cosa potrà succedere nelle prossime ore”. Avvocato Sourani, questa volta il conflitto con Israele rischia di avere conseguenze ancora più drammatiche? È la resa finale? Si, purtroppo, temo di sì. Quanto sta accadendo non ha precedenti. Questa volta si rischia che anche quanto è stato costruito con fatica negli anni passati venga cancellato definitivamente. A Gaza sono stati realizzati programmi internazionali per la distribuzione di cibo e di altri aiuti internazionali. In passato siamo riusciti a mettere in piedi, nonostante mille difficoltà, un tessuto produttivo che poteva contare su una serie di attività economiche e una comunità finanziaria locale in grado di far vivere il territorio. Gli israeliani hanno deciso di disconnetterci dal mondo. Hanno deciso di relegarci al medioevo. Gaza è stata distrutta e tante persone sono morte con il crollo di edifici, ospedali, scuole e moschee. In questo contesto non sono mancati gli errori. Sono stati tanti? Il passato ha offerto numerosi spunti di riflessione che poi hanno portato ad agire in un certo modo con delle semplificazioni. Alcune situazioni ed alcune persone sono state considerate tutte uguali, senza fare più quelle doverose distinzioni che servono poi ad agire con lucidità e a trovare un interlocutore attendibile. La comunità internazionale spesso ha considerato Gaza come un luogo in cui scaricare solo aiuti alimentari e medicine, come se ci si volesse lavare la coscienza. Arafat è stato considerato un terrorista, Abu Mazen è stato considerato un terrorista, Jihad e Hamas sono classificati gruppi terroristici. I palestinesi, di conseguenza, sono considerati cattivi. Hamas ha colto di sorpresa l’esercito israeliano, dotato delle armi e degli strumenti più sofisticati, e si è reso protagonista di quello che abbiamo visto tutti. Il prezzo più alto adesso lo pagheranno tanti innocenti? Proprio così. A pagare le conseguenze di quanto successo pochi giorni fa sarà la popolazione civile che vive nella Striscia di Gaza. Impossibile che non ci siano gravi conseguenze, considerate le operazioni militari programmate e annunciate da parte di Israele. I bombardamenti che si sentono in sottofondo ne sono la dimostrazione. Perché attaccare indistintamente? Perché distruggere tutto, senza pensare anche alle organizzazioni umanitarie che sono ancora presenti qui? Non si sta distinguendo, e questo è il grande errore, che una cosa è Hamas e un’altra cosa è la popolazione di Gaza. Quest’ultima viene usata come scudo, viene tenuta in ostaggio per essere macellata. Una situazione già denunciata da tante organizzazioni umanitarie. A questo punto la conversazione si interrompe. Qualche istante prima alcune esplosioni sono più che un sottofondo; sembrano a poche centinaia di metri dall’abitazione di Sourani. “Senti, senti quanto sono vicine”, afferma l’avvocato palestinese. Chissà quanti danni sono stati provocati e se ci sono vittime. Non è dato saperlo. Un paio di minuti dopo è possibile riprendere l’intervista. Non si parla più di rispetto dei diritti umani. L’operazione militare programmata da Israele li metterà su un secondo piano? Non c’è dubbio. I civili saranno colpiti duramente e vivere in questa situazione non farà altro che aumentare disagio, sfiducia e rabbia. Badiamo bene, però. Fare delle distinzioni tra civili di un Paese o di un altro, fare delle classifiche sul numero dei morti, significherebbe commettere un grande errore. Anzi, significherebbe continuare a commettere gli errori che hanno caratterizzato la storia di quest’area. Le organizzazioni e le autorità che difendono i diritti umani non potranno non tenere conto di quello che subiscono i palestinesi. La domanda che ricorre sempre nei nostri ragionamenti è: perché colpire i civili, le donne, gli anziani e i bambini? Perché distruggere le abitazioni, le scuole gli ospedali e i luoghi di culto? L’invito ad abbandonare Gaza sembra non tenere conto della realtà. Cosa ne pensa? Infatti è poco realistico. Dove dovrebbero andare centinaia e centinaia di migliaia di persone che vivono già in condizioni precarie? Vivono in casa loro già male e si vuole offrire loro un futuro ancora più incerto e triste. Anzi, privarle del futuro. Alcune dichiarazioni lasciano il tempo che trovano e possono facilmente essere commentate. Nel frattempo, si condanna la popolazione ad una lenta agonia. È stata tolta l’elettricità, manca l’acqua, non si distribuiscono cibo e medicinali. Solo chi non vuole vedere quanto sta accadendo non riuscirà a rendersi conto neppure delle violazioni che si stanno verificando. Questa è una persecuzione e si stanno consumando dei crimini. Un’altra cosa va evidenziata. Quale? Se Israele ha dei problemi con Hamas, li risolva con Hamas. Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha dichiarato invece che interverrà su Gaza, senza distinzioni, con tutte le conseguenze che ci saranno per tanti innocenti. Noi vogliamo il rispetto dei diritti umani e vogliamo l’affermazione dello Stato di diritto. I civili pretendono giustizia e l’affermazione, in questo caso, di una giurisdizione universale. Un concetto che il “Palestinian Centre for Human Rights” ha avuto modo di ribadire più e più volte in numerose occasioni, a Ginevra, a Stoccolma, a Madrid, a Londra, a Auckland, a Roma. Siamo stati bloccati politicamente, ma non da un punto di vista legale in merito alla fondatezza delle nostre argomentazioni. Ci saranno in futuro delle iniziative legali? In Ucraina, dopo oltre un anno di guerra, abbiamo assistito ad una mobilitazione giudiziaria contro Putin. Tutto giusto. Con un punto di partenza condivisibile, che pone al centro il diritto all’autodeterminazione dell’Ucraina e la fine dell’occupazione russa. Il “Palestinian Centre for Human Rights” chiede alla comunità internazionale di intervenire per fermare i massacri a Gaza e fornire protezione alla popolazione civile.