Un carcere sedato di Raffaele Orso Giacone giornalelavoce.it, 10 ottobre 2023 Un costo annuo per gli psicofarmaci di circa due milioni di euro. Le notizie che ci rincorrono in questi giorni ci imporrebbero di parlare della prigione più grande del mondo: la striscia di Gaza in cui sono chiusi 2 milioni di bambini, donne e uomini: una bidonville che contiene persone che non hanno ancora visto la pace. Per oggi salto anche le notizie delle cronache dei giudizi e dei processi che riguardano i fatti di Ivrea e che sono già oggetto di altre cronache. Mi fermo invece a riproporvi una notizia nascosta che ha dato forma a ciò che temevo ed è apparsa come il risultato di una ricerca seria, condotta con i dovuti crismi della scienza. “Il carcere sedato”. Si intitola così un articolo di Altreconomia, un giornale che raccoglie notizie su aspetti diversi dell’economia ed è indipendente dagli inserzionisti. I dati raccolti dal giornale presso le varie aziende sanitarie parlano di un costo annuo nelle carceri per gli psicofarmaci di circa due milioni di euro. I numeri raccolti in 15 istituti italiani fanno emergere una somministrazione di antipsicotici, utilizzati per gravi patologie come il disturbo bipolare, cinque volte superiore rispetto alla popolazione generale. A San Vittore (Milano) dal 2018 al 2022 la spesa è aumentata del 180%, a Torino del 74%. I farmaci prescritti sono soprattutto antipsicotici, il 60% del totale, prescrivibili per gravi patologie come il disturbo bipolare e la schizofrenia e utilizzati cinque volte di più rispetto all’esterno. “Anche se i due insiemi della popolazione non sono comparabili, si tratta di una differenza preoccupante”, commenta Fabrizio Starace, direttore del Dipartimento di salute mentale dell’Azienda unità sanitaria locale di Modena e presidente della Società italiana di epidemiologia psichiatrica. “Sono farmaci che servono per ridurre sintomi come i deliri e le allucinazioni - osserva Starace - e sono appropriati per chi ha una diagnosi per psicosi e schizofrenia. Ma a seconda dei dosaggi hanno effetti sedativi importanti: questa spesa così elevata potrebbe essere in parte determinata dal tentativo di evitare una somministrazione più ampia di ansiolitici, come le benzodiazepine, che danno luogo più frequentemente ad abuso e dipendenza”. Secondo Antigone, però, i detenuti con “diagnosi psichiatrica grave” sono meno del 10% del totale. “Stiamo sedando dei disturbi o dei disturbanti?” si chiede Starace. Anche negli Istituti penali per minori (gli Ipm) la situazione è allarmante. si utilizzano sempre più psicofarmaci. Soprattutto antipsicotici, farmaci prescrivibili per gravi patologie come il disturbo bipolare e la schizofrenia, per cui la spesa pro-capite è aumentata mediamente del 30% tra il 2021 e il 2022: in carcere questo aumento si ferma a meno dell’1%. Negli Ipm c’è un clima da pronto soccorso e gli operatori non riescono a dare risposte adeguate. Abbiamo trascurato queste strutture negli ultimi anni e ne paghiamo le conseguenze”, osserva Alessio Scandurra, coordinatore dell’osservatorio sulle condizioni di detenzione di Antigone, associazione che ha collaborato nella realizzazione di questa inchiesta. Questi dati sostengono quanto possa essere vera l’osservazione diretta e fanno emergere un carcere pieno di persone sedate. Servirà per la rieducazione? Carceri, Cucchi (Avs): “Il governo e la maggioranza non pensino di toccare il reato di tortura” primapaginanews.it, 10 ottobre 2023 “Sarebbe una cosa gravissima che rischierebbe di ostacolare, se non bloccare, i tanti processi in corso. In Parlamento contrasteremo con forza ogni ipotesi di modifica o abrogazione del reato di tortura”. “Continua il prezioso lavoro della magistratura nel ‘difendere’ il reato di tortura. È di queste ore la notizia, dell’apertura di una nuova inchiesta da parte della procura della Repubblica di Cuneo nei confronti di 23 agenti della Polizia penitenziaria accusati tra l’altro proprio di tortura”. Così la senatrice di Avs (Alleanza Verdi-Sinistra), Ilaria Cucchi. “La procura sta indagando su abusi e violenze avvenuti nella Casa circondariale di Cuneo. Le tante inchieste e i tanti procedimenti in corso dimostrano come il reato di tortura sia necessario e non si può modificare. Il governo e la maggioranza di destra non pensino di toccare il reato di tortura che punisce gli abusi commessi dai pubblici ufficiali. Sarebbe una cosa gravissima che rischierebbe di ostacolare, se non bloccare, i tanti processi in corso. In Parlamento contrasteremo con forza ogni ipotesi di modifica o abrogazione del reato di tortura”, ha concluso la senatrice. La politica faccia la sua parte per ridurre i tempi della giustizia di Rossella Marro Il Domani, 10 ottobre 2023 Possiamo incidere come vogliamo sulle norme processuali, ma se si continuano ad addossare sulla magistratura tutte le inefficienze statali, assegnando alla stessa una “funzione salvifica” che non può e non deve avere, non potranno mai essere risolti i problemi connessi ai tempi della giustizia. A fine anno 2022 è entrata in vigore la Riforma Cartabia che rappresenta dopo anni la prima grande “riforma sistematica” del processo penale e del processo civile. Il massiccio intervento legislativo modifica profondamente la normativa processuale e ha la finalità espressa di ridurre i tempi di trattazione dei giudizi e rispettare, di conseguenza, gli impegni assunti dall’Italia in relazione al PNRR. L’altro versante della Riforma Cartabia ha riguardato l’ordinamento giudiziario; alcuni aspetti sono oggetto di una delega al Governo, rispetto alla quale da poco risultano conclusi i lavori di una commissione di studio istituita presso il Ministero della Giustizia; ma vi sono poi una serie di norme, immediatamente precettive, in materia ordinamentale, organizzativa e disciplinare, di eleggibilità e ricollocamento in ruolo dei magistrati e di costituzione e funzionamento del Consiglio superiore della magistratura. Nelle mie brevi riflessioni i due settori di intervento della riforma, processuale e ordinamentale, necessariamente si intrecciano. La riduzione dei tempi - E’ ingenuo ritenere che i risultati auspicati in termini di riduzione dei tempi della risposta giudiziaria possano essere raggiunti semplicemente con interventi processuali, e neanche esclusivamente con aumenti di risorse di persone e mezzi. Questi interventi necessari e doverosi, che producono senza dubbio effetti positivi, devono essere accompagnati necessariamente da interventi strutturali e di sistema che non devono riguardare la giustizia ma la buona amministrazione del paese. Se non si incide, riducendola entro margini fisiologici (vedi dati statistici europei) sulla domanda di giustizia in Italia, nessun intervento processuale o ordinamentale sulla giurisdizione potrà essere risolutivo. C’è tutto un segmento fondamentale, che precede la “patologia” sulla quale interviene la giurisdizione, che richiede interventi urgenti, che abbiano un orizzonte temporale di medio-lungo periodo. E, invece, noi assistiamo dinanzi allo sfacelo “sociale” e “culturale” che attraversa il nostro paese ad interventi che aggravano ancora di più la macchina giudiziaria con introduzione di nuovi reati, assegnazione di compiti di supplenza alla giurisdizione (penso al fine vita), il continuo inasprimento delle pene; mentre sarebbe necessario in via preventiva rafforzare il sistema dei controlli amministrativi, rafforzare il controllo da parte dello Stato sul territorio (è sotto gli occhi di tutti il fallimento del controllo del territorio, sotto il profilo urbanistico, da parte dei Sindaci dei Comune: si potrebbe immaginare di spostare su altri organi, non soggetti al consenso elettorale, questo nevralgico settore, che nella fase patologica intasa i Tribunali con previsioni sanzionatorie irrisorie), incrementare gli investimenti nel sociale, nella scuola, nella cultura (diceva giustamente Gesualdo Bufalino: “La mafia sarà vinta da un esercito di maestre elementari”); garantire che la pubblica amministrazione paghi ciò che deve ai cittadini e alle imprese, subito e senza interessi, che si accumulano per anni, riducendo così il contenzioso (anche per rinsaldare la fiducia del cittadino nello Stato ed ottenere un importante effetto culturale: lo stato adempie alle proprie obbligazioni, altrettanto devono fare i contribuenti con lo Stato). Possiamo incidere come vogliamo sulle norme processuali ma se si continuano ad addossare sulla magistratura, anello terminale della catena, tutte le inefficienze statali, assegnando alla stessa una “funzione salvifica” che non può e non deve avere, non potranno mai essere risolti i problemi connessi ai tempi della giustizia. Con il rischio poi di vedere additata la giustizia e la magistratura come causa di inefficienza e ragione di incertezza del diritto che allontana gli investimenti. La giustizia giusta - Non sempre una giustizia veloce è una giustizia giusta. Non c’è dubbio che una risposta che arriva a distanza di anni dai fatti non può essere giusta anche qualora la decisione risulti corretta. I tempi della risposta sono fondamentali. La giustizia è un servizio per i cittadini e deve essere efficiente anche in termini temporali, ma il dispiegarsi del processo fino alla decisione ha i suoi tempi. Si pensi alle condizioni attuali del lavoro in Corte di cassazione (c’è stato un tempo “lontano” in cui i giudici della cassazione avevano modo e tempo di studiare le monografie per risolvere i casi che si prospettavano; oggi, la Corte di Cassazione è definita un “sentenzificio”, che sempre con maggiore difficoltà consente di assolvere adeguatamente al fondamentale ruolo di nomofilachia). Ai giudici deve essere garantito un tempo necessario e prezioso, che nella prospettiva di efficientamento degli ultimi tempi scompare, che è il tempo della decisione! Quante volte la decisione deve maturare nel convincimento del giudice, dinanzi a diverse opzioni che si prospettano nella valutazione del fatto e nella interpretazione giuridica? Ecco, ai giudici non deve mai essere sottratto questo tempo, perché il rischio è la creazione di una categoria ottusa e burocrate, attenta alle forme e alle procedure, ma indifferente rispetto all’in sé della giurisdizione, ossia il contenuto della decisione. E non aiutano in questa prospettiva tutte le norme della riforma Cartabia che accentuano il carrierismo e la verticalizzazione degli uffici giudiziari, anche giudicanti, ad esempio introducendo le “pagelle” o nuovi illeciti disciplinari, per il mancato rispetto delle “direttive” (quali? Con quale contenuto?). Ecco, in conclusione, chiediamoci se la figura di giudice, pressato dalla richiesta di una sempre più alta produttività, impaurito dalla introduzione di nuovi illeciti disciplinari, asservito nelle gerarchie degli uffici giudiziari, possa svolgere con serenità ed autorevolezza il gravoso compito di amministrare la giustizia che gli è stato affidato. Toghe “politicizzate”, tarlo di Nordio dai tempi di Mani pulite di Errico Novi Il Dubbio, 10 ottobre 2023 “Accertamenti su Apostolico”, dice il ministro: può essere solo l’inizio. Si sottovaluta un po’, nel pasticciaccio dei video sulla giudice Iolanda Apostolico, la “particolare motivazione” di Carlo Nordio. Si sottovaluta forse, anche la portata delle dichiarazioni rilasciate due giorni fa, dal guardasigilli, in un’intervista a Libero. Secondo Nordio, la giudice di Catania che ha firmato la contestata ordinanza su migranti e trattenimento nei Cpr, “poteva ma non doveva” partecipare alla manifestazione del 2018. Aggiunge, e ormai si attende solo un comunicato ufficiale di via Arenula, che nei confronti della dottoressa Apostolico saranno “subito” avviati “accertamenti”. Il che vuol dire che l’ispettorato di via Arenula acquisirà il materiale necessario per valutare se sussistano i presupposti di un’azione disciplinare vera e propria. Ma sempre nell’intervista a Libero, Nordio ha pronunciato un’altra frase, in qualche modo rivelatrice, a proposito di chi ha bollato il “ripescaggio” dei video su Apostolico come una violazione della sfera privata ai danni della giudice: “Se tu partecipi a una manifestazione pubblica, non puoi dire di esser stato spiato nella tua vita privata. Questa irragionevolezza può essere una voce dal sen fuggita nella polemica politica. Ma mi stupisce dolorosamente che provenga da alcuni magistrati”. Non se ne ricava solo l’impressione che il ministro considera inopportuna la mancata astensione di Apostolico, ma anche il segnale che la polemica di Nordio non ha un carattere personale. Riguarda la magistratura nel suo insieme. Nel frattempo, le vicende giudiziarie relative al decreto Cutro procedono per la loro strada, con la nuova ordinanza firmata da un altro giudice etneo, Rosario Cupri, che annulla il trattenimento di 6 cittadini della Tunisia nel centro accoglienza di Pozzallo. Prosegue anche il pressing della Lega, che domenica, dopo la pubblicazione di un terzo video in cui compare Apostolico alla manifestazione del 2018, chiede le dimissioni della magistrata, o quanto meno la condanna disciplinare. Matteo Salvini continua a evocare la riforma della giustizia e la separazione delle carriere. Ieri si è aggiunta una novità non marginale: il capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera Tommaso Foti ha a propria volta dichiarato che “il giudice non deve essere solo imparziale, ma anche sembrarlo”, seppur nella scia del tono usato dal sottosegretario Andrea Delmastro, sempre di FdI, ossia con l’attenzione ad allontanare lo spettro di una guerra governo-toghe. Di sicuro, è già evidente il sostegno (quello di Forza Italia è garantito) su cui potrebbe contare un’eventuale stretta sulla partecipazione delle toghe alle iniziative politiche. E qui siamo a Nordio, e alla sua “straordinaria motivazione” sul tema. L’attuale ministro della Giustizia è pur sempre il pm che trent’anni fa assunse il ruolo di contraltare della Procura di Milano su tangentopoli. Si impegnò in particolare in indagini che coinvolgevano l’allora Pds e le coop rosse, a suo giudizio trascurati dai colleghi lombardi. Ha insomma una naturale vocazione a contrastare i colleghi (o ex colleghi) che ritiene politicizzati. La battuta sui rappresentanti della magistratura a cui sfugge la distinzione tra il video che ritrae Apostolico in un evento pubblico e il diritto alla privacy della giudice è sintomatica. È meno semplice immaginare in che modo Nordio potrebbe tradurre la propria critica per l’intreccio fra attività giudiziaria e orientamenti politici. Ma va ricordato che sul dossier “toghe e politica” c’è una riforma del Csm, e dell’ordinamento giudiziario, ancora da declinare nei decreti attuativi. Non solo. Al Senato è in discussione una proposta di legge, a prima firma del forzista Pierantonio Zanettin, che prevede il sorteggio per l’elezione dei togati a Palazzo dei Marescialli, con l’obiettivo di assestare un colpo fatale alle correnti. È un’ipotesi sui cui il governo per ora non si è espresso ma che certo non è stata oggetto di scomuniche. Intanto andranno verificati i passi di via Arenula sulla vicenda Apostolico. Con una nota a margine; come confermato anche dal viceministro della giustizia Francesco Paolo Sisto, l’Esecutivo ricorrerà in Cassazione contro i provvedimenti dei magistrati di Catania e Firenze, giacché vi si rintraccerebbero “diversi profili di illegittimità”. Qualora la Suprema Corte desse ragione al governo, la maggioranza probabilmente ne ricaverebbe una conferma dei presunti condizionamenti ideologici che avrebbero pesato sulle ordinanze “anti decreto Cutro”. E il gioco si farebbe ancora più duro. Certo, se andasse così, Nordio non sarebbe affatto dispiaciuto di poter far valere le proprie pluridecennali convinzioni sul rapporto fra attività giudiziaria e orientamento politico. Via D’Amelio, contro la verità di Trizzino le barricate di partiti e giornali di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 10 ottobre 2023 Accuse indirette a Lucia Borsellino e al suo legale dopo la loro audizione in Antimafia. La distorsione dei fatti da parte di alcuni parlamentari e l’idiosincrasia per il dossier mafia-appalti. In un articolo de Il Fatto Quotidiano, con un titolo chiaro, si accusa indirettamente Lucia Borsellino, figlia del giudice ucciso nella strage di via D’Amelio, e l’avvocato Fabio Trizzino, legale della stessa Lucia, di Manfredi e Fiammetta Borsellino, di depistaggio, perché - innanzi alla commissione antimafia presieduta da Chiara Colosimo - collegano la