Case di reinserimento sociale contro il sovraffollamento: la proposta di Magi di Valentina Stella Il Dubbio, 8 novembre 2023 La presentazione di una proposta di legge per l’istituzione delle Case Territoriali di Reinserimento Sociale è stata al centro di una conferenza stampa organizzata ieri alla Camera. Nata dal lavoro della Società della Ragione e presentata dal segretario di + Europa Riccardo Magi, è stata sottoscritta anche da Benedetto della Vedova di + Europa, Debora Serracchiani e Federico Gianassi del Pd, Enrico Costa di Azione, Luana Zanella e Devis Dori di Alleanza Verdi- Sinistra e Roberto Giachetti di Italia Viva. La proposta è finalizzata ad istituire strutture alternative al carcere, volte ad accogliere tutti i detenuti e le detenute che stanno scontando una pena detentiva anche residua non superiore a 12 mesi. Al 31 dicembre 2022 si trattava di oltre 7.200 persone in carcere, attualmente in aumento, mentre il sovraffollamento è arrivato al 125%. In queste nuove strutture, di capienza limitata, compresa tra cinque e quindici persone, che sarebbero istituite d’intesa con la Conferenza Stato- Regioni, sentiti i Comuni, “sarebbe concretamente possibile - hanno spiegato i proponenti - dare attuazione al principio costituzionale della finalità rieducativa della pena, con lavori di pubblica utilità e progetti che coinvolgano figure di educatori, psicologi e assistenti sociali, e altre attività cogestite con enti del Terzo settore”. Anche il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, presieduto da Mauro Palma, aveva evidenziato l’opportunità di istituire strutture di responsabilità territoriale diverse dal carcere di questo tipo, riconoscendo l’inadeguatezza della stragrande maggioranza delle carceri italiani a rappresentare un luogo in cui sia garantito il reinserimento sociale dei detenuti. Proprio Palma, nella sua relazione annuale, aveva ricordato che lo scorso anno sono state 1471 le persone condannate e con pena eseguita inferiore ad un anno. Tale prospettiva si scontra naturalmente con quella del sottosegretario alla giustizia Andrea Delmastro delle Vedove che due giorni fa, nell’annunciare un impegno economico di Mit e ministero della Giustizia per 166 milioni relativi a 21 interventi di edilizia penitenziaria, ha specificato che “il sovraffollamento carcerario si affronta con l’edilizia penitenziaria e non con i soliti provvedimenti svuota carceri a cui ci hanno abituato i governi passati, che erodono la certezza della pena, aumentano l’insicurezza sociale e non affrontano strutturalmente il tema del sovraffollamento”. Gli ha replicato Riccardo Magi: “Io di provvedimenti svuota-carcere non ne ho mai visti. La soluzione di puntare sull’edilizia penitenziaria non è efficace, sono anni che viene proposta questa non soluzione senza mai ottenere risultati sul fronte della qualità e dell’efficacia della pena detentiva. E ricordo che la nostra Costituzione prevede il reinserimento sociale”. Debora Serracchiani, responsabile giustizia del Pd: la pdl “è uno strumento prezioso che speriamo possa essere patrimonio comune di opposizioni, maggioranza e governo. È una sfida, prima ancora culturale, che porteremo a Nordio del quale, non molto tempo fa, abbiamo apprezzato le posizioni. Sperando che non abbia cambiato idea, con questa pdl gli tendiamo la mano e auspichiamo che ci dica che ben volentieri accetta l’aiuto”. Le case di reinserimento sociale, presentata la proposta di legge Presentata alla Camera dei Deputati la proposta di legge per l’istituzione delle Case Territoriali di Reinserimento Sociale. È stata presentata ieri alla Camera dei Deputati la proposta di legge n. 1064 per l’istituzione delle Case Territoriali di Reinserimento Sociale, nata dal lavoro della Società della Ragione e presentata dal Segretario di Più Europa Riccardo Magi, e sottoscritta anche da Benedetto della Vedova di +Europa, Deborah Serracchiani e Federico Gianassi del Partito Democratico, Enrico Costa di Azione e da Luana Zanella e Devis Dori di Alleanza Verdi-Sinistra. La proposta di legge è finalizzata ad istituire strutture alternative al carcere, volte ad accogliere tutti i detenuti e le detenute che stanno scontando una pena detentiva anche residua non superiore a dodici mesi. Al 31 dicembre 2022 si trattava di oltre 7.200 persone in carcere, attualmente in aumento, che sarebbero destinatari di questa riforma. In queste nuove strutture, di capienza limitata, compresa tra cinque e quindici persone, che sarebbero istituite d’intesa con la Conferenza Stato-Regioni, sentiti i Comuni, sarebbe concretamente possibile dare attuazione al principio costituzionale della finalità rieducativa della pena, con lavori di pubblica utilità e progetti che coinvolgano figure di educatori, psicologi e assistenti sociali, e altre attività cogestite con enti del Terzo settore. Anche il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, presieduto da Mauro Palma, aveva evidenziato l’opportunità di istituire strutture di responsabilità territoriale diverse dal carcere di questo tipo, riconoscendo l’inadeguatezza della stragrande maggioranza delle carceri italiani a rappresentare un luogo in cui sia garantito il reinserimento sociale dei detenuti. Alla Conferenza Stampa, oltre ai parlamentari firmatari, hanno partecipato Stefano Anastasia, Garante dei Detenuti della Regione Lazio e Portavoce della Conferenza dei Garanti Territoriali e Franco Corleone, Garante dei Detenuti di Udine. “100 milioni per nuove carceri? Meglio destinarli ad un fondo per l’esecuzione penale esterna” garantedetenutilazio.it, 8 novembre 2023 Così il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio Stefano Anastasìa: “Potrebbero accogliere almeno diecimila persone”. “Il comitato interministeriale per l’edilizia penitenziaria presieduto dal ministro Salvini proprio ieri ha stanziato 166 milioni di euro per la realizzazione di nuovi istituti penitenziari. Di questi, circa 100 milioni di euro saranno destinati alla realizzazione di nuove carceri: realisticamente 1000/1500 posti detentivi fra 10 anni, se ci sarà il personale per aprirle. Se questi 100 milioni fossero destinati dalla legge di bilancio in discussione in queste ore a un fondo per l’esecuzione penale esterna, da ripartire tra le regioni, si potrebbero accogliere almeno 10.000 persone che oggi sono in carcere, grazie all’impegno di regioni e comuni.”. “Questa - ha proseguito Anastasìa - è la differenza tra una soluzione pragmatica, praticabile ed efficace contro il sovraffollamento che prefigura la realizzazione delle case per il reinserimento sociale che qui viene proposta, e la continua ripetizione dell’identico, vale a dire il solito, inutile stanziamento per nuove carceri che arriveranno a babbo morto”. Le case territoriali di reinserimento sociale - La proposta di legge n. 1064, nata dal lavoro della Società della Ragione, è stata presentata da Magi e sottoscritta anche dai parlamentari Benedetto Della Vedova, Enrico Costa, Devis Dori, Roberto Giachetti, Federico Gianassi, Debora Serracchiani e Luana Zanella, i quali chiedono un confronto con il ministro della Giustizia Carlo Nordio, per verificare se la proposta può entrare nei progetti del governo. La proposta è finalizzata a istituire strutture alternative al carcere, volte ad accogliere le persone detenute che stanno scontando una pena detentiva anche residua non superiore a dodici mesi. Una riforma di questo tipo potrebbe interessare oltre 7200 persone su una popolazione detenuta che sfiora le 59 mila unità, attenuando così in maniera significativa il sovraffollamento cronico del sistema penitenziario italiano (superiore al 125 per cento sulla capienza effettiva, al 30 ottobre). Nel corso della conferenza stampa è stato ricordato che la proposta delle case di reinserimento sociale nasce da un’idea di Alessandro Margara, magistrato scomparso nel 2016, autore della riforma penitenziaria nota come legge Gozzini, nell’ambito di una più generale proposta di riforma dell’ordinamento penitenziario. Franco Corleone, già parlamentare italiano ed europeo e sottosegretario alla Giustizia, Il Garante delle persone detenute del Comune di Udine, ha ricordato l’esperienza delle 500 case mandamentali, istituite nel 1941 e pressoché tutte dismesse nel 2008, in cui erano detenute le persone in attesa di giudizio per reati lievi, oppure condannate a pene fino a un anno, ed ivi trattenute in una gestione che Corleone ha definito “familiare”. “L’esperienza delle case mandamentali - ha ricordato Corleone - fu chiusa, perché si pensava che la riforma avrebbe portato a una maggiore applicazione delle misure alternative”. L’idea di proponenti è quella di nuove strutture sul territorio, di capienza limitata, compresa tra cinque e quindici persone, che sarebbero istituite d’intesa con la Conferenza Stato-Regioni, sentiti i Comuni, dando così concreta attuazione al principio costituzionale della finalità rieducativa della pena, con lavori di pubblica utilità e progetti che coinvolgano figure di educatori, psicologi e assistenti sociali, e altre attività cogestite con enti del Terzo settore. Pnrr, zero risorse per i Tribunali di sorveglianza di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 8 novembre 2023 “I Tribunali di sorveglianza non hanno avuto le risorse dal Pnrr e sono stati totalmente esclusi dall’Ufficio per il processo. La digitalizzazione, poi, è all’anno zero: lavoriamo ancora con procedimenti esclusivamente cartacei, non esiste il fascicolo informatico del detenuto e del libero affidato, si fa fatica perfino ad acquisire le informazioni e i documenti che servono per l’istruttoria”, afferma Cristina Ornano, presidente della Sorveglianza di Cagliari, descrivendo uno scenario quanto mai impietoso per l’esecuzione penale nel nostro Paese. Il sovraffollamento carcerario è un problema ormai strutturale. Allo scorso luglio, i detenuti erano 57.749 a fronte di una capienza regolamentare calcolata secondo le indicazioni della Cedu a 51.403 posti. La serie storica attesta come a partire dal 1992 la popolazione carceraria sia progressivamente aumentata, riducendosi a seguito dell’indulto, ma riprendendo inesorabilmente a crescere fino a superare nel 2010 la soglia dei 65.000 reclusi. Da allora il tasso di sovraffollamento si è abbassato grazie a interventi normativi “sfolla-carcere”, ma tra il 2012 e il 2022 il tasso medio di affollamento è stato pari a circa 57.000 persone. A breve, però, si supererà il tetto delle 60.000 presenze, riproducendosi una situazione di disagio analoga a quella che nel 2013 aveva comportato la condanna dell’Italia in sede europea per trattamento inumano e degradante. “Un carcere con numeri non elevati e di dimensioni adeguate consente di dare effettività ai principi costituzionali in materia di pena e, in particolare, alla funzione rieducativa della