“Case di reinserimento”, la sfida a Nordio per combattere il sovraffollamento di Angela Stella L’Unità, 9 novembre 2023 La proposta di legge del segretario di +Europa, sottoscritta da tutte le opposizioni tranne i 5S, prevede l’istituzione di strutture territoriali per ospitare fino a 15 persone con meno di 12 mesi da scontare. “Costruire più carceri non serve, la nostra Costituzione prevede la risocializzazione”. Risolvere il problema del sovraffollamento delle carceri andando nella direzione della risocializzazione dei detenuti, attraverso la realizzazione di Case Territoriali di Reinserimento sociale che possano ospitare dalle cinque alle quindici persone tra chi deve scontare una pena o pena residuale inferiore a un anno. È l’obiettivo della proposta di legge per la riforma delle carceri italiane, presentata ieri in conferenza stampa alla Camera dal segretario di Più Europa Riccardo Magi e sottoscritta da Benedetto della Vedova (Più Europa), Deborah Serracchiani e Federico Gianassi (Pd), Enrico Costa (Az), Roberto Giachetti (Iv), Luana Zanella e Devis Dori (Avs). Insomma tutta l’opposizione, tranne i Cinque Stelle. “In un momento in cui il Governo è ossessionato da norme sempre più criminogene, per di più approvate con decreto” - ha esordito l’onorevole Magi - le carceri oggi “sono in una condizione tale da rendere impossibile l’attuazione della Costituzione, da non consentire la risocializzazione dei detenuti, ovvero la finalità della detenzione. L’idea è semplice ma urgente”, ha proseguito il radicale. Al 31 dicembre 2022 si trattava di oltre 7.200 persone in carcere, attualmente in aumento, che sarebbero destinatari di questa riforma, mentre il sovraffollamento è arrivato al 125%, come ha ricordato il Garante dei Detenuti del Lazio Stefano Anastasia che ha aggiunto: “Il Governo è pronto a stanziare 100 milioni per nuovi posti detentivi. Forse ne avremo mille tra dieci anni. Se invece quella somma fosse destinata alla Regioni potremmo accogliere fuori dal carcere 10mila persone, sarebbe la vera soluzione pragmatica al sovraffollamento”. Per il responsabile Giustizia di Azione, Enrico Costa, c’è un altro aspetto su cui riflettere: “In carcere al momento il 30 per cento dei detenuti è presunto innocente, perché ancora non è arrivata una sentenza definitiva. Anche questa tipologia di persone dovrebbe essere ospitata in strutture diverse da quelle del carcere con i definitivi”. Dori invece ha legato la questione a quella dei suicidi: “Con questa proposta, accogliendo i detenuti in piccole strutture saremmo capaci di prepararli più facilmente al ritorno nella società, che spesso li spaventa portandoli a togliersi la vita paradossalmente a pochi mesi dal fine pena”. Tale prospettiva si scontra naturalmente con quella del sottosegretario alla giustizia Andrea Delmastro delle Vedove che due giorni fa, nell’annunciare un impegno economico di Mit e Ministero della Giustizia per 166 milioni relativi a 21 interventi di edilizia penitenziaria, ha specificato che “Il sovraffollamento carcerario si affronta con l’edilizia penitenziaria e non con i soliti provvedimenti svuota carceri a cui ci hanno abituato i Governi passati che erodono la certezza della pena, aumentano l’insicurezza sociale e non affrontano strutturalmente il tema del sovraffollamento”. Gli ha replicato Riccardo Magi: “Io di provvedimenti svuota-carcere non ne ho mai visti. La soluzione di puntare sull’edilizia penitenziaria non è efficace, sono anni che viene proposta questa non soluzione senza mai ottenere risultati sul fronte della qualità e dell’efficacia della pena detentiva. E ricordo che la nostra Costituzione prevede il reinserimento sociale”. A Delmastro ha replicato anche il capogruppo dem in Commissione giustizia, l’onorevole Gianassi: “Il centrodestra è da un anno al Governo, ma per ora ha fatto solo annunci e nulla di concreto, mentre la situazione detentiva peggiora sempre di più”. Per la responsabile Giustizia del Pd Deborah Serracchiani, che definisce le carceri oggi in Italia “una discarica sociale”, “il tema del carcere, delle misure alternative e dell’esecuzione della pena sembra non essere contingente. Noi crediamo nel fine rieducativo della pena e su questo convergiamo”, ha detto riferendosi agli altri firmatari. La pdl “è uno strumento prezioso che speriamo possa essere patrimonio comune di opposizioni, maggioranza e governo. È una sfida, prima ancora culturale, che porteremo a Nordio del quale, non molto tempo fa, abbiamo apprezzato le posizioni. Sperando che non abbia cambiato idea, con questa pdl gli tendiamo la mano e auspichiamo che ci dica che ben volentieri accetta l’aiuto”. Per Franco Corleone, garante dei detenuti di Udine, “Nordio non dovrebbe essere contrario, perché aveva già commentato che sarebbe assurdo evadere a pochi mesi dalla fine della pena”. Nuovi fondi per l’edilizia carceraria. Ma la crisi continua... di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 9 novembre 2023 Il Comitato interministeriale sull’edilizia carceraria, presieduto dal vicepresidente del Consiglio e ministro Matteo Salvini, ha recentemente approvato l’assegnazione di 166 milioni di euro stanziati dal Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti per ristrutturare le carceri italiane. Questa iniziativa, che mira a migliorare la sicurezza degli istituti penitenziari e le condizioni di vita dei detenuti, non è priva di critiche, soprattutto in seguito ai recenti eventi alluvionali che hanno colpito alcune strutture carcerarie, come nel caso del carcere di Sollicciano. L’investimento, distribuito in varie regioni italiane, prevede interventi significativi in diversi istituti penitenziari. Milano San Vittore, Brescia- Verziano, Carcere di Forlì, San Vito al Tagliamento e altre prigioni beneficeranno di fondi per miglioramenti strutturali, sicurezza e adeguamento funzionale. Inoltre, alcune carceri toscane riceveranno finanziamenti mirati, con progetti che vanno oltre il semplice restauro delle infrastrutture. In particolare, Sollicciano, una delle carceri coinvolte, riceverà quasi 500mila euro per la realizzazione di un laboratorio finalizzato a corsi di formazione per pellettieri, in collaborazione con importanti case di moda. Questo progetto non solo contribuirà al reinserimento sociale dei detenuti ma rappresenta anche un passo verso la riqualificazione professionale, offrendo loro opportunità formative significative. Tuttavia, nonostante gli sforzi per migliorare le condizioni di vita dei detenuti, la recente alluvione ha evidenziato le vulnerabilità strutturali del sistema carcerario. Sollicciano, nonostante gli investimenti precedenti di oltre 11 milioni di euro in efficientamento energetico, nuove facciate, campi da calcetto e altre migliorie, è stata colpita duramente dalle piogge torrenziali, tanto da richiedere lo sfollamento del reparto maschile. L’evento ha sollevato gravi preoccupazioni riguardo alla sicurezza delle strutture carcerarie esistenti. Il segretario generale della Uil Pa polizia penitenziaria, Eleuterio Grieco, ha sottolineato la necessità di un’inchiesta approfondita. Secondo Grieco, non è sufficiente investire in ristrutturazioni straordinarie quando alcune carceri richiedono una demolizione e una ricostruzione completa. Ha sottolineato che Sollicciano, in particolare, presenta problemi come l’infestazione di blatte e cimici, oltre alle condizioni igieniche inadeguate che richiedono cure frequenti nelle infermerie. Lo stesso sindaco Dario Nardella, un anno e mezzo fa, nel corso di una visita aveva detto che è necessario “ricostruire da zero questa struttura”. Ma pensare che la soluzione delle criticità penitenziarie si risolvano unicamente con l’investimento nell’edilizia carceraria, è da miopi. Rita Bernardini dell’associazione Nessuno Tocchi Caino, ha lanciato un grido d’allarme in seguito alla notizia del 58° suicidio avvenuto nel carcere di Arghillà a Reggio Calabria. La tragica morte di un detenuto mette in evidenza una crisi crescente nel sistema carcerario italiano, che sta attraversando una fase di grave sovraffollamento. Secondo Bernardini, la popolazione carceraria italiana ha fatto un balzo in avant i impressionante, raggiungendo quasi sessantamila detenuti. In soli dodici mesi, il numero di persone dietro le sbarre è aumentato di 3.480, un dato allarmante che non può essere ignorato. Mentre la crisi si aggrava, il governo e il Parlamento sembrano che puntino esclusivamente nell’edilizia. Eppure la débâcle dell’esecuzione penale, come afferma Bernardini, è sotto gli occhi di tutti coloro che vogliono vedere la realtà della situazione e che non intendono voltarsi dall’altra parte di fronte a questa tragedia umana. Il sistema carcerario italiano è in uno stato di crisi profonda, con prigioni sovraffollate che non solo mettono a rischio la sicurezza dei detenuti ma anche la loro salute mentale. Il problema non è solo il sovraffollamento, ma anche l’accesso limitato ai servizi essenziali, come l’assistenza sanitaria e le opportunità di riabilitazione. Tutto ciò rende impossibile fornire un adeguato supporto psicologico e sociale ai detenuti, aumentando così il rischio di problemi mentali e comportamentali, tra i quali il suicidio. Per quanto riguarda quest’ultimo fenomeno, è sbagliato collegarlo esclusivamente con il discorso sovraffollamento. Ci viene in aiuto l’analisi del garante nazionale delle persone private della libertà, mettendo in luce un fenomeno grave e complesso che non può essere trascurato e che, ovviamente, ha poco a che fare con l’ennesimo investimento nell’edilizia penitenziaria. Nel corso dell’anno precedente, il tasso di suicidi in carcere è risultato essere 18 volte superiore rispetto a quello registrato nella società esterna, un dato che richiede una seria riflessione da parte di tutta la collettività. Le risposte a questa problematica sono tutto tranne che semplici e coinvolgono l’intera società e le sue fondamenta culturali. Come evidenziato dal Garante nazionale, molti casi di suicidio si verificano nelle prime settimane di detenzione e persino poco tempo dopo la liberazione, specialmente per coloro che hanno trascorso lungo tempo dietro le sbarre. È estremamente complesso, se non addirittura improprio, collegare questi atti estremi alle sole condizioni edilizie, soprattutto quando sono stati sperimentati per un periodo prolungato e quando la liberazione sembra ormai prossima. È più sensato attribuirli alla mancanza di prospettive e allo stigma sociale che spesso colpisce coloro che escono dal carcere, un problema di cui l’intera società esterna è responsabile. Dall’altro canto, come già riportato ieri su Il Dubbio, Riccardo Magi di + Europa ha presentato ieri alla Camera una proposta di legge sulle case territoriali di reinserimento sociale. La proposta si concentra sulle “case territoriali di reinserimento sociale”, strutture alternative al carcere progettate per accogliere detenuti che stanno scontando una pena detentiva residua non superiore a dodici mesi. Secondo i dati aggiornati al 31 dicembre dell’anno scorso, si tratta di circa 7.200 persone. L’obiettivo principale di questa proposta è quello di implementare il principio costituzionale della finalità rieducativa della pena. Le nuove strutture, con una capacità limitata di cinque a quindici persone ciascuna, verrebbero istituite in collaborazione con la Conferenza Stato- Regioni e i Comuni coinvolti. In queste case, verrebbero svolti lavori di pubblica utilità e progetti educativi che coinvolgono figure quali educatori, psicologi, assistenti sociali e altri professionisti del settore. Inoltre, verranno attuate attività cogestite con enti del terzo settore, rafforzando così il tessuto sociale e contribuendo attivamente al reinserimento