strage all’interesse di Borsellino per il dossier mafia-appalti. In sostanza muovono tale accusa perché questa pista (in realtà confermata in tutte le sentenze sulle stragi di Capaci e di Via D’Amelio, compresa la sentenza di secondo grado sulla trattativa Stato-mafia e l’ordinanza “Mandanti occulti bis”), servirebbe per coprire altre piste. Poco importa sapere che parliamo di tesi sconfessate dalle sentenze o pluriarchiviate poiché non contenevano alcuna prova tangibile, ma soltanto suggestioni. Piste che continuano a essere chiuse e riaperte e avvallate dai media e da trasmissioni in prima serata come Report. Tesi riprese nella scorsa commissione parlamentare antimafia, e che la componente grillina (ma a quanto pare anche del Pd), vuole riproporre. L’avvocato Trizzino ha prodotto i documenti - Fa impressione notare la mancanza di argomentazione contro il legale dei figli di Borsellino. In tutte e tre le sedute, comprese le risposte alle domande ostili (caso unico) avanzate dai commissari del Pd e del M5S, l’avvocato Trizzino ha snocciolato dati documentali. Eppure nell’articolo de Il Fatto si ripropone la versione dell’ex procuratore Roberto Scarpinato esposta da lui stesso sotto forma di mezzora di domande in commissione. Viene da pensare che forse non si è avuto modo di recepire appieno l’audizione. Ed è comprensibile, visto il lavoro monumentale basato su migliaia di documenti, che certamente non sono delle novità per chi ha studiato, ma sconosciuti alla moltitudine di persone ignara perché “deviata” dai teoremi decisamente più attrattivi, ma fuori dalla realtà dei fatti. Il dem Provenzano ricordò Bordin ma dimentica i fatti - Ma questa mancata conoscenza dei fatti vale anche per i componenti della commissione. Soprattutto da parte del Pd. A parte la legittima difesa di ufficio del senatore Pd Walter Verini nei confronti di Scarpinato, crea sorpresa l’intervento del deputato Giuseppe Provenzano. Per minimizzare la questione del dossier mafia-appalti, ha insistito più volte sull’episodio del generale Antonio Subranni definito “punciutu” (affiliato a Cosa nostra), senza aver compreso appieno cosa intendesse Borsellino. Ma soprattutto, se pensa che il giudice stritolato in Via D’Amelio credesse al personaggio - mai individuato - che gli fece quella surreale confidenza in Procura, allora indirettamente si sta dando dell’incompetente a Borsellino. Chi conosce minimamente l’ideologia mafiosa sa che mai e poi mai Totò Riina e Cosa nostra in generale, avrebbero affiliato uno “sbirro”. Al massimo può essere comprato, ma mai affiliato. Soprattutto Subranni che non solo fu il primo a individuare l’avanzata dei “corleonesi” tanto da essere elogiato da Falcone e Borsellino nella sentenza ordinanza del maxiprocesso, ma fu il primo a mettere nel ‘77 le manette ai polsi di Bagarella. Chiaro che Paolo Borsellino ebbe i conati di vomito quando l’interlocutore gli fece quella affermazione. Chiaro che ha visto “la mafia in diretta”. Parliamo di un clamoroso tentativo di delegittimazione nei confronti dell’arma. E questo il giudice lo aveva ben compreso. Poi Provenzano pone all’avvocato Trizzino la domanda su Gladio e soprattutto su Lo Cicero, quindi la pista nera. Ovviamente, l’avvocato Fabio Trizzino, che ha una conoscenza immensa, ha restituito al mittente quelle surreali domande attraverso atti inconfutabili. Eppure Provenzano, l’ex ministro del Conte due, scrisse sul Manifesto anche un bell’editoriale in ricordo di Massimo Bordin, quindi dovrebbe averlo seguito e dovrebbe sapere che tali tesi sono completamente fuorvianti, non aderenti alla realtà. Non si può confondere Bordin con Il Fatto o Antimafia2000 degli alieni. Ricorda molto da vicino il leghista Matteo Salvini quando disse di amare le canzoni di Fabrizio De Andrè. Grazie alla presidente si parla di mafia-appalti - Ma ritorniamo alle tesi depistanti. I danni che continuano a fare sono evidenti. Il caso di scuola è proprio la testimonianza del maresciallo Carmelo Canale, braccio destro di Borsellino. Il Fatto Quotidiano, ma anche taluni componenti della commissione antimafia, dicono che l’incontro segreto di Borsellino con gli ex Ros del 25 giugno 1992 è stato fatto per la vicenda “Corvo 2”. No, non è così. E non era nemmeno perché Borsellino pensava che fossero loro gli autori. Vero che Canale, al processo Trattativa, dirà più o meno questo. Ma è chiaramente un ricordo traviato dal teorema del momento. Non è colpa sua. Il 24 marzo 1998, innanzi al tribunale, dirà invece episodi precisissimi e molto particolareggiati. Cose che, tuttora, solo gli addetti ai lavori conoscono. Per la prima volta se ne parla in una commissione antimafia grazie all’audizione dell’avvocato Trizzino. E di questo va ringraziata Chiara Colosimo, che ha saputo gestire una situazione complicata nell’ultima audizione. Come si evince chiaramente dalle dichiarazioni di Canale, l’incontro non era per il Corvo, ma per la lettera anonima che fu mandata a Catania per dire all’allora procuratore Felice Lima di ascoltare il geometra Giuseppe Li Pera per la questione mafia-appalti. Questa lettera era stata trasmessa anche alla procura di Palermo e qualche magistrato palermitano aveva messo in giro la voce calunniosa che l’autore fosse De Donno. Ebbene, come dice in tribunale Canale, il giudice Borsellino non credeva a quelle voci, per questo ha preferito incontrare i Ros fuori dalla procura, lontano da occhi indiscreti di alcuni suoi colleghi. In fondo, che l’incontro fosse per il dossier mafia-appalti, questo lo dice al Borsellino bis anche l’ex pm Antonio Ingroia, così come lo testimonia il magistrato Stefano Manduzio al processo Mori-Obinu. A proposito di quest’ultimo, a pagina 35 della trascrizione, ecco un passaggio chiaro: “mi disse che vi era..., avrebbe provveduto personalmente (questione mafia-appalti, ndr) e lo avrebbe fatto..., adesso non ricordo bene se mi disse che aveva già fissato..., aveva già concordato..., fissato insomma un appuntamento, o doveva fissarlo, adesso questo francamente non lo ricordo, ma comunque doveva essere fissato un appuntamento, un incontro al di fuori della Procura di Palermo, presso una sede dei Carabinieri, insomma, per questo specifico motivo, cioè per riprendere questi rapporti con il Ros”. Cosa aveva borsellino nella borsa quel giorno? Infine, sempre l’articolo de Il Fatto riporta anche l’altra tesi sostenuta da Scarpinato in audizione, ovvero che il depistaggio di Via D’Amelio non può avere a che fare con mafia-appalti, visto che la gestione anomala di Scarantino è avvenuta nel 1994, quando oramai ci furono gli arresti degli imprenditori coinvolti nel dossier. In realtà il depistaggio vero, quello cruciale, è avvenuto nei primissimi momenti della strage. Tuttora non è chiarito cosa avesse Borsellino nella sua borsa, rimasta per tre mesi a Palermo. Ancora non è chiaro cosa contenesse. Oltre l’agenda rossa, aveva con sé anche delle carte (in parte verbalizzate, ma che ad oggi non ne consociamo il contenuto). Oggi sappiamo, grazie allo studio attento dell’avvocato Trizzino, leggendo le carte del Csm tenute nascoste per trent’anni, che aveva con sé almeno il fascicolo di Mutolo (ma non solo). Non è un dettaglio da poco. Esiste un verbale di acquisizione di quel fascicolo e altre carte? Sarebbe doloso non averlo fatto. Borsellino aveva raccolto documenti per potarli alla procura di Caltanissetta. Di certo non si sarebbe presentato con la sola agenda rossa. Per qualsiasi delitto mafioso nei confronti degli uomini appartenenti alle autorità giudiziarie, la prima cosa è scoprire su cosa stavano indagando. È lì che si scopre il movente. Qualcuno lo ha voluto occultare fin da subito? Cuneo. Presunte torture in carcere, 23 agenti indagati di Simona Lorenzetti Corriere della Sera, 10 ottobre 2023 Il sindacato Uil-pa: “Fiducia nella magistratura, ma questo caso dimostra che si tratta di una emergenza mai affrontata compiutamente”. Torino, Ivrea, Biella e ora anche Cuneo. Salgono a quattro le Procure piemontesi che indagano su presunte torture e pestaggi all’interno del carcere delle proprie città. Nei giorni scorsi i magistrati cuneesi hanno eseguito numerose perquisizioni e sequestri di cellulari e computer. Contestualmente sono stati notificati 23 avvisi di garanzia ad altrettanti agenti penitenziari che lavorano nell’istituto penitenziario “Cerialdo”. L’inchiesta, coordinata dal procuratore capo Onelio Dodero e dal sostituto Mario Pesucci, ha mosso i primi passi nel 2022 quando sono giunte diverse segnalazioni, una delle quali anche dalla garante regionale dei detenuti: negli esposti e nelle denunce si parlava di ritorsioni, soprusi e spedizioni punitive nei confronti di alcuni ospiti. Le indagini avrebbero poi portato alla luce decine di episodi e un sistema apparentemente diffuso di abusi nei confronti di una decina di detenuti, alcuni dei quali di origine straniera. Stando ai racconti di alcune vittime (che sono già state sentite dagli inquirenti), le guardie in diverse occasioni avrebbero prelevato i detenuti dalle loro celle per accompagnarli in un altro locale dell’istituto di pena per poi vessarli con umiliazioni e botte. Le aggressioni si sarebbero susseguite nel tempo e sarebbero avvenute in un luogo specifico del carcere, una sorta di stanza dedicata: qui alcuni agenti picchiavano e altri guardavano. I referti medici comproverebbero le lesioni subite dai carcerati. L’inchiesta non coinvolge i vertici del carcere e neppure quelli della polizia penitenziaria. Sulla vicenda è intervenuto Gennarino De Fazio, segretario generale del sindacato Uilpa: “Anche in questo caso riponiamo incondizionata fiducia nella magistratura e negli organi inquirenti, ma a prescindere da quella che sarà la verità processuale si dimostra ancora una volta la totale disfunzionalità del sistema penitenziario e una persistente e strisciante emergenza mai affrontata compiutamente dalla politica. Anche per questo chiediamo al governo Meloni e al ministro Nordio riforme immediate e investimenti mirati”. Il segretario evidenzia che “episodi come questi vanificano il diuturno sacrificio e infangano la straordinaria professionalità di 36 mila donne e uomini del Corpo di polizia penitenziaria che quotidianamente, in sottorganico di 18 mila unità, fanno del loro meglio per tentare di garantire la sicurezza delle carceri del Paese e costituiscono al tempo stesso l’ultimo baluardo di umanità nelle frontiere penitenziarie, connotate ancora da suicidi (54 detenuti e un operatore si sono tolti la vita nel 2023), omicidi (2 questo anno), violenze fisiche e morali, sovraffollamento e sofferenze di ogni genere”. Livorno. “Torture” nel carcere di Porto Azzurro, il racconto dei testimoni di Manuela D’Alessandro agi.it, 10 ottobre 2023 La “squadretta dell’agente Padre Pio”, le carte dell’indagine per la quale la Procura ha chiesto l’archiviazione. Ma il Garante nazionale dei detenuti si è opposto. Procura di Livorno e investigatori spaccati sull’interpretazione di presunti gravi abusi denunciati da detenuti nel carcere di Porto Azzurro all’isola d’Elba. Da una parte c’è un’informativa di 130 pagine del Nucleo Investigativo dei carabinieri di Livorno e del Nucleo Investigativo della polizia penitenziaria di Roma che, sulla base dei racconti “talora convergenti” di diversi reclusi, racconta di “violenze sfociate nella maggior parte dei casi in veri e propri atti di tortura” sui reclusi da parte di una “squadretta” di agenti. Dall’altra la valutazione dei pm Sabrina Carmazzi e Massimo Mannucci che chiedono l’archiviazione perché ritengono che “gli elementi acquisiti non appaiono consentire una ragionevole previsione di condanna” per gli indagati. Il 4 ottobre si sarebbe dovuta svolgere un’udienza davanti al gip per decidere se far calare il sipario oppure riaprire la vicenda, come chiedono l’avvocato di una delle presunte vittime degli abusi e il Garante Nazionale dei Detenuti. L’appuntamento in aula è stato però rinviato per un legittimo impedimento al 15 dicembre. L’Agi ha avuto accesso a entrambi i documenti, quello degli investigatori e quello della Procura che sembrano arrivare a conclusioni diverse. Tra i reati ipotizzati per gli agenti, a vario titolo, ci sono quelli di tortura, stato di incapacità procurato mediante violenza, omessa denuncia di reato da parte di pubblico ufficiale, depistaggio e per i reclusi danneggiamento causato da incendio e resistenza a pubblico ufficiale. Nell’informativa si ipotizza che la “politica perseguita a tutti costi dal direttore della casa di reclusione sarebbe stata quella di tollerare trattamenti penitenziari non conformi a umanità e dignità” per “tutelare l’immagine dell’isola” nelle attività del carcere anche allo scopo di ottenere fondi europei e ministeriali per un progetto a Pianosa, distaccamento del carcere di Porto Azzurro, finalizzato al reinserimento dei detenuti. “Le attività esperite nei riguardi degli indagati - scrive chi ha condotto gli accertamenti - hanno permesso di cristallizzare le direttrici investigative concorrenti alla vicenda delle torture”. L’inchiesta comincia da una serie di esposti presentati nel 2019 dal detenuto B.F. che riferisce “di essere stato denudato, ammanettato e picchiato da alcuni agenti come forma di rappresaglia dopo che aveva fatto ricorso per denunciare altre angherie”. Questa pista investigativa “si è andata maggiormente delineando con l’attività istruttoria fatta da questo Comando” fino a “disvelare l’esistenza di altri detenuti che avevano subito violenze nel carcere di Porto Azzurro e che avevano potuto denunciare i fatti solamente all’indomani del loro trasferimento in altri istituti o rivolgendosi a organi di polizia esterni al carcere”. Non sempre, viene precisato, “il ricordo di alcuni collima con la denuncia dei diretti interessati”. Alcuni raccontano di una “squadretta” agli ordini dell’ispettore Pietro Duca che avrebbe pestato i reclusi nella “galleria”. “Mi ricordo che un marocchino - mette a verbale un testimone - fu portato fuori dalla cella e a dorso nudo fu strattonato e che noi vedevamo dalle nostre celle che lui andava verso la galleria e mentre usciva dal reparto sentivamo dei sonori schiaffi. La galleria è il corridoio che trovi uscendo al reparto dove ci sono gli uffici, dove c’è l’ufficio dell’ispettore capo Pietro Duca”. Ci sono anche altre persone sentite che riportano episodi analoghi. “L’ispettore è entrato in cella e lo ha picchiato, l’ha buttato contro un muro”. “Padre Pio, così veniva chiamato per via della barbetta e che faceva parte della squadra, ha partecipato a un’aggressione in cui un suo collega ha ricevuto un calcio da un marocchino. Lui e tanti altri sono andati sopra a prendersi questi detenuti tant’è vero che poi c’erano i muri sporchi di sangue, hanno dovuto chiamare il lavorante a pulire”. “Sono stato denudato, picchiato da una ventina di agenti e buttato a terra come uno straccio ammanettato”. “Una volta dopo essermi ubriacato in cella mi sono svegliato l’indomani in una cella liscia nudo a terra con accanto il mio vomito, con un occhio gonfio e il labbro spaccato”. Agli atti c’è una conversazione tra Duca e il direttore del carcere, Francesco D’Anselmo, in cui parlano delle indagini sulla situazione a Porto Azzurro. Duca afferma: “Evidentemente… le denunce che hanno presentato i detenuti nel corso degli anni; addirittura un appuntato donna dei carabinieri ha detto: ‘Questi di Porto Azzurro la devono smettere’!”. C’è un’ambientale che dimostrerebbe l’”insabbiamento”, secondo chi ha scritto l’informativa. “La commissaria Perrini informa D’Anselmo di avere appreso dall’ispettore Lo Noce che effettivamente avrebbero percosso C. in una circostanza in cui era ubriaco. Rivelazione che si sposa perfettamente col contenuto delle dichiarazioni di Z. e che evidenzia l’ennesima azione di insabbiamento laddove D’Anselmo, pur deprecando il ricorso a questi metodi (‘Io sono contrario, è contro la mia coscienza”), lascia tuttavia agli agenti la facoltà di difendersi quando forniranno la loro versione ‘la loro parola contro quella lì’”. Nell’informativa si parla dell’”estrema chiarezza con cui la Commissaria Perrini espone al direttore D’Anselmo le informazioni ricevute direttamente dall’ispettore Lo Noce circa le violenze inferte ‘con soddisfazione’ ai detenuti. Perrini: “Su cosa stanno indagando…D’Anselmo: “Sulla squadretta…”. Perrini: “Gliele hanno date…”. D’Anselmo: “Ah, veramente?”. Perrini: “Gli ho detto: ma gliele avete date almeno? Ma avete dato una lisciata?”