pena. Sovraffollamento, invece, non significa solo minor spazio pro capite disponibile, ma significa minore assistenza sanitaria, minori opportunità trattamentali e meno rieducazione e risocializzazione”, sottolinea la magistrata. “La riforma Cartabia, al di là degli slogan - aggiunge - non frenerà questo trend se non in modo marginale, perché non incide sulle cause di questo sovraffollamento che sono in parte riconducibili al disagio sociale ed economico sempre più diffuso, ad un welfare sempre più fragile e alla mancanza di sicurezza sociale, ma in parte è dovuto al regime dell’ostatività e degli automatismi. In ogni caso, questi effetti limitati, seppur vi saranno, si potranno apprezzare solo nel medio periodo”. Attualmente sono oltre 90.000 i procedimenti pendenti in materia di richiesta di misura alternativa in attesa di definizione. “Quando la pena non è ancora espiata non è possibile avere il passaporto, è molto più difficile trovare lavoro e opportunità risocializzanti e si vive in una condizione di incertezza sul proprio futuro. Molte pene vengono poi espiate a distanza di molti anni; ma espiare una pena a 5 o 10 e più dal giudicato per fatti ancor più vecchi, toglie senso alla pena e porta con sé una ulteriore componente”, ricorda la giudice di Cagliari. Vi è poi il capitolo irrisolto delle Rems - Residenze sanitarie per l’esecuzione delle misure di sicurezza - destinate a soggetti riconosciuti incapaci di intendere e volere al momento del fatto per infermità di mente e ritenuti socialmente pericolosi. Sarebbero circa 700, le persone socialmente pericolose e che attendono di essere curate, in attesa di farvi ingresso. Con stime del tutto incerte ed approssimative, circa 50 sono tuttora recluse in carcere. “È una situazione di gravissima illegittimità perché non v’è alcun titolo che giustifichi il trattenimento in carcere e, tuttavia, ancora recluse perché socialmente pericolose; vi sono poi coloro i quali, destinatari della misura di sicurezza, sono in stato di libertà in attesa di fare ingresso in Rems, soggetti che di regola rifiutano il trattamento terapeutico e che sono socialmente pericolosi, anch’essi posti, spesso senza alcun controllo e monitoraggio, nel limbo di una lista d’attesa che può durare mesi, quando non anni”, puntualizza la magistrata, citando la sentenza 22 del 2022 della Corte Costituzionale che a tal proposito ha sostanzialmente “messo in mora il governo ed il parlamento”. “Il ministro, in luogo di occuparsi di temi come quello della separazione delle carriere e delle intercettazioni che in nulla migliorano la qualità del servizio e la sua efficienza, svolga i compiti che la Costituzione gli assegna, ossia provvedere in ordine ai servizi ed all’organizzazione della Giustizia”, ha quindi concluso la presidente Ornano. Pnrr: si riduce la durata dei processi, resta alto lo stock di arretrato civile di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 8 novembre 2023 Il quadro emerge dai dati di monitoraggio del primo semestre 2023. La durata media di un processo penale, in tutte le sue fasi, è scesa al di sotto della soglia dei mille giorni. Si riduce la durata dei processi in linea con gli obiettivi del Pnrr. Accelera anche l’abbattimento dell’arretrato ma non quanto basta. La fotografia emerge dai dati di monitoraggio del primo semestre 2023, il primo dopo l’entrata in vigore delle riforme del processo civile e penale, e che registra gli effetti dei cambiamenti organizzativi attuati dagli uffici giudiziari, anche con l’arrivo degli addetti all’Ufficio per il processo. La relazione che espone i dati è stata curata dalla Direzione generale di statistica e analisi organizzativa (DgSTat) del Ministero della Giustizia, e tiene conto anche delle influenze positive dovute alla riduzione del numero degli iscritti accaduto durante il periodo pandemico. Per prima cosa è utile ricordare i target negoziati con la Commissione: riduzione del disposition time complessivo, dato dalla somma del disposition time nei tre gradi di giudizio, del 40% nel settore civile e del 25% nel settore penale entro giugno 2026; riduzione dell’arretrato civile del 65% in Tribunale e del 55% in Corte di appello entro fine 2024; del 90% in Tribunale e in Corte di appello entro giugno 2026. I valori al 30 giugno 2023, confrontati con quelli del 2019 (anno di riferimento fissato nel PNRR) segnalano una decisa accelerazione nella riduzione della durata dei processi calcolata in base al disposition time, l’indicatore di durata che misura il rapporto tra i processi pendenti e quelli definiti, con valori di: - 19,2% nel settore civile; 29,0% in quello penale. Penale - Particolarmente decisa la riduzione nell’ultimo anno nel settore penale (- 17,5% rispetto al I semestre del 2022), grazie a un aumento consistente dei procedimenti definiti. In attesa di un consolidamento degli andamenti, sulla base dei dati dei prossimi mesi, la tendenza registrata nel primo semestre 2023 è in linea con l’obiettivo finale concordato con la Commissione europea, consistente nella riduzione del 25% della durata dei processi penali entro giugno 2026. La durata media di un processo penale, in tutte le sue fasi, è scesa al di sotto della soglia dei mille giorni. Il dato disaggregato per sede mostra una riduzione del DT rispetto alla baseline nel 79% delle Corti di appello (migliorano 23 corti su 29) e nell’81% dei Tribunali (114 su 140). Con riguardo alle pendenze le riduzioni interessano il 62% delle Corti e il 74% dei Tribunali. Civile - Più contenuto nell’ultimo anno il calo del disposition time in ambito civile (-1,0% rispetto al I semestre 2022), ma si registra un andamento positivo del Tribunale e della Corte di appello, con una diminuzione (rispettivamente, dell’8,9 e del 7,8 per cento). Con il mantenimento di questo andamento risulta raggiungibile l’obiettivo preso con la Commissione europea della riduzione del disposition time complessivo del 40% entro giugno 2026. Riguardo all’arretrato civile, gli ultimi dati segnalano una accelerazione nella tendenza di smaltimento, in particolare nel Tribunale, l’ufficio che fino ad ora ha mostrato le maggiori difficoltà. Al 30 giugno 2023 le variazioni rispetto al 2019 si sono attestate sui valori seguenti: -19,7% in Tribunale; -33,7% in Corte di appello. I dati mostrano quindi un buon andamento dello smaltimento dell’arretrato, che tuttavia rimane ancora al di sotto di quello necessario a raggiungere gli obiettivi concordati con la Commissione europea che prevedono, per giugno 2026, un abbattimento del 90% rispetto al dato del 2019, sia in Tribunale sia in Corte di appello. Il prossimo aggiornamento, relativo alla chiusura dell’anno 2023, verrà pubblicato ad aprile 2024. Sorpresa, la giustizia italiana è diventata più veloce di Francesco Grignetti La Stampa, 8 novembre 2023 Nei primi sei mesi del 2023 i tempi sono crollati del 29% rispetto al 2019. Il merito è del Pnrr e della riforma Cartabia. Sorpresa: la giustizia italiana s’è messa a correre. E di colpo i tempi del processo penale si sono accorciati vertiginosamente. Nei primi sei mesi del 2023, un processo penale impiega 989 giorni per arrivare alla sentenza di Cassazione. Sono meno di 3 anni per una decisione definitiva, tutto incluso. I tempi sono crollati del 29% rispetto alle medie del 2019; in pratica abbiamo raggiunto nel penale i risultati concordati con l’Europa con tre anni di anticipo. “In linea con gli obiettivi del Pnrr concordati con l’Europa”, sottolinea il ministero della Giustizia. Per il civile va meno bene, ma comunque le cose sono migliorate. Non era scontata questa performance. Ed è merito - in egual misura - del Pnrr e della ex ministra Marta Cartabia. Con i fondi europei sono stati assunti circa 8mila neolaureati con contratti triennali, dando vita a un’innovazione che si chiama Ufficio per il processo. Li hanno affiancati ai magistrati. E il loro apporto si sta rivelando prezioso. Tanti giovani molto preparati, dinamici, che capiscono di informatica, sono preziosi. Ecco dunque che sono aumentate le decisioni del magistrato titolare, ma sono anche crollati i tempi morti nel trasferimento da un grado all’altro del processo. Dall’altra, ci sono alcune novità nella procedura penale - farina del sacco della ex ministra - che permettono più definizioni. Nel confronto tra i dati del 2019 e il 2023, i tempi si sono ridotti in tutte le fasi del giudizio: -29,7% in tribunale, -26,6% in Corte di Appello e -39,1% in Corte di Cassazione. Un successone. “Non voglio cantare vittoria troppo presto”, si schermiva nei giorni scorsi il ministro Carlo Nordio. E comunque riconosceva che l’attuale governo non c’entra nulla. “Merito della ministra Cartabia che è stata una brava ministra”, ha riconosciuto il Guardasigilli. Questi numeri così incoraggianti si portano dietro, però, una polemica. “Bene, molto bene. Ma allora, visto che questi dati sono il frutto delle riforme fatte nella scorsa legislatura, a cominciare da quella Cartabia sulla improcedibilità che il governo vuole affondare, ci chiediamo: perché modificarle mettendo a rischio i fondi del Pnrr, ad esempio con la nuova riforma della prescrizione? Queste riforme sono vittima del loro furore ideologico? Sembra quasi che l’analisi scientifica sia sostituita da un approccio volutamente di parte, la parte peggiore che non lavora per il bene del Paese”, dichiarano i parlamentari dem che si occupano di giustizia, capeggiati da Debora Serracchiani. Coglie l’occasione per togliersi qualche sassolino dalla scarpa anche il professor Gian Luigi Gatta, ordinario di diritto penale alla Statale di Milano, già consulente di Cartabia: “L’analisi dei dati mette in evidenza un risultato senza precedenti nella storia repubblicana nel settore penale”. Merito di quella squadra. “La narrazione pessimista sul Pnrr, in materia di giustizia, deve quindi essere sottoposta a un serio fact-checking”. Il professor Gatta non è convinto della necessità di modificare per l’ennesima volta i meccanismi della prescrizione e difende la riforma Cartabia, che aveva previsto un sistema misto (sostanziale fino al primo grado, processuale nei due gradi successivi): “Con una media della durata dell’Appello inferiore ai due anni, l’improcedibilità non sarà affatto una tagliola destinata a mandare in fumo migliaia di processi. Come paventato dai (non pochi) detrattori dell’istituto, anche con toni apocalittici: sarà un evento eccezionale e limitato, non sistemico come la prescrizione del reato, che ancora nel 2022, per i fatti commessi prima del 1° gennaio 2020, ha interessato oltre 30.000 procedimenti penali in Appello”. Il premierato manda in soffitta la riforma Nordio di Paolo Pandolfini Il Riformista, 8 novembre 2023 Giorgia Meloni vuole il via libera dalle Camere alla riforma sul Sindaco d’Italia entro il prossimo mese di giugno, prima quindi