dei detenuti nella società. Questa proposta ha ricevuto l’appoggio di diverse figure politiche, inclusi esponenti del Partito Democratico, Azione, Avs e Più Europa. Anche l’uscente Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, presieduto da Mauro Palma, ha riconosciuto l’opportunità di istituire tali strutture di responsabilità territoriale, sottolineando l’inadeguatezza della stragrande maggioranza delle carceri italiane nel garantire un efficace processo di reinserimento sociale per i detenuti. Concentrarsi esclusivamente sull’investimento nelle carceri esistenti non basta. Non risolve il vero problema dell’esecuzione penale. Sanità penitenziaria, al via cabina di regia Giustizia-Salute gnewsonline.it, 9 novembre 2023 Nella mattinata di oggi il Sottosegretario di Stato alla Giustizia con delega al Trattamento dei detenuti e alla Giustizia minorile e di comunità, Senatore Andrea Ostellari, è stato ricevuto dal Ministro della Salute, Orazio Schillaci, presso gli uffici di Lungotevere Ripa. Ostellari e Schillaci hanno concordato sulla necessità di avviare una cabina di regia interministeriale sui temi della sanità penitenziaria, in grado di intervenire, laddove necessario, per adeguare i servizi erogati alle mutate esigenze dell’utenza. La cabina di regia sarà composta da tecnici indicati dal Ministero della salute e dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. “Ringrazio il Ministro Schillaci per la sensibilità dimostrata e per aver espresso la volontà di rinforzare la collaborazione fra Ministero della Salute e Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria”, ha commentato Ostellari. Negli ultimi dieci anni l’utenza delle nostre carceri è radicalmente cambiata. Molti detenuti assumono ansiolitici, presentano gravi forme di morbilità collegate anche alla dipendenza da sostante stupefacenti e a sindromi psichiatriche non sempre diagnosticate. Almeno la metà delle aggressioni ai danni degli agenti di Polizia Penitenziaria e del personale avviene durante gli spostamenti fra carcere e strutture sanitarie esterne. Per far fronte a queste evidenti criticità, insieme al capo Dap, Giovanni Russo, abbiamo chiesto al Ministro Schillaci di attivare una cabina di regia operativa sulla sanità penitenziaria. L’obiettivo è quello di rivedere progressivamente l’organizzazione e l’erogazione dei servizi, garantendo maggiore sicurezza e dignità anche al personale medico sanitario”. Giustizia per Beniamino Zuncheddu di Luigi Manconi La Repubblica, 9 novembre 2023 Se avete oltre trent’anni provate a immaginare che la grandissima parte della vostra vita (più di tre decenni) sia trascorsa all’interno di un pozzo profondo, di un buco nero, di un abisso insensato. E pensando a quella vertigine leggete di Beniamino Zuncheddu, la cui vicenda è meno singolare di quanto si creda. Infatti, la condanna di una persona innocente non è un evento così raro, specialmente in alcuni Paesi dove il tasso di carcerazione è assai elevato, come negli Stati Uniti. Fece scalpore, tra le tante, la storia di Anthony Ray Hinton: arrestato in Alabama nel 1985 fu condannato alla pena capitale con l’accusa di duplice omicidio. Hinton, che da sempre ha negato ogni responsabilità, visse per trent’anni nel braccio della morte. Nel 2015, infine, grazie a nuovi esami balistici, venne dichiarato innocente e scarcerato. “Ringrazio - disse una volta libero - tutti coloro che, da fuori, hanno mantenuto alta l’attenzione sulla mia storia, per tutti quelli che, invece, tanto hanno fatto per porre fine alla mia vita sarà Dio a giudicare”. In Italia la pena di morte fu abolita definitivamente, anche dal codice militare, nel 1994, ma continuano a verificarsi numerose ingiuste detenzioni. Secondo l’ultimo Report dell’Associazione Errori Giudiziari, in Italia nel 2022 sono stati accertati 539 casi di ingiusta detenzione e 8 di veri e propri errori giudiziari (ossia persone condannate in via definitiva e poi rivelatesi innocenti in seguito a processo di revisione). Tra le varie storie potrebbe esserci quella di Beniamino Zuncheddu, detenuto da trentatré anni in Sardegna, la cui storia è stata portata alla luce dalla Garante regionale delle persone private della libertà personale Irene Testa, tesoriera del Partito Radicale. Zuncheddu fu arrestato nel 1991 con l’accusa di aver ucciso tre pastori. L’unico testimone in un primo momento dirà di non aver visto in volto l’uomo, poiché coperto da passamontagna, ma poi ritratterà accusando Zuncheddu. Questi, condannato all’ergastolo, ora ha 58 anni e si è sempre dichiarato innocente. Tre anni fa la Procura generale ha riaperto il caso e il super testimone, senza sapere di essere intercettato, ha ammesso che la foto di Zuncheddu gli venne mostrata dal poliziotto che indagava sul caso prima (ovvero in anticipo rispetto al riconoscimento ufficiale). “Sanno la verità”, disse alla moglie. Nel frattempo, la macchina della giustizia si muove con grandissima lentezza e Zuncheddu, denunciano i familiari, è sempre più sfibrato dall’attesa. La decisione spetta alla Corte d’Appello di Roma che in questi mesi sta riesaminando il caso. Trentatré anni dopo. Oumar, 21 anni morto in carcere. Un presidio a Bergamo per chiedere “perché” Corriere della Sera, 9 novembre 2023 Un'interpellanza sarà presentata alla Camera dal deputato bergamasco Devis Dori. Il deputato Devis Dori ha depositato un’interrogazione parlamentare per chiedere al Ministero della Giustizia di fare chiarezza su ogni aspetto relativo alle vicende che hanno portato alla morte del Oumar Dia, 21 anni, nato e cresciuto a Fiorano al Serio. “La tragica vicenda che ha portato alla morte di Oumar il 26 ottobre scorso nell’ospedale di Rozzano è incredibile e inquietante - dice Dori, deputato di Alleanza Verdi e Sinistra, insieme ad Alfredo Di Sirio, Coordinatore provinciale Sinistra Italiana e Oriana Ruzzini, consigliera comunale di Bergamo-. Oumar infatti si trovava sotto la custodia dello Stato, in quanto da giugno 2023 era detenuto nel carcere di Bergamo per scontare una condanna per il furto di uno smartphone avvenuto nel gennaio 2020. Successivamente, a metà ottobre, è stato condotto nel carcere di Opera, in provincia di Milano, apparentemente senza effettiva motivazione e comunque senza preavvisare i familiari. Il 21 ottobre Oumar era nell’ospedale di Rozzano già in gravi condizioni: cos’è successo?”. Secondo il deputato bergamasco “l’intera vicenda lascia aperti molti quesiti che hanno bisogno di risposte, quelle risposte che a oggi nessuna autorità pubblica ha dato ai familiari, che hanno visto la perdita del loro caro mentre era in stato di detenzione. Per questo motivo è necessario dare delle spiegazioni. Ci chiediamo ad esempio: perché a metà ottobre Oumar è stato trasferito dal carcere di Bergamo a quello di Opera? perché dopo pochi giorni è stato portato dal carcere di Opera all'ospedale di Rozzano? Di che cosa è morto Oumar? perché i familiari non sono stati tempestivamente informati di ogni trasferimento? È inaccettabile che un giovane di 21 anni possa morire in questo modo mentre è sotto la custodia dello Stato ed è grave in una democrazia l’assenza di trasparenza su una vicenda come questa”. Europa Verde e Sinistra Italiana quindi parteciperanno al presidio di sabato 11 novembre alle 15 a Bergamo in Piazzale Marconi, per chiedere verità e giustizia sulla morte di Oumar Dia e per portare vicinanza e solidarietà ai suoi famigliari. Giustizia e Pnrr, nessun trionfalismo su quei numeri di Sabino Cassese La Repubblica, 9 novembre 2023 L’intervento dell’ex ministro e giudice costituzionale dopo l’articolo apparso su Repubblica: “È trionfalista chi scrive che non possiamo lamentarci dei risultati raggiunti?”. Caro Direttore, Tito Boeri e Roberto Perotti, nell’articolo intitolato “Pnrr, i veri numeri sulla giustizia” pubblicato su Repubblica il 6 novembre scorso affermano che io avrei calcolato male i risultati raggiunti dal Pnrr in materia di giustizia, sostengono che l’arretrato è diminuito meno dell’1%, che la durata dei processi è diminuita dell’1% e che “bisogna misurare i risultati correttamente”. Chiudono criticando i trionfalismi. Nel mio articolo pubblicato sul Corriere della Sera del 31 ottobre scorso, lamentavo che sul Pnrr si è passati dall’euforia al pianto e osservavo che “finora, non possiamo lamentarci. Un buon esempio è costituito dai dati relativi alla giustizia. Il Piano ha messo al centro l’idea che la riforma debba servire al Paese, non ai giudici, e quindi assicurare decisioni sollecite. La durata dei processi civili è stata ridotta di quasi il 20% e di quelli penali di quasi il 30%. Per gli arretrati della giustizia può dirsi lo stesso, perché nei tribunali la riduzione è del 20%, nelle Corti di appello di quasi il 34%”. Continuavo osservando che “i successi del Piano nazionale di ripresa e di resilienza vanno misurati anche in altro modo”, per la lezione di metodo e per il modo in cui si è realizzato il “vincolo esterno”, scrivendo, in conclusione, che “non tutto è fatto, vi sono ancora molti “colli di bottiglia” da eliminare e molti problemi aperti”. Una semplice consultazione del sito del ministero della Giustizia, “Monitoraggio del Pnrr” consente di leggere queste testuali parole: “Le percentuali di riduzione sono calcolate rispetto ai corrispondenti valori del 2019 (c.d. Baseline)”. La “baseline”, cosiddetto arretrato statico, è stata concordata con la Commissione europea. Su questa base è infatti fondata la “Relazione sul monitoraggio statistico degli indicatori Pnrr, primo semestre 2023” preparata il 12 ottobre 2023 dalla Direzione generale di statistica del ministero della Giustizia. Se gli obiettivi sono definiti rispetto a quella data è rispetto a quella data che si possono misurare correttamente i risultati. Infine, Boeri e Perotti criticano il trionfalismo; ma è trionfalista chi scrive che “non possiamo lamentarci dei risultati raggiunti”? La replica di Boeri e Perotti Anche noi abbiamo letto il documento del ministero, da cui abbiamo tratto i dati ufficiali. Il nostro punto è molto semplice. Il Pnrr è intervenuto sulla giustizia dal 2022 in poi: tutto quello che è successo prima del 2022 non può essere attribuito al Pnrr. La Commissione può adottare la baseline del 2019, ma non può far viaggiare il tempo all’indietro. Su questo speriamo siano tutti d’accordo. Se si vuole sperare di misurare i “risultati”, gli “effetti” del Pnrr sulla giustizia bisogna quindi confrontare quello che è successo dal 2022 in poi con la situazione pre-2022. Se si fa questo si scopre che dal 2022 in poi non c’è stato praticamente alcun progresso. Ci stupisce che Sabino Cassese non misuri il successo del Pnrr sulla base dei risultati da questo effettivamente conseguiti. (Tito Boeri e Roberto Perotti) Nordio: nuovo Codice di procedura penale contro la lentezza dei processi di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 9 novembre 2023 Il ministro al question time della Camera: “La riforma non soltanto tenderà ad abbreviare i processi ma a evitare che una persona resti sotto la graticola della giustizia per un tempo indeterminato e indefinito”. “La lentezza del processo penale è intollerabile” e superarla è “una delle nostre priorità. Stiamo intervenendo con correttivi sul decreto Cartabia, ma soprattutto abbiamo istituito una Commissione che nei prossimi sei mesi provvederà a redigere un n uovo progetto di codice di procedura penale. Lo ha detto il ministro della Giustizia Carlo Nordio, rispondendo oggi al question time della Camera. Il deputato interrogante Pino Bicchielli (Noi Moderati) ha ricordato che la durata totale di un processo penale nel 2022 è stata stimata intorno ai quattro anni e mezzo che in alcuni fori soprattutto nel Mezzogiorno