. Ha risposto: “Sì, e ci siamo tolti la soddisfazione”. L’altra parte dell’indagine riguarda la situazione “fuori controllo” a Pianosa. Dopo una richiesta di chiarimenti sull’”anarchia” che regnerebbe a Pianosa e le perquisizioni che confermano l’ipotesi, “la reazione di D’Anselmo è a dir poco funambolesca per quel tentativo sempre ricorrente di coprire le proprie omissioni”. Il 22 gennaio 2021 “D’Anselmo invia al magistrato di sorveglianza la relazione sull’episodio di violenza patito da un detenuto ma per tutelare Duca non la invia in Procura” e, come risulta da un’intercettazione, “semmai gliela chiedessero la farebbe sparire”. Al direttore e al Comandante sono “addebitati anni di omissioni e violazioni” e una gestione della cosa pubblica “in base alle loro necessità” come l’indicazione impartita da D’Anselmo a un sostituto commissario “di far risultare che tutti i viaggi con la motovedetta navale risultassero per fini istituzionali”. Perché per la Procura non si può parlare di torture - Nella richiesta di archiviazione, i pm premettono che per valutare i fatti “non si può prescindere dal tenere in debito conto quel peculiare contesto ambientale in cui si alternano coazione e desiderio di libertà in cui i detenuti si trovano in ambivalenti condizioni sia di soggezione che di rivalsa psicologica nei confronti di chi si occupa della loro custodia”. Dalle intercettazioni emerge “una propensione verso metodi risoluti nei confronti dei detenuti che venivano messi in riga in caso di comportamenti scorretti nonché l’esistenza di un numero ristretto di agenti che avrebbero agito con la forza”. Secondo i pm “il ricordo di alcuni testimoni non sempre collima con le denunce perché in alcuni casi i detenuti non hanno confermato di essere vittime di violenza e in altri hanno fornito una versione diversa e in altri casi ancora le violenze non sono state confermate dai detenuti presenti”. Il loro punto di vista è che non c’è il reato di tortura “perché si tratta di episodi tendenzialmente isolati che non risultano trascesi in comportamenti inumani e degradanti per la dignità dei detenuti (gli episodi di denudamento sono spiegati con la prassi della necessità di evitare autolesionismi) che potrebbero integrare reati perseguibili a querela spesso posti in essere a seguito di intemperanze, provocazioni o altre condotte illecite degli stessi detenuti, molti dei quali risultano indagati”. Sulla mancata trasmissione della relazione dell’educatrice da parte di D’Anselmo “probabilmente ha considerato il denunciante un mitomane, come da lui stesso dichiarato nelle intercettazioni”. Teramo. Carcere, il Sindaco torna a scrivere al Ministro Nordio comune.teramo.it, 10 ottobre 2023 Chiesto un immediato intervento sulle criticità del penitenziario di Teramo. Il Sindaco di Teramo Gianguido D’Alberto torna a scrivere al Ministro Nordio per denunciare lo stato di gravità in cui versa il carcere di Teramo. Nella lettera, che fa seguito ad una uguale missiva inviata lo scorso 23 febbraio, il Sindaco lamenta, tra l’altro: “è sempre più difficile garantire i livelli minimi di sicurezza così come l’assolvimento dei doveri istituzionali. Di fatto quella che giornalmente si vive al carcere di Castrogno è una costante violazione dei diritti, sia dei detenuti che del personale di polizia penitenziaria. E questo nonostante l’abnegazione degli agenti, che tra mille difficoltà cercano di arginare una situazione diventata ormai esplosiva”. D’Alberto, fa riferimento ai dati forniti dai segretari dei sindacati di categoria come il SAPPE, e recentemente aggiornati dalla segreteria generale della Fp Cgil di Teramo, e torna a ricordare anche la visita di cinque mesi fa del Sottosegretario Andrea Delmastro, al termine della quale lo stesso rappresentante del Governo annunciò migliaia di assunzioni nelle carceri italiane, senza che poi nulla di fatto sia avvenuto. Il Sindaco fa anche appello alla vocazione del nostro territorio: “una vera e propria Cittadella del Diritto che ospita sul proprio territorio, il Tribunale, la Facoltà di Giurisprudenza d’Abruzzo, un Ateneo che del Diritto ha fatto la propria vocazione istituendo anche una Scuola di Giustizia e Legalità, e non ultimo il carcere, da sempre penalizzato rispetto ad altri istituti. Presidi che vanno tutelati e valorizzati”. Quindi le richieste concrete: la redistribuzione dei detenuti in altri istituti al fine di evitare il sovraffollamento, un intervento sulla Asl e sulla Regione per il potenziamento del servizio di medicina penitenziaria e in particolare del servizio di psichiatria, il potenziamento del numero di psicologi e l’inserimento di una figura come quella del mediatore culturale. Pertanto: “In qualità di Sindaco di questa città, (...) a fronte del continuo disinteresse che continuo a registrare nei confronti del nostro carcere, non posso che tornare a sollecitare un Suo immediato intervento. Le chiedo con forza, rappresentando tutta la comunità penitenziaria del nostro territorio, di intervenire senza più indugi per affrontare la situazione, nella consapevolezza che l’assenza di interventi risolutivi accentuerebbe lo stato, già oggi insostenibile, di tensione”. Pesaro. “Carcere modello, ma gli agenti sono pochi” Il Resto del Carlino, 10 ottobre 2023 Per l’onorevole Antonio Baldelli, Fratelli d’Italia, il carcere di Fossombrone è un “modello”, anche, tra gli altri motivi, per la collaborazione con l’Università di Urbino. La valutazione del deputato è venuta al termine di una visita alla casa di reclusione metaurense. Certo, ci sono delle ombre, per esempio “qualche disagio per agenti e popolazione carceraria, a causa degli importanti lavori in corso per l’adeguamento della struttura alla normativa, e una carenza cronica di personale della polizia penitenziaria che purtroppo viene da lontano”. Ma “ciò nonostante, la realtà della casa di reclusione di Fossombrone andrebbe presa a modello soprattutto per il sostegno di cui gode da parte di tutta la comunità”. Queste considerazioni sono arrivate a margine di una visita alla struttura in cui il parlamentare ha incontrato il direttore Orazio Sorrentini, la comandante della polizia penitenziaria Marta Bianco, e alcuni rappresentanti della popolazione carceraria. Ancora Baldelli: “La conclusione degli importanti lavori in corso consentirà di avere spazi adeguati per agenti e detenuti, migliorando notevolmente le condizioni di lavoro e di vita del carcere. Ringrazio poi il provveditorato per aver inviato 4 nuovi agenti: prova della funzionalità della cinghia di trasmissione operata da noi parlamentari marchigiani. Proprio nei giorni scorsi ho avuto un incontro con il sottosegretario Del Mastro proprio per la risoluzione di alcuni punti critici nelle carceri di Pesaro e Fossombrone. Nonostante le difficoltà - prosegue Baldelli - con una carenza di personale del 40 per cento rispetto alla pianta organica, uomini e donne della penitenziaria, educatori e volontari si sono rimboccati le maniche portando avanti numerose attività coi detenuti. Fra queste va segnalato il polo dell’università di Urbino che conta 25 studenti fra la popolazione detenuta. A questi - prosegue l’onorevole- vanno aggiunti corsi di falegnameria, musica, lettura, incontri per la condivisione dell’esperienza carceraria con adeguate figure professionali e i percorsi di giustizia riparativa che qui si facevano ancora prima della riforma Cartabia”. Infine: “Ho apprezzato il laboratorio ‘Luce dentro’ le cui produzioni sono arrivate nelle mani del papa e dello stesso ministro Carlo Nordio, iniziativa sostenuta dal vescovo emerito, Monsignor Armando Trasarti. Il mio plauso al direttore Orazio Sorrentini, al comandante Marta Bianco, a tutta la polizia penitenziaria per il lavoro quotidiano che svolgono a Fossombrone con ottimi risultati”. Ferrara. Il governo non ha un piano contro il sovraffollamento del carcere di Davide Nanni* estense.com, 10 ottobre 2023 In via Arginone si trovano 370 detenuti, mentre la capienza massima è di 244. Il numero di agenti è ancora inferiore a quanto fissato dal ministero. Nonostante le promesse fatte in estate dal ministro Nordio, dopo il tragico suicidio di due detenute a Torino, il governo non ha ancora un piano concreto per affrontare il problema di sovraffollamento cronico delle carceri italiane. Ferrara non fa eccezione: nella casa circondariale di via Arginone si trovano circa 370 detenuti, mentre la capienza massima sarebbe di 244 posti. Il numero di agenti, invece, è ancora inferiore a quanto prevedrebbe il ministero: 168 anziché 212. Evidentemente a poco sono valsi gli sforzi, dovuti, del sindaco Fabbri che a luglio aveva chiesto a Roma di rafforzare il contingente ferrarese, dopo le pressioni dei sindacati e la gaffe dei consiglieri di maggioranza che hanno negato la discussione del problema in Consiglio Comunale. A conti fatti, oggi possiamo dire che i 7 nuovi agenti inviati a Ferrara non hanno coperto nemmeno il fisiologico turnover annuale: purtroppo siamo ancora al punto di partenza. È chiaro che occorrerà una pressione costante e più incisiva delle Istituzioni locali sul governo per ripristinare normali condizioni di lavoro e sicurezza all’interno del carcere: così non si può andare avanti. Il numero preoccupante di aggressioni ai danni di agenti e personale sanitario, così come i frequenti episodi di autolesionismo registrati da inizio anno, dovrebbero far riflettere e correre ai ripari una maggioranza consiliare che da mesi continua a rinviare la nomina del nuovo Garante dei detenuti, vacante da febbraio. Nulla si muove. La Casa Circondariale “C. Satta” ricomprende sezioni detentive con caratteristiche di sicurezza diverse e ospita molti soggetti “farmacofilici”, la cui gestione diventa problematica senza un numero di personale adeguato e prontamente formato. Nel 2025, inoltre, dovrebbe terminare la costruzione di un nuovo padiglione da 80 posti che ridurrà sensibilmente l’area agricola dove i detenuti vengono occupati in attività lavorative e rieducative. Non è chiaro se all’aumento di capienza detentiva corrisponderà un adeguato incremento del numero di personale oggi presente. Di certo vi sarà minore spazio per progetti come il “Galeorto”, l’orto in carcere, che hanno avuto ricadute positive sulla serenità dei detenuti. Per questo è fondamentale che il Comune di Ferrara continui a sostenere con maggiori risorse le realtà imprenditoriali e di Terzo settore che offrono possibilità lavorative ai ristretti interne o esterne alla struttura di via Arginone. La buona politica deve costruire ponti tra chi sta dentro e ciò che sta fuori dal carcere, senza lasciare soli quanti lavorano per garantire ogni giorno sicurezza e umanità all’interno di quelle mura. Fanno parte della nostra città, della nostra comunità. *Consigliere comunale Pd Prato. Una casa per ex detenuti. Il progetto della Caritas La Nazione, 10 ottobre 2023 Le sei stanze sono in via di allestimento in un immobile in via Zipoli. Per sostenere l’iniziativa domenica lo spettacolo dell’illusionista Bono. “Una casa per ricominciare” è il progetto promosso dalla Caritas diocesana e dalla Fondazione solidarietà Caritas. In un immobile in ristrutturazione situato in via Zipoli saranno accolte persone che hanno terminato un periodo di detenzione, per riprendere i contatti con il mondo esterno e iniziare un cammino di reinserimento. Per evitare il rischio di trovarsi fuori dal penitenziario senza alcun sostegno ed esposti alla possibilità di commettere ancora reati. Saranno a disposizione sei stanze con bagno e angolo cottura per ospitare a tempo determinato, a seconda della condizione personale eo lavorativa. Al piano terra saranno allestiti alcuni spazi comuni con la presenza di un operatore dedicato. Prevista anche la realizzazione in uno spazio adiacente di un laboratorio dove potere svolgere attività formativa o lavorativa. Per sostenere questo progetto la Caritas propone per domenica 22 ottobre alle 18 al teatro Politeama lo spettacolo “Luca Bono-L’illusionista” con Sabrina Iannece, artista ed assistente per la regia di Arturo Brachetti, il maestro internazionale di quickchange (cambio veloce di costumi). Un lavoro teatrale autobiografico fresco e sorprendente che attraverso la magia veicola un messaggio forte: mai smettere di inseguire i propri sogni. Luca Bono è considerato tra i talenti magici più interessanti della sua generazione che uno straordinario successo in tutti i teatri. I biglietti sono in vendita sulle piattaforme Ticket One e Box Office, oppure presso la biglietteria del teatro, in via Garibaldi, 3335, telefono 0574-603758. Gaeta (Lt). Criticità e prospettive del sistema carcerario: ne parla il Capo del Dap garantedetenutilazio.it, 10 ottobre 2023 Giovanni Russo interviene in un convegno a Gaeta su sovraffollamento, carenze di personale, attività trattamentali e prospettive occupazionali per la popolazione detenuta. Il Capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), Giovanni Russo, è intervenuto nel corso del convegno “Il sistema penitenziario: criticità e prospettive di riforma,” promosso dall’Associazione Forense Fondana Gaetano Padula-Ermete Sotis, in collaborazione con gli Ordini degli avvocati di Latina e Cassino, la Fondazione dell’Avvocatura Pontina “Michele Pierro”, che si è svolto venerdì 7 ottobre a Gaeta. Oggetto dell’incontro, nel corso del quale è intervenuto anche il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio e Portavoce della Conferenza dei garanti territoriali, Stefano Anastasìa: lo stato di salute del sistema carcerario in Italia tra le prescrizioni dettate dall’articolo 27 della Costituzione, le criticità dovute soprattutto all’annoso problema del sovraffollamento e le prospettive di riforma del sistema. Nel corso del suo intervento, Giovanni Russo ha dato il quadro della situazione nei 190 penitenziari del Paese, illustrando le iniziative assunte dal Dap sotto la sua direzione, dall’accesso alla cultura con la futura dotazione di eBook reader al sostegno al diritto allo studio, ma soprattutto agli accordi con aziende, per la formazione e l’avviamento al lavoro delle persone detenute. Russo ha parlato delle carenze di personale nella Polizia penitenziaria e tra gli educatori, carenze che di fatto ostacolano l’effettiva attuazione del dettato costituzionale sulla rieducazione del condannato, e della collaborazione tra i vari ambiti dell’amministrazione penitenziaria e i Garanti delle persone detenute. In merito alle possibili frizioni tra popolazione detenuta e agenti della polizia penitenziaria, il capo del Dap ha rivendicato la pubblicazione di un manuale di 160 schede in cui sono descritti gli eventi critici che si possono presentare negli istituti penitenziari e le modalità con cui gli operatori devono affrontarli. Russo ha poi ricordato che circa il 34 per cento della popolazione detenuta è in carcere per reati legati alla tossicodipendenza, e che la persona tossicodipendente non dovrebbe stare in carcere, per cui è allo studio del Dipartimento antidroga un progetto di alternative al carcere in comunità terapeutiche. In merito alle telefonate dal carcere, Russo ha ribadito l’orientamento ministeriale di passare da una telefonata alla settimana a sei al mese, cui aggiungere tutte quelle che saranno reputate necessarie nell’ambito dei programmi individualizzati di trattamento. Sul lavoro, Russo ha riferito dei contatti con aziende di rilievo nazionale disponibilità a offrire migliaia di posti di lavoro destinati alle persone detenute. Nel corso dell’evento, iniziato con i saluti dell’Arcivescovo di Gaeta, Luigi Vari, sono intervenuti esperti nel campo del diritto penitenziario e dei problemi relativi alla condizione delle carceri nel nostro paese, a partire dalla relazione introduttiva della professoressa Antonella Massaro, docente di diritto penale presso l’Università degli Studi Roma Tre, sui tratti caratterizzanti della pena e sulla dialettica tra sicurezza e diritti fondamentali all’interno del carcere, Fabio Gianfilippi, magistrato di sorveglianza presso il Tribunale di Spoleto che ha sollevato una questione di legittimità costituzionale in materia di sessualità in carcere (sulla quale la Consulta si riunirà il prossimo 5 dicembre); il professor Marco Ruotolo, ordinario di diritto costituzionale presso l’Università degli Studi Roma Tre, già presidente della commissione per l’innovazione del sistema penitenziario voluta dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia; il presidente dell’Associazione Antigone, Patrizio Gonnella, il quale ha ricordato il ruolo svolto da 25 