delle elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo dove FdI ha intenzione di fare cappotto sulle spalle degli alleati. La riforma della giustizia pensata dal Guardasigilli Carlo Nordio, e quindi la separazione delle carriere in magistratura, rischia - purtroppo - di rimanere nel libro dei sogni. A stopparne il cammino, infatti, c’è la riforma sul premierato imposta dal Giorgia Meloni e che costringerà inevitabilmente il ministro della giustizia a rivedere i propri programmi. Per mesi Nordio ha ostentato sicurezza, affermando che la separazione delle carriere fra pm e giudici “non è negoziabile”. La separazione, ha sempre ricordato il ministro, “è nel programma di governo, è stata concordata da tutte le forze di coalizione, e va attuata per rispetto dei cittadini che ci hanno votato”. Questa riforma, poi, è legata al processo accusatorio. “Se noi attuiamo il processo accusatorio, dobbiamo attuare anche la separazione delle carriere altrimenti abbiamo una Ferrari col motore di una Cinquecento”, aveva sottolineato Nordio, evidenziando però che la separazione “richiede una revisione costituzionale” e quindi “non sarà in tempi brevi”. I tempi già non brevi ipotizzati da Nordio rischiano adesso di dilatarsi oltre misura. Meloni, infatti, vuole il via libera dalle Camere alla riforma sul premierato entro il prossimo mese di giugno, prima quindi delle elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo e dove FdI ha intenzione di fare cappotto sulle spalle degli alleati. La premier sa bene che su questa riforma si gioca gran parte della sua credibilità e, per tale motivo, è pronta allo scontro con le opposizioni dando per scontato il ricorso al referendum nel 2025. Almeno di novità dell’ultimo momento, la riforma del premierato dovrebbe cominciare il suo lungo percorso dalla Camera, anche perché il Senato è impegnato nell’esame dell’autonomia differenziata che secondo quanto chiesto dalla Lega e ribadito da Matteo Salvini “deve andare di pari passo con il premierato”. Un’impostazione che la premier ha già detto di condividere. Inoltre, a Palazzo Madama c’è al momento un maggiore intasamento di decreti da approvare e anche, per restare in tema di giustizia, un ddl super “incandescente”: quello sull’abolizione dell’abuso d’ufficio. In questo scenario quanto mai complicato è difficile allora trovare spazio per la riforma di Nordio. Sulla separazione delle carriere, va precisato, si discute senza soluzione di continuità da più di trenta anni, da quando è entrato in vigore l’attuale codice di procedura penale di tipo accusatorio. Oltre ad innumerevoli iniziative parlamentari, sul tema si sono cimentati i Radicali con i loro referendum, l’ultimo “sponsorizzato” dalla Lega, e le Camere penali che sul punto raccolsero oltre 700mila firme. Su quale debba essere l’inquadramento del pubblico ministero nell’ordinamento giudiziario italiano sono intervenuti negli anni i migliori giuristi del Paese. Le riforme approvate hanno cercato di scoraggiare e limitare quanto più possibile i passaggi fra funzioni. La recente riforma Cartabia, approvata dopo una complicata mediazione tra posizioni molto distanti all’interno dei partiti che appoggiavano il governo Draghi, ha ad esempio ridotto ad uno solo il passaggio fra funzioni, da effettuarsi entro i dieci anni dalla prima assegnazione. Trascorso tale periodo, è ancora consentito per una volta il passaggio dalle funzioni giudicanti alle funzioni requirenti, purché la toga non abbia mai svolto funzioni giudicanti penali. Il passaggio dalle funzioni requirenti alle funzioni giudicanti civili o del lavoro avverrà poi in un ufficio giudiziario diviso in sezioni, purché il magistrato non si trovi, neanche in qualità di sostituto, a svolgere funzioni giudicanti penali o miste. Nel 2022 le richieste di passaggio di funzione erano state appena venti su un organico di oltre novemila magistrati. Anche quest’ultima riforma, comunque, non ha impedito di superare la comune appartenenza all’Ordine giudiziario che, soprattutto nei piccoli uffici giudiziari, determina la creazione di rapporti “amicali” fra colleghi, spesso anche vincitori dello stesso concorso, che non può non riverberarsi, anche solo sotto il profilo dell’apparenza, sulla terzietà ed imparzialità che deve avere il giudice. Pur essendo argomenti quanto mai condivisibili, Meloni, concentrata sulla riforma del premierato, non ha alcuna intenzione di avventurarsi su un tema scivoloso come la separazione delle carriere, con conseguente campagna mediatica durissima “sponsorizzata” dall’Associazione nazionale magistrati che farebbe passere l’esecutivo di destra per quello che vuole bloccare il lavoro dei pm e favorire la criminalità. Un danno all’immagine della premier che viene da un partito, il Movimento sociale, tutto “legge e ordine”. E dopo quanto accaduto in queste settimane, nessuno a palazzo Chigi sente il bisogno di altri “inciampi”. Resta da capire, a parte Nordio, come reagiranno gli alleati di governo, ad iniziare da Forza Italia che si è molto impegnata sulla giustizia in questi mesi. Gli Usa e la Francia processano i politici. Allora non c’entrano le carriere separate... di Tiziana Maiolo Il Dubbio, 8 novembre 2023 La Francia sta processando il ministro della giustizia Eric Dupond-Moretti, ed è la prima volta di un guardasigilli in carica. Negli Stati Uniti è alla sbarra Donald Trump, ed è la prima volta di un ex Presidente. Due sistemi diversi, nel primo il pm è un funzionario che risponde direttamente al ministro, nel secondo è una carica elettiva nei sistemi statali e di nomina governativa in quello federale. Due sistemi molto lontani da quello dell’Italia, perché in ambedue è garantita la terzietà dei giudici, mentre il rappresentante dell’accusa ne è lontano e separato. Due Stati che hanno la forza di processare i propri rappresentanti anche se il pubblico ministero non è politicamente autonomo e non responsabile, come accade in Italia. Dove invece l’ipotesi di un legame tra colui che rappresenta l’accusa e il governo è agitata nei confronti di chi sostiene la separazione delle carriere, non solo come conseguenza automatica della riforma, ma anche come rischio per la democrazia. Due punti vanno chiariti. Il primo è che la proposta di legge in discussione nel nostro Parlamento, come articolata in un testo dell’Unione Camere Penali, forte di 70.000 firme raccolte tra i cittadini, prevede che pm e giudice facciano parte dello stesso ordinamento e si distinguano solo per funzioni, carriere e organizzazioni, con i due Csm. Il secondo è che solo nei paesi totalitari esiste la corporazione simile a quella italiana, mentre in tutte le democrazie occidentali i due ruoli, quello di chi accusa e quello che giudica, sono nettamente separati e il primo spesso deve render conto del proprio operato al famigerato “esecutivo”. Sotto sotto, nella cultura contro-riformatrice, e spesso addirittura reazionaria più che conservatrice della magistratura italiana, c’è una visione moralistica e dispregiativa nei confronti del mondo politico, istituzioni comprese. Non stiamo parlando di qualche singolo magistrato ma dell’intera, o quasi, Anm, cioè il sindacato che ha mobilitato di recente 1.000 toghe con una petizione che indicava come “norma pericolosa” quella sulla separazione delle carriere voluta dal ministro Carlo Nordio e dall’avvocatura intera, oltre che dalla gran parte del mondo politico. Pericolosa perché? Prima ancora della mobilitazione dei mille, erano partiti all’attacco i 500, la metà numerica ma più del doppio per peso specifico, cioè i procuratori in pensione come Giancarlo Caselli e Armando Spataro, l’avanguardia torinese della conservazione. Quali i “pericoli” per la democrazia? I due argomenti da sempre agitati in favore della conservazione eterna dell’esistente sono sempre gli stessi, e farebbero sorridere se dovessero entrare rumorosamente d’improvviso nelle aule dove, a New York e a Parigi, si stanno processando Donald Trump e Eric Dupond-Moretti. Punto uno: proviamo a accusare i rispettivi pubblici ministeri, l’americano e il francese, di essere privi della “cultura della giurisdizione”. E poi rinfacciamo loro il fatto di non avere la volontà di processare gli uomini di governo a causa della loro subalternità dal potere medesimo. Come mai, potremmo domandarci, il presidente Trump, che a sentire i sondaggisti americani, potrebbe vincere le elezioni del 2024, strilla nell’aula del tribunale di Manhattan dove deve rispondere di frode commerciale, “questo è un processo ingiusto” e “questa è una persecuzione da caccia alle streghe”? Il fatto che il pm sia di nomina governativa non dovrebbe rendere lo stesso un imbelle tremante burattino nelle mani del potere? E quando il ministro Dupond- Moretti esordisce davanti alla Corte di giustizia della Repubblica sibilando “questo processo è un’infamia”, sta forse solo bacchettando un suo sottoposto “ribelle”? Ma il punto centrale, quello che purtroppo rimane sempre un po’ nascosto, perché lo si dà per scontato o forse perché non è quello che dà il vero potere alle ambizioni delle toghe, è il ruolo del giudice. È di lui che si dovrebbe parlare, non solo in Parlamento in sede di riforma, ma anche nei convegni e nelle riunioni sindacali dei magistrati. Si dovrebbe avere a cuore la sua terzietà tra le parti, il suo essere soggetto neutro tra i contendenti. Lui dovrebbe essere il soggetto da difendere, il più degno di indossare la toga, e magari anche la parrucca. Ma troppo spesso pare invece, tra i suoi colleghi, il vaso di coccio in mezzo alla ferocia di quelli di ferro, come è capitato al gip di Milano Tommaso Perna. La Cedu: lecito pubblicare il video dell’agente che abusa della forza di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 8 novembre 2023 In una società democratica, un giornale non è obbligato ad oscurare il volto di un agente di polizia che ha usato una forza eccessiva. Un tribunale tedesco aveva emesso tale obbligo, ma ciò ha comportato una violazione dell’articolo 10 della Convenzione europea. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Cedu) ha emesso una sentenza fondamentale nel caso BILD v Germania, stabilendo un importante precedente per il diritto all’informazione e la libertà di espressione. La sentenza riguarda il bilanciamento tra il diritto dei media di diffondere informazioni di interesse pubblico e il diritto alla protezione della vita privata degli individui coinvolti in eventi di tale interesse. La Cedu ha analizzato l’articolo 10 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, che garantisce il diritto alla libertà di espressione, e l’articolo 8, che protegge il diritto al rispetto della vita privata. Il caso verteva sulla decisione del quotidiano tedesco BILD di pubblicare un video di un’operazione della polizia senza pixelare il volto dell’agente coinvolto in un episodio di uso eccessivo della forza. La polizia era intervenuta in un nightclub dove un uomo era diventato aggressivo. Le immagini, catturate da telecamere a circuito chiuso, mostravano chiaramente il poliziotto in azione. Tuttavia, le autorità tedesche avevano ordinato al giornale di oscurare il volto dell’agente, sostenendo che ciò fosse necessario per proteggere la sua privacy. La Cedu ha stabilito che il giornale aveva il diritto di pubblicare il video in questione in quanto documentava un avvenimento di interesse pubblico: l’uso della forza da parte delle forze dell’ordine. Allo stesso tempo, la Corte ha criticato la decisione dei tribunali tedeschi di imporre un divieto assoluto sulla futura pubblicazione di tale video senza pixelare il volto dell’ufficiale. La Cedu ha rilevato che non vi era alcuna accusa di comportamento illecito rivolta all’agente di polizia da parte del giornale. I giudici di Strasburgo hanno sottolineato che tale divieto generale era eccessivo e non bilanciato, poiché non aveva tenuto conto dell’interesse pubblico e della necessità di informare il pubblico su questioni importanti come l’abuso di potere da parte delle forze dell’ordine. Questa decisione della Cedu stabilisce chiaramente che i media hanno il diritto di pubblicare materiale di interesse pubblico, anche se coinvolge individui non famosi. Tuttavia, le restrizioni devono essere proporzionate e bilanciate, garantendo che il diritto del pubblico di essere informato non venga soppresso senza validi motivi. La sentenza ha sottolineato che la libertà di stampa è fondamentale per la democrazia e deve essere protetta anche quando si tratta di questioni sensibili come l’operato della polizia. La Spezia. Un detenuto di 53 anni si toglie la vita in carcere di Sondra Coggio Il Secolo XIX, 8 novembre 2023 È uscito per l’ora d’aria, senza dare apparenti segni di disagio. È rientrato e si è impiccato nella sua cella, probabilmente utilizzando un lenzuolo. I tentativi di soccorso, praticati dalla polizia penitenziaria, e la rianimazione cardiaca del personale medico non sono riusciti a salvarlo. Il drammatico episodio è avvenuto all’interno del carcere della Spezia. A decidere di porre fine alla propria esistenza è stato un uomo di appena 53 anni. A quanto si è appreso, era entrato nella struttura detentiva solo qualche giorno fa. Pare fosse stata rigettata la sua richiesta della misura alternativa alla reclusione. Pare anche che il suo percorso di riabilitazione fosse ormai alla fine, tanto che sarebbe dovuto uscire entro la fine dell’anno. L’uomo condivideva con un compagno una delle celle al piano terra della struttura. Di norma sono quelle destinate all’isolamento, ma un serio problema di infiltrazioni d’acqua ha reso inagibile una vasta parte del carcere. Pare siano cinquanta, i posti non utilizzabili. Per questa ragione, a fronte di una popolazione di 160 reclusi, vengono usati tutti gli spazi possibili. L’accaduto ha destato cordoglio. Proprio la Uil Penitenziaria, attraverso il delegato Fabio Pagani, ha diffuso una nota segnalando che il piano di ristrutturazione delle carcerino da 166 milioni, non prevede “neanche un centesimo per la Liguria”. La casa circondariale spezzina è stata ristrutturata di recente, rileva Pagani, ma il dato di fatto è che fa acqua da tutte le parti. Quei lavori, ricorda, erano finiti al centro di una inchiesta per presunti “appalti truccati”. Il sindacalista rileva che è difficile, lavorare in una struttura che ha due piani inagibili ed esprime amarezza perché “ancora una volta la polizia penitenziaria riveste il ruolo di una cenerentola, fra le forze dell’ordine”. Secondo dati da poco diffusi dall’associazione Ristretti Orizzonti, nel 2022 i suicidi negli istituti penitenziari italiani sono stati 84. È stato il numero più elevato degli ultimi trent’anni, “un caso ogni quattro giorni e mezzo”. In media avevano meno di quarant’anni, sommando i 22 ragazzi sotto i 30, i 31 fra 30 e 40, i 19 fra 40 e 50 ed i 12 di età superiore ai 50. Milano. Indagini sulla morte di un detenuto 21enne: sequestrata la cartella clinica di Ilaria Quattrone fanpage.it, 8 novembre 2023 Oumar Dia era un detenuto di 21 anni che è morto improvvisamente il 26 ottobre: dopo essere stato trasferito dal carcere di Bergamo a quello di Opera, è stato ricoverato all’ospedale di Rozzano dove è morto. La Procura ha aperto un fascicolo e sequestrato la cartella clinica per chiarire le cause del decesso. La Procura di Milano ha aperto, come da prassi, un fascicolo per la morte di Oumar Dia. Il 21enne detenuto nel carcere di Opera che il 20 ottobre è stato trasferito all’ospedale di Rozzano dove, dopo una settimana, è deceduto. La famiglia ha chiesto chiarimenti su quanto possa essere accaduto al figlio. Sul suo decesso, infatti, aleggiano diverse perplessità. L’arresto e il trasferito al carcere di Opera - Sulla base di quanto ricostruito fino a questo momento da Fanpage.it, Dia è nato e cresciuto a Fiorano al Serio (Bergamo). Nel 2020 è stato arrestato per il furto di un cellulare. Il ragazzo è stato portato, per la prima volta, in un istituto penitenziario. Subito dopo è stato trasferito agli arresti domiciliari e poi in una comunità dove ha iniziato un percorso lavorativo. A luglio è stato arrestato nuovamente e portato nel carcere di Bergamo. A ottobre è stato chiesto il suo trasferimento all’istituto penitenziario di Opera. Non è chiaro da cosa sia scaturita questa decisione. Il ricovero all’ospedale di Rozzano e la morte - A un certo punto è stato portato all’Humanitas dove è arrivato in gravissime condizioni. Il ragazzo è stato ricoverato in terapia intensiva dove per sei giorni è rimasto attaccato alle macchine. La madre e il padre del 21enne sono stati vicini al giovane, giorno e notte, senza poter far nulla. Il 26 ottobre Oumar Dia è morto. Le ipotesi al vaglio sono diverse, tra queste c’è anche quella di un possibile gesto estremo. Proprio per chiarire la causa del decesso è stato aperto, come da prassi, un fascicolo in Procura. Per il momento non c’è alcun iscritto al registro degli indagati. È stata inoltre sequestrata la cartella clinica. Cagliari. Beniamino Zuncheddu, in carcere da 32 anni: attesa decisone su libertà condizionale ansa.it, 8 novembre 2023 Bisognerà attendere qualche giorno per conoscere la decisione dei giudici del Tribunale di sorveglianza di Cagliari in merito alla richiesta di libertà condizionale per Beniamino Zuncheddu, l’ex allevatore di 58 anni di Burcei, da 32 in carcere, condannato in via definitiva all’ergastolo per il triplice omicidio dell’8 gennaio del 1991, quando sulle montagne di Sinnai furono uccisi tre pastori e una quarta persona rimase gravemente ferita. Zuncheddu, che da sempre si proclama innocente, è attualmente in regime di semilibertà: può uscire dal carcere di Uta per lavorare ma deve ritornare in cella la sera. Questa mattina ha preso parte all’udienza. “I giudici si sono riservati, sapremo la decisione entro la settimana”, ha confermato all’ANSA l’avvocato difensore Mauro Trogu. All’esterno del palazzo di giustizia, nuova manifestazione di sostegno a Zuncheddu promossa dai Radicali: con l’avvocato Trogu erano presenti la Garante regionale dei detenuti Irene Testa, il sindaco di Burcei Simone Monni, con molti compaesani, l’esponente dell’associazione Socialismo Diritti e Riforme Maria Grazia Calligaris, don Ettore Cannavera e il cantautore Pietro Marras. Nel frattempo, il 14 novembre prossimo a Roma, riprende in Corte d’appello il processo per la revisione della sentenza all’ergastolo passata in giudicato: per il suo avvocato e i tanti attivisti e compaesani che stanno sostenendo la sua battaglia si tratta di un clamoroso errore giudiziario: “Beniamino deve tornare libero”, è l’appello corale. Cremona. Carcere, nuove regole: “Celle chiuse 20 ore al giorno” di Elisa Calamari La Provincia di Cremona, 8 novembre 2023 Detenuti e famigliari in ansia: “Situazione a rischio”. Garante e direttrice: “Incentiviamo le attività rieducative”. Carcerati e famigliari preoccupati per le novità detentive che scatteranno fra pochi giorni e che riguarderanno le celle: “Chiuse per 20 ore e dunque senza la possibilità di muoversi lungo i corridoi attigui”, lamentano. Ma dalla direzione di Cà del Ferro viene precisato che lo scopo è incentivare le attività rieducative. A segnalare il cambiamento imminente è in particolare la madre di uno dei carcerati: “Fino ad ora, presumo per consuetudine, le celle venivano lasciate aperte lasciando così la possibilità di fare due passi senza restare chiusi, in un ambiente che è sempre più stretto in considerazione del fatto che spesso ci sono addirittura quattro detenuti per stanza - spiega -. La chiusura significherà invece 20 ore su 24 bloccati all’interno: le ore d’aria sono due al mattino e due al pomeriggio. La preoccupazione nasce anche e soprattutto dal fatto che lasciare quattro persone in uno spazio così ristretto può scaldare gli animi, provocare reazioni e quindi disordini”. Quando ha chiesto spiegazioni, la donna si è sentita rispondere che le modifiche porteranno con sé anche una intensificazione della proposta rieducativa: “Parlano di più corsi, ma ad oggi mi risulta che quello di inglese, tanto per fare un esempio, sia ridotto a sole due ore a settimana”. Interpellata sulla questione Ornella Bellezza, garante provinciale dei diritti delle persone private della libertà personale, spiega di avere a sua volta ricevuto segnalazioni da famigliari di detenuti. “La novità parte da una circolare nazionale dell’anno scorso, applicata già in altre carceri italiane e della Lombardia - spiega - e che ora è in arrivo anche a Cremona. Si tratta dunque di un adeguamento rispetto a quanto previsto dal dipartimento centrale e la motivazione è da ricercare in una nuova e maggiore attività trattamentale, che prevede effettivamente anche i corsi”. Lo conferma Rossella Padula, direttrice di Cà del Ferro, che chiarisce: “Siamo di fronte ad una direttiva ministeriale, che dunque non riguarda solo Cremona, e che al contrario di quanto è stato percepito da carcerati e parenti ha come scopo quello di incentivare le uscite per attività trattamentali. Entrata e uscita dalle celle, dunque, sarà legata a queste ultime. E questo allo scopo di invogliare i detenuti a prendervi parte”. Padova. Carcere Due Palazzi, arrivano i nuovi vertici. Ostellari: “Basta con i doppi incarichi” di Rashad Jaber Corriere del Veneto, 8 novembre 2023 Saranno i neo nominati Anastasio Morante e Irene Pagnano a ricoprire rispettivamente le cariche di direttore della casa circondariale e di vicedirettrice della casa di reclusione Due Palazzi di Padova. Mancano ancora poco meno di dieci giorni, ma come ribadito nei giorni scorsi dal sottosegretario alla giustizia e senatore Andrea Ostellari, entro il 20 novembre