arriva anche a superare i sei anni. Un dato questo che parrebbe almeno parzialmente superato dal monitoraggio pubblicato ieri da Via Arenula , relativo al primo semestre 2023, secondo cui la durata media di un processo penale, in tutte le sue fasi, è scesa al di sotto della soglia dei mille giorni, in linea con l’obiettivo finale concordato con la Commissione europea, consistente nella iduzione del 25% della durata dei processi penali entro giugno 2026. Per Bicchielli il cittadino “rischia di subire un processo interminabile a causa di un utilizzo semplicistico delle proroghe dei tempi delle indagini e delle lungaggini derivanti da eventuali incompetenze territoriali”, per il quale esiste ora il rinvio pregiudiziale in Cassazione previsto dalla riforma Cartabia. “Justice delayed, justice denied, dicono gli americani” ha proseguito Nordio dicendo di essere d’accordo e anzi di voler andare oltre. “È vero però - ha spiegato - che la riforma mirava e mira ad evitare che certi processi nascano malati per incompetenza e vengano poi travolti da una sentenza di incompetenza che li fa ripartire da capo. Quindi si tratta di una specie di giudizio preventivo che effettivamente rischia, nella fase preliminare, di allungare i processi, ma che nel complesso potrebbe ridurne la durata”. In ogni caso, ha proseguito, anche questo è oggetto di monitoraggio “e faremo i conti alla fine se valga la pena di mantenerla oppure di rivederla”. “Il codice di procedura penale, ha aggiunto, è un elemento che deve essere omogeneo, non può essere ritoccato mattone a mattone, ma deve essere rifatto secondo criteri di sistematicità”. “Esistono varie ragioni - ha poi affermato Nordio - per le quali il nostro processo e soprattutto le indagini preliminari sono estremamente, intollerabilmente lunghe nei confronti di una persona. È il principio che noi chiameremmo di clonazione del processo. Quando il pubblico ministero termina un’indagine chiede l’archiviazione e magari la ottiene, mantiene nel suo ufficio una piccola parte di quel fascicolo - cosiddetto “clonato” - e riprende le indagini sulla stessa persona”. “Questa - ha concluso Nordio - è una situazione illogica e intollerabile che nella riforma che noi stiamo progettando del nuovo codice di procedura penale, non soltanto tenderà ad abbreviare i processi ma a evitare che una persona resti sotto la graticola della giustizia per un tempo indeterminato e indefinito”. Magistratura onoraria in fuga dall’incertezza di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 9 novembre 2023 Non solo fuga dall’avvocatura. La storia di Livio Cancelliere è emblematica: non svolgerà più le funzioni di giudice onorario. La decisione dell’avvocato del Foro di Parma è irrevocabile. Il motivo delle sue dimissioni risiede nella scarsa considerazione che il legislatore e il ministero della Giustizia stanno dedicando alla magistratura onoraria, costretta a vivere in una situazione di incertezza rispetto a varie questioni, come lo status riconosciuto ai magistrati onorari, la natura e l’entità dei loro compensi. Nell’estate del 2021 Cancelliere si rese protagonista di una singolare iniziativa di protesta. Raggiunse Roma a piedi da Parma per parlare con l’ex ministra della Giustizia, Marta Cartabia, e sottoporle una serie di criticità riguardanti il lavoro quotidiano nelle aule dei tribunali dei magistrati onorari. “Dal 2021 ad oggi- spiega al Dubbio Livio Cancelliere - nulla è cambiato. La decisione delle mie dimissioni è stata presa a ragion veduta. Se devo pensare di continuare la mia attività fino all’età di 70 anni, è necessario avere anche delle certezze. In assenza di queste si tirano le somme e si fanno altre scelte. È impensabile poter continuare a svolgere il lavoro di Got in una situazione di totale incertezza in relazione al tempo di impiego che ci viene richiesto. Le certezze, sempre più sbiadite, non riguardano solo le condizioni di lavoro, ma anche quelle economiche. Sono questi gli aspetti che mi hanno fatto prendere una decisione ben precisa”. I giudici onorari hanno atteso negli ultimi mesi una inversione di rotta. Speranze che, però, si sono infrante anche con l’arrivo a palazzo Chigi di Giorgia Meloni. “Nella legge finanziaria - commenta Cancelliere - manca la definizione di retribuzione. Anche questo governo si comporta allo stesso modo degli altri esecutivi. Eppure, in passato, alcuni esponenti del governo, quando erano all’opposizione, si sono spesi molto per portare avanti le istanze della magistratura onoraria. e temo che non lo saremo neppure in futuro, una priorità. Con la riforma Cartabia c’è stata una stabilizzazione, non saremo più pagati a cottimo, ma occorrono più sforzi”. Proprio oggi Cancelliere avrebbe dovuto svolgere il colloquio per la stabilizzazione davanti alla commissione composta dal presidente del Tribunale di Parma, da un avvocato e da un altro giudice. Diserterà l’appuntamento. La decisione di lasciare la magistratura onoraria è stata presa ed è irrevocabile. “Non vedo - conclude l’ex Got - altre possibilità. La mia è stata una decisione molto ponderata, frutto di una attenta riflessione. Non trovo alcuna convenienza nella prosecuzione del mio lavoro come giudice onorario. Mi dedicherò in via esclusiva alla professione forense. Tanti colleghi, che da anni lavorano con abnegazione, mi hanno espresso la loro vicinanza. Lo stesso anche da parte di diversi magistrati togati. Spero che l’attenzione verso la magistratura onoraria continui ad essere sempre alta, dato che il contributo fornito alla giustizia italiana è importante”. Sul caso Cancellieri si è espressa Assogot, associazione dei magistrati onorari di tribunale. “Non possiamo più tacere - si legge in una nota - l’assurda e illiberale legislazione in tema di magistratura onoraria. In questi mesi decine di colleghi decidono di lasciare la magistratura onoraria per non cedere al ricatto della rinuncia tombale a ogni diritto pregresso e per l’assoluta incertezza della “contropartita”. Infatti, a distanza di due anni dal cosiddetto “emendamento Cartabia”, nessuna norma ha chiarito quale sia lo status dei magistrati onorari, quale la natura e l’entità del loro “compenso”, quali gli obblighi e la prestazione lavorativa cui sono concretamente tenuti, quale il regime previdenziale pregresso e futuro”. La vicenda di Cancelliere preoccupa non poco Assogot: “L’ultimo clamoroso caso di abbandono è quello del collega Livio Cancelliere, nostro associato e coordinatore dell’Emilia Romagna, al quale esprimiamo tutta la nostra stima e amicizia, ringraziandolo per averci indicato e aver percorso il cammino verso un sogno di giustizia, che, purtroppo, non si è realizzato. Lasciare che professionisti di valore come Livio siano costretti ad abbandonare la funzione che per decenni hanno rivestito con competenza ed onore denota non solo un’assoluta mancanza di rispetto per le persone, ma anche la violazione delle più elementari tutele del lavoro e, soprattutto, rappresenta il sintomo evidente di una giustizia malata, incapace di valorizzare le sue migliori risorse”. Carcere per chi non manda figli a scuola e pene dure per minori: dl Caivano è legge di Tommaso Coluzzi fanpage.it, 9 novembre 2023 Con il voto della Camera di ieri, il decreto Caivano è stato convertito definitivamente in legge: dal carcere per i genitori che non mandano i figli a scuola alle pene più dure per i minori che commettono reati, il dl nato per frenare il degrado nel comune napoletano è diventata una norma molto più ampia. Con 156 favorevoli, 66 contrari e 36 astenuti, ieri la Camera dei deputati ha dato il via libera definitivo al decreto Caivano. A due mesi dall’approvazione in Consiglio dei ministri, avvenuta sull’onda emotiva dei terribili fatti di cronaca accaduti al Parco Verde, il testo è ora parte dell’ordinamento italiano. Le misure, nonostante il nome che ha preso il provvedimento, non riguardano però solo Caivano, ma servono - nelle intenzioni del governo - per dare una stretta alla criminalità minorile in tutto il Paese. Le opposizioni hanno protestato dal primo momento contro il decreto, sostenendo che si trattasse di un inutile inasprimento delle norme penali sui minori. Il decreto Caivano prevede che i genitori che non mandano a scuola i figli siano puniti con la reclusione fino a due anni: è una stretta molto importante, considerando che al momento c’è una semplice multa, che dovrebbe servire a ridurre l’abbandono scolastico. In generale, inoltre, vengono inasprite le pene per alcune misure di prevenzione come il Daspo, ma solo ai minori che hanno già compiuto 14 anni. Ai giovani tra i 14 e i 18 anni responsabili di violenze può essere vietato di utilizzare strumenti come computer e telefoni cellulari. Per i minori scatterà anche la custodia cautelare in carcere in caso di reati come produzione, traffico e detenzione di sostanza stupefacenti e il porto abusivo d’armi. Sarà in generale più semplice per un minorenne finire in carcere, visto che la soglia edittale passa da 9 a 6 anni. Ci sono inoltre alcune misure specifiche per il territorio di Caivano, che vanno dalla nomina del commissario straordinario ai progetti anti-degrado che prevedono la restaurazione di alcuni edifici e spazi nel comune, per provare a costruire nuove strutture dedicate ad attività educative e formative. Quante vittime invisibili dietro la spettacolarizzazione dello stupro in tv e sui giornali di Claudia Torrisi Il Domani, 9 novembre 2023 Lontano da telecamere e giornali, i dati dell’Istat raccontano un paese dove 4 milioni e 520 mila donne (il 31,5 per cento tra i 16 e i 70 anni) hanno subìto una forma di violenza sessuale. Dopo il richiamo della commissione Pari opportunità della Rai e di Usigrai, una lettera aperta con trecento firme di attiviste, giornaliste e intellettuali denuncia la “spettacolarizzazione dello stupro” e la “vittimizzazione secondaria” andata in onda durante l’intervista di Nunzia De Girolamo nella trasmissione Avanti Popolo alla ragazza che ha denunciato la violenza sessuale subita da sette coetanei quest’estate a Palermo. La conduttrice ha chiesto alla diciannovenne di ripercorrere gli abusi, raccontandone i dettagli, ha fatto ascoltare stralci delle intercettazioni degli stupratori, ha letto i commenti colpevolizzanti pubblicati sui social. “Tale incompetenza nella trattazione del tema, come qualsiasi spettacolarizzazione della violenza di genere, sono tanto più inaccettabili, soprattutto se a perpetrarle è il servizio pubblico radiofonico e televisivo nazionale”, si legge nella lettera. Non è la prima volta che succede. La violenza sessuale viene utilizzata dai media per fare audience, catturare l’attenzione morbosa dell’opinione pubblica. È capitato con il caso di Alberto Genovese, imprenditore accusato e poi condannato per stupro, la cui vicenda è stata protagonista di numerose puntate di trasmissioni televisive. Simile attenzione mediatica è stata riservata al caso di violenza sessuale che coinvolge il figlio di Beppe Grillo o l’altro in cui è accusato quello del senatore Ignazio La Russa, che hanno occupato pagine di giornali. Della vicenda di Palermo si è parlato per settimane. Casi spettacolarizzati che arrivano alle cronache, ma che sono solo la punta dell’iceberg del fenomeno. Lontano da telecamere e giornali, i dati dell’Istat raccontano un paese dove 4 milioni e 520 mila donne (il 31,5% tra i 16 e i 70 anni) hanno subito una forma di violenza sessuale. Di queste, oltre un milione è stata vittima di stupro (652 mila) o di tentato stupro (746mila). A commettere le forme più gravi di violenza sessuale in oltre tre quarti dei casi sono state persone con cui la vittima aveva una relazione affettiva: partner, ex, oppure parenti o amici. Le denunce sono