anni nel monitoraggio delle carceri italiane dai volontari della sua associazione che è collegata anche a una rete europea. Milano. Reati sessuali: una giornata nell’Unità di Trattamento Intensificato al carcere di Bollate di Dania Ceragioli lasvolta.it, 10 ottobre 2023 Nell’istituto della periferia milanese esiste un’Unita di Trattamento Intensificato che, ogni ultimo giovedì del mese, organizza “un’assemblea” con i detenuti. Anche La Svolta ha partecipato: ecco come è andata. “I delinquenti sessuali sono alle prese con difficoltà che toccano diverse sfere della loro vita, in modo cronico. Proprio come per altre patologie, l’alcolismo o il diabete per esempio, dove non si ha guarigione, ma remissioni. Il delinquente sessuale non deve mai considerarsi al riparo da una caduta o ricaduta. Deve imparare a gestire la sua patologia sessuale, a migliorare la qualità della sua vita. Dovrà accettare certi handicap e soprattutto stendere il lutto sulla sua onnipotenza”. Jocelyn Aubut, psichiatra dell’Istituto P. Pinel di Montreal “La prima volta che sono entrato in cella e ho trovato fra i documenti questo scritto, ho imprecato, non credevo potesse parlare di me, rivolgersi a me e ancora oggi queste parole le trovo pesanti come macigni, non mi rappresentano”. Queste le parole di D. dopo che il professor Paolo Giulini ha chiesto ai presenti di commentare, a distanza di tempo, il percorso intrapreso e le parole del dottor Aubut: il testo rappresenta il manifesto del programma su cui gli autori di reati sessuali sono invitati a confrontarsi, riflettere e lavorare. Gli fa eco A. “Anche io ho ritenuto quanto impresso su quel foglio inadeguato, veniamo descritti come degli ammalati, ma io ammalato non mi sento, ho preso atto di avere solo una sessualità diversa, adesso però riesco meglio a comprendere che il mio essere diverso non deve ledere i diritti di altri”. “Per quanto mi riguarda, a distanza di 6 mesi dall’inizio di questo percorso, ho capito grazie anche a tutto ciò che sto facendo la mia vera natura, io sono proprio quello, è stata una scossa, un punto zero da cui poter ripartire, ho preso finalmente coscienza del male che ho causato”, commenta R. Siamo all’interno della casa di reclusione di Bollate, nella periferia milanese, in un penitenziario di nuova concezione rispetto agli altri presenti sul nostro territorio. Quello osservato è decisamente un approccio più aperto allo sconto della pena. Le stanze di detenzione lasciano liberi i loro occupanti (circa 1.200 tra cui 120 donne) dalle 8:00 alle 20:00. Le celle possono essere singole o con massimo 3 letti, dotate di un fornellino da campo, dando così la possibilità a chi lo desidera di cucinare. Al loro interno anche un televisore e murales colorati realizzati sulle pareti. Piano piano, è possibile per i detenuti fruire di un’ulteriore libertà di movimento, aderendo alle offerte lavorative, formative e culturali proposte. In questo contesto si inserisce uno dei progetti promossi dal Cipm di Milano, iniziato in via sperimentale nel 2005. Questo primo tentativo di trattamento e presa in carico di autori di reati sessuali già imputati ha previsto la costituzione di un’Unita di Trattamento Intensificato - Uti. Questa soluzione è stata ritenuta una valida alternativa alla detenzione in reparti protetti: un antidoto alla solitudine fisica e relazionale, che a volte non permette un recupero completo dell’individuo e della sua sfera emotiva. Il trattamento cerca di offrire all’autore la possibilità di comprendere, ridefinire e quindi modificare, i termini della propria esistenza, concedendo la possibilità di rielaborare il reato commesso. Le attività dei gruppi comprendono sessioni di arte terapia, attività motoria, educazione sessuale, comunicazione e abilità sociali, gestione dello stress, yoga e meditazione, attivazione di competenze lavorative e prevenzione della recidiva. L’ultimo giovedì del mese all’interno del progetto Uti viene effettuato un incontro definito “assemblea”, in cui i 2 gruppi di lavoro costituiti si uniscono, dando la possibilità, su richiesta, all’accesso di altri detenuti provenienti da reparti diversi. Questo incontro rappresenta l’unica possibilità, anche per i non addetti, di poter assistere alla seduta, seppure indirettamente e sempre sotto l’attenta supervisione dell’equipe che la modera. I detenuti sono abituati agli osservatori, mentre noi esterni (oltre a me, anche uno psicologo) rimaniamo un po’ sorpresi dalla domanda che ci viene rivolta da uno di loro: “Che aspettative avevate prima di incontrarci, cosa ne pensate di quello a cui state assistendo?”. Per quanto mi riguarda, credo di aver risposto onestamente e senza riflettere: non si hanno aspettative di fronte a queste situazioni anzi, forse qualche inevitabile pregiudizio che si è dissipato velocemente, constatando quanto sia efficace il lavoro che tutti quanti stanno facendo. Ci sono una trentina di uomini fra i 35/50 anni disposti a mettersi in gioco, operare con determinazione su loro stessi, per la comprensione e l’espiazione di quanto accaduto. È plausibile chiedersi che volto possa avere la violenza? In realtà i visi incontrati sono apparsi distesi, gentili sorridenti, rassicuranti, quello che può avere un amico, un vicino di casa, un nonno. Persone insospettabili insomma, che alla fine cercano il loro riscatto. La sala in cui avviene l’assemblea è spaziosa, colorata, luminosa; se non fossero ben visibili robuste grate alle finestre, potrebbe trattarsi di un qualsiasi circolo ricreativo. Poco importa se per raggiungerla abbiamo dovuto camminare a lungo, addentrarci in lunghissimi corridoi con l’inevitabile incontro di svariati posti di controllo, dove la vista dalle finestre non corre all’infinito, ma si arena sugli imponenti muri perimetrali. La claustrofobia legata al rumore delle porte che si chiudono al passaggio privando del senso stesso della vita, della libertà, è la sensazione più forte avvertita. La riunione procede; all’ordine del giorno: l’esigenza di una migliore ridefinizione degli spazi comuni e di una maggiore privacy. I detenuti del piano si lamentano delle intrusioni da parte di altri carcerati nella sala ricreativa, soprattutto quando impegnati nei gruppi di lavoro. Non ritengono opportuno che altri, in attesa di entrare nelle partite di Burraco, ascoltino nel frattempo i contenuti, spesso riservati e delicati, delle loro conversazioni. La convivenza è sempre piuttosto difficile ovunque, ma quando questo labile limite fra 2 o più persone viene esasperato da condizioni di costrizione estrema, come quelle vissute in un carcere, rabbia e frustrazione possono per i motivi più futili far degenerare la situazione e prendere il sopravvento. Un gruppo di detenuti ritiene utile affiggere un cartello chiedendo semplicemente più rispetto. Altri invece, estremamente intransigenti, sono favorevoli a un regolamento interno che preveda norme severe e inappellabili. Si passa democraticamente a una votazione per alzata di mano. Tutto ciò suggerisce che anche affrontare argomenti ordinari, dalla gestione degli spazi comuni, dell’utilizzo del telefono, fino ai turni per la pulizia del forno, sia un modo indiretto per potersi confrontare, capire e analizzare a fondo. Ci sono autori che hanno indubbiamente ancora qualche difficoltà nell’accettare la Legge; altri invece risultano più indulgenti disposti a giustificare i loro compagni come probabilmente le loro condotte. I componenti dell’equipe prendono nota e ogni tanto intervengono, stimolando con domande e riflessioni; fra loro è presente anche Sergio, il preparatore atletico. Disciplinare il corpo vuol dire disciplinare la mente: per questo l’attività fisica all’interno di un penitenziario è tanto importante. Verso di lui l’atteggiamento sembra essere più spontaneo, meno ingessato, nonostante nel gruppo ci si debba rivolgere all’altro dando del “Lei”. Alcuni sono entrati da diverso tempo (devono scontare pene fino a 6 anni di reclusione), altri invece come S. sono prossimi alla riconquista della libertà; sono proprio loro a essere preoccupati per come il mondo, quello vero, quello fuori dalle barriere, potrà di nuovo accoglierli. Tristezza anche per gli amici che rimarranno: in questo microcosmo dove tutto risulta amplificato, anche le relazioni assumono contorni più drammatici. Il detenuto che ho seduto accanto mi avvicina il libro che ha in mano, probabilmente raccolto dalla piccola libreria nell’angolo: L’uomo e il cane, di Carlo Cassola. Non riesco a capire il suo gesto. Mentre me lo porge sussurra: “Così puoi appoggiarti e scrivere meglio”. Lui, L., appare fra tutti quello che ha il peso maggiore delle colpe da sostenere: inizia a piangere mostrando segni di un sentito pentimento. La sua storia è molto complessa: diverse recidive e una latitanza. I presenti sono tutti piuttosto educati e con un grado di cultura decisamente elevato; d’altronde questo tipo di reato è trasversale e può essere individuato in ogni strato della popolazione. Numericamente, ci sono più italiani, che sono poi anche i più attivi; pochi e silenziosi gli stranieri. L’assemblea viene sciolta alle 17:30; gli operatori commentano l’elevata intensità emotiva dell’incontro. L’uscita dal carcere avviene silenziosamente e con la stessa complessità dell’entrata. Ognuno di noi avrà modo di riflettere ancora una volta sulle infinite possibilità che può offrire la vita, anche quando sembra persa, in inutili deviazioni; o quando, come in questo caso, devi pagare un prezzo alla giustizia, che non sarà mai così elevato quanto quello che dovrai pagare a te stesso e alla tua vittima. Fabio Cavalli e l’incredibile potenza del teatro in carcere di Linda Russo spazio50.org, 10 ottobre 2023 Fabio Cavalli è attore, regista, autore, scenografo, produttore, docente universitario, fondatore del Teatro Libero di Rebibbia. Già intervistato nel numero di ottobre della rivista 50&Più, racconta a Spazio 50 il suo impegno nelle carceri: com’è entrato in contatto con il mondo carcerario, perché il rischio di recidiva nel nostro Paese è così alto e come può aiutare il teatro. Nato a Genova nel 1958, Fabio Cavalli è una figura poliedrica: attore, regista, autore, scenografo, produttore, docente universitario e fondatore del Teatro Libero di Rebibbia. Ha scritto e diretto decine di spettacoli teatrali e numerosi documentari come “Italia ‘60 - Attori sulle barricate!”, in collaborazione con Rai Teche e Istituto LUCE, che narra l’epopea delle lotte sindacali per i diritti dei lavoratori dello spettacolo. Con i fratelli Taviani ha realizzato “Cesare deve morire” (coautore della sceneggiatura, regista e scenografo della parte teatrale) che ha vinto l’Orso d’oro alla Berlinale, un David di Donatello e un Nastro d’Argento. Nel 2017, con Mibact e SIAE ha realizzato “Rebibbia 24”, mentre in collaborazione con la Corte Costituzionale ha realizzato per Rai Cinema e Clipper Media “Viaggio in Italia - la Corte Costituzionale nelle Carceri” in cui racconta l’incontro straordinario fra sette giudici della Consulta e i detenuti di altrettante carceri. Ed è proprio “Viaggio in Italia”, trasmesso su Rai Uno nel giugno 2019, ad essere presentato come Evento Speciale alla Mostra del Cinema di Venezia e sottotitolato in una decina di lingue. Fabio Cavalli, vent’anni fa è entrato per la prima volta nel reparto di massima sicurezza di Rebibbia. Ci racconta di quell’esperienza? Sono entrato dapprima come volontario, ovviamente. In fondo, anche senza aver subito una condanna, un assaggio di galera me lo sono fatto. Tutti dovremmo farlo: entrare là dentro ti chiarisce un po’ la visione delle cose e di te stesso. Poi il Direttore, che conosceva il mio lavoro di regista, mi ha invitato a un incontro con i detenuti ed è nata l’idea del teatro. Era un pomeriggio d’autunno cupo, c’era una lampada sguarnita che penzolava dal soffitto e il fumo delle sigarette era denso. Là ho assistito ad una prova di Napoli milionaria che i detenuti stessi avevano improvvisato. Era la scena della falsa veglia funebre attorno al letto di Gennaro Iovine. Il protagonista si finge morto. Accanto a lui, la famiglia si dispera. Tutto viene architettato per sviare l’indagine del Commissario che è entrato a perquisire l’appartamento. Intanto dal cielo cadono gli ordigni del disastroso bombardamento del 1943. Io ero stato catapultato direttamente dentro quella stanza sbarrata fra condannati di mafia e di camorra. Pensai che l’arte teatrale è una pallida imitazione della potenza della vita vissuta. Lo dice Aristotele. Il quale non aveva potuto prevedere che, dopo due millenni, una banda di criminali si sarebbe impossessata della scena, rivoluzionando e dando concretezza alla sua idea di “catarsi”: la purificazione dell’anima attraverso l’arte della rappresentazione. Dal suo osservatorio, cosa ci può dire della vita in carcere? Frequentando un carcere, maturi la coscienza che quello è un inferno. Tanti detenuti preferiscono suicidarsi che vivere così. Trent’anni in un reparto di massima sicurezza è una pena simile alla morte. Poi, di fronte a tanta sofferenza dei carcerati, si para l’immagine delle vittime dei loro delitti. Allora immagini il dolore delle famiglie, dei figli degli uccisi nel corso di azioni criminali; dei morti per la droga che loro spacciano a tonnellate. Il problema è che le vittime sono episodiche. Un crimine qui, oggi. Il prossimo lontano da qui, fra un mese. Il successivo è ancora altrove e in un altro tempo. La sofferenza delle vittime è dispersa, perché il male individuale è nomade. Non promana contemporaneamente da un unico luogo, come da una centrale termica del dolore: i carnefici sono incarcerati tutti insieme a patire, nello stesso luogo, nello stesso tempo e per un tempo collettivamente infinito. È spaventoso. In Italia, il rischio di recidiva per chi torna in libertà è pari al 70%. Secondo lei da cosa dipende e come si potrebbe modificare questa tendenza? Partiamo dal fatto che il 70% dei detenuti è praticamente analfabeta. In ogni reparto c’è il detenuto “scrivano”, nominato dal Direttore fra coloro che sanno leggere e scrivere. È lì da duecento anni, dai tempi di Silvio Pellico. Aiuta i compagni di cella nella corrispondenza coi familiari, o col Giudice di Sorveglianza. Con la penna, da soli non sarebbero capaci (italiani o stranieri è uguale). La recidiva al 70% dimostra che il bisogno primario dei detenuti non è quello di vivere liberi. Anche dopo aver toccato con mano la galera bruciante, sfidano il rischio di trascorrere là dentro anni ed anni, in una coazione a ripetere interminabile che chiamiamo il “loop del danno”. La spiegazione di questo loop è troppo complicata. Mi ci arrovello da tanto tempo. Si parla molto di recupero dei detenuti mediante il lavoro. Ma il lavoro in carcere è poco, saltuario, umilissimo. Come si fa a recuperarli offrendo loro quello stesso umilissimo lavoro che rifiutarono da ragazzi preferendo l’arricchimento facile del crimine? La formazione professionale quasi non esiste. C’è la scuola che a qualcosa serve, soprattutto a chi ha una pena da scontare molto lunga. Per chi si appassiona allo studio c’è l’Università, che in galera è quasi un miracolo della civiltà. Ma Rebibbia è un esempio virtuoso. Non è la regola. Poi c’è il potere catartico dell’Arte. Su 2000 casi che ho seguito in 20 anni, il tasso di recidiva dei detenuti-attori non arriva al 15%. Sarà un caso. Sarà fortuna. Sarà un gioco di prestigio. Quegli spazi di “esclusione” globale recensione di Gennaro Avallone Il Manifesto, 10 ottobre 2023 “Trattenuti e trattamenti. Esistenze e spazi nella nemesi del diritto” di Matteo Buffa, edito da Ombre corte. È la storia di un’emergenza permanente quella ricostruita e raccontata dall’interno da Matteo Buffa, nel libro “Trattenuti e trattamenti. Esistenze e spazi nella nemesi del diritto” (Ombre corte, pp. 333, euro 25). Ed è anche il resoconto di un’erosione progressiva dello stato di diritto operata dalle stesse istituzioni che, invece, dovrebbero sostenerlo e rafforzarlo. Al tempo stesso, è un libro che entra nei luoghi, che mostra, anche attraverso le vicende e i resoconti di una serie di diretti protagonisti, che cosa accade nei centri per i rimpatri e in altri centri di trattenimento degli stranieri. Sono tre i temi fondamentali attorno ai quali è organizzato il testo (trattenuti, trattenimenti e spazi di vita): un libro davvero molto utile per chi vuole capire come si sono organizzate le politiche dell’immigrazione in Italia e in Europa e quali effetti queste hanno avuto, in particolare, su