entreranno nel pieno delle proprie funzioni 57 direttori di altrettanti istituti penitenziari in tutto il paese, sei dei quali in Veneto, e nello specifico due all’ombra del Santo. Un duplice cambio al vertice per Padova, che fra meno di due settimane vedrà quindi una nuova direzione sia per quanto riguarda le custodie cautelari e le pene superiori a cinque anni - di competenza della casa circondariale - che delle detenzioni di durata superiore, destinate quindi alla più generica sezione di reclusione. “Ringrazio il dipartimento dell’amministrazione Penitenziaria e il provveditore per il lavoro svolto e l’attenzione dimostrata nei confronti del nostro territorio - aveva aggiunto già nei giorni scorsi Andrea Ostellari - per assolvere al proprio mandato e garantire la sicurezza dei detenuti e del personale di servizio, ogni carcere ha bisogno di una guida, assegnata in pianta stabile. Con le nuove nomine, si chiude per il Veneto la stagione degli incarichi a scavalco, che hanno penalizzato funzionalità e operatività degli istituti nella nostra regione”. Plauso all’annuncio delle nuove figure direttive anche dalle rappresentanze della polizia penitenziaria. Giovanni Vona, segretario del Triveneto del Sappe, sindacato autonomo di polizia penitenziaria: “L’arrivo dei nuovi dirigenti penitenziari, ovvero, della dottoressa Irene Pagnano quale vice direttore della casa di reclusione di Padova e il dottor Anastasio Morante quale direttore della casa circondariale patavina, non può che essere un segnale positivo alla gestione complessa dei due penitenziari di Padova. L’arrivo dei dirigenti alla direzione degli istituti pe”il nali di Padova, non può che essere una bella notizia. Le condizioni dei due istituti da anni sono compromessi da problematiche quale il sovraffollamento di detenuti, carenza di personale sia di polizia penitenziaria che di personale quale quello di funzionari psicopedagogici”. Il carcere di Padova era stato teatro di una delle tante rivolte scoppiate negli istituti di pena durante il primissimo periodo di limitazioni dovute alla pandemia di Covid 19. L’8 marzo del 2020, gli agenti di sorveglianza vennero investiti dal lancio di oggetti provenienti dai detenuti dei blocchi A e B (sezione comuni) culminati con incendi e vere e proprie barricate, come risposta alla stretta sulle visite e i colloqui con i familiari. Sette detenuti sono stati condannati il 24 giugno del 2023 ad altri sette anni di reclusione ciascuno per devastazione, lesioni e resistenza a pubblico ufficiale. Il numero di eventi critici che si registrano in entrambi i penitenziari sono numerosi - ha aggiunto sempre Giovanni Vona - e in alcune circostanze anche di una certa pericolosità, tale da mettere a serio rischio l’incolumità del personale chiamato ad intervenire. Pertanto, la presenza dei nuovi dirigenti non può che dare continuità a tutto il sistema e contribuire a raggiungere gli obbiettivi istituzionali della pena”. Vicenza. Garante dei detenuti, pubblicato l’avviso per la presentazione delle candidature comune.vicenza.it, 8 novembre 2023 È stato pubblicato l’avviso per la presentazione delle candidature per la nomina del garante dei diritti delle persone private della libertà personale. Le domande vanno presentate entro le 12 del 17 novembre. I requisiti e le competenze del garante sono stati definiti sulla base delle linee guida adottate lo scorso agosto da Anci e dal Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà, che hanno portato alla modifica del regolamento comunale. “La nuova figura che andremo ad individuare è quella di un garante potenzialmente a tutto campo, che tutela i diritti delle persone limitate nella libertà personale diffondendo la cultura dei diritti finalizzata alla sicurezza sociale - spiega l’assessore alle politiche sociali Matteo Tosetto -. Il suo ruolo sarà indispensabile per sancire come le persone private della libertà personale siano parte integrante della cittadinanza dei diritti, dei servizi e della partecipazione alla comunità locale. Per questo promuoverà politiche di integrazione, di promozione della tutela dei diritti e della relazione tra società dei detenuti e società dei liberi. In tal modo si impegnerà per rendere effettivo il principio costituzionale del reinserimento sociale”. Possono presentare la propria candidatura a garante coloro che siano in possesso di un’adeguata formazione ed esperienza nell’ambito della promozione e della tutela dei diritti umani, in particolar modo in quello della privazione della libertà personale e dell’esecuzione penale. I candidati dovranno essere in possesso del diploma di laurea magistrale o vecchio ordinamento in materie affini all’incarico, quali ad esempio scienze giuridiche o sociali, e di comprovata esperienza, almeno quinquennale, nel campo della tutela dei diritti delle persone e delle scienze giuridiche. Oppure è necessaria specifica comprovata esperienza, almeno decennale, nei medesimi settori. Il candidato dovrà, inoltre, offrire massima garanzia di probità, indipendenza e competenza. Il garante dura in carica cinque anni con possibilità di proroga fino all’elezione del successore, per un massimo di sei mesi. L’incarico è rinnovabile non più di una volta. L’attività di garante è gratuita. Il modulo di domanda compilato con il curriculum dovranno essere inviati tramite posta certificata (PEC) all’indirizzo vicenza@cert.comune.vicenza.it o in busta chiusa e consegnato a mano all’ufficio protocollo del Comune secondo le modalità indicate nell’avviso. Per informazioni scrivere a segreteriadirezioneservizisociali@comune.vicenza.it. Novara. Bando per il nuovo Garante dei detenuti. L’ex don Dino: “È un compito sociale” di Cecilia Colli lavocedinovara.com, 8 novembre 2023 Il bando pubblicato dal Comune scade venerdì. Il Garante regionale: “Sostituire don Dino non sarà facile”. Scade venerdì 10 novembre il bando pubblicato dal Comune per la ricerca del nuovo garante cittadino dei detenuti. Un ruolo ricoperto dal 2017 e fino allo scorso anno da don Dino Campiotti, che però qualche settimana fa ha dato le dimissioni. “Ho dovuto, innanzitutto per motivi di salute - racconta a La Voce -. Poi perché ho 80 anni e devo dedicarmi ad altre attività. Ormai è quasi anno che non vado più in carcere, ma bisogna fare delle scelte”. Don Campiotti racconta la vita a contatto con i detenuti: “Alcuni di loro li incontravo una volta a settimana, altri quando lo chiedevano. Nel corso degli anni, prima come cappellano poi come garante, mi sono reso conto di come queste persone avessero estremo bisogno di chiacchierare. Tutti, nessuno escluso, erano convinti di essere innocenti e che si trovavano lì solo perchè qualcuno era stato cattivo con loro. Poi, dopo averli fatti parlare e riflettere, si rendevano conto degli errori commessi ed erano disposti a cambiare”. “Per questo motivo credo che sia fondamentale per ognuno di loro avere una prospettiva, una volta usciti o nel momento in cui ricevono dei permessi premio - prosegue don Campiotti -. Molti sono isolati, non hanno famiglia, anche perché spesso sono stranieri, o ne hanno una che però li ha abbandonati. Qui alla Bicocca, alla cooperativa Gerico, abbiamo dato la possibilità a due detenuti di lavorare con noi sia nell’orto sociale che nella cucina del ristorante: un’esperienza talmente positiva che entrambi sono ancora con noi”. “Il lavoro dell’educatore in carcere, ormai ne è rimasto solo uno, e dei volontari di Sant’Egidio è fondamentale, ma sono troppo pochi per riuscire a seguire tutti -. aggiunge -. Per questo motivo la figura del garante è imprescindibile e diventa un compito sociale: mi auguro che qualcuno possa rendersi disponibile”. “Sostituire don Dino non sarà facile, per questo spero che l’avviso pubblico possa raccogliere più disponibilità all’impegno di garante comunale affinché il sindaco possa scegliere, sentito il consiglio comunale, la figura di garanzia più adeguata - commenta il garante regionale dei detenuti, Bruno Mellano -. Si tratta di un onere non facile ma importante per tutta la comunità penitenziaria e riveste particolare peso in questa fase di problemi vecchi e nuovi ma anche di significative progettualità regionali e nazionali. Con la prossima nomina novarese, il Piemonte tornerà a essere l’unica regione italiana ad avere un garante per ogni città sede di carcere, dodici in tutto, che lavorano insieme in un coordinamento regionale”. Il bando, reperibile sul portale comunale, richiede alcuni requisiti tra cui essere “residenti nel Comune di Novara, competenti nel campo delle scienze giuridiche, dei diritti umani, ovvero delle attività sociali negli istituti di prevenzione pene e nei centri di servizio sociale”. Il garante resta in carico per tre anni e opera in regime di prorogatio. Milano. A Bollate c’è “Atacama”, la startup dei detenuti che realizza docufilm di Laura Aldorisio Corriere della Sera, 8 novembre 2023 L’iniziativa di due ex carcerati nella struttura milanese. Ora è un network di qualità che dà lavoro in istituti di tutta Italia. “I nostri clienti per le videoproduzioni sono le aziende”. “Atacama è il luogo più inospitale della terra, ma è anche il luogo al mondo dove si vedono meglio le stelle”. Questa è la frase d’apertura, il biglietto da visita del sito di Atacama, la startup che realizza video corporate, e non solo, nata all’interno del carcere di Bollate. Un’avventura imprenditoriale che ha saputo ampliare l’orizzonte di molti detenuti. “Per noi che viviamo in una condizione di semilibertà poter dare forma a un’idea è come vedere crescere un fiore ad Atacama, il deserto che si estende dal Perù al Cile”, racconta uno dei due fondatori, Matteo Gorelli. “Ha una particolarità: lì nascono persino alcuni fiori, ma muoiono in fretta. Ecco, questo è il nostro rischio, tentare di fare qualcosa di buono che poi subito marcisce; l’unica possibilità è vedere crescere una novità già in carcere”. Proprio tra i detenuti di Bollate, Gorelli incontra Fernando Gomes Da Silva e per esperienze precedenti, ma anche per un presentito talento, immaginano di poter produrre video di alta qualità per le aziende. Entrano in contatto con Andrea Rangone, fondatore e presidente di Digital360, e accade l’imprevisto che cambia il corso delle storie personali: Rangone sceglie di sostenere il progetto, partendo dal presupposto che il lavoro è lo strumento più potente contro la recidiva. Chi non lavora nel 70% dei casi commette nuovamente un reato, mentre solo il 2% tra chi ha avuto un’occupazione durante la pena ricade nell’illegalità. Atacama oggi è una cooperativa sociale, supportata da Sesta Opera San Fedele, associazione di volontariato penitenziario, e punta a costituire un team di professionisti composto da detenuti ed ex detenuti, formato con le competenze richieste dal mercato per produzioni video. Ora Matteo e Fernando