poche, pochissime. Dice sempre l’Istat che questi reati hanno “una dimensione sommersa molto elevata”. Inoltre, è “ragionevole pensare che i casi denunciati siano quelli, mediamente, di gravità maggiore”. La proporzione di donne che dichiara di aver denunciato un atto generico di violenza o molestia sessuale subito negli ultimi dodici mesi - il tempo previsto dalla legge - è dell’1%. Per lo stupro o il tentato stupro la percentuale sale al 6%. La violenza sessuale “è uno dei reati meno denunciati in assoluto. Il cosiddetto numero oscuro, quello di coloro che non denunciano è particolarmente alto”, afferma Elena Biaggioni, avvocata penalista e vicepresidente D.i.Re - Donne in Rete contro la violenza, che tuttavia avverte come negli ultimi anni ci sia stato tuttavia un aumento delle denunce. L’ultimo report del Dipartimento della pubblica sicurezza del Ministero dell’Interno mostra come da poco meno di 4500 denunce del 2020 - anno in cui si è registrato il dato minore - si sia passati a 5.991 nel 2022. “Un dato da tenere presente è che come per tutti i reati che riguardano la violenza maschile sulle donne, la maggior parte dei procedimenti vengono archiviati e il tasso di condanna è basso. Quest’ultimo aspetto è stato anche recentemente criticato dal Gruppo Esperte sulla Violenza del Consiglio d’Europa (Grevio) che monitora l’applicazione della Convenzione di Istanbul”, spiega Biaggioni. Secondo i dati Istat nel 2018 l’autorità giudiziaria ha iniziato il procedimento per 6.759 casi di violenza sessuale denunciati. Le sentenze di condanna sono state 1.870, di cui 75 per violenza sessuale di gruppo, in aumento rispetto alle 1.697 del 2017. Tra la data del reato e la sentenza sono passati in media 32 mesi, 68 in appello. Poi, aggiunge l’avvocata, “c’è tutto quello che succede quando si va a processo. È un reato particolarmente complesso, con conseguenze particolarmente gravi perché la condanna per violenza sessuale nell’ipotesi non lieve comporta nella stragrande maggioranza dei casi una pena da eseguire: si va in carcere. Quindi la difesa è particolarmente agguerrita”. Vittimizzazione secondaria - Negli ultimi anni alcune sentenze che riguardano casi di violenze sessuali sono state fortemente criticate sui giornali o sui social, perché intrise di pregiudizi e stereotipi e portatrici di quella che viene definita “vittimizzazione secondaria”. Quest’estate, ad esempio, si è parlato delle motivazioni di una sentenza emessa a marzo dal tribunale di Firenze che assolveva due imputati per stupro perché non avevano “piena consapevolezza della mancanza di consenso” della ragazza violentata, che era alterata dall’assunzione di alcol. Secondo il giudice, inoltre, la giovane aveva avuto comportamenti in passato che potevano aver creato un “fraintendimento”. “Il nostro ordinamento ha fatto molti progressi e c’è stato un avanzamento culturale, e oggi nei processi le domande invadenti rispetto ad esempio alle abitudini sessuali della vittima o su come era vestita trovano un freno. Tuttavia rimane il dato che questi processi sono faticosissimi, perché di fondo c’è una cultura della stigmatizzazione. Tant’è che l’Italia è stata condannata dalla Corte Europea e dal comitato Cedaw per il trattamento riservato dall’autorità giudiziaria alle vittime di stupro”, spiega Ilaria Boiano, avvocata di Differenza Donna. Il problema dipende dal radicamento di stereotipi sessisti e anche da una mancanza di formazione sul tema della violenza sessuale. La Convenzione di Istanbul prevede la presenza in un ufficio di magistrati che si occupano quasi esclusivamente di violenze di genere. La specializzazione, però, raggiunge il 24% tra i giudici di primo grado, mentre nelle Corti d’appello è quasi nulla. “C’è una forte disomogeneità a livello territoriale riguardo il livello di formazione della magistratura e in generale di tutti gli operatori, sin da coloro che acquisiscono la denuncia o fanno le indagini. In ognuna di queste fasi possono costituire ostacoli ulteriori alla vittima che producono vittimizzazione secondaria”, conclude Boiano. Modena. Rivolta in carcere del 2020. Il Governo: “Nessuna negligenza, gli agenti non potevano fare di più” di Valentina Reggiani Il Resto del Carlino, 9 novembre 2023 Roma era chiamata a rispondere ai quesiti posti dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo che aveva ritenuto ammissibile il ricorso presentato dai familiari delle vittime al Sant’Anna. Nessuna negligenza: non si poteva fare di più in una situazione emergenziale come quella. Il detenuto, inoltre, partecipò alla rivolta e assunse volontariamente il metadone. In quelle ore in cui nel penitenziario vigeva il caos che la stessa rivolta aveva generato, risultava poi impossibile accorgersi di chi accusava malori e soccorrerli nell’immediatezza. È a queste conclusioni che il Governo è arrivato in merito alla nota strage nel Carcere Sant’Anna dell’8 marzo 2020. Il Governo, infatti, era chiamato a rispondere ai quesiti posti dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo circa le presunte doglianze relative a diversi articoli della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo. La Corte aveva infatti ritenuto ammissibile il ricorso presentato dai familiari, ovvero il padre ed il fratello di uno dei nove detenuti deceduti durante la maxi rivolta nel carcere Sant’Anna, il tunisino Hafed Chouchane. I parenti della vittima si erano rivolti agli avvocati Barbara Randazzo, del foro di Milano e Luca Sebastiani, membro dell’osservatorio carcere della camera Penale di Bologna che, nel ricorso presentato alla Corte Europea avevano fatto presente come il giorno della rivolta mancò la protezione dei soggetti fragili da parte dello Stato. ‘Soggetti’, ovvero i detenuti che proprio dallo Stato avrebbero dovuto essere salvaguardati. Non solo: secondo gli avvocati non furono assunti rimedi interni e non fu data efficiente comunicazione ai carcerati circa la pandemia in atto. A seguito delle osservazioni depositate dal Governo i legali presenteranno le relative repliche entro il 18 dicembre. Sarà quindi la Corte a stabilire se vi siano state o meno ‘carenze’ e violazioni nel corso della sommossa, relative anche alla mancata tempestività delle cure ai detenuti. Per l’avvocatura dello Stato, in ogni caso, quel giorno non vi furono negligenze ed omissioni. Nel frattempo sul carcere modenese è partita un’altra inchiesta: questa volta, però, l’indagine - per la quale è stata chiesta l’archiviazione da parte della procura - riguarda lo stesso comandante della polizia penitenziaria. Lo stesso, infatti, risulta indagato per abuso d’ufficio e rivelazione e utilizzo di segreti di ufficio a seguito della denuncia presentata da due donne, agenti della penitenziaria a seguito di presunte ‘battute’ a loro carico. Battute che le presunte vittime avrebbero reputato ‘spinte’, denunciando anche presunte avances da parte del comandante. L’indagato, difeso dall’avvocato Paolo Petrella, ha sempre respinto con forza ogni addebito. I fatti contestati risalirebbero al 2021 ma una di quei commenti ‘pesanti’ sarebbe stato fatto nei confronti di una delle due poliziotte proprio il giorno della rivolta. Secondo la procura, però, non vi sarebbero i presupposti per procedere nei confronti del comandante. Ieri i legali delle due donne hanno presentato opposizione alla richiesta di archiviazione avanzata dalla procura e il giudice si è riservato nel merito. Parma. Orientarsi in carcere: presentato l’opuscolo per i detenuti parmatoday.it, 9 novembre 2023 A cura dell’Associazione Rete carcere: nel libretto le prime informazioni essenziali “Orientarsi in Carcere - breve guida per i nuovi giunti” è la nuova iniziativa messa in campo da Rete Carcere odv, associazione da sempre attenta ai diversi e complessi bisogni delle persone ristrette. Si tratta di un opuscolo destinato a chi per la prima volta fa esperienza di carcere o che, provenendo da un altro istituto penitenziario, entra per la prima volta nel carcere di Parma. La guida intende fornire brevi e semplici istruzioni per cominciare a orientarsi e a muoversi dentro un universo, quello carcerario, le cui regole e modalità non sono sempre facili. Si tratta delle prime informazioni essenziali su una serie di necessità fondamentali: ottenere i colloqui con i famigliari o la telefonata settimanale, richiedere un colloquio con i volontari o ricevere un pacco, avere una visita medica o assistenza religiosa, ricevere informazioni e assistenza su documenti o pratiche di patronato… L’ingresso in carcere costituisce certamente un momento traumatico per la persona che perde la libertà, gli affetti e la propria normalità e si trova sola e spaesata. Un passaggio così difficile da rappresentare uno dei momenti a più alto rischio suicidario. La carcerazione è un’esperienza difficile anche per la famiglia che perde un famigliare e che si trova ad affrontare le stesse norme e gli stessi regolamenti, anche se dalla parte opposta del muro. La Guida, che sarà tradotta in diverse lingue (inglese francese e arabo), sarà consegnata ai nuovi giunti nel carcere di Parma entro le prime ore della detenzione, a cura degli psicologi dell’istituto, le figure professionali che tra le prime incontrano il nuovo giunto. L’associazione Rete Carcere odv, con i suoi numerosi volontari, svolge da anni attività dentro e fuori gli Istituti Penitenziari di Parma a sostegno delle persone detenute o ex detenute e delle loro famiglie, offrendo ascolto, sostegno informazione e tanto altro. Con l’opuscolo “Orientarsi in Carcere - breve guida per nuovi giunti” ha intenso contribuire ad alleviare il senso di solitudine e smarrimento dei primi giorni di detenzione, fornendo fin da subito informazioni e, se possibile, risposte ai bisogni primari della persona ristretta. La guida compilata dai volontari dell’associazione, con la collaborazione del personale penitenziario e con il beneplacito della direzione degli Istituti, è stata stampata grazie ai fondi stanziati dalla Regione Emilia Romagna e dal Ministero del Lavoro, nell’ambito del progetto “Nessuno si salva da solo: coltivare la fragilità”. Per questo progetto si è costituita una rete di associazioni che collaborano a varie iniziative di sensibilizzazione nei confronti di diverse situazioni di fragilità adulta tra cui anche la detenzione. In collaborazione con CSV Emilia, coordinati dall’associazione Ancescao sono partner di progetto le associazioni di Parma: Rete Carcere, Per Ricominciare, San Cristoforo, W4W, ACAT-Il volo, SNUPI. In occasione della presentazione della guida, avvenuta nella sala Truffelli presso il CSV Emilia, le prime duecento copie sono state consegnate alla direzione degli Istituti Penitenziari di Parma. Roma. Con il sostegno di Caritas Italiana apre azienda artigianale dove lavorano giovani detenuti acistampa.com, 9 novembre 2023 Venerdì 10 novembre alle ore 16 apre un’azienda artigianale dove lavorano alcuni giovani detenuti. Sarà inaugurato venerdì 10 novembre alle ore 16 Pastificio Futuro, il laboratorio artigianale sito in via Giuseppe Barellai 140, all’interno del complesso del carcere minorile di Casal del Marmo, “ma con entrata autonoma”. A dare la notizia un comunicato della Diocesi di Roma. A realizzare questa realtà artigianale la Gustolibero Società Cooperativa Sociale Onlus, con il sostegno della Conferenza episcopale italiana e di Caritas Italiana e in sinergia con la Direzione dell’Istituto Penale Minorile Casal del Marmo, il Centro della Giustizia Minorile Lazio-Abruzzo-Molise, il Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità, le diocesi di Roma e di Porto - Santa Rufina. All’inaugurazione saranno presenti il cardinale vicario Angelo De Donatis; l’arcivescovo Giuseppe Baturi, segretario generale