quella parte di popolazione che supera le frontiere senza permessi e visti, spesso per richiedere protezione internazionale, o che si ritrova a perdere la validità del permesso di soggiorno. In dettaglio, la prima parte è quella che guarda ai trattenuti: due capitoli in cui si mostra come sia stata prodotta una specifica umanità, quella caratterizzata da una “visibile invisibilità”, rinchiusa in “spazi di esclusione globale tra penale e non penale”. Persone straniere costrette in una condizione di detenzione, in “luoghi privi di uno statuto giuridico di riferimento chiaro”, “dove, tra l’altro, le persone diventano cose”, secondo quanto scrive Mauro Palma, presidente del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà, nella prefazione al testo. La seconda parte è quella che si concentra sui trattenimenti. Essa viene sviluppata in due capitoli, nei quali si ricostruiscono la storia normativa e politica dei vari centri di trattenimento implementati in Italia dalla fine degli anni ‘90, con forte collegamento con le politiche europee di controllo delle immigrazioni, e i caratteri delle pratiche concrete di trattenimento, fatte di medicalizzazione, uso di farmaci a fini di controllo e disciplinamento. D’altronde, il funzionamento di questi centri di trattenimento non può che essere il contenimento di chi vi viene rinchiuso, pensato come una minaccia sin dall’inizio e, di conseguenza, per l’intera sua permanenza. D’altronde, non si tratta di carceri: il fine di questi luoghi, pertanto, non è quello, come formalmente previsto dalla Costituzione, di “tendere alla rieducazione del condannato”. Nei centri per i rimpatri, e negli altri centri con funzioni di trattenimento, non sono costretti dei condannati, ma dei nemici. La terza parte ruota attorno alle esistenze di chi si trova forzato in questo meccanismo politico-amministrativo, intitolato “Esistenze e spazi nella nemesi del diritto”. Anche questa si sviluppa su due capitoli, di cui è centrale quello che presenta una ricerca condotta in alcuni luoghi di trattenimento secondo il metodo dell’etnografia. E qui si trova conferma del fatto che alcune persone trattenute preferiscono il carcere al centro per il rimpatrio. Come spiega un ragazzo, nel centro per il rimpatrio non c’è niente da fare, le persone stanno sempre chiuse, anche i momenti di aria non sono ben codificati: c’è chi arriva all’autolesionismo. Si perde il senso del vivere. La certificazione del fallimento è evidente. E con questo fallimento Buffa si confronta in modo approfondito, con gli strumenti della ricerca e dell’analisi critica del diritto, proponendo poche conclusioni e lasciando il più possibile libertà di interpretazione a chi legge. Sapendo che con le scelte politiche che sostengono quel fallimento bisognerà confrontarsi ancora per molto tempo in Italia così come nel resto dell’Unione europea. Chiamarli CPR è una truffa, il loro nome è: galere di Andrea Pugiotto L’Unità, 10 ottobre 2023 Ufficialmente, il nostro ordinamento nega ogni assimilazione tra centri per migranti e carceri. Ma una bugia, anche se scritta in Gazzetta Ufficiale, resta sempre una bugia. 1. Mentre gira la giostra di delegittimazione della giudice Apostolico, si perde sullo sfondo ciò che deve restare al centro della scena: le ragioni per cui la sua ordinanza (Trib. Catania, Sez. Immigrazione, 29 settembre 2023) non ha convalidato il trattenimento di tre tunisini entrati irregolarmente in Italia. Se impugnata dal Governo, sarà la Cassazione a valutarne la correttezza giuridica. Ma non potrà certo contestarne la premessa generale, secondo cui “il trattenimento deve considerarsi misura eccezionale e limitativa della libertà personale”. Una premessa ora ribadita dall’ordinanza emessa da altro giudice dello stesso tribunale (in data 8 ottobre 2023): cercasi video. Invece di partecipare al rodeo polemico in corso, di questo servirebbe ragionare: di una detenzione formalmente amministrativa che maschera una misura sostanzialmente penale, in assenza di colpa e di reato e che, quanto a durata, tocca oggi la vetta dolomitica dei 18 mesi. 2. Ufficialmente, il nostro ordinamento nega ogni assimilazione tra centri per migranti e circuito penitenziario. Ma una bugia, per quanto scritta in Gazzetta Ufficiale, resta sempre una bugia. Vale, innanzitutto, per gli acronimi con cui - nel tempo - la legge li ha battezzati: CPTA, CPT, CIE, CPR. Sono falsi nomi scelti per non usare quello corrente in Europa, “centri di detenzione amministrativa”, che ha il difetto di richiamare la condizione di un soggetto in vinculis, nella disponibilità fi sica dello Stato. La detenzione, infatti, era la misura restrittiva della libertà personale, alternativa alla reclusione, che il codice penale Zanardelli stabiliva per i reati meno gravi. Ne reca ancora traccia la lingua italiana, dove la parola è sinonimo di prigionia, carcerazione. Lo conferma l’art. 13 Cost., il cui 2° comma include la detenzione tra le forme restrittive della libertà personale. Evitando quel nome, si è tentato di accreditare la tesi minimalista di un trattenimento che inciderebbe solo sulla libertà di circolazione e di soggiorno (art. 16 Cost.), senza coartare la libertà personale del migrante, intendendo così sottrarre la misura alle garanzie proprie dell’habeas corpus. “Detenzione”, dunque, è un nome indicibile perché presenta l’inconveniente di indicare i centri per quello che sono: una “galera amministrativa”. 3. È stata la Corte costituzionale - in solido con la Corte EDU - a smentire queste falsificazioni semantiche. Sia il trattenimento nei centri (sent. n. 105/2001), sia il respingimento con accompagnamento coattivo alla frontiera (sent. n. 275/2017) determinano “quella mortificazione della dignità dell’uomo che si verifica in ogni evenienza di assoggettamento fisico all’altrui potere e che è indice sicuro dell’attinenza della misura alla sfera della libertà personale”. Non a caso, i garanti dei diritti dei detenuti esercitano le proprie funzioni anche all’interno dei CPR e il Garante nazionale in qualsiasi struttura analoga, finanche negli aerei usati per il rimpatrio. Del resto, la tetra architettura che sovrasta i dieci CPR attualmente esistenti in Italia (Milano, Torino, Gradisca d’Isonzo, Roma, Palazzo San Gervaso, Macomer, Brindisi, Bari, Trapani, Caltanissetta) ricalca il modello tipico della prigione. Esemplare quello barese: ingressi militarizzati e blindati; celle chiuse dall’esterno sorvegliate da forze dell’ordine; spioncini alle porte metalliche; finestre con inferriate anti-evasione; illuminazione a comando esterno affidato ai vigilanti; moduli d’arredo fissi al pavimento; servizi igienici privi di riservatezza; recinti metallici videosorvegliati (cfr. l’Unità, 22 settembre). Lo confermano, infine, i rapporti all’esito dei sopralluoghi svolti da apposite Commissioni parlamentari, nelle passate legislature: i centri per stranieri sono, in tutto e per tutto, carceri extra ordinem. 4. Definirli così non è una provocazione, ma un dato giuridico. In violazione del principio nulla poena sine crimine, i loro “ospiti” non sono accusati di alcun reato e la loro condizione di irregolari destinati all’espulsione si forma - normalmente - fuori dal circuito penale. In violazione della riserva di legge, che secondo l’art. 13 Cost. deve stabilire “i modi” di ogni restrizione della libertà personale, l’organizzazione di questi centri è disciplinata da un decreto del Ministro dell’interno (20 ottobre 2014, n. 12700). Si tratta, infine, di una detenzione privatizzata, appaltata a enti interessati al minimo costo gestionale e al massimo profitto, correlato al più alto numero di migranti trattenuti. Misurati con il metro dello Stato di diritto, dunque, i CPR sono luoghi dove lo stato d’eccezione si fa regola, applicata a stranieri da considerare “fuorilegge” non perché la trasgrediscano, ma perché nessuna legge li riconosce e li protegge adeguatamente. 5. È per centri siffatti che è stata decretata la straordinaria necessità e urgenza di prolungare la detenzione fi no a un anno e mezzo, oltre a programmarne la realizzazione di ulteriori (artt. 20 e 21, decreto-legge n. 124 del 2023). Eppure, il Governo sa bene che non esiste alcuna relazione tra rimpatrio e durata del trattenimento. Dati alla mano, lo ha spiegato il Garante nazionale Mauro Palma, relazionando alle Camere il 15 giugno scorso: “la percentuale di rimpatri non ha mai raggiunto il 60% delle persone ristrette anche per lungo tempo in tali strutture”. I fattori in grado di sbloccare una procedura espulsiva inceppata sono altri: l’esistenza di accordi bilaterali con il paese d’origine; la collaborazione tra autorità consolari; l’efficacia investigativa di polizia nell’identificare il soggetto da espellere. A cosa serve, allora, elevare la galera (amministrativa) fi no a 18 mesi? Serve a costringere per sfinimento il migrante a collaborare all’espulsione, “perché se si ha la prospettiva di dover rimanere nei centri 1 mese si resiste, 2 mesi è già più difficile, mentre credo che nessuno possa pensare di non farsi riconoscere e resistere per 18 mesi”: così parlò il Ministro degli interni Maroni, il cui “pacchetto sicurezza” (decreto-legge n. 92 del 2008) già fissava la durata del trattenimento a un anno e mezzo. Quella dismisura - disse, inciampando in un lapsus rivelativo - evitava un “indulto permanente” a favore dei migranti trattenuti: evocando un atto di clemenza, confermava così il suo autentico pensiero secondo cui il centro è una galera, il trattenimento è una pena, lo straniero irregolare è un criminale. “Ce lo chiede l’Europa”, si sente dire, ma è un finto alibi. I termini per il trattenimento indicati dalla direttiva UE (6 mesi, prorogabili “per un periodo limitato non superiore ad altri 12 mesi”) sono limiti massimi che lasciano liberi gli Stati di fissare periodi (anche significativamente) più brevi. La scelta più severa possibile del Governo, allora, esprime la faccia feroce che assicura consenso, ma non accresce la sicurezza collettiva: affolla le presenze nei CPR che vuole anche moltiplicare di numero, benché si tratti di polveriere pronte a esplodere. Perché questo accade, prima o poi, quando si spegne il fuoco con il fuoco. 6. Si arriva così al punto fondamentale. Nascondere la natura intrinsecamente penale di una misura è una frode alle Carte dei diritti. Come la Corte EDU, così anche la Consulta privilegia la sostanza sull’apparenza normativa: se una misura incide significativamente sulla libertà personale, tanto basta a modificarne la natura giuridica (sent. n. 32/2020). Vale anche per il trattenimento nei centri, assimilabile per afflittività alla reclusione in carcere. La sua nuova durata, allora, opererà solo per il futuro perché è vietata la retroattività di norme punitive sfavorevoli (art. 25, 2° comma, Cost.): il limite massimo di 18 mesi, dunque, non potrà applicarsi ai migranti già rinchiusi in un CPR prima dell’entrata in vigore del decreto-legge n. 124 del 2023. È così difficile da capire? Tocca ai giudici della convalida dei trattenimenti smascherare questa truffa delle etichette. Video permettendo. Decreto migranti, cosa dicono davvero le pronunce dei tribunali di Firenze e Catania di Vitalba Azzollini Il Domani, 10 ottobre 2023 Il tribunale di Firenze solleva dubbi sull’implementazione da parte del governo della normativa sui paesi sicuri. La Farnesina avrebbe omesso di verificare se la Tunisia possa ancora essere inclusa tra tali paesi oppure se vi sia stato un “cambiamento significativo nella situazione relativa ai diritti umani”. A Catania intanto un altro giudice non ha convalidato il trattenimento di richiedenti asilo disposto dalla questura di Ragusa, confermando nella sostanza le argomentazioni di Apostolico. Il governo è sempre più in difficoltà nell’attuazione della propria strategia sull’immigrazione. Avevamo spiegato come il tribunale di Catania avesse intaccato una serie tasselli normativi di tale strategia, rilevandone il contrasto con la disciplina europea. Il tribunale di Firenze va ancora oltre, sollevando dubbi sull’implementazione da parte del governo della regolamentazione relativa ai paesi sicuri. E ancora il tribunale di Catania, nella persona di un altro giudice, non ha convalidato il trattenimento di richiedenti asilo disposto dalla questura di Ragusa, confermando nella sostanza le argomentazioni della giudice Iolanda Apostolico. La qualificazione dei paesi sicuri - Con riguardo alla pronuncia di Firenze, occorre premettere che il ministro degli Esteri, di concerto con quelli dell’Interno e della Giustizia, può stilare un elenco dei “paesi di origine sicuri”, individuati sulla base di criteri predefiniti, a seguito di un’istruttoria tecnica. Il decreto contenente detto elenco è stato adottato nell’ottobre 2019 e poi aggiornato nel marzo 2023. In entrambe le versioni è presente la Tunisia. L’inserimento di un paese nell’elenco di quelli sicuri comporta l’applicazione di deroghe alla procedura di esame della richiesta di asilo da parte dello straniero che provenga da tale paese. Ad esempio, la sua istanza è esaminata con un iter accelerato, che si sostanzia in un’inversione dell’onere della prova: tale istanza è considerata infondata ex lege, data la provenienza da un paese ritenuto sicuro, per cui dev’essere il richiedente a dimostrare “la sussistenza di gravi motivi” inerenti alla propria situazione personale; inoltre, i termini di proposizione del ricorso contro la decisione sono dimezzati, da 30 a 15 giorni. Considerata l’attenuazione dei diritti del migrante che deriva dalla qualificazione di un paese come sicuro, tale qualificazione dev’essere basata - ai sensi della cosiddetta direttiva procedure - su informazioni raccolte da fonti qualificate, cioè “da altri Stati membri, dall’EASO, dall’UNHCR, dal Consiglio d’Europa”, nonché costantemente aggiornata e riesaminata, specie in occasione di un eventuale “cambiamento significativo nella situazione relativa ai diritti umani”. Il giudice e i paesi sicuri - Chiarito tutto questo, si pone il problema se la qualificazione di un paese come sicuro possa essere sindacata dall’autorità giudiziaria. Il tribunale di Firenze ritiene che tale potere/dovere debba essere riconosciuto al giudice. Quest’ultimo, infatti, quando esamina un’istanza di asilo, deve vagliarla di “alla luce di informazioni precise e aggiornate circa la situazione generale esistente nel Paese di origine dei richiedenti asilo” (vedi sentenza Cassazione n. 17075/2018). Inoltre, il sacrificio dei diritti procedurali imposto al migrante che provenga da un paese sicuro comporta per il giudice il dovere di valutare se i requisiti di sicurezza del paese siano davvero presenti e aggiornati. Sbaglia chi afferma che in questo modo i giudici si legittimano a intervenire su scelte discrezionali di esclusiva competenza dell’amministrazione, e cioè nella valutazione di un paese come sicuro. Se, per il principio di separazione dei poteri, il giudice non può sindacare il merito di tali scelte, deve invece sindacarne il metodo, e cioè vagliare se l’agire dell’amministrazione sia conforme alla legge. E la legge prevede che le condizioni di sicurezza di un paese vengano riesaminate dall’amministrazione quando in esso si verifichi un “cambiamento significativo nella situazione relativa ai diritti umani”, a causa di persecuzioni in atto oppure di un mutamento del quadro politico e normativo, e della conseguente situazione socio-politica, che induca a dubitare dell’effettiva protezione contro eventuali persecuzioni. Se l’amministrazione non ha svolto tale riesame, si configura un vizio procedurale nella qualificazione di un paese come sicuro. Il ministro degli Esteri ha riesaminato la situazione della Tunisia in conformità alle previsioni di legge? Le valutazioni mancanti - Analizzando la scheda sicurezza della Tunisia - l’Asgi (Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione) l’ha resa conoscibile attraverso un accesso agli atti - risulta che essa è aggiornata al 28 ottobre 2022. Pertanto, la Farnesina ha omesso di verificare se eventi successivi a tale data concretizzino quel “cambiamento significativo nella situazione relativa ai diritti umani” che rende necessario un riesame della sicurezza del paese. Spieghiamo in concreto. Ad esempio, nella scheda si dice che, anche se Saïed ha “unilateralmente destituito 57 giudici”, “il Tribunale amministrativo ha sospeso l’esecuzione di tale decreto” e ciò dimostra che la magistratura mantiene “una sua indipendenza”. Si dice pure che il