sono in regime di semilibertà, tornano ogni sera in carcere, ma hanno creato un tale network che se si presenta un cliente dalla Sicilia, alcuni detenuti siciliani con competenze adeguate possono dare loro un supporto, coordinati da remoto da Matteo, Fernando e Jessa, che si è aggiunto al primo duo. “Lavorare ti cambia la vita perché inizi a determinare te stesso, mentre prima era il carcere che ti determinava. Oggi fare impresa significa essere liberi, il nostro immaginario è libero ed è un paradigma nuovo”. Ma oltre che una nuova strada per sé, Matteo racconta che molti ragazzi detenuti si rivolgono a loro chiedendo di lavorare assieme o di aprire loro nuovi scorci: “Siamo riusciti a inserire indirettamente molte persone grazie a dei network”. I ragazzi possono anche contare sul mentoring “fondamentale come credibilità e come ordine perché il confronto con persone di grande esperienza ci aiuta a incentivare la nostra”. E così i clienti, anche di grandissima statura, aumentano. “Ci chiedono podcast, post produzione, videocorporate, ma soprattutto docufilm. Io ho scoperto lo stabilirsi di un talento e frequentare i propri talenti fa stare bene tutti”. Roma. Successo del Cesp-Rete Scuole ristrette: detenuti assunti come Operatori di biblioteca a Rebibbia di Anna Grazia Stammati* tecnicadellascuola.it, 8 novembre 2023 Da sette anni si svolge, presso la Casa Circondariale di Rebibbia Nuovo Complesso il corso Biblioteche innovative in carcere, rivolto agli studenti “ristretti” della Casa Circondariale frequentanti i percorsi di istruzione, ai docenti, agli studenti universitari esterni impegnati nei tirocini finali. Il corso, coordinato dal CESP - Rete delle scuole ristrette, dalla Cattedra di Bibliografia e Biblioteconomia dell’Università di Roma TRE e da Biblioteche di Roma, ha visto negli anni la partecipazione di Dirigenti del Centro per il libro e la lettura, dei Beni Culturali, dell’Associazione Italiana Biblioteche, di editori di rilevanza nazionale, esperti informatici e, al termine di ogni annualità, è stata appositamente insediata una Commissione di valutazione del lavoro svolto nel corso dell’anno, per poter procedere alla certificazione finale delle competenze acquisite dagli studenti, su piattaforma C-BOX. Quest’anno l’incontro finale, tenutosi nella Biblioteca centrale dell’istituto penitenziario, ha visto la presenza dei docenti del corso, di docenti dell’Università LUMSA, delle referenti dell’Area educativa e della Mediatrice culturale dell’istituto. Sono stati oggetto del confronto finale: la restituzione degli argomenti trattati, la presentazione dei project work realizzati nei due Laboratori sulla costruzione del libro, l’esperienza diretta di gestione dello spazio della biblioteca riportata dagli operatori e dai volontari che a questi si sono affiancati. Unanime è stato il riscontro positivo dell’attività svolta, considerata significativa e importante per il trattamento e il reinserimento dei detenuti e unanime la richiesta di continuare in tale progettualità. Per tali motivi il CESP ha chiesto all’istituto penitenziario e a Cassa delle Ammende, l’assunzione come operatori di Biblioteca di altri due detenuti, sui sedici frequentanti (che si aggiungono agli altri già assunti come). L’istituto penitenziario e Cassa delle Ammende hanno risposto positivamente alla richiesta, essendo il corso perfettamente in linea con il Programma nazionale 2023 - Innovazione sociale dei servizi di reinserimento delle persone in esecuzione penale: formazione e lavoro, in cui trovano spazio anche i progetti presentati dal CESP e dalla Rete in questi anni. Proprio per tale comunanza di intenti si è riusciti: a portare a quattro il numero dei detenuti assunti con regolare contratto, come operatori di biblioteca all’interno della Casa Circondariale (due operatori presso la biblioteca centrale dell’istituto, due operatori presso la biblioteca di reparto della sezione G8), dopo aver conseguito l’attestato di superamento e la certificazione delle competenze, in seguito alla frequenza del corso Biblioteche innovative in carcere; a far assumere, come art 21 esterno, una rappresentante della sezione LGBT, sempre corsista nel progetto Biblioteche, come operatrice bibliotecaria presso la sede nazionale dell’Istituto superiore di studi penitenziari (ISSP); a far accedere un detenuto corsista rientrato nelle misure alternative e dunque uscito dal carcere, a un tirocinio di inclusione finalizzato alla riabilitazione e all’inclusione sociale, presso la sede nazionale del CESP a Roma, sino al fine pena, in accordo con l’UEPE, il Centro Orientamento Lavoro, Roma Capitale Municipio XII, Casa di accoglienza Puglisi. Ciò dimostra quanto sia importante che in carcere si studi o si lavori, per rimuovere le cause della marginalità sociale, ma il lavoro, che in carcere è spesso interno, poco qualificato e poco professionalizzante, nel quale non c’è prospettiva di continuità oltre il fine pena, può essere inutile nel percorso di risocializzazione cui è indirizzato un detenuto che sta per ritornare sul territorio di provenienza. Per questo il CESP, fondando la Rete delle scuole ristrette nel 2012 ha costruito, coinvolgendo i tre ministeri interessati (Istruzione, Giustizia, Beni culturali), le istituzioni scolastiche e penitenziarie, i Garanti delle persone private della libertà personale, i detenuti, gli educatori, gli agenti preposti ai corsi scolastici e alle attività progettuali, per il riconoscimento del ruolo centrale e dell’importanza strategica di istruzione, cultura e arte in carcere, perché ricchezza educativa e occupazione si rafforzano a vicenda, in quanto migliorano la qualità della vita, includono, creano consapevolezza e partecipazione, dunque permettono al detenuto di riannodare i fili con quella società con la quale ha reciso ogni rapporto con l’ingresso nel circuito penitenziario. Contestualmente a tale risultato il CESP - Rete delle scuole ristrette ha coinvolto, attraverso i docenti che vi operano, gli istituti penitenziari, affinché presentino a Cassa delle Ammende richiesta di attuazione del progetto Biblioteche innovative in carcere (ricordiamo a tale proposito che la Biblioteca in carcere è prevista dall’Ordinamento Penitenziario - art 21 OP - ma che questa non può essere intesa come semplice contenitore di libri, bensì come spazio formativo interattivo) e, al momento, risultano approvati i progetti presso la Casa di Reclusione di Saluzzo (CN) e la Casa Circondariale di Grosseto, mentre sono in attesa di approvazione quelli presso la Casa Circondariale e la Casa di reclusione di Rebibbia, la Casa circondariale di Livorno e la Casa di reclusione di Gorgona, la Casa di reclusione dell’Ucciardone. *Presidente CESP Palermo. Sedie in circolo, occhi chiusi e silenzio: in carcere la stanza della meditazione di Marta Occhipinti La Repubblica, 8 novembre 2023 Al Pagliarelli, primo penitenziario in Italia, nasce uno spazio utilizzato da ventidue detenute che seguono un percorso interiore. È una stanza tutta per loro. Uno spazio all’interno del carcere dove esercitare la propria libertà emotiva e riscoprire il valore del silenzio, a occhi chiusi, per disegnare più consapevolmente una nuova vita. Difficile immaginare dentro un istituto penitenziario, una “stanza della meditazione”, eppure è possibile: al carcere Pagliarelli di Palermo, unico in Italia ad avere attivato uno spazio permanente dedicato ad attività di meditazione, da alcune settimane un gruppo di ventidue donne detenute ha iniziato un percorso di guida a pratiche e tecniche di meditazione assieme all’organizzazione di volontariato “My Life Design”, fondata da Daniel Lumera, biologo naturalista, esperto di scienze del benessere. Dopo una settimana immersiva di incontri con Lumera, il gruppo di donne ha iniziato a prendersi cura della stanza, occupandosi di olii essenziali, pulizia e cura di uno spazio, che seppur minimale con poche sedie messe a cerchio, per loro costituisce un luogo fondamentale dove stemperare tensioni, alleviare rabbia e risentimenti, educarsi all’amore del proprio corpo attraverso pratiche di risveglio muscolare e dove collaborare con tutto l’ambiente del carcere. All’interno della stanza, la polizia penitenziaria, il personale civile e i detenuti possono, infatti, meditare insieme: una volta al mese guidati dai volontari dell’organizzazione e due volte al giorno in autonomia attraverso un manuale di guida alla meditazione e l’utilizzo di registrazioni audio mp3. Non è la prima volta che la meditazione entra in un carcere. Finora, la “My Life Odv” ha incontrato oltre un migliaio di reclusi in una quindicina di istituti penali di tutta Italia. Finora però non era nato alcuno spazio permanente. “Già dal 2016 visitiamo le carceri d’Italia, portando i benefici della meditazione tra coloro che abitano a vario titolo gli istituti - dice Cristina Franchini, responsabile dell’area Giustizia della “My Life Design Odv” - È un approccio innovativo nell’ambito della giustizia. Avere iniziato il progetto con la parte femminile del carcere ci ha facilitato molto: le donne rappresentano quasi sempre una minoranza della popolazione detenuta, ma sono una importante chiave di accesso alla comunità. Non escludiamo di iniziare l’attività anche con l’area maschile”. Le attività meditative, i cui benefici sono dimostrati sia a livello fisico-mentale con la riduzione del dolore, che a livello comportamentale per il contrasto alla depressione, si aggiungono alle attività degli psicologi dell’istituto: 6 esperti inseriti in convenzione con l’amministrazione penitenziaria per attività di osservazione e trattamento e 8 psicologi dell’Asp per servizi ai nuovi detenuti e il presidio per i dipendenti da sostanze. “Stiamo disciplinando l’uso della stanza della meditazione affinché sia efficace e ben inserita all’interno della vita dell’istituto - dice Maria Luisa Malato, direttrice del Pagliarelli - In prospettiva ritengo che questa attività potrà portare dei benefici, che constateremo nel tempo. Verrà fatto un monitoraggio scientifico dei livelli di abbassamento di situazioni di stress, di diminuzione di gesti autolesionistici o di aggressione tra le detenute e più ampiamente dei livelli dei consigli di disciplina per fatti contrari all’ordinamento penitenziario”. Trani (Bat). I detenuti da oggi a scuola di teatro con i propri figli traniviva.it, 8 novembre 2023 Parte il progetto “Il gioco serio del teatro”, prima sperimentazione in Italia. Una nuova strada per conoscere se stessi e crescere insieme ai propri figli. “Il gioco serio del teatro” è un percorso didattico-ludico-formativo rivolto ai detenuti e ai loro figli che, attraverso la pratica del palcoscenico e l’apprendimento dei mestieri del teatro, porta a galla il loro mondo interiore, le emozioni, gli eventuali disagi, aiutando a sciogliere