della Conferenza episcopale italiana; il sindaco di Roma Capitale Roberto Gualtieri; il presidente della Regione Lazio Francesco Rocca; Anna Maria Santoli, dirigente Centro Giustizia Minorile Roma; don Marco Pagniello, direttore di Caritas Italiana. “Con i suoi 500 metri quadri di superficie, una pressa che può produrre fino a 220 kg all’ora di pasta e 4 essiccatori, Pastificio Futuro è un’azienda che potrebbe occupare fino a venti ragazzi. L’iniziativa partirà con tre addetti: una detenuta presente al pastificio grazie all’articolo 21, un ventenne affidato ai servizi sociali e un altro che vive in comunità”, riporta la nota. “La pasta verrà venduta in alcune catene di supermercati con cui abbiamo preso contatti - spiega don Nicolò Ceccolini, cappellano di Casal del Marmo -, nonché servita in alcuni ristoranti di livello, perché è una pasta di elevata qualità. Dare delle prospettive future a questi ragazzi è molto importante, può incentivare anche altri loro coetanei che si trovano in carcere a fare un percorso, dare loro un obiettivo. È una bella opportunità perché devono comunque uscire dal carcere, in quanto il laboratorio è esterno alla zona detentiva, seppure all’interno della cinta muraria”. Quando sarà a regime, “il laboratorio potrebbe produrre 2 tonnellate di pasta al giorno, circa 4.000 pacchetti da 500 grammi ogni giorno”, sottolinea Alberto Mochi Onori, responsabile di Gustolibero Società Cooperativa Sociale Onlus. Ci saranno anche tre chef romani per eseguire al momento tre ricette iconiche della cucina romana: la “gricia”, che verrà realizzata da Andrea Pasqualucci chef del Moma; la “carbonara” di Luciano Monosilio, del ristorante da Luciano; la “finta matriciana” di Arcangelo Dandini, titolare e chef del ristorante Arcangelo. Salerno. Detenuto incontra il suo cane, polemiche dai sindacati della Polizia penitenziaria Il Mattino, 9 novembre 2023 “Le priorità sono altre”. Un cane ha potuto per qualche ora incontrare il suo padrone, un detenuto del carcere di Salerno. Tre ore nell’area verde dell’istituto penitenziario che, però, hanno suscitato le critiche del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria. “Mi stupisce la priorità che e? stata data a questa richiesta in un carcere con molte criticità come quello di Salerno - dice Tiziana Guacci, segretario regionale per la Campania del Sappe - Non discuto il rapporto che si crea tra un padrone e il proprio cane ma spero che la sensibilità dimostrata dalla Direzione a questa richiesta venga riservata anche agli interventi legati alla sicurezza e all’ordine interno del carcere”. Cane e detenuto si sono potuti incontrare nell’area verde, “tre ore per l’esattezza”, evidenzia il segretario provinciale del Sindacato, Giuliano Verdino, “e per far fare l’incontro il comandante di Reparto ha ritenuto opportuno togliere un Agente dal suo abituale posto di servizio, l’ufficio comando, già in carenza di personale”. “Nulla da dire sulla cosa in se?, sulla pet therapy, anche alla luce del rapporto che si crea tra padrone e compagno a quattro zampe - ribadiscono ancora i sindacalisti del Sappe - ma certo stupisce la priorità che ne e? stata data in un carcere con molte criticità: ne ha la consapevolezza il comandante di Reparto? A nostro avviso no”. “Il carcere di Salerno è in sovraffollamento costante: ci sono circa 370 posti letto regolamentari, ma i detenuti arrivano a essere sistematicamente oltre 500, 520 per l’esattezza il 31 ottobre scorso”, una situazione a rischio secondo il segretario generale del Sappe, Donato Capece. Polemiche per il “colloquio” tra un detenuto e un cane (agi.it) Tiziana Guacci, segretario regionale per la Campania del Sindacato autonomo Polizia penitenziaria: “Mi stupisce la priorità che è stata data a questa richiesta in un carcere con molte criticità”. “I tempi cambiano, e ora di “pet therapy”: e anche le carceri aprono la porta a visitatori a quattro zampe. Come il cane che ha potuto di nuovo annusare il suo amato padrone, un detenuto ristretto nella Casa circondariale di Salerno al regime di Alta Sicurezza”. Lo scrive il sindacato Sappe in una nota. “Mi stupisce la priorità che e stata data a questa richiesta in un carcere con molte criticità come quello di Salerno - dice Tiziana Guacci, segretario regionale per la Campania del Sindacato autonomo polizia penitenziaria - Non discuto il rapporto che si crea tra un padrone e il proprio cane ma spero che la sensibilità dimostrata dalla Direzione a questa richiesta venga riservata anche agli interventi legati alla sicurezza e all’ordine interno del carcere”. Cane e detenuto si sono potuti incontrare nell’area verde, “tre ore per l’esattezza”, evidenzia il segretario provinciale del sindacato, Giuliano Verdino, “e per far fare l’incontro il comandante di reparto ha ritenuto opportuno togliere un Agente dal suo abituale posto di servizio, l’ufficio comando, già in carenza di personale”. “Nulla da dire sulla cosa in sé, sulla pet therapy, anche alla luce del rapporto che si crea tra padrone e compagno a quattro zampe - si legge nella nota - ma certo stupisce la priorità che ne e stata data in un carcere con molte criticità: ne ha la consapevolezza il comandante di reparto? A nostro avviso no, non è in grado di fare fronte alle costanti e quotidiane criticità e per questo ne chiediamo l’avvicendamento: evidentemente, non ha più adeguati stimoli professionali per garantire il rispetto dei diritti soggettivi del Personale e l’efficienza nonché l’efficacia dei servizi istituzionali del personale del Corpo di Polizia Penitenziaria in servizio al carcere di Salerno”. E, a proposito di priorità, Donato Capece, segretario generale del sindacato, ricorda che “il carcere di Salerno è in sovraffollamento costante: ci sono circa 370 posti letto regolamentari, ma i detenuti arrivano a essere sistematicamente oltre 500, 520 per l’esattezza il 31 ottobre scorso”. Una situazione a rischio, quindi, secondo il leader del Sappe: “Lo testimonia il continuo verificarsi di eventi critici nella struttura detentiva salernitana a cui fa da contraltare l’assenza di provvedimenti a favore del personale di Polizia Penitenziaria, a cominciare dalla tutela stessa della propria incolumità fisica”. “Gli agenti vengono aggrediti e nel carcere di Salerno si considera prioritario far fare un colloquio tra cane e padrone detenuto (peraltro andando a modificare l’organizzazione dei servizi interni di polizia penitenziaria) piuttosto che pensare a dotare di taser gli agenti per fermare le aggressioni dei detenuti violenti? Per questo auspichiamo che analoga sensibilità emerga anche per alcuni interventi legati alla sicurezza e all’ordine interno del carcere di Fuorni, che ci sembrano essere stati trascurare proprio da chi attualmente comando il reparto di polizia penitenziaria, a cominciare dall’urgente necessita di adottare adeguati provvedimenti disciplinari ai detenuti responsabili di atti di aggressione ai poliziotti penitenziari”. Casalecchio di Reno (Bo). Legalità e giustizia, Lucarelli è “Politicamente scorretto” Corriere della Sera, 9 novembre 2023 Da 18 anni Carlo Lucarelli è l’anima di “Politicamente Scorretto”, la manifestazione di Casalecchio di Reno che affronta i temi della legalità e della giustizia con le chiavi della cultura. “In questi anni ho imparato e capito tante cose - sottolinea lo scrittore - mi sono divertito e ho anche riso parecchio, mi sono molto arrabbiato per quello che non mi piace del mondo e ne sono uscito con una gran voglia di cambiarle, quelle cose che non mi piacciono. Parleremo di molti argomenti che girano attorno a un tema molto importante, la libertà di pensare e il diritto di sapere”. Dal 14 al 19 novembre, infatti, il focus centrale verterà sull’articolo 21 della Costituzione. “Politicamente Scorretto”, che avrà come sedi la Casa della Conoscenza, la Casa per la Pace “La Filanda” e il Teatro Laura Betti, partirà martedì prossimo con lo spettacolo riservato alle scuole La stanza di Agnese die con Sara Bevilacqua, narrazione in ricordo dei trent’anni della strage di Via D’Amelio. Nel programma, su www.politicamentescorretto.org, venerdì 17 alle ore 21, ingresso 18 euro, al Teatro Laura Betti lo spettacolo La Libertà. Primo episodio, di e con Paolo Nori. Incentrato su due figure straordinarie della letteratura russa, Daniil Charms e Iosif Brodskij, che con opere e vita hanno incarnato un’idea di libertà. E poi il graphic novel Peppino impastato, un giullare contro la mafia (Becco Giallo) di Marco Rizzo, un incontro dedicato alla strage di Bologna con il giornalista Paolo Morando, autore del libro La Strage di Bologna, Andrea Speranzoni, avvocato di parte civile dell’associazione Familiari delle vittime, e lo stesso Lucarelli. Durante il quale si approfondiranno una delle stragi più cruente d’Italia e il suo complesso iter giudiziario, fatto di insabbiamenti e depistaggi, che ha portato a far luce sui rapporti tra la “massoneria deviata”, non solo italiana, e i “gruppi di fuoco”. Al giornalismo coraggioso sarà dedicato un incontro con Paolo Mondani, giornalista di “Report”, e in collegamento Azzurra Meringolo, inviata di Radio Rai in Medio Oriente. Ci saranno anche un panel dedicato alla mafia e al gioco d’azzardo, con i giornalisti Giovanni Tizian e Paolo Bonacini, e la presentazione del libro Lo sputo della magistrata Marzia Sabella, procuratrice della Repubblica a Palermo. Un racconto che mette in luce il coraggio di una donna disperata, la prima a testimoniare contro la mafia. giorni di sole. La vita di mio padre Rocco, giudice scomodo è invece il libro autobiografico di Giovanni Chinnici, che esplora i suoi stati d’animo quando all’età di 19 anni perse il padre, ucciso sotto casa con la prima auto-bomba della mafia. La conclusione, domenica 19 alle 17 ancora al Teatro Betti, vedrà un evento dedicato alla musica e all’impegno sociale, ospite d’onore Neri Marcorè. Con artisti emergenti selezionati dal “Premio Tenco”, tra i quali i giovani cantautori bolognesi Campi e Tizio Bononcini. Napoli. A Poggioreale convegno sulla giustizia riparativa con l’arcivescovo don Mimmo Battaglia lapilli.eu, 9 novembre 2023 L’ufficio diocesano della Pastorale Carceraria di Napoli, in collaborazione col Provveditorato Penitenziario della Campania e la Conferenza Volontariato e Giustizia Regionale ha organizzato il 10 novembre 2023: Restorative Justice, il volto umano della giustizia; un convegno sulla giustizia riparativa, rivolto agli operatori penitenziari e al volontariato carcerario, con inizio alle ore 9.30, che avrà luogo all’interno della Casa Circondariale Napoli "Poggioreale - Giuseppe Salvia", alla via Nuova Poggioreale, 167. Dopo i saluti della dottoressa Lucia Castellano, provveditore delle carceri campane, del dottore Carlo Berdini, direttore dell’istituto penitenziario e di don Franco Esposito, direttore dell’Ufficio Diocesano della Pastorale Carceraria di Napoli, prenderanno parte all’incontro: Agnese Moro, figlia dello statista ucciso dalle brigate rosse e da sempre impegnata nel cammino riparativo con i colpevoli del sequestro e dell’omicidio di Aldo Moro; padre Guido Bertagna, gesuita, che da anni si occupa di giustizia riparativa, rivisitando il dolore degli anni di piombo del terrorismo; Patrizia Patrizi, docente ordinaria di psicologia sociale e giuridica presso l’università di Sassari, presidente del forum europeo sulla giustizia riparativa, autrice di vari saggi sulla “Restorative Justice”. Le conclusioni saranno affidate a monsignore Domenico Battaglia, arcivescovo metropolita di Napoli, che, insieme alla Caritas Italiana ha promosso un progetto sperimentale di formazione e sensibilizzazione alla giustizia riparativa per la diocesi di Napoli. Il convegno sarà moderato da Giuliana