controllo delle elezioni democratiche del 17 dicembre 2022 è “affidato all’ISIE, organo indipendente che sta vigilando sulla correttezza delle procedure di voto” e ciò garantisce “un sufficiente tasso di democraticità del paese”. Ma così non è. Saied ha omesso di reintegrare magistrati che aveva destituito, come invece gli era stato ordinato dal Tribunale amministrativo, e due di tali giudici sono stati arrestati nel febbraio 2023; inoltre, il dittatore tunisino ha sostituito il comitato esecutivo dell’ISIE con persone di sua fiducia. Ma queste circostanze non sono state valutate dal ministero degli Esteri, in quanto successive al 28 ottobre 2022. Dunque, il procedimento amministrativo di qualificazione della Tunisia come paese sicuro presenta carenze che ne inficiano la validità e rendono non giustificata la deroga ai diritti spettanti al richiedente asilo proveniente da tale paese. La seconda pronuncia del tribunale di Catania - Con la nuova pronuncia, il tribunale di Catania in primo luogo contesta l’applicazione della procedura “paesi sicuri” per vizi procedurali, dunque non entra nel merito dell’inserimento della Tunisia nell’elenco di tali paesi. In secondo luogo, il giudice disapplica la normativa interna - il decreto Cutro - che prevede la garanzia finanziaria per il richiedente asilo che non voglia essere detenuto negli appositi centri, in quanto non conforme alla direttiva europea che prevede tale garanzia. La disposizione del decreto Cutro sarebbe pure in contrasto con una norma del Testo Unico sull’Immigrazione che pure contempla la garanzia stessa. La decisione conferma sostanzialmente le conclusioni della giudice Iolanda Apostolico. Ora c’è da attendersi solo un altro ricorso da parte del governo o anche polemiche analoghe a quelle che hanno accompagnato la prima pronuncia? *Giurista Migranti. Cutro, un decreto che si smantella da solo in tribunale di Simona Musco Il Dubbio, 10 ottobre 2023 Dopo quelle inflitte dalla giudice Apostolico e dal Tribunale di Firenze, il dl incassa una nuova bocciatura a Catania. Dopo quelle inflitte da Iolanda Apostolico e dal Tribunale di Firenze, il decreto Cutro incassa una nuova bocciatura, ancora una volta dal Tribunale di Catania. A “bacchettare” il governo, evidenziando le incongruenze della norma italiana con il diritto comunitario, questa volta è il giudice Rosario Maria Annibale Cupri, che in sette pagine ha smontato la decisione del Questore di Ragusa evidenziando, al contempo, i punti del decreto che rischiano di essere asfaltati davanti alla Corte costituzionale e alla Corte di Giustizia europea. Oggetto della decisione: il trattenimento di un tunisino richiedente protezione internazionale, trattenimento che, ricorda il giudice, ai sensi dell’articolo 2, lettera h), della direttiva 2013/33, rappresenta una misura di privazione della libertà personale legittimamente realizzabile “soltanto in presenza delle condizioni giustificative previste dalla legge”. Nel caso in questione, anche se si riuscisse a trovare un video “compromettente” che ritrae Crupi ad una manifestazione in difesa dei diritti umani, sarà difficile, per il governo, spostare l’attenzione sul dito per distogliere lo sguardo dalla luna: il provvedimento, infatti, non è stato emesso sul luogo di frontiera, a Lampedusa, ma a Ragusa, dove il migrante è arrivato già con lo status di richiedente asilo. Peccato, però, che “dalla lettura della norma emerge in maniera piuttosto chiara che la procedura di frontiera è tale se la domanda viene decisa direttamente “alla frontiera o nelle zone di transito dello Stato membro”“. Ed avendo, il migrante, manifestato la volontà di richiedere protezione sulla piccola isola delle Pelagie (“nel foglio notizie è barrata la casella asilo” proprio lì, scrive il giudice), “ne consegue che va considerato richiedente ai sensi della direttiva 32/2013 sin dal suo ingresso alla frontiera di Lampedusa ove la sua domanda doveva essere esaminata”, pur avendo sottoscritto il modello C/3 - ovvero il documento con il quale viene presentata la domanda di protezione internazionale in Italia - nella zona di transito di Ragusa. Se non bastasse la logica a comprendere la questione, ci sono anche le pronunce di Consulta e Corte di Giustizia a soccorrere gli scettici: la Corte costituzionale, infatti, ha chiarito sin dalla sentenza dell’11 luglio 1989, n. 389, “che la normativa interna incompatibile con quella dell’Unione va disapplicata dal giudice nazionale”. L’articolo 8 della direttiva 33/2013, invece, prevede che “gli Stati membri non trattengono una persona per il solo fatto di essere un richiedente”, ma solo “ove necessario e sulla base di una valutazione caso per caso”, salvo “se non siano applicabili efficacemente misure alternative meno coercitive”. Lo Stato può disporre il trattenimento “per decidere, nel contesto di un procedimento, sul diritto del richiedente di entrare nel territorio”, nel caso in cui, come quello in questione, il richiedente non abbia consegnato il passaporto o altro documento equipollente in corso di validità, ovvero non presti idonea garanzia finanziaria. Ma “come già affermato da precedenti decisioni di questo Tribunale in procedimenti di convalida di trattenimenti riguardanti cittadini tunisini e le cui motivazioni sono condivise da questo giudicante (il riferimento è alle decisioni della giudice Apostolico, ndr)”, la garanzia finanziaria prevista dalla norma “non si configura, in realtà, come misura alternativa al trattenimento bensì come requisito amministrativo imposto al richiedente prima di riconoscere i diritti conferiti dalla direttiva 2013/33/UE, per il solo fatto che chiede protezione internazionale”. Si tratta, dunque, di un presupposto incompatibile con l’articolo 8 della direttiva 2013/33, così come interpretato dalla giurisprudenza comunitaria. Principi ribaditi in una sentenza del 2022 (cause riunite C-704/20 e C-39/21), in base alla quale “il cittadino di un paese terzo interessato non può (...) essere trattenuto qualora una misura meno coercitiva possa essere efficacemente applicata”. E le norme italiane, scegliendo la sola “tassa per la libertà” di quasi 5mila euro, saltano a piè pari le altre indicate dal diritto comunitario, come l’obbligo di presentarsi periodicamente alle autorità o l’obbligo di dimorare in un luogo assegnato. Insomma, un tentativo, mal riuscito, di rendere il trattenimento l’unica scelta possibile, che conferma la tendenza del governo - già dimostrata con i dl Rave, intercettazioni e Caivano - di scrivere norme imprecise e facilmente aggirabili facendo semplicemente riferimento alla Costituzione, che per ora rimane legge fondamentale dello Stato. Forse per questo l’unica via d’uscita rimane il gossip di bassa lega sulla vita dei magistrati. Migranti. “Spetta allo Stato, non ai giudici, stabilire se un paese è sicuro” di Ermes Antonucci Il Foglio, 10 ottobre 2023 “I provvedimenti dei tribunali di Catania e di Firenze non sono persuasivi”, dice Francesco Munari, docente di Diritto dell’Unione europea all’Università di Genova. “I tempi di trattenimento previsti per i richiedenti asilo appaiono compatibili con quelli delle norme europee”. “Il diritto d’asilo non equivale al diritto di entrare nel territorio di un altro stato e di circolare. Tale diritto comporta un obbligo per gli stati di valutare richieste di protezione internazionale, ma l’ampiezza di questo obbligo è grandemente ridotta quando i richiedenti provengono da un paese terzo sicuro. E tale accertamento spetta al governo, secondo quanto previsto (anche) dal diritto Ue”. Con queste parole Francesco Munari, professore ordinario di Diritto dell’Unione europea all’Università di Genova, partner di Deloitte Legal, commenta con il Foglio le polemiche nate in seguito alle decisioni dei tribunali di Catania e di Firenze di non convalidare il trattenimento di diversi migranti giunti dalla Tunisia, ritenendo le disposizioni del decreto Cutro incompatibili con il diritto europeo e spingendosi a definire la Tunisia “paese non sicuro”. “Quando un paese è ritenuto sicuro - spiega Munari - le stesse norme europee consentono di dichiarare inammissibile una richiesta di asilo. Chiaro che, ove si adducano fatti straordinari, essi devono essere valutati, innanzitutto dalle autorità competenti, come il questore; se ciò non avviene è doveroso che il provvedimento sia sindacato dal giudice. Ma la valutazione se la Tunisia sia paese terzo sicuro è fatta esclusivamente dal governo sulla base di elementi conoscitivi che, con tutto il rispetto, nessuna persona singola può avere, perché riguardano la condizione complessiva del paese, la sua situazione politica interna, insomma informazioni qualificate che sono precisamente indicate anche nelle direttive europee e presuppongono livelli di conoscenza non necessariamente di dominio pubblico o suscettibili di interpretazioni soggettive”. “Premesso che dividersi in fazioni su un tema complesso come le migrazioni fa solo molto male a tutti, all’Italia in particolare, sul piano tecnico-giuridico ritengo che i provvedimenti dei tribunali di Catania e di Firenze non siano persuasivi”, afferma Munari. “Innanzitutto, i tempi del trattenimento previsti dall’attuale normativa per i richiedenti asilo appaiono compatibili con quelli delle stesse norme europee che si pretendono di applicare disapplicando il diritto interno. Periodi di diverse settimane sono la prassi generalizzata degli stati Ue. Non è neppure in discussione il fatto che nessuno stato europeo, incluso quello italiano, è contento di incidere senza motivo sulla libertà personale di qualunque individuo. Detto questo, da mesi vi è un flusso di migranti molto consistente, ed è necessario comprendere che, pur con tutti gli sforzi messi in campo, ci sono tempi tecnici per valutare le richieste d’asilo. Non credo si possa pretendere che le richieste, ove non evase nel giro di pochi giorni, impediscano allo stato di trattenere un migrante richiedente asilo. Principi di leale collaborazione tra i diversi poteri dello stato dovrebbero suggerire maggiore cautela prima di frustrare la pretesa dello stato di controllare i propri confini”. “Una cosa è disapplicare il provvedimento del questore ritenendolo carente di motivazioni, altra cosa è spingersi a valutare complessivamente se le norme del decreto Cutro siano compatibili con quelle europee, giungendo alla loro disapplicazione. Valutazioni di così ampia portata potenziale devono avvenire nel contesto di una leale collaborazione, questa volta tra Unione e stato italiano in tutte le sue articolazioni: i giudici degli stati sono tenuti a garantire l’applicazione del diritto europeo; se un giudice ritiene che l’Italia abbia mal recepito le direttive, può richiedere un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia. Sarà la Corte a pronunciarsi in poche settimane e in questo modo si avrà una valutazione erga omnes, applicabile in tutti i casi”. “Insomma, i giudici possono (e anzi debbono) utilizzare strumenti che possano essere davvero utili a tutti nella risoluzione di questioni complesse. Diversamente, il loro lavoro rischia di essere interpretato come una contrapposizione interna ai poteri dello stato. Così si crea soltanto un pasticcio, che non fa bene all’Italia, specie nei rapporti con gli altri paesi europei. La politica italiana sull’immigrazione non può dipendere, caso per caso, dalle sensibilità individuali di chi si occupa di una richiesta di trattenimento o di rimpatrio”, conclude Munari. Pena di morte, oggi si celebra la 21esima giornata mondiale contro una strage silenziosa di Domenico Affinito e Milena Gabanelli Corriere della Sera, 10 ottobre 2023 Saridewi Djamani era una tossicodipendente di 45 anni, nata e cresciuta a Singapore. Venerdì 28 luglio le autorità della città-stato asiatica l’hanno giustiziata perché nascondeva in casa 30 grammi di eroina. È la prima donna portata al patibolo a Singapore negli ultimi 19 anni e, per un giorno, i più importanti quotidiani internazionali sono tornati a occuparsi della pena di morte. Nei primi otto mesi del 2023 sono state “legalmente uccise” 538 persone, secondo le stime di Amnesty International. Ogni individuo ha diritto alla vita e a non essere torturato o condannato a pene crudeli, lo ha sancito nel 1948 la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. Da allora 144 Paesi hanno abolito la pena di morte, fino al 1977 erano solo 16. È ancora in vigore invece in 55 Paesi. In Europa applicata da un solo Paese - I primi ad abbandonare le esecuzioni capitali, fra fine Ottocento e primi del Novecento, furono i Paesi del nord Europa (Svezia Norvegia, Finlandia e Danimarca). La Francia l’ha cancellata nel 1981, il Regno Unito nel 1998, la Germania Ovest nel 1949 e quella dell’Est nel 1987. In Italia fu abolita nel 1948: l’articolo 27 della Costituzione la cancellò per i reati comuni e militari commessi in tempo di pace, ma la mantenne per i reati militari in tempo di Guerra. Dal codice penale militare di guerra scomparve nel 1994 e nel 2007 fu tolta anche dalla Costituzione. Oggi l’articolo 27 dice: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte”. Nel continente europeo il solo Paese che ancora la applica è la Bielorussia, mentre la Russia nel 1997 ha firmato la “Convenzione europea” ma non l’ha mai ratificata. A livello globale, alla fine del 2022, almeno 28.282 persone erano detenute nei bracci della morte in tutto il mondo. Le esecuzioni invece sono state 873, più di due al giorno, 13 delle quali erano donne. Il 90% sono avvenute in tre Paesi: Arabia Saudita (196), Iran (576) ed Egitto (24). Rispetto al 2021 il rialzo è stato del 53%. L’aumento è dovuto al numero delle persone giustiziate per reati di droga: 325 a fine 2022 (il doppio rispetto alle 134 avvenute nel 2021), di cui 255 sono avvenute in Iran, dove hanno rappresentato il 44% delle esecuzioni. In Arabia Saudita, messi a morte 57 condannati, e 11 a Singapore. Si tratta, comunque, di numeri al ribasso perché in Cina, Vietnam e Corea del Nord i dati sono coperti dal segreto di Stato. Secondo Amnesty in questi tre paesi ci sarebbe un buco nero con almeno un migliaio di esecuzioni all’anno. Per quali reati si paga con la vita e dove - I reati più puniti sono omicidio volontario e aggravato, spionaggio, alto tradimento, terrorismo e traffico di droga. Quest’ultimo è punito con la vita in quattro stati (Arabia Saudita, Cina, Iran e Singapore) in violazione del diritto internazionale, che proibisce l’uso della pena di morte per crimini che non raggiungono la soglia dei “reati più gravi”. In 13 paesi islamici finisce sul patibolo anche chi rinnega la fede. Gli omosessuali in Iran, Yemen, Arabia Saudita, Nigeria, Sudan, Somalia, Uganda. Lapidazione per le donne adultere negli Emirati Arabi, Arabia Saudita, Pakistan, Afganistan, Yemen, Iran. Brunei, Nigeria e Sudan. La violenza sessuale è punita con la morte in Arabia Saudita, Bangladesh, Egitto, Iran, Pakistan e India, dove comunque i casi di stupro sono più che raddoppiati negli ultimi 10 anni (da 8.500 a 19.700). Ma finiscono a morte anche i corrotti in Vietnam e Cina. Di tutti i Paesi che praticano la pena di morte solo l’Arabia Saudita usa il metodo della decapitazione. L’impiccagione è utilizzata da Bangladesh, Egitto, Giappone, Iran, Iraq, Myanmar, Singapore, Siria e Sudan del Sud. Negli Stati Uniti e in Vietnam si usa l’iniezione letale. Negli altri Paesi la fucilazione. In Cina è praticata sia l’iniezione letale sia la fucilazione, ma soprattutto è l’unico Paese che per 35 anni, dal 1980 al 2015, ha permesso l’espianto di organi dai detenuti condannati a morte anche senza il loro assenso. Secondo uno studio del 2022 pubblicato dalla rivista scientifica American Journal of Transplantation e dal Wall Street Journal, basato su 3000 documenti cinesi, molto spesso la procedura medica aveva inizio prima ancora che il condannato fosse “giustiziato”. In altre parole: “Erano i medici stessi a togliere la vita al detenuto con i loro bisturi”. Le operazioni portate a termine da oltre 300 medici in 56 ospedali della Repubblica Popolare, sono state migliaia. Le violazioni al diritto internazionale - Il Patto internazionale sui Diritti Civili e Politici del 1966 e del 1989 proibisce la pena capitale per i reati meno gravi, per quelli commessi da minorenni o disabili o quando non v’è stato un giusto processo. Nel 2022 l’Iran ha messo a morte almeno 5 persone per reati commessi quando erano minorenni; detenuti minorenni all’epoca dei fatti sono nei bracci della morte di Arabia