le barriere che rendono difficile l’integrazione e la comunicazione col mondo reale. “Il gioco serio del teatro” è un progetto della Cooperativa Sociale “I Bambini di Truffaut”, vincitore dell’edizione 2023 di “Orizzonti solidali”, bando di concorso destinato al terzo settore pugliese, promosso dalla Fondazione Megamark in collaborazione con i supermercati Dok, A&O e Famila. Prima sperimentazione in Italia di un laboratorio-scuola rivolto ai genitori detenuti e ai loro figli che nasce con l’obiettivo di mettere in piedi una vera e propria compagnia stabile. A partire da oggi, martedì 7 novembre, alle 15, circa 15 detenuti del carcere di Trani (sezione maschile) e i loro figli saranno protagonisti di un laboratorio-scuola sui mestieri del teatro. Fino alla fine di maggio - quando il progetto si concluderà con uno spettacolo finale - l’attrice e regista teatrale Ilaria Cangialosi e lo scrittore e giornalista Giancarlo Visitilli condurranno padri e figli in un percorso di cambiamento e integrazione, trasferendo loro i rudimenti delle professioni (regia, recitazione, scenografo, tecnico di sala, tecnico di costruzione e tanto altro). Si partirà dalla consapevolezza del proprio corpo e della voce quali strumenti di comunicazione, poi i partecipanti scopriranno il gioco e l’improvvisazione. Step successivo dedicato allo storytelling e all’arte di sapersi e di saper raccontare, fino ad addentrarsi, attraverso l’analisi e la drammatizzazione di un testo contenente spunti comici, drammatici e introspettivi, nei livelli sistemico-relazionali del teatro. Le potenzialità dello strumento teatrale rispetto alla crescita personale e nel rapporto con gli altri sono molteplici: il progetto per la prima volta offre l’opportunità a padri detenuti e figli insieme di condividere un’esperienza di questo tipo. Un’esperienza che intende educare i partecipanti alle libere scelte individuali, a sapersi assumere responsabilità e saper rispettare i ruoli. Tutto in uno spazio di sana convivenza tra padri e figli che li stimoli a sviluppare un’autonomia espressiva e a spenderla nel rapporto con gli altri, migliorando l’autostima e acquisendo competenze professionali spendibili in settori specifici relativi allo spettacolo dal vivo, ma anche in professioni che richiedono capacità comunicative e relazionali. Una guida all’obiezione di coscienza contro l’ideologia bellicista nelle scuole di Luciana Cimino Il Manifesto, 8 novembre 2023 Le proposte dell’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università: un vademecum per docenti, studenti e genitori che si oppongono alla diffusione della cultura militarista e bellicista in classe, e fuori; una petizione che chiede le dimissioni di 13 rettori dalla Fondazione Med’Or (Leonardo). Piccolotti (Avs): “I giovani vanno educati alla pace, al rispetto delle differenze e alla risoluzione non violenta dei conflitti”. L’ideologia bellicista che si è diffusa in Italia ha già da tempo infiltrato la didattica. Dalla scuola primaria all’università, passando per la formazione scuola - lavoro (Pcto) nelle basi militari, le fondazioni di natura bellica, le forze armate e l’esercito hanno permeato in questi anni i processi educativi. “Una vera invasione di campo nell’ambito delle discipline scolastiche tesa a promuovere la carriera militare, presentare le forze armate e le forze di sicurezza come risolutive di problematiche che riguardano la società civile, diffondendo una ideologia bellicista che nulla ha a che vedere con la didattica e con i principi di pace di cui la scuola si dovrebbe fare portavoce” sostiene l’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università. Promosso dallo scorso marzo da alcune sedi dei Cobas e delle rispettive sedi del centro studi Cesp, da associazioni antifasciste o cattoliche come Mosaico di Pace e Padre Alex Zanotelli, Pax Christi, dai settori scuola e università del sindacato Usb, tra gli altri, l’Osservatorio ha presentato ieri alla Camera, su iniziativa della deputata Elisabetta Piccolotti di Alternanza Verdi Sinistra (Avs), due iniziative per coinvolgere la società civile su questo tema e fare pressioni sugli atenei statali che fanno parte del comitato scientifico di Med-Or, la fondazione di Leonardo S.p.a guidata dall’ex ministro Marco Minniti. Da statuto, questa fondazione dovrebbe “promuovere attività culturali, di ricerca e formazione” per “rafforzare i rapporti tra l’Italia e i Paesi dell’area del Mediterraneo allargato fino al Sahel, Corno d’Africa, Mar Rosso e Medio ed Estremo Oriente”. La prima iniziativa, in corso dall’apertura dell’anno scolastico, è un vademecum operativo rivolto a insegnanti, famiglie e studenti per fare opposizione negli organi collegiali. “E’ uno strumento agile perché si possa fare obiezione di coscienza - ha spiegato Candida Di Franco dell’Osservatorio - i militari nelle scuole sono previsti da un protocollo del 2014, governo Renzi ma dal 2017 sono stati inseriti tra gli enti formatori e possono proporre direttamente alle scuole la loro offerta, è molto pericoloso”. Di Franco ha sottolineato anche la propensione di questo governo a questo approccio: “come la creazione del comitato per la valorizzazione della cultura della Difesa, il presidente del Senato che propone la mini- naja, Salvini che parla di esercitazioni anti terrorismo nelle scuole”. Per Don Renato Sacco di Pax Christi, “l’esercito entra nella scuola in difficoltà dicendo ‘io sono il benefattore e con pochi soldi ti compro la fotocopiatrice, la carta igienica, il pulmino e diventa il salvatore della patria”. “Ma - nota ancora Don Sacco - c’è un linguaggio militaresco anche sulla stampa, mi ha colpito l’editoriale di Galli della Loggia sul Corriere, ora la cultura è: se riesci a vedere un nemico sei qualcuno sennò sei una schiappa”. La seconda iniziativa proposta dall’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università è una raccolta firme per chiedere le dimissioni da Med-Or di 13 rettori di altrettanti atenei italiani. “Riteniamo che la loro presenza all’interno della maggiore azienda italiana produttrice di armi, sia incompatibile con la funzione sociale e culturale delle Università”, ha detto Giuseppe Curcio, amministrativo dell’Università di Bologna. Tra i primi 45 firmatari ci sono anche Tomaso Montanari, rettore dell’Università per Stranieri di Siena, il fisico Carlo Rovelli, Luca Mercalli, Vittorio Agnoletto. “È preoccupante la promiscuità di incarichi e relazioni tra alcuni rettori e società che producono armi - ha detto Elisabetta Piccolotti - mentre c’è un inasprirsi della retorica della guerra dentro le attività didattiche”. “Insistiamo affinché il governo intervenga, blocchi questi processi e si separino i due mondi come è giusto che sia, perché i giovani vanno educati al rispetto delle differenze e alla risoluzione nonviolenta dei conflitti”. Fine vita. Così è stata tradita la Consulta di Filomena Gallo e Marco Perduca* La Stampa, 8 novembre 2023 Scriviamo con le lacrime agli occhi. Sibilla Barbieri, che il 31 ottobre è morta in una clinica in Svizzera, era un’amica e una compagna che condivideva con noi la convinzione che facendo vivere la nostra Costituzione, o disobbedendo a leggi ingiuste, le persone possono incidere nelle decisioni che le riguardano. Sibilla era malata terminale e all’inizio di agosto aveva chiesto alla sua Asl di poter ottenere una morte medicalmente assistita a Roma. La salute di una persona in quelle condizioni è estremamente instabile, si deteriora pressoché quotidianamente, in poco tempo infatti i sostegni vitali le sono divenuti necessari. Eppure le è stato risposto negativamente - e solo a seguito di una diffida. A quel diniego è stata fatta un’opposizione nel momento in cui Sibilla ormai respirava talmente a fatica da dover utilizzare l’ossigeno. Nessuna reazione. Se nell’attesa della decisione della Asl Sibilla fosse diventata incapace di intendere e volere non avrebbe potuto ottenere ciò che chiedeva in Italia né avrebbe potuto andare in Svizzera. Pur ormai in sedia a rotelle e con una bombola al suo fianco, Sibilla ha deciso di volare a Zurigo accompagnata dal figlio Vittorio e da Marco Perduca, membro dell’associazione Soccorso Civile, per morire come aveva scelto. Il caso di Sibilla Barbieri non è unico perché per la prima volta è stata accompagnata una persona che conoscevamo bene. È unico perché, e l’abbiamo saputo solo tre giorni dopo la sua morte, il comitato etico cui era stata sottoposta la sua situazione aveva dato un parere positivo. Incurante di questo favore, la Asl ha ritenuto di dover incaricare un’altra commissione, questa volta aziendale, per esaminare il suo caso; il lavoro degli esperti ha concluso che Barbieri non aveva i criteri richiesti dalla sentenza della Corte Costituzionale Cappato - Antoniani (numero 242 del 2019): non aveva un trattamento di sostegno vitale né sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili. Il trattamento inumano e degradante subito da Sibilla Barbieri a seguito di queste decisioni in aperto contrasto con quanto previsto dalla sentenza 242 del 2019 e la violenza cui le istituzioni hanno sottoposto il figlio che l’ha accompagnata, la figlia, la madre e la sorella che le sono state vicino nelle sue ultime ore, aprono un nuovo fronte per chi si impegna nell’affermazione delle volontà personali nelle fasi finali della vita. Il 7 novembre il figlio Vittorio, Marco Perduca e Marco Cappato, in quanto legale rappresentante dell’associazione Soccorso Civile, si sono autodenunciati per l’aiuto che hanno fornito al viaggio in Svizzera di Sibilla, mentre la famiglia ha denunciato la Asl Roma 1 per il suo comportamento. Adesso andranno individuate le responsabilità tecniche e politiche di questo diniego crudele. Tre sentenze della Consulta (2018, 2019 e 2020) e la dichiarazione di inammissibilità del referendum sull’eutanasia legale hanno invitato il Parlamento ad adottare norme a tutela delle scelte delle persone alla fine della vita, appelli caduti sistematicamente nel vuoto o interpretati in maniera molto restrittiva rispetto a quanto conquistato dalla disobbedienza di Marco Cappato e DJ Fabo del 2017. La notizia dell’ultimo viaggio di Sibilla è coincisa con la decisione del Governo di concedere la cittadinanza italiana a una bambina inglese affetta da una malattia incurabile. Anche la malattia di Sibilla era incurabile. I genitori della piccola hanno visto le loro preghiere esaudite da un Consiglio dei Ministri che in otto minuti ha deciso. Altrettanti ne sarebbero bastati per rispettare la volontà di Sibilla Barbieri. Quanti altri viaggi saranno necessari perché ciò accada? *Associazione Luca Coscioni Droghe. Le sostanze, i luoghi comuni e i saperi dei giovani di Luca Censi Il Manifesto, 8 novembre 2023 Quale è la valutazione dei giovani sul fenomeno delle sostanze e come giudicano