Covella, giornalista e autrice del libro “ Il mostro ha gli occhi azzurri. il delitto di Ponticelli”. Un convegno all’interno dell’istituto penitenziario napoletano di Poggioreale, per riflettere sulla possibilità di riparare, dove al centro dell’interesse della giustizia vi è la “riparazione”, intesa come una scommessa sul ravvedimento e sul recupero attraverso forme concrete di rieducazione. “Parlare di giustizia riparativa in un luogo dove si paga la pena dettata dalla giustizia punitiva, vuole essere un segno per dire che è possibile un'altra giustizia, non in contrapposizione a quella retributiva, ma una giustizia dal volto umano che coinvolga anche le vittime e la comunità in un percorso di riparazione e riconciliazione” – ha dichiarato don Franco Esposito, direttore della Pastorale Carceraria della Diocesi di Napoli. La riforma della giustizia penale. Non ci sono le condizioni perché il Parlamento cambi strada di Michele Magno Italia Oggi, 9 novembre 2023 Per una serie di motivi le idee di Cesare Beccaria non sono ancora state applicate. Ha senso rileggere oggi un testo concepito oltre due secoli e mezzo fa, e sul quale sono stati già versati fiumi d'inchiostro? Ha senso se il suo autore si chiama Cesare Beccaria (1738-1794). Si dice che per meglio capire il presente e scrutare il futuro bisogna salire sulle spalle dei giganti del passato. Il figlio del marchese di Gualdrasco e Villareggio è stato innegabilmente un gigante del suo tempo. Pubblicato anonimo nel 1764 da una libreria livornese, Dei delitti e delle pene accese in tutta Europa un vastissimo dibattito sui fini e sui limiti della giustizia penale. Un “libriccino”, come lo definì suo nipote Alessandro Manzoni, che ha segnato una pietra miliare nella storia della civiltà giuridica occidentale Una civiltà giuridica perennemente chiamata a confrontarsi con i quesiti fondamentali posti da Beccaria: Perché punire? Come punire? Cosa proibire? Come giudicare? Eppure, secondo diversi studiosi il pamphlet ammirato dai filosofi francesi dell'Encyclopédie e dai costituenti americani sarebbe soltanto un felice mosaico di vecchie idee, per giunta superate nella pratica giudiziaria. Ma, come ha osservato Philippe Audegean, forse non riusciamo sempre a coglierne l'effettiva novità proprio a causa del suo enorme successo, che lo ha paradossalmente banalizzato (Violenza e giustizia. Beccaria e la questione penale, il Mulino, 2023). Contrapponendosi all'eulogia della “potestas gladii”, il potere della spada, Beccaria avverte pienamente il carattere inesorabile e tragico di quel rapporto: interprete di una nuova sensibilità umanistica, approda a una sua sofferta consapevolezza. Nella rappresentazione tradizionale, la spada era il fulgido emblema della giustizia che punisce la malvagità. È contro questa ideologia mistificante che insorge Beccaria. Beninteso, la violenza penale serve a combattere quella di chi delinque: ma sempre violenza resta. Ecco perché la figura della Giustizia è drammatica: non potendo rinunciare alla violenza, deve costantemente sforzarsi di farne l'uso minimo necessario. In fondo, è proprio questo concetto di “minimo necessario”, insieme cifra stilistica e nucleo filosofico dei Delitti, uno dei lasciti più preziosi di Beccaria per affermare una cultura garantista del diritto penale. Purtroppo, non sembrano ancora sussistere le condizioni politiche affinché il Parlamento italiano compia un risoluto passo in avanti su questa strada. Non resta che sperare in congiunzioni astrali più benigne. Terzo Settore. La società solidale genera plusvalore per sé e per i disagiati di Luca Antonini* Il Sole 24 Ore, 9 novembre 2023 La società solidale in Italia continua a crescere. In modo silenzioso: il bene non fa il rumore del male e spesso passa inosservato. Istat ha però documentato il costante aumento degli enti non profit (363.499 nel censimento aggiornato del 2023) e Terzjus, pochi giorni fa, il forte incremento delle iscrizioni al Registro nazionale (Runts). Questa società solidale è stata valorizzata da diverse sentenze della Corte costituzionale, in quanto espressione di un’autonoma iniziativa dei cittadini dove si dimostra l’originaria socialità dell’uomo (sent. n. 75/92) e si sviluppano le libertà sociali (sent. n. 300/03). È un mondo che non s’identifica con quello del mercato, perché non ha di mira la realizzazione di un utile, e che in Italia è stato sempre molto vivo e generativo. Lo evidenzia la sent. n. 131/20 quando afferma: “Le relazioni di solidarietà sono state all’origine di una fitta rete di libera e autonoma mutualità che, ricollegandosi a diverse anime culturali della nostra tradizione, ha inciso profondamente sullo sviluppo sociale, culturale ed economico del nostro Paese” riuscendo a garantire “assistenza, solidarietà e istruzione a chi, nei momenti più difficili della nostra storia, rimaneva escluso”. Proprio nella nostra storia, però, paradossalmente è mancato un efficace rapporto tra la pubblica amministrazione e la società solidale. La prima è rimasta spesso chiusa rispetto alla seconda, a causa di una tendenza a non fidarsi di quest’ultima e a omologarla, nel trattamento, alla società del profitto. Valorizzando fortemente il nuovo concetto di amministrazione condivisa, introdotto dall’art. 55 del codice del terzo settore, la sentenza ha gettato un solido ponte su questo fossato. Ha esplicitato, infatti, le ragioni d’una collaborazione: gli Enti del Terzo settore (Ets) “spesso costituiscono sul territorio una rete capillare di vicinanza e solidarietà, sensibile in tempo reale alle esigenze che provengono dal tessuto sociale, e sono quindi in grado di mettere a disposizione dell’ente pubblico sia preziosi dati informativi (altrimenti conseguibili in tempi più lunghi e con costi organizzativi a proprio carico), sia un’importante capacità organizzativa e di intervento”. È stato così valorizzato un canale di amministrazione condivisa tra P.A. e Ets, alternativo a quello del profitto e del mercato, in grado di produrre un aumento della qualità dei servizi e delle prestazioni erogate a favore della società del bisogno. Non può sfuggire che proprio grazie a questo canale, diverso da quello del mercato e della mera burocrazia, può arrivare a chi si ritrova nella società del bisogno, anziché un aiuto anonimo, il calore di un abbraccio umano nella risposta concreta alle necessità. È la forza della società solidale, che quando è sincera genera un plusvalore, in termini di capacità di rapporto e quindi di aiuto, con chi versa nel disagio. Anche dalla Corte di Giustizia, Causa C-436/20, del 14.7.2022, è intervenuta un’importante conferma di tale prospettiva, ammettendo “il ricorso esclusivo agli enti privati senza scopo di lucro” per l’erogazione di servizi sociali di assistenza alle persone, quando richiesto non solo dai principi di universalità e di solidarietà, ma anche da quelli di efficienza economica e adeguatezza. Al fondo di tutte queste affermazioni sta il cuore pulsante della società solidale, costituita spesso da un universo di volontari che esprimono l’impegno di chi, “nella ricerca di senso alla propria esistenza, si compie nell’apertura al bisogno dell’altro”, come afferma la sent. n. 72/22, dove la Consulta riconosce che le attività di interesse generale svolte senza fini di lucro realizzano “una forma nuova e indiretta di concorso alla spesa pubblica”. E dove, infine, si conclude affermando che il volontariato costituisce una modalità fondamentale di “partecipazione civica e di formazione del capitale sociale delle istituzioni democratiche”: sta al mondo del non profit mostrare la coerenza ideale necessaria a non disperderlo. *Giudice della Corte Costituzionale Migranti. Italia-Albania: un Memorandum di scambio senza basi legali di Fulvio Vassallo Paleologo Il Manifesto, 9 novembre 2023 Il testo del Memorandum concluso da Giorgia Meloni con Edi Rama va ben oltre la nota comunicata lunedì da palazzo Chigi e contiene quasi a ogni paragrafo previsioni che contrastano con il diritto nazionale e con il diritto dell’Unione europea. La lettura dell’articolato rafforza i dubbi sulla legittimità dell’intesa che appare priva di basi legali, in violazione della riserva di legge, e conferma il carattere elettoralistico della “collaborazione rafforzata” con un paese terzo, che il primo ministro italiano vorrebbe sfruttare nella campagna per le elezioni europee, con un evidente scambio sull’impegno a favorire l’ingresso dell’Albania nell’Unione europea. La violazione degli articoli 3, 10 e 117 della Costituzione italiana è aperta. Si supera persino il profilo della esternalizzazione dei controlli di frontiera, già recepito nel Piano europeo sull’immigrazione e l’asilo, ancora da approvare in sede legislativa, per ispirarsi piuttosto alla logica della deterritorializzazione delle persone sul modello Guantanamo. Per chi sarà deportato in Albania con un respingimento collettivo, perché di deportazione si tratta, si prevede una condizione giuridica “speciale”. Non sarebbe soggetto al diritto albanese, se non forse nel transito dai porti al centro di detenzione, o in caso di fuga dai centri, ma neppure potrebbe avvalersi di tutte le tutele, a partire dalle garanzie costituzionali, stabilite per chi si trova sotto giurisdizione italiana nel nostro territorio. Come ha annunciato Giorgia Meloni “dei due centri, quello al porto si occuperà delle procedure di sbarco e di identificazione con una prima attività di screening mentre il centro che verrà realizzato nell’area più interna sarà una struttura modello Cpr”. Secondo la sentenza numero 105 del 2001 della nostra Corte Costituzionale, però, qualunque procedura di allontanamento forzato attuata da autorità italiane attraverso il trattenimento in un centro di detenzione deve essere convalidata dalla decisione di un giudice (riserva di giurisdizione). Come sarà possibile realizzare queste garanzie in territorio albanese? Si farà ricorso a videoconferenze per procedure accelerate in frontiera e per la convalida delle misure di trattenimento? Con quale rispetto dei diritti di informazione e di difesa, comunque garantiti - in base all’articolo 24 ancora della Costituzione e all’articolo 6 della Convenzione europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo - a qualunque persona si trovi sotto la “giurisdizione italiana”? Come si pensa di applicare la normativa europea su asilo e rimpatri al di fuori di uno Stato membro? O forse si conta sulla complicità dell’Unhacr, che in un recente comunicato del suo ufficio tedesco sembra condividere il Memorandum Italia-Abania, per la demolizione definitiva del diritto di chiedere asilo in Europa? Secondo Edi Rama, poi, “chi non ha diritto viene rimpatriato. Ma se l’Italia non riesce a fare i rimpatri dovrà riprenderseli”. L’Italia nel 2023 è riuscita a rimpatriare meno di cinquemila persone destinatarie di un procedimento di espulsione o di respingimento, la capienza dei Cpr italiani, malgrado gli annunci roboanti che ne prevedevano il raddoppio, è aumentata soltanto di qualche centinaio di posti. Come si pensa di realizzare in Albania quello che non si è stati capaci di fare in Italia, con la prospettiva di dovere fare entrare nel nostro territorio i richiedenti asilo denegati in Albania che non si riuscisse a rimpatriare? Delle due l’una: o si produrrà una massa di immigrati irregolari a tutto vantaggio delle mafie nei Balcani, oppure l’Italia dovrà assumere l’onere, anche economico, e con grande impegno di forze di polizia, di riportare in territorio italiano coloro che non hanno ottenuto il riconoscimento di uno status di protezione, ma che non si è riusciti a rimpatriare nel paese di origine. La propaganda batte lo Stato di diritto. Se il patto con l’Albania sui