Saudita, Iran e Maldive. Disabili mentali sono stati condannati a morte in Giappone, Iran, Maldive e Stati Uniti d’America. In almeno 16 Paesi le condanne sono state inflitte dopo procedimenti giudiziari non in linea con gli standard internazionali sul giusto processo (Afghanistan, Arabia Saudita, Bahrein, Bangladesh, Bielorussia, Cina, Corea del Nord, Egitto, Iran, Iraq, Malesia, Myanmar, Pakistan, Singapore, Vietnam e Yemen). In Arabia Saudita, Egitto, Iran e Yemen le incriminazioni e le sentenze capitali sono basate su confessioni estorte con tortura. I piccoli passi avanti - Il 2022 è anche stato l’anno nel quale sono stati compiuti alcuni progressi. Kazakistan, Papua Nuova Guinea, Sierra Leone e Repubblica Centrafricana hanno abolito la pena di morte per tutti i reati, Guinea Equatoriale e Zambia l’hanno abolita per reati ordinari ma non per quelli militari. In Indonesia il nuovo Codice penale, che entrerà in vigore nel 2026, consente la commutazione delle condanne a morte in ergastolo a determinate condizioni. A dicembre all’Assemblea generale delle Nazioni Unite 125 paesi, quasi due terzi, si sono espressi a favore di una moratoria universale contro le esecuzioni, in vista della completa abolizione della pena di morte. Gli Stati Uniti hanno votato contro, insieme a Iran, Cina, Vietnam, Corea del Nord, Arabia Saudita, Iraq e altri 30 Paesi, mentre in 22 si sono astenuti. È una pessima notizia, ma comunque un piccolo passo avanti se consideriamo che lo stesso voto nel 2018 e nel 2020 si era fermato a 120 nazioni. Il caso Stati Uniti - Gli Stati Uniti sono l’unico Paese occidentale che applica la pena di morte, nonostante sia stato tra i primi Paesi al mondo dotarsi di una carta dei diritti fin dal 1785, la Bill of Rights. Nonostante sia il Paese delle grandi battaglie civili del Novecento: quella contro la segregazione, quella del Free Speech Movement degli studenti di Berkley nel 1965 che ha dato il via al movimento pacifista contro la guerra in Vietnam. Nel 1972 ci fu uno stop, a seguito di una sentenza della Corte Suprema che dichiarava la pena di morte incostituzionale. Però nel 1977 la Corte tornò sui suoi passi annullando la sentenza. Da allora è stata una lenta risalita. Oggi su 50 Stati ben 13 continuano ad usarla per punire gli omicidi volontari, mentre in altri 14 è prevista ma da dieci anni non ci sono esecuzioni. Nel 2022 sono state 18 le “iniezioni letali”, 17 delle quali concentrate in sei stati: Alabama, Arizona, Mississippi, Missouri, Oklahoma e Texas. Nello stesso anno ci sono stati 21 nuovi condannati al braccio della morte. Un segnale positivo invece è arrivato dall’Oregon, dove la governatrice Kate Brown poco prima della fine del mandato, con un unico atto, ha commutato in 17 condanne a morte in ergastolo. Negli Usa anche la giustizia federale prevede la morte per una serie di reati (omicidi plurimi, torture, atti terroristici, dirottamenti che hanno come conseguenza la morte di una o più persone, traffico di droga su larga scala, omicidio di un cittadino americano in un atto di terrorismo commesso in un altro Paese), ma la esercita poco. Negli ultimi 20 anni le uniche 13 sentenze capitali eseguite dal governo federale sono avvenute tra il luglio 2020 e il gennaio 2021 sotto l’amministrazione Trump. Da luglio 2021 Biden ha invece imposto una moratoria. voluta da Biden. Sta di fatto che ad oggi sono 2.276 i condannati nei bracci della morte delle carceri statunitensi, 48 sono donne. Il criminale teme la pena di morte? Centinaia di studi scientifici hanno dimostrato che la pena capitale non riduce il numero dei crimini. Spiegano i criminologi: chi commette crimini efferati è sotto l’effetto di alcol, droga o talmente accecato da non considerare cosa rischia. Analizzando i dati del Death Penalty Information Center appare evidente che non c’è correlazione tra pena di morte e deterrenza: in metà degli stati dove la applicano il tasso di omicidi è superiore alla media nazionale, nell’altra metà restano stabili. Nel 2020 in Connecticut e Maine, Stati senza la pena di morte, il numero di omicidi è stato rispettivamente di 1,6 e 3,9 ogni 100mila abitanti. In Mississippi, Missouri e Louisiana, che prevedono la pena di morte, è stato di 10,6; 11,8 e 15,8. Poi c’è il tema razziale. Dal rapporto 2020 del Death Penalty Information Center, da quando nel 1977 sono riprese le esecuzioni, 295 imputati afroamericani sono stati giustiziati per omicidi di vittime bianche, mentre solo 21 imputati bianchi sono stati giustiziati per omicidi di afroamericani. E infine: qual è il grado di certezza aldilà di ogni ragionevole dubbio, quando un condannato a morte si dichiara innocente? Negli ultimi 50 anni negli Usa 193 condannati a morte sono stati riconosciuti innocenti. Venti dopo l’iniezione letale. Se finisci in carcere e sei innocente puoi sempre essere prosciolto ed ottenere un risarcimento, ma se la pena era la morte...Un paese civile condanna i criminali a scontare la pena, anche per tutta la vita, ma non la toglie. L’orrore infinito dei malati di mente condannati a morte di Riccardo Noury* Il Domani, 10 ottobre 2023 Il 10 ottobre ricorrono due giornate internazionali: quella sulla salute mentale e quella contro la pena di morte. Due argomenti all’apparenza lontani, che possono però essere anche intimamente connessi. Come insegnano gli Stati Uniti. Nel 1992, dopo 14 ricoveri a causa di ripetuti attacchi di schizofrenia paranoide, “su suggerimento di Dio” Scott Panetti cessò di prendere le medicine, si rasò i capelli a zero, indossò una divisa militare e sparò ai suoceri, uccidendoli. Si consegnò alla polizia dicendo di aver agito sotto il controllo di un tale “Sergente Cavallo d’acciaio” e con le “risate del Demonio” nelle orecchie. Al processo, nel 1995, si presentò vestito da cowboy, rifiutò l’avvocato e chiese che venissero a testimoniare in sua difesa Gesù Cristo, John Fitzgerald Kennedy, altre 200 persone morte da tempo e anche alcune allora in vita, come papa Giovanni Paolo II e l’attrice Anne Bancroft. Menzionò pure un’altra attrice, la Laura Dern dei numerosi film di David Lynch, sostenendo che con lei avesse avuto il primo rapporto sessuale. La giuria non batté ciglio. Venne condannato a morte. Da allora Panetti, che nel braccio della morte aveva maturato il convincimento che lo stato del Texas volesse ucciderlo per insabbiare le sue denunce contro una rete di pedofili, ha avuto due date di esecuzione, nel 2003 e nel 2014, annullate all’ultimo minuto. Insano di mente - Ci sono voluti decenni prima che, il 28 settembre di quest’anno, un giudice di una corte distrettuale federale, Robert Pitman, stabilisse che Panetti - ora sessantacinquenne - è troppo insano di mente per essere messo a morte: non comprende il motivo della sua condanna né perché le autorità texane vogliano metterlo a morte e la relazione tra le due cose. “Ci sono varie ragioni per vietare l’esecuzione di una persona insana di mente: una di queste è il senso, assai opinabile, del valore retributivo della messa a morte di una persona che non comprende il significato e lo scopo della pena; un’altra è che la società intuisce che un’esecuzione del genere sarebbe semplicemente un’offesa all’umanità”, si legge nella sentenza del giudice Pitman. L’avvocato di Panetti ha plaudito alla sentenza che “vieta così allo stato del Texas di vendicarsi contro una persona che soffre di una grave forma di schizofrenia che gli ha fatto avere un’errata percezione del mondo intorno a lui”. Quella di Panetti non è una storia isolata né eccezionale. Condannati a morte - Secondo le organizzazioni abolizioniste statunitensi, delle 1.577 condanne a morte eseguire dal 1977 al 3 ottobre 2023, almeno 59 hanno riguardato persone affette da varie forme di disturbi mentale al momento dell’omicidio. Raymond Riles è stato nel braccio della morte del Texas dal 1976 fino al 2021, quando finalmente la sua condanna a morte - emessa per l’omicidio di un commerciante di auto usate - è stata commutata in ergastolo. In quei 45 anni è sopravvissuto a tre date di esecuzione, fissate nonostante fosse del tutto nota la storia psichiatrica familiare: lui e sei parenti, prima del 1976, tutti ricoverati a lungo presso strutture di salute mentale. Il 26 giugno 1986, con la sentenza Ford contro Wainwright, riguardante una condanna a morte nello stato della Florida, la Corte suprema federale ha stabilito che non possono essere messe a morte persone che non siano consapevoli dell’imminente esecuzione e delle ragioni per le quali la sentenza viene applicata. Dal punto di vista giuridico, sono “incapaci” o “prive di competenza”. Ma la massima corte ha lasciato ai singoli stati la valutazione su chi rientri o meno nella definizione. Così, sempre nello stato del Texas, si trovano tuttora in attesa dell’esecuzione Clarence Jordan e Syed Rabbani. Jordan, convinto di essere Gesù Cristo, è nel braccio della morte dal 1978. Rabbani, che si descrive come un diplomatico straniero al servizio della Cia ed è autore di numerose denunce contro “tutte le forme di vita nelle galassie” che lo sottopongono a tortura, lo è dal 1988. Contro la pena di morte - Quanti degli oltre 20mila condannati a morte in attesa di esecuzione nel mondo sono nelle condizioni di Panetti, Riles, Jordan e Rabbani? Dagli altri stati in cui ci sono ancora esecuzioni e in cui gli avvocati possono prendere la parola e la stampa può parlarne liberamente (ad esempio Singapore e Giappone), arrivano periodicamente storie di questo genere. Ma non conosceremo mai la reale dimensione della malattia mentale nei bracci della morte di Arabia Saudita, Cina, Iran, Egitto. Nel 2014 questo fu il tema della Giornata mondiale contro la pena di morte, che si celebra ogni anno il 10 ottobre. A distanza di quasi un decennio, sarebbe importante che l’argomento venisse affrontato di nuovo. *Portavoce di Amnesty International Italia Semplificare non aiuta a capire di Dacia Maraini Corriere della Sera, 10 ottobre 2023 L’intelligenza viene spinta a sviluppare strategie di sopravvivenza e per questo si spengono le alleanze e le amicizie fra disuguali. Conosco queste atmosfere in cui l’odio prevale sulla comprensione e la tolleranza. Conosco la paura e il sospetto che nasce ogni volta che si incontra una persona: sarà con noi o contro di noi? Venti di guerra. Aggressività che cresce e si moltiplica. Alcuni fra i più giovani, che hanno antenne sensibili, sembra abbiano subito capito il momento e ci dimostrano che la crudeltà è affrancata e va praticata nel pensiero e nelle azioni per mostrare al mondo la propria piena adesione al momento. Per chi crede ancora nelle parole e nell’incontro anziché nello scontro, la cosa che allarma è la semplificazione. Ogni guerra semplifica: da una parte i nemici da colpire, dall’altra gli amici da difendere. Ogni accordo, confronto, dibattito, scambio viene eliminato perché la vita deve dividersi fra buoni e cattivi. L’intelligenza viene spinta a sviluppare strategie di sopravvivenza e per questo si spengono le alleanze e le amicizie fra disuguali. Conosco queste atmosfere in cui l’odio prevale sulla comprensione e la tolleranza. Conosco la paura e il sospetto che nasce ogni volta che si incontra una persona: sarà con noi o contro di noi? Ma la cosa più spaventosa è che le guerre si stanno trasformando. Non ci sono più eserciti contro eserciti, armi contro armi che, per quanto atroci, ubbidivano a delle regole. La guerra si è trasformata in terrorismo: si colpiscono i più deboli per fiaccare l’animo dei più forti. Si usa la tortura, lo stupro, la rapina, per vincere, psicologicamente prima che fisicamente. È quello che Putin ha fatto a Bucha e che oggi stanno imitando in molte altre parti del mondo, cominciando da Israele.Lo spirito di vendetta prevale su un razionale progetto di pace, le persone diventano corpi di scambio, le prigioni si riempiono di chi non sta al gioco e si anela a un futuro come a una terra desolata su cui spicca una bandiera: quella del vincitore. Coraggiose e intrepide le giornaliste inviate di guerra che ormai sono più degli uomini in prima linea. Cercano di raccontarci la guerra da vicino. Eppure c’è chi nega i loro resoconti come se fossero discorsi di parte. Ma non è più credibile chi rischia la vita per andare ad ascoltare i testimoni piuttosto che dare credito alle parole di chi, stando al sicuro strepita e giudica senza una vera conoscenza? Ho paura che stiamo entrando, come dice il nostro saggio Papa Francesco, nella terza guerra mondiale, che probabilmente sarà molto diversa dalle precedenti, proprio per questo aspetto psicologico e mediatico. Per chi ama le parole e la complessità del pensiero c’è da piangere. Intanto piangiamo i morti innocenti che hanno pagato senza neanche sapere perché. L’orribile caccia all’uomo voluta dai capi di Hamas di Antonio Polito Corriere della Sera, 10 ottobre 2023 Quelle immagini parlano e ci dicono che siamo di fronte a qualcosa di mostruoso: si tratta di odio etnico, la pulsione a eliminare qualcuno per ciò che è, a prescindere da quel che fa. George Orwell, durante la guerra di Spagna, non ci riuscì. Non riuscì ad uccidere il “nemico” che fuggiva davanti a lui senza aver avuto il tempo di vestirsi. “Ero venuto per colpire un fascista, ma un uomo che si regge i pantaloni che stanno per cascargli non è un fascista, è evidentemente un nostro simile, e questo pensiero mi tolse ogni desiderio di sparargli”. Nel 1916, durante la Grande Guerra, qualcosa di analogo accadde a Emilio Lussu sull’altopiano di Asiago. Era riuscito a strisciare fino alla trincea nemica quando un soldato austriaco, ignaro della sua presenza, si era acceso una sigaretta, offrendosi così a un facile tiro. “Quella sigaretta creò un rapporto improvviso fra lui e me... avevo di fronte un uomo. Un uomo! Tirare così a pochi passi su un uomo...come su un cinghiale”. Non sparò. Nel suo ultimo libro Pierluigi Battista cita questi due episodi come il confine, il limite “alla deriva disumana della caccia all’uomo”. Basta che si riveli un barlume di quell’umanità che il nostro nemico condivide con noi (fumare una sigaretta, tenersi su le braghe) per avvertire una barriera morale, l’intimazione a non uccidere un simile, anche se indossa un’uniforme nemica. Ma come si può allora sparare su ragazzi che fuggono, su mamme che tengono stretti a sé i figli, su anziani colti nel sonno, gente che non indossa altro che la stessa pelle dei loro assassini? Si dirà: in tutte le guerre si uccidono i civili. Ed è vero. Ed è atroce. Ma il più delle volte avviene da lontano, indiscriminatamente. Anche l’esercito israeliano uccide civili nei Territori occupati, troppi e troppo spesso. Le guerre sono raccapriccianti innanzitutto per questo, perché gli eserciti uccidono gli innocenti. Ma i soldati non selezionano le loro vittime. Le presentano come “danni collaterali”: è ipocrita, ma è pur sempre la consapevolezza di un limite varcato. E se si scopre che hanno agito oltre i loro doveri militari, per sadismo o imperizia, si affannano a negare, a trovare giustificazioni, pur di coprire la propria colpa. Almeno questo la storia della civiltà umana ha ottenuto: non è lecito uccidere, neanche in guerra, chi non indossa un’uniforme e non minaccia la tua vita. Il terrorismo fuoriesce da questa logica. Chi fa esplodere una bomba sa che sta per uccidere tanti civili innocenti. Ma non li vede in faccia. Non sa chi sono. Li considera carne da macello, numeri, bilanci di vittime da infliggere al nemico, più ne faccio fuori e più ottengo il mio scopo. Sparare a un uomo mentre fugge, come a un cinghiale, è un’altra cosa. Gli esseri umani non sono buoni per natura. Nascono però dotati di impulsi che possono distoglierli dalla violenza, il primo dei quali è l’empatia, che ci spinge a provare il dolore degli altri, a condividerne l’angoscia. È la forza che ha fermato il dito sul grilletto di Orwell e di Lussu. Ciò che è accaduto sabato sul confine della Striscia di Gaza varca quel limite. Non è guerra, e non è neanche terrorismo. È una razzia. Appartiene a un genere di violenza precedente alla civilizzazione umana. È la logica della tribù: cerco, stano e uccido quelli che non fanno parte della mia. È una caccia all’uomo primordiale, proviene da quelli che Steven Pinker nella sua monumentale opera sulla violenza definisce i “demoni interiori” che abitano i bassifondi dei nostri sistemi psicologici profondi, da prima che civiltà e società inventassero l’etica: la volontà predatoria, la dominanza come brama di gloria, la vendetta come spinta moralistica al