migranti dimostra la distanza tra Meloni e la Costituzione di Donatella Stasio La Stampa, 9 novembre 2023 Il governo e i giudici sono due mondi incomunicabili e in rotta di collisione come testimonia la vicenda Apostolico. Ci risiamo. Il patto Meloni-Rama per (de)portare in Albania i migranti richiedenti asilo salvati in mare da navi italiane e per chiuderli in centri di detenzione fino alla decisione sulla loro richiesta è - al di là della trovata elettorale di stampo chiaramente populista - un’altra forzatura giuridica sui migranti, frutto di una cultura estranea alla Costituzione e destinata a creare un nuovo fronte di scontro tra governo e giudici. Due mondi distanti e incomunicabili. Distanza per certi versi fisiologica; meno l’incomunicabilità, perché il terreno dovrebbe essere comune, il rispetto delle regole costituzionali e internazionali, mentre assistiamo a continui sconfinamenti (è proprio il caso di dire) e soprattutto all’attacco delegittimante (ben diverso dalla legittima critica) contro il giudice “colpevole” di decisioni sgradite e al tentativo di “punirne uno per educarne cento”. Emblematica l’ormai famosa vicenda della giudice Apostolico. Ma mettiamo per ora da parte questo aspetto del conflitto e soffermiamoci sulle leggi oggetto del contendere (nel caso dell’Albania c’è soltanto un accordo) varate negli anni da governi e parlamenti per “gestire” o “combattere” il “fenomeno migratorio” e poi applicate dai giudici (anche quando le disapplicano, perché, se contrastano con norme comunitarie, la disapplicazione è un obbligo costituzionale). Ebbene, a seconda degli occhiali inforcati, quelle norme appaiono più o meno legittime: l’ottica politica guarda all’immigrazione come fenomeno, soprattutto di ordine pubblico, da neutralizzare più che da gestire, per cui la repressione, la segregazione, il respingimento prevalgono su integrazione e accoglienza; l’ottica giurisdizionale, invece, guarda alla persona, e non potrebbe essere altrimenti perché è un’ottica di garanzia, doverosamente attenta ai diritti fondamentali dell’individuo, italiano o straniero, a maggior ragione se fragile, come lo è un migrante, anche nel bilanciamento con altri diritti. Ecco, queste due diverse “visioni del mondo” entrano spesso in rotta di collisione. Non comunicano. E attenzione: non solo in Italia. L’Accordo con l’Albania evoca il progetto della Gran Bretagna di deportare in Ruanda i richiedenti asilo, progetto già bloccato dai giudici, sia dalla Corte dei diritti dell’uomo che dalla Corte suprema britannica, perché incompatibile con il diritto di asilo. Per molti anni, in Italia le norme in materia di immigrazione sono state inserite in decreti legge denominati “pacchetti sicurezza”, titolo rivelatore del reale obiettivo perseguito: cavalcare le paure dell’opinione pubblica contro “l’invasione” dei barbari e acquisirne il consenso politico attraverso misure repressive in nome della sicurezza collettiva. Neppure i governi di centrosinistra si sono sottratti del tutto a questa mission pluridecennale, che spesso si traduce in forzature costituzionali: le maggioranze politiche di turno ne sono consapevoli ma lasciano ai giudici “il lavoro sporco”, se così si può definire il compito di contestare, fino a cancellarle, le norme vendute al “popolo” come unica medicina contro la paura del “nemico” straniero. Difatti, tutti i governi hanno incontrato sulla loro strada, puntualmente, lo sbarramento dei giudici. I quali, nell’applicare di volta in volta le norme, si sono fatti guidare dal rispetto dei diritti fondamentali delle persone coinvolte, sulla base dei principi costituzionali e del diritto internazionale. La differenza è che non tutti i governi hanno anche scatenato la caccia al giudice di fronte a pronunce sgradite. Questa - va detto - è una “prerogativa” delle maggioranze di centrodestra, nelle quali il centro appare afasico sulle garanzie, salvo rivendicarle quando si tratta di “clienti” diversi dai migranti. Gli attacchi, in passato, non hanno risparmiato neppure la Corte costituzionale, anch’essa “nemica”, covo di “comunisti”, guidata da maggioranze “di sinistra” e così via. Chi non ricorda le ripetute accuse ai tempi di Silvio Berlusconi per le bocciature, oltre che delle leggi ad personam, dei vari “pacchetti sicurezza” targati Lega, accuse rilanciate negli anni successivi dal Carroccio ad ogni censura della Consulta di quei “pacchetti”. Il fatto è che il giudice costituzionale, come il giudice ordinario, pur giudicando le leggi non ha riguardo ai “fenomeni” ma ai diritti fondamentali delle “persone” e perciò deve censurare le soluzioni lesive di quei diritti. Una garanzia che si riverbera su tutta la collettività e sulla tenuta della democrazia costituzionale, perché rappresenta un argine agli sbandamenti autoritari, illiberali, incostituzionali. Questo diverso approccio al problema dei migranti e i diversi ruoli giocati dai poteri in campo - che, pur separati e distanti, non dovrebbero mai combattersi ma rispettarsi - spiega anche perché è scorretto chiamare in causa un altro organo di garanzia come il presidente della Repubblica sostenendo che “se ha firmato le norme, significa che le condivide e che le ritiene costituzionali”. Non è così. Il Quirinale rifiuta la promulgazione solo in presenza di una “macroscopica incostituzionalità”, altrimenti non si spiegherebbe perché esiste la Corte costituzionale, e in ogni caso la sua firma su un decreto o su una legge non equivale mai a condivisione dei loro contenuti. Possono sembrare ovvietà, e in effetti lo sono, ma è bene ribadirle per non subire gli inganni della propaganda governativa. Nel caso Apostolico, sarà la Cassazione a stabilire se il provvedimento della giudice di Catania e quelli, analoghi, di altri giudici sono giuridicamente corretti oppure no. I ricorsi del governo sono già stati assegnati alle sezioni unite della suprema Corte ed è auspicabile che la sentenza - qualunque essa sia - non venga accolta, dalle opposte tifoserie, come l’esito di una partita di calcio. La democrazia non si esercita con il tifo. Perciò è sbagliato, in questi casi, chiedere al “popolo” da che parte sta, per chi fa il tifo: per i giudici o per il governo? La democrazia non passa da questi test, peraltro rovinosi, come ci ricorda la storia di un signore di nome Pilato che, qualche migliaio di anni fa, chiese al popolo chi dovesse crocifiggere tra Gesù e Barabba e il popolo scelse il primo. Il “crucifige” della folla resta uno degli esempi emblematici di ciò che non deve essere la democrazia, ovvero il grido di un popolo che ha fretta, instabile, senza istituzioni indipendenti e di garanzia né procedure. La condanna emotiva di Gesù rafforzava solo il potere di Pilato senza fare giustizia. Mi tornano alla mente le parole di Ruth Bader Ginsburg, l’icona liberal della Corte suprema americana scomparsa nel 2020, a proposito della pena di morte ancora vigente in molti Stati americani. “Se io fossi regina - mi disse in un’intervista - la pena di morte non ci sarebbe. Ma il punto è: chi deve decidere sulla sua abolizione? Quando parlo con i colleghi europei che si sentono superiori perché l’hanno cancellata, faccio sempre notare che se avessero fatto un referendum quando hanno deciso di abolirla, probabilmente il popolo avrebbe detto no; se lo facessero oggi che la pena di morte è vietata, forse il divieto sarebbe confermato. Ma ripeto: il problema è stabilire chi decide. L’America è un paese democratico, ma ci sono temi che non possono essere lasciati alla gente e che richiedono un livello diverso di decisione”. Medio Oriente. Universalismo e scontro di civiltà, Gaza è il test dell’ordine liberale di Guido Rampoldi Il Domani, 9 novembre 2023 Secondo un’indiscrezione verosimile, in Afghanistan la Nato considerava “accettabile” una proporzione di uno a uno tra nemici uccisi e civili vittime di “danni collaterali”. Quando la guerra sarà finita potremmo scoprire che a Gaza il rapporto è spaventoso, forse un guerriero di Hamas ogni 30 civili, forse 1 ogni 50, forse di più. Per intuirlo non è necessario fidarsi delle stime prodotte dal personale delle Nazioni unite (soltanto tra i minorenni, all’inizio del mese, risultavano 3.900 morti e 1.250 spariti, probabilmente sepolti sotto le macerie, lì dove nessuno potrà cercarli). Basta dare un’occhiata alle immagini satellitari, ai cerchi lunari che prima erano agglomerati di palazzi e adesso sono poltiglia grigia, per rendersi conto. Raccomandazioni americane, appelli di vertici Onu, moniti di organizzazioni internazionali: nulla finora ha indotto il governo israeliano a limitare la strage. I suoi generali spiegano la spettacolare incongruenza tra i mezzi (il bombardamento d’una popolazione che per quattro quinti subisce malvolentieri la dittatura di Hamas) e il fine (la liquidazione di Hamas e la liberazione degli ostaggi) con due motivazioni così esili da fare temere che venga taciuto un indicibile. Si vuole innanzitutto che la responsabilità dei civili uccisi ricada interamente sul nemico: si fa scudo della popolazione. Ma questa giustificazione suona come il ragionamento degli ipocriti che assolvono i massacri infami compiuti da Hamas spacciandoli per comprensibile reazione alle violenze inflitte ai palestinesi. Si aggiunge che gli abitanti delle zone colpite erano stati preavvertiti, dovevano andarsene prima dei bombardamenti. Ma proviamo a metterci nei panni dei palestinesi di Jabalia, ex campo profughi creato dagli sfollati di due guerre arabo-israeliane, in questi giorni colpito con bombe da 900 chili che spazzano via tutto quel che incontrano in un raggio di 350 metri. Per chi non ha mai dimenticato la casa persa nel 1948 non è facile abbandonare una perfino misera proprietà e accamparsi in altre zone della Striscia, peraltro anch’esse sotto bombardamento; tanto più perché la destinazione finale di chi fugge potrebbe essere il Sinai, l’esilio definitivo. Così molti, sapessero o no dei tunnel scavati da Hamas sotto l’abitato, sono morti dentro abitazioni così fragili che non avrebbero resistito neppure a una bomba a mano. Però un capetto di Hamas che si nascondeva nel sottosuolo è stato eliminato, si rallegra il comando israeliano. Amalek - Tutto questo pare così irragionevole da lasciar supporre dell’altro. Un piano nascosto, per esempio: creare una crisi umanitaria tanto grave da obbligare gli abitanti di Gaza a cercare scampo in Egitto. E al contempo lasciare che gang di “coloni” ammazzino a casaccio nella Cisgiordania, come sta avvenendo, in modo da spingere quei palestinesi verso la Giordania. Insomma, svuotare i Territori occupati, per annetterseli definitivamente. Oggi neppure a Washington hanno capito se Netanyahu abbia un progetto meno rudimentale che proclamarsi il condottiero che sterminò Hamas. Però questo è chiaro: la straordinaria disumanità della guerra rispecchia i combattenti. Hamas l’ha inaugurata massacrando inermi con la viltà sovreccitata dei pogrom. Israele ci sta mettendo l’ideologia della sua destra, il modo in cui quella intende la storia e l’identità nazionale. Netanyahu ne ha offerto un saggio nel messaggio alla nazione del 28 ottobre scorso. Azzerando tre millenni, il premier ha riesumato Giuda Maccabeo e Bar Kochba per descrivere una linea di guerrieri ebrei che comincia nella notte dei tempi e finisce con i soldati israeliani entrati in questi giorni a Gaza. E poi, di nuovo squarciando la dimensione temporale, il premier ha detto agli israeliani: “Ricordate quel che vi fece Amalek”. Era una citazione dal Deuteronomio: “Ricordati di quel che vi fece Amalek”, disse il profeta Samuele al re Saul. Gli Amalekiti avevano attaccato a tradimento il convoglio degli Ebrei diretti alla Terra di Canaan, adesso Dio reclamava che fossero puniti. Il profeta così rappresentò al re la volontà del Signore: “Va dunque e colpisci Amalek e vota allo sterminio quanto gli appartiene, non lasciarti prendere da compassione per lui, ma uccidi uomini e donne, bambini e lattanti, buoi e pecore, cammelli e asini”. Ecco dunque il tempo raccorciarsi e Bibi-Samuele ripetere l’ordine divino, “Ricordate quel che vi fece Amalek”, per concludere così: “Noi ricordiamo e combattiamo”. Perché Netanyahu va a cercare nella Torah il senso di quel che sta avvenendo tremila anni dopo a Gaza? E soprattutto, perché, tra i tanti paradigmi che poteva trarre dalle Scritture, ha scelto proprio il massacro degli Amalekiti? Certo non intendeva enunciare il proposito di sterminare i palestinesi. Ma se il primo ministro fa proprio il messaggio d’un antico profeta, non può sorprendere che l’esercito israeliano si comporti come richiesto a re Saul, “Non lasciarti prendere dalla compassione”. Ovviamente Bibi-Samuele non rappresenta il giudaismo, per capirlo basta pensare alla statura etica e intellettuale d’un grande italiano, il rabbino Elio Toaff, che fu fondamentale nello svelenire dell’antisemitismo la vasta area del bigottismo cattolico. Ma certo il premier è in sintonia con la destra religiosa che appoggia il suo governo e con i movimenti fondamentalisti che la ispirano. Questi ultimi - nota la Fondazione Oasis, un centro-studi internazionale fondato dal cardinale Scola - “hanno da tempo rotto il cordone di sicurezza che circondava alcune pagine dell’Antico Testamento, con il risultato che al jihad islamico torna ora a contrapporsi lo herem (la guerra di sterminio) veterotestamentario. È questo uno degli aspetti più preoccupanti della guerra in corso”. Netanyahu non è un fondamentalista, forse neppure un credente. Semmai usa la religione nel modo in cui la usa quella nuova ideologia globale che una scuola di pensiero chiama “civilizationism” (a coniare il termine fu il sociologo Rogers Brubaker, nel 2017). Il “civilizationist” non crede nell’universalismo liberale, cui oppone l’idea di un mondo frammentato in distinti sistemi di valori e di comportamenti plasmati dalle religioni. Nella versione aggressiva, si presenta come il difensore di una civiltà immaginaria radicata in una storia altrettanto immaginaria, baluardo ultimo contro l’incalzare della barbarie circonvicina. Difendere l’ordine - Da qui il carnevale di questi ultimi anni, con la sfilata di carri allegorici fabbricati ciascuno secondo i materiali offerti dal passato e dalle rispettive religioni: il “Mondo russo” di Putin; la “civiltà giudaico-cristiana” di Trump e di altre destre occidentali; il “cristianismo” americano; il panislamismo degli ayatollah, di Hamas, di Hezbollah e di altri oltranzismi musulmani; l’Hindutva di Nareendra Modi; e l’antica civiltà ebraica, presunto argine delle democrazie contro l’imperialismo islamico, che ispira Netanyahu e il suo Likud. Va da sé che il “civilizationist” è sordo al vocabolario universalista in uso presso gli stati di diritto liberali. Noi crediamo che “crimini di guerra” sia un marchio d’infamia ovunque. Ma Putin se ne infischia e bombarda le città ucraine. Allo stesso modo il governo Netanyahu è indifferente all’accusa di mantenere un apartheid nei Territori, alle cacce al palestinese nel West Bank sotto gli occhi ciechi dell’esercito, ai richiami di Washington per le mega bombe che piovono su Gaza. Ancora: la stima di cui gode Hamas in segmenti islamici non è stata scalfita dall’infamia dei massacri. E Trump? Minacciò d’arresto gli inquirenti della Corte penale internazionale se avessero messo piede negli Usa. La destra israeliana farà il possibile per fargli vincere le presidenziali del 2024. Se questo è lo sfondo, allora la guerra di Gaza è il test per verificare la residua vitalità dello stremato ordine internazionale liberale. Gli Stati Uniti di Biden, che oggi ne sono il garante ultimo, possono sperare che l’esercito israeliano liberi presto gli ostaggi, chiuda in fretta la partita con Hamas e accetti una qualche soluzione saggia per la Striscia. Ma se la guerra si protraesse, se gli ostaggi e i palestinesi diventassero il pasto umano di due Assoluti, allora Gaza offrirebbe occasioni e pretesti per mobilitare ovunque gli adepti delle civiltà. I fondamentalisti musulmani sotto i vessilli neri della santa alleanza islamica, Netanyahu e gli amici occidentali con le bandiere “giudaico-cristiane” aspettando Trump, e in mezzo un occidente fiacco, incerto, disunito: l’ordine internazionale liberale rischierebbe il disfacimento. Gronda doppiezze, ipocrisie, falsità, pretese egemoniche, cinismi imperiali, le meschinità che gli hanno procurato una sequenza di fallimenti. Ma, bene o male, ha permesso allo stato di diritto liberale di consolidarsi in una dimensione mai raggiunta nella storia. Vale la pena di difenderlo da nemici e finti amici, in Medio Oriente, in Europa, in Italia. Medio Oriente. “A Gaza la gente ha perso tutto. L’Onu non è in grado di fornire l’assistenza” di Michele Giorgio Il Manifesto, 9 novembre 2023 Intervista ad Andrea Di Domenico, a capo di Ocha, l’ufficio dell’Onu per gli affari umanitari: coloro che vanno a sud dovrebbero trovare dei rifugi sicuri ma di sicuro non c’è nulla. La condizione dei civili palestinesi a Gaza peggiora con il passare dei giorni. Per fare il punto della situazione, abbiamo intervistato a Gerusalemme Andrea Di Domenico, a capo di Ocha, l’Ufficio dell’Onu di coordinamento degli affari umanitari. Il segretario generale Guterres insiste per un cessate il fuoco immediato a Gaza... Il suo appello per un cessate il fuoco umanitario è più che giustificato. Abbiamo un milione di sfollati e stimiamo che 400-500mila persone siano ancora nel nord di Gaza (sotto attacco israeliano, ndr). Come Nazioni unite non siamo in grado di distribuire l’assistenza nei modi e nelle quantità che richiede questa situazione tanto grave. Abbiamo grandi difficoltà a soddisfare le richieste di beni primari: acqua, cibo e medicine. Poi ci sono altri beni che consideriamo ugualmente primari, come i materassi e le coperte. La gente ha perso tutto, le case sono state bombardate. Circa 700mila sfollati sono nei centri di accoglienza. Solo alcuni di questi luoghi erano preparati per questa funzione, i rimanenti sono scuole dell’Unrwa (Onu) riorientate per questo scopo all’ultimo momento. Lo sforzo umanitario inoltre è stato messo in piedi all’improvviso. I nostri piani di contingenza prevedevano una risposta a partire dal nord dove avevamo le nostre infrastrutture ma la guerra, per come si è sviluppata, ci ha ribaltato completamente il tavolo. Parliamo proprio nel nord di Gaza, le informazioni disponibili parlano di distruzioni senza precedenti... Abbiamo un accordo con Unosat che ci mette a disposizione immagini di Gaza studiate ed analizzate da esperti in grado di determinare l’impatto della guerra sul terreno. Stimiamo perciò una distruzione totale o parziale del 15% delle abitazioni palestinesi nel nord. Naturalmente queste distruzioni si concentrano in determinate zone. Colleghi mi dicono che (i reparti israeliani) stanno ora stringendo sul quartiere Rimal di Gaza city, il che vuol dire che sono vicini all’ospedale Shifa che è uno dei problemi più grossi. Da un lato abbiamo una delle strutture sanitarie più importanti, dall’altro ci sono le accuse di Israele secondo le quali lo Shifa verrebbe utilizzato dai miliziani (di Hamas). Abbiamo ribadito la nostra posizione contraria al possibile uso degli ospedali a protezione di obiettivi militari. Lo diciamo a tutti, anche ad Hamas. Allo stesso tempo ciò non significa che l’altra parte (Israele) sia giustificata a bombardare l’ospedale. Sono davvero sicuri i corridoi aperti da Israele per lo spostamento dei civili da nord a sud di Gaza? Abbiamo detto agli israeliani che per garantire i civili non è possibile dichiarare unilateralmente un corridoio, occorre che tutte le parti in conflitto siano d’accordo. Sabato e domenica scorsi lungo questo corridoio, la superstrada Salah Edin che va da nord a sud di Gaza, ci sono stati scontri a fuoco. Oltretutto la strada è danneggiata in più punti perché bombardata e non è percorribile dagli autoveicoli, molti dei quali fermi per la mancanza di carburante. Quindi si va a piedi e le persone che non sono in grado di camminare fanno i conti con questo grave impedimento. Inoltre coloro che vanno a sud dovrebbero trovare dei rifugi sicuri ma come abbiamo visto di sicuro non c’è nulla neanche a sud. La quantità di strutture delle Nazioni unite prese di mira è enorme. Il carburante. Israele dal 7 ottobre non ne permette l’ingresso a Gaza. Come fanno le Nazioni unite a continuare il loro lavoro? Il carburante che riceviamo non è sufficiente a coprire i bisogni. Diamo priorità ai rifornimenti per l’impianto di desalinizzazione che dare acqua potabile alla popolazione e ai rifornimenti per gli ospedali. Per quelli al nord c’è l’opposizione di Israele che parla di scorte di carburante in possesso di Hamas e che dovrebbero essere date degli ospedali. Le strutture sanitarie stanno facendo di tutto per risparmiare energia. Allo Shifa ci sono 43 neonati nelle incubatrici e una quarantina di pazienti necessitano dei respiratori. Dovesse mancare l’elettricità quelle persone sarebbero condannate a morte. Noi non sappiamo nulla di questo carburante nascosto, non possiamo confermarlo o smentirlo. Sappiano invece che il carburante serve a produrre elettricità per usi civili. Anche per i depuratori. Sappiamo che acqua di fogna non trattata defluisce al sud dove si ammassano gli sfollati. La popolazione ora cammina sull’acqua di fogna esponendosi al rischio di malattie infettive. Marocco. Carceri sovraffollate: oltre 100 mila detenuti. “Mancano fondi e personale” ansa.it, 9 novembre 2023 L’allerta del direttore dei penitenziari. Carceri sovraffollate in Marocco: 103 mila detenuti nel 2023 e a poco serve il budget stanziato dalla Finanziaria per l’anno 2024, che ammonta a circa 95 milioni di euro, per le operazioni e 16 per gli investimenti. In Parlamento in questi giorni si discute del progetto di bilancio di settore per il 2024 e tocca a Mohamed Salah Tamek, responsabile dell’Amministrazione penitenziaria sciorinare i dati in un dossier esplosivo. Il numero dei detenuti è aumentato notevolmente, nell’ultimo anno, superando quota 100.000, con un incremento del 6% (fine ottobre 2023) rispetto all’anno precedente. L’anno scorso se ne contavano 97.204. Il che pone il Marocco nei primi posti della regione mediterranea per tasso di carcerazione, ovvero 272 detenuti ogni 100.000 abitanti. Gli ultimi dati disponibili provenienti dai paesi vicini rivelano che l’Algeria è a 1.217 ogni 100.000 abitanti, la Tunisia a 196, la Spagna a 113, la Francia a 109, l’Italia a 99 e la Mauritania a 57. Dei 100 mila ad oggi nelle carceri marocchine, 1.432 sono stranieri e il 77 per cento proviene da paesi africani. La detenzione per reati legati al patrimonio e al traffico di droga rappresenta più della metà della popolazione carceraria, con 29.622 detenuti per reati contro il patrimonio e 29.180 per casi legati alla droga. La distribuzione delle condanne mostra che il 43,82% dei detenuti sono condannati a meno di due anni di carcere, ma sono rappresentate anche condanne più pesanti, tra cui l’ergastolo e la pena di morte. C’è poi da fare i conti con la carenza di personale - spiega ancora Mohamed Salah Tamek - che fa presagire un peggioramento della situazione con l’attuazione delle disposizioni di legge relative alle pene alternative. “Per sostenere i diecimila detenuti che beneficeranno delle pene alternative si stima siano necessari altri 4.000 dipendenti pubblici”, che devono essere sommati ai 12mila che mancano in organico.