castigo, il sadismo come piacere per la sofferenza altrui. E l’ideologia, il demone peggiore di tutti, più che mai quando si fonde con la fede e corrompe la religione: “Una visione utopica che giustifica una violenza illimitata nel perseguimento di un bene illimitato”. In questo caso, la distruzione di Israele e la cacciata o la morte di tutti gli ebrei in Medio Oriente. Ciò che è successo sabato ha dunque i connotati della “pulizia etnica”. Mostra che cosa farebbe quel movimento millenarista e fanatico che è Hamas, così radicalmente diverso dalle stesse origini del nazionalismo palestinese, se potesse risolvere a modo suo la “questione ebraica”. Per questo la modalità della loro azione somiglia così da vicino alle razzie naziste nei ghetti ebraici dell’Europa, durante la Seconda guerra mondiale. Quelli prendevano gli ebrei casa per casa e li portavano nei campi di sterminio, per ucciderli su scala industriale con il gas. Questi li prendono casa per casa e li uccidono sul posto. O li fanno ostaggi, per prolungare la tortura loro e delle loro famiglie. Se non si vede questo, se qualcuno in Europa ancora crede e dice che ciò che è avvenuto prima, che le colpe di Israele, che il contesto mediorientale, che la storia delle guerre in Palestina, possano spiegare o addirittura giustificare ciò che ha fatto Hamas, vuol dire che è disposto ad accettare la logica del genocidio all’interno del conflitto politico. Varcando così a sua volta il confine della disumanità. Terrorismo, non guerra. L’errore che condiziona la risposta di Luigi Ferrajoli Il Manifesto, 10 ottobre 2023 Annullare l’asimmetria tra le istituzioni politiche e la criminalità abbassa le prime al livello della seconda. Missili e bombe accrescono l’odio e rafforzano il terrore. La guerra provocata dall’aggressione di Hamas è la conferma di un’ovvietà: la violenza genera solo violenza, l’aggressione violenta e disumana soltanto vendetta e rappresaglia. Vendetta e rappresaglia di cui pagherà un prezzo altissimo il popolo palestinese. Gli attacchi di Hamas sono stati delle terribili azioni criminali, che hanno colpito centinaia di persone inermi e innocenti. Sono stati anche un regalo al premier Netanyahu, dato che hanno tacitato le proteste di piazza contro il suo governo, hanno neutralizzato l’opposizione, hanno fatto dimenticare le tensioni e i conflitti generati dalla sua assurda riforma giudiziaria e i suoi processi per corruzione e gli hanno conferito i pieni poteri. Naturalmente è vero anche il contrario. Queste politiche di Netanyahu, a loro volta, hanno enormemente rafforzato Hamas. La questione di fondo che un approccio pacifista e soprattutto razionale ha il dovere di affrontare riguarda pertanto la natura delle aggressioni, sia pure atroci e altamente organizzate, quali sono state quelle di Hamas. Si è trattato di un atto di guerra o di un atto criminale di terrorismo? Non è facile, in queste ore di angoscia e di orrore per le stragi disumane provocate da Hamas, insistere sull’importanza delle parole. Ma proprio questi orrori impongono di chiarire che le due qualifiche sono tra loro incompatibili perché diverse, anzi opposte sono le risposte che la nostra civiltà giuridica ha apprestato nei confronti dei due fenomeni. A un atto di guerra - quale soltanto gli Stati e i loro eserciti regolari, come insegnano i classici del diritto internazionale, possono compiere - si risponde con la guerra. A un crimine, sia pure gravissimo, si risponde con il diritto, cioè con l’identificazione e la punizione dei colpevoli. Fu un enorme regalo al terrorismo la qualificazione come “atto di guerra”, anziché come crimine efferato, della strage dell’11 settembre 2001, che provocò la risposta della guerra dapprima contro l’Afghanistan e poi contro Iraq, i cui unici effetti furono decine di migliaia di morti innocenti e lo sviluppo del terrorismo jihadista, divampato da allora in tutto il mondo ed elevato, come aspira qualunque terrorismo, al rango di uno Stato in guerra. Fu un altro stupido regalo chiamare “Stato” - “Isis” o “Stato islamico” - anziché semplicemente “organizzazione criminale” il successivo terrorismo jihadista e usare contro di esso, di nuovo, il linguaggio della guerra. Giacché è appunto la “guerra santa” che è voluta dai fondamentalisti, ed è come guerra santa che essi legittimano i loro assassinii e la loro ferocia. Ma la politica non ha imparato nulla dalle tragedie del passato. È così che di nuovo, oggi, è un regalo di Netanyahu alle bande di Hamas qualificare con la parola guerra i loro eccidi terroristici. Chiamare “guerra” un atto criminale e conseguentemente la reazione nei suoi confronti equivale infatti ad annullare l’asimmetria tra le istituzioni politiche e la criminalità e a generare tra esse un’insensata simmetria, la quale abbassa le prime al livello della seconda o, che è lo stesso, innalza la seconda al livello delle prime. La sola risposta razionale, oggi come in passato, dovrebbe essere invece quella asimmetrica - tanto più efficace e delegittimante quanto più asimmetrica - che si conviene ai crimini contro l’umanità: non quindi i missili e i bombardamenti, che provocando morte e terrore tra le popolazioni civili servono solo ad accrescere l’odio e le capacità di proselitismo dei terroristi, bensì le ben più difficili azioni di polizia, attuate naturalmente con mezzi militari adeguati ma dirette soltanto all’identificazione e alla neutralizzazione delle organizzazioni criminali. È poi evidente che se configuriamo il terrorismo come un fenomeno criminale, dovremo anche comprenderne le cause, onde rispondere a esso non solo con i mezzi della repressione ma con politiche idonee a rimuoverne le ragioni. Le origini del terrorismo di Hamas sono assolutamente evidenti. Non si possono tenere milioni di persone, l’intero popolo palestinese, in una condizione di oppressione e di apartheid senza che a un certo punto una parte di questo popolo esploda in forme criminali. È chiaro che la violenza non risolverà mai nulla. Può solo, come l’esperienza insegna, inasprire il conflitto, accrescere gli odi e la volontà di vendetta. La sola soluzione è politica. E qualunque soluzione politica non può che consistere nel capovolgimento della politica dell’attuale destra israeliana: nella promozione della convivenza pacifica, basata sui principi di uguaglianza e di laicità e perciò sul reciproco rispetto di tutte le differenze di identità, siano esse nazionali, o religiose, o politiche o culturali. È la stessa risposta razionale, del resto, che occorrerebbe dare alle tante sfide globali che minacciano il futuro dell’umanità. Naturalmente, come sempre, la pace e l’uguaglianza, le loro condizioni e le loro garanzie sembrano soltanto un sogno. Ciò che, come sempre, il realismo politico preferisce è l’incubo. Emma Bonino: “Intollerabile colpire i civili a Gaza, questi sono crimini di guerra” di Federico Capurso La Stampa, 10 ottobre 2023 L’ex ministra degli Esteri: “Hamas è una organizzazione terroristica ma da vecchia amica di Israele dico no all’escalation di Tel Aviv”. La telefonata con Emma Bonino si apre con un messaggio di “auguri”. Il tumore sembra essere scomparso: “Manca solo l’ultima Tac. Come diceva Napolitano, la cosa peggiore della malattia è la noia, a partire dalla noia delle visite mediche”. Ma l’ex ministra degli Esteri non ha mai smesso di occuparsi di politica. E si mostra sicura sulla scelta di campo: “Hamas è un’organizzazione terroristica, lo è da tempo, e io mi considero una vecchia amica di Israele”, dice. La controffensiva ai danni di Hamas “era prevedibile, ce l’aspettavamo tutti”, eppure, nonostante questo, “mi ha sorpreso che l’escalation da parte dell’esercito di Tel Aviv si sia evoluta in questo modo”. Il modo, spiega Bonino, è “il peggiore di tutti”, perché il governo israeliano in queste ore “nega alle popolazioni palestinesi di Gaza l’accesso ad acqua, cibo, elettricità”. Una ritorsione ingiustificata? “Israele sta assediando Gaza. Ne paga le conseguenze anche la popolazione civile. Lì ci sono anziani, donne e bambini: non è tollerabile. Questi si chiamano crimini di guerra e Netanyahu dovrà risponderne”. Quali conseguenze avrà? “La prima cosa da osservare, in Palestina, sarà la reazione di Al Fatah. È un’organizzazione che ha sempre avuto un atteggiamento più moderato rispetto ai terroristi di Hamas. Se scende in piazza e si mobilita, la protesta rischia di contagiare tutto il mondo arabo, che a quel punto si compatterebbe contro Israele. Esattamente ciò che vuole Hamas”. Teme che da qui si possa allargare il conflitto? “Questo non saprei dirlo, ma è senza dubbio un elemento che non aiuta la de-escalation. Sono giorni in cui aspetto soprattutto di sapere cosa deciderà di fare il Libano, dove Hamas conta sull’alleanza con Hezbollah e dove l’Italia ha un contingente Unifil di 1300 militari”. Hezbollah sostiene di non essere coinvolto in alcuna operazione contro Israele. Vuole starne fuori? “Ci sono piccole schermaglie dimostrative nelle zone contese, ma mi sembra che non abbiano preso ancora una decisione. Il Libano non vorrebbe entrare in guerra, è in una situazione di grande fragilità, ma se ci fosse una scintilla, un errore militare israeliano, allora tutto tornerebbe in bilico. E il nostro contingente sarebbe chiamato a compiti di interposizione”. Gli ostaggi, da una parte e dall’altra, possono essere la chiave di una mediazione? “Quello degli ostaggi è di certo uno strumento di pressione, sia per gli israeliani sia per Hamas. Sarà il punto di partenza di qualunque mediazione, ammesso che le due parti chiedano di essere aiutate al tavolo negoziale. Il dialogo può essere solo un auspicio, per ora”. Esiste il pericolo di una nuova ondata di radicalizzazione islamica in Europa? “Temo che ricominceranno ad esserci attacchi spontanei. È un pericolo di cui si dovrà tenere conto. Se Hamas ha una rete di terroristi in giro per il mondo, dubito che la notte andranno solo a dormire. In Italia non abbiamo mai subito attentati. Negli anni della Prima Repubblica si era dimostrata una certa sensibilità per la questione palestinese, ma da diverso tempo ormai, con i terroristi di Hamas, non è possibile avere alcun tipo di rapporto”. Gli accordi di Abramo, che avevano avvicinato Israele al mondo arabo, sono definitivamente morti? “Stanno naufragando, nonostante i molti piccoli passi compiuti in quella regione negli ultimi anni. Si stava andando verso una normalizzazione dei rapporti tra Israele e paesi come Arabia Saudita, Marocco, Emirati Arabi. Se non si tornerà a camminare in quella direzione, avrà vinto Hamas”. L’Europa che ruolo gioca? “L’Europa ha abbandonato da tempo Israele e tutto il Medioriente. Avrà un ruolo limitato, ma non è la sola. Tutti gli organismi di cooperazione internazionale per la gestione dei conflitti non funzionano. L’altra sera sono rimasta sveglia fino a tardi perché volevo sentire i risultati del Consiglio di sicurezza dell’Onu: non sono stati neppure in grado di fare una dichiarazione congiunta”. Assaf Gavron: “La forza non funziona e alimenta solo il ciclo della vendetta” di Guido Caldiron Il Manifesto, 10 ottobre 2023 Parla lo scrittore israeliano, tra le figure più rilevanti della nuova letteratura del Paese. I suoi romanzi affrontano a vario titolo temi e momenti decisivi della storia israeliana, la sua ultima opera pubblicata in Italia è “Le diciotto frustate”, edito da Giuntina nel 2019. “Nel Paese dominano due sentimenti: chi invoca una reazione dura e altri che sono arrabbiati con Netanyahu e il suo governo che ci ha portati a questo e lo invitano a dimettersi. Le priorità? Ristabilire la sicurezza a Sud, impedire che la guerra si espanda a Nord. Riportare tutti gli ostaggi a casa. E poi la cosa più difficile: cercare una soluzione diversa al conflitto”. Tra le figure più rilevanti della nuova letteratura israeliana, Assaf Gavron, nato nel 1968 ad Arad nel Sud del Paese, è noto per le sue posizioni di sinistra e in favore della pace. Della sua vasta produzione, in Italia sono stati pubblicati i romanzi La mia storia, la tua storia (Mondadori, 2009) e, da Giuntina, Idromania (2013), La collina (2015) e Le diciotto frustate (2019) che affrontano a vario titolo temi e momenti decisivi della storia israeliana. Partiamo dal suo stato d’animo, l’abbiamo vista commuoversi mentre parlava in tv: cosa prova in questo momento? Dopo lo shock iniziale, è comunque difficile tornare a concentrarsi sulla vita quotidiana. Tutto sembra sconnesso e sottosopra. E c’è ancora molta incertezza su dove si andrà e quanto tempo ci vorrà. Dal Sud del Paese continuano a riversarsi su di noi delle storie terribili e credo che andrà avanti così anche nel prossimo futuro. La situazione degli ostaggi influenzerà tutto, ma l’intero contesto resta ancora molto confuso. Guardandosi intorno, quale le sembra sia il sentimento dominante tra i suoi concittadini e quali le domande o le richieste che le persone pongono in questo momento? Per dirla semplicemente, direi che si esprimono soprattutto due sentimenti. C’è chi invoca vendetta e che “si spiani a zero Gaza” e altri che sono arrabbiati con Netanyahu e con il suo governo che ci ha portati a tutto questo, dopo che fin dall’inizio ha prodotto problemi, e che lo invitano a dimettersi. Netanyahu ha annunciato una reazione dura contro Hamas e Gaza, non le chiedo cosa si aspetta possa succedere, ma cosa vorrebbe facesse il governo israeliano e di cosa crede ci sia più bisogno? La cosa di cui ora c’è più bisogno è ristabilire la sicurezza per la popolazione del Sud del Paese e impedire che la guerra si espanda a Nord. L’esercito deve prendere il controllo dell’area e respingere Hamas a Gaza. In secondo luogo, affrontare la situazione degli ostaggi e riportare tutte le persone a casa, anche a caro prezzo. In terzo luogo, c’è la cosa più difficile, e forse impossibile, vale a dire cercare una soluzione che non sia basata sulla forza. Perché abbiamo provato con la forza per troppi anni, ma non ha funzionato. A poche ore dall’attacco di Hamas gli organizzatori hanno rinunciato alle manifestazioni previste contro la riforma della giustizia di Netanyahu e l’opposizione si è stretta ai vertici del Paese: tra le vittime di quanto accaduto c’è anche il movimento di protesta? Non penso che quelle proteste siano così rilevanti in questo momento, perché stiamo lottando per la sopravvivenza. E quando la situazione si sarà calmata forse non ce ne sarà più bisogno perché credo che questo governo non sopravvivrà e, se anche lo farà, non oserà più promuovere quella riforma giudiziaria. In molti evocano la guerra dello Yom Kippur del 1973 e il modo in cui anche all’epoca Israele non vide arrivare la minaccia: la dimostrazione che un sistema sofisticato di controllo e il peso che i militari hanno nel Paese non è servito a proteggere le persone, spingerà ad affrontare altrimenti il confronto con i palestinesi? Lo spero. Anche se penso che ad un altro modo, non basato sulla forza, di affrontare le questioni. non credano abbastanza israeliani. Troppi miei concittadini credono che il ciclo infinito della vendetta sia l’unico modo possibile per vivere qui. Forse il 7 ottobre 2023 spingerà da questo punto di vista a qualche cambiamento, affinché sempre più israeliani si convincano del contrario. Per scrivere “La collina” ha frequentato un insediamento di coloni nei Territori occupati: quanta parte del problema è rappresentato da tali realtà e come riassorbire queste spinte messianiche all’interno della società israeliana? Rappresentano gran parte del problema. Credo che gli insediamenti e il sostegno che hanno avuto da parte del governo negli ultimi dieci mesi (un esecutivo che rappresenta l’altra faccia della medaglia che schiacciando i palestinesi) siano una delle ragioni principali dell’attacco di sabato. Spero che ora ci libereremo dei ministri-coloni. Ma il dialogo con i palestinesi potrebbe richiedere più tempo. Anche in questo momento tragico gli scrittori e gli intellettuali israeliani esprimono opinioni di buon senso e che guardano alla pace, ma quanto sono ascoltate le loro voci in una società che si è data un governo di estrema destra? Come dicevo, probabilmente la maggior parte degli israeliani cerca vendetta dopo aver visto l’orribile barbarie dei terroristi di Hamas contro i civili israeliani: bambini, donne, anziani. Ma penso anche che la maggior parte degli israeliani sappia che questo governo è inutile, estremista e pericoloso - sono stati loro a provocarci questo disastro - e che quindi la nostra voce venga ascoltata.