le politiche di informazione, prevenzione e gestione delle droghe nelle loro vite, sia negli ambiti formali che in quelli informali? Questa è la domanda che un gruppo di quattro cooperative, Coop Borgorete (Perugia), Coop PapaGiovanni XXIII (Reggio Emilia), fondazione La Grande Casa (Padova) e Coop CAT (Firenze), voleva raccogliere e portare a Roma in occasione della Summer School 2023 promossa da Forum Droghe e CNCA. Quattro focus group hanno visto la partecipazione di 24 ragazze e ragazzi, con una età media di 16 anni, con una restituzione che ha aperto l’evento formativo. Va precisato che la raccolta del punto di vista di questo gruppo non rappresentava valore statistico, però restituiva un dato qualitativo importante riconducibile ad un “sentire comune” sull’argomento. Leggendo le risposte infatti si è notato chiaramente che, sugli argomenti oggetto d’indagine, le ragazze e i ragazzi esprimessero competenza, capacità di lettura, messa in campo di conoscenze e attivazione personale, unite ad un giudizio (a dir poco) insufficiente e non adeguato della risposta del mondo degli adulti al tema delle sostanze. Alla prima domanda, ovvero dove apprendono i giovani quello che sanno sulle droghe, le risposte si riferiscono in primis all’ambiente dei pari, giudicato veritiero, in quanto rispettoso del principio dell’”esperto per esperienza”, poi alla famiglia, nei casi dove questi argomenti si trattano in maniera aperta, poi all’interno degli ambienti digitali e grazie ai materiali informativi (soprattutto digitali) dei progetti di “Prossimità”, e quindi con un approccio legato all’interesse e all’autoattivazione nell’approfondimento personale. Infine nell’ambiente scolastico, citato per ultimo anche per un giudizio di “merito”. Sulla validità delle proposte formative in ambito educativo formale, infatti il giudizio è impietoso. I ragazzi riportano un ambiente interessato esclusivamente a stigmatizzare il comportamento legato al consumo di sostanze, la totale mancanza di percorsi strutturati, il rifiuto da parte delle figure educative di un confronto aperto e laico, fino alla messa in campo di una postura giudicata disinformativa e ricca di pregiudizio. Alcuni di loro riferiscono come tentativo di contrasto a questa impostazione l’auto attivazione nella proposta di contenuti per portare il proprio contributo e un po’ di oggettività in merito all’argomento. Rispetto invece a cosa pensano del fenomeno legato al consumo di sostanze le risposte indicano come, evidentemente senza l’aiuto del mondo adulto, le ragazze e i ragazzi intervistati siano orientati ad un comportamento consapevole. Intendono il consumo di sostanze come esperienza sociale, distinguono le sostanze “leggere” da quelle “pesanti”, introducono il principio della scelta e della consapevolezza nel consumo di sostanze riconducendolo ad un principio di necessità legata alla ricerca del piacere, del divertimento e dell’evasione. Da ultimo il rischio legato al consumo. Viene considerato come l’illegalità delle sostanze “leggere” faciliti il contatto con ambienti sicuramente più pericolosi di quelli che esisterebbero se fosse legale. È letto in maniera chiara il pericolo droga-correlato, nella sua accezione sanitaria, in quella legata ai meccanismi di “dipendenza”, nella consapevolezza del limite, nella valutazione del proprio stato psicofisico e nella responsabilità di una scelta personale connessa alla possibilità di arrecare danni ad altri. Possiamo quindi riconoscere che le consapevolezze restituiteci abbiano un valore molto alto in termini di competenza e spingerci a creare alleanze sempre più aperte con il mondo giovanile, mettendoci, da adulti, in una posizione di ascolto. Migranti. L’intesa con Tirana spiazza la Ue, ma rischia di finire in tribunale di Paolo Delgado Il Dubbio, 8 novembre 2023 L’accordo sui migranti potrebbe finire sotto una pioggia di ricorsi che potrebbero far emergere violazioni della Costituzione e del diritto di asilo. Giorgia Meloni ha disperatamente bisogno di un successo, un risultato tangibile, sul fronte dell’immigrazione. Alcuni giorni fa un sondaggio ha provato a scomporre il gradimento del governo per argomenti: sul fronte esteri la premier va a gonfie vele, l’approvazione è tale che evidentemente coinvolge anche molti elettori dell’opposizione. Il quadro si capovolge quando si parla di immigrazione: qui la percentuale di approvazione delle politiche del governo è raso terra. Segno chiaro, anche in questo caso, che buona parte del suo stesso elettorato è deluso e scontento. Ma per la destra l’immigrazione non è un dossier come gli altri: presentarsi agli appuntamenti elettorali con un fiasco sul tema più identitario che ci sia è molto rischioso. Forse, anzi probabilmente non subito, non per le prossime europee. Ma alla lunga la ferita potrebbe rivelarsi letale. Non che la premier non ci abbia provato nel suo primo anno di governo. Però non gliene è andata bene una. Colpa del suo governo e di decreti, a prescindere dal giudizio etico e di merito che si dà, scritti con i piedi, superficialmente, quindi esposti a sentenze che li vanificano, come nel caso del Dl Cutro. Altre volte gli ostacoli sono esterni e non dipendono dalle capacità del governo italiano: è il caso del memorandum con la Tunisia affondato da una Ue che non lo approvava, nonostante a firmarlo fosse stata la presidente della Commissione von der Leyen, semplicemente tenendo chiusi i cordoni della borsa, senza sganciare al tunisino nulla di quanto pattuito. Dunque la premier, lavorando in segreto e con massima discrezione, senza neppure avvertire l’amica del cuore von der Leyen, ha messo in piedi una manovra il cui significato è forse più politico che tecnico-operativo: l’accordo con l’Albania di Edi Rama. Nella pratica l’accordo dovrebbe spostare circa 38mila richiedenti asilo in due centri su territorio albanese perché sotto giurisdizione italiana. In caso di respingimento delle richieste d’asilo, sarebbe poi la stessa Italia a farsi carico dei rimpatri e ancora l’Italia, ha sottolineato il pur molto disponibile Rama, sarebbe tenuta a farsi carico di quei migranti con domanda respinta ma che non si riesce a rimpatriare. Tecnicamente e giuridicamente l’intera faccenda è spinosa e scivolosa, a maggior ragione in mancanza di un testo definito in grado di rispondere, o di non riuscire a rispondere, ai numerosi interrogativi inevasi posti da ogni dove dopo l’annuncio dell’accordo: chi si occuperà della gestione del campo, quali margini di libertà avranno i migranti sbarcati in Albania, chi li giudicherà nel caso siano imputati per qualche crimine, chi e come garantirà sul rispetto dei diritti dei richiedenti asilo. Sono punti essenziali, come essenziale è capire, conti alla mano, quanto la scelta sia davvero utile oppure, come sostiene l’opposizione, costosa oltre che inutile e contraria al diritto costituzionale ed europeo. Ma il cuore della faccenda è politico, non tecnico. Impastoiata da un’Europa che non è quella dei vertici da cui la premier esce sempre “pienamente soddisfatta” ma è quella della quale si lamentava a cuore aperto col sedicente interlocutore africano, quella che c’è sempre a parole e mai nei fatti, quella i cui leader nemmeno rispondono al telefono, l’italiana prova a dimostrare che può fare da sola, ignorando l’Europa, e che è disposta a farlo. Non è una mossa del tutto azzardata: a Bruxelles questo governo gode di appoggi e sostegni insospettabili fino alla sua nascita e il più pesante è proprio quello della presidente della Commissione. Nonostante si tratti in tutta evidenza di una mossa che ignora a bella posta l’Europa e i suoi vincoli, infatti, von der Leyen ha accuratamente evitato ogni critica e anzi i portavoce della Commissione hanno tracciato una separazione un po’ assurda tra i migranti salvati nelle acque nazionali, soggetti ai vincoli europei, oppure internazionali, dove invece quei vincoli non varrebbero. Salvo il particolare per cui le navi della Marina italiana, le uniche che sbarcherebbero gli immigrati in Albania, sono sempre e comunque territorio italiano, quindi soggetto alle regole europee, quali che siano le acque in cui navigano. Scudo della presidente a parte, l’Italia rischia forte di ritrovare la sua mossa a effetto bocciata dall’Europa. Ma rischia ancora di più di vederla affondata, ancora una volta già dalla magistratura italiana. I ricorsi ci saranno e ancora una volta alcuni magistrati non mancheranno di ravvedere violazioni della Costituzione e del diritto di asilo. Insomma, ancora una volta la ciambella di Giorgia Meloni rischia di uscire dal forno incandescente del problema immigrazione senza buco. Migranti. Oxfam: a rischio anche l’accoglienza degli ucraini in fuga di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 8 novembre 2023 L’attivazione della Protezione Temporanea per i cittadini ucraini in fuga dall’Ucraina ha creato un sistema di tutela e assistenza più robusto rispetto a quello previsto per altri richiedenti asilo. Tuttavia, anche gli ucraini ospitati in Italia hanno affrontato inefficienze e violazioni dei loro diritti a causa di una crisi senza precedenti nel sistema di protezione internazionale italiano. Questa crisi ha impedito a migliaia di persone vulnerabili di ricevere il permesso di soggiorno e l’accesso ai centri di accoglienza, violando le leggi nazionali e internazionali. È l’allarme lanciato dall’organizzazione umanitaria Oxfam tramite il report italiano intitolato “Protetti o no?”. Andiamo con ordine. Il 4 marzo 2022, per la prima volta nella storia dell’Unione Europea, il Consiglio Europeo ha deciso per l’applicazione della Direttiva sulla Protezione Temporanea, riconoscendo nel flusso di persone ucraine in fuga dal loro paese dopo l’invasione russa quel “massiccio afflusso di sfollati” che non aveva voluto riconoscere in occasione di altre crisi. L’applicazione della Direttiva, sottolinea il report di Oxfam, ha portato immediatamente, in tutti gli Stati membri, all’instaurarsi di un sistema parallelo a quello di asilo, ma caratterizzato da standard di protezione più alti. Quello della creazione di un sistema a doppio binario è il filtro attraverso cui guardare alla risposta politica dell’Unione Europea alla crisi ucraina. Tale sistema ha introdotto un trattamento differenziato tra i richiedenti asilo di altra nazionalità e le persone provenienti dall’Ucraina, creando divisioni ingiuste e alimentando disparità di trattamento. Ma l’analisi di Oxfam condotta in collaborazione con Casa dei Diritti Sociali a Roma e il Consorzio Coeso in Toscana, durante il periodo tra luglio 2022 e marzo 2023, ha evidenziato le sfide e le difficoltà affrontate anche dalle persone fuggite dall’Ucraina. Attualmente, circa 180.000 persone fuggite dall’Ucraina beneficiano di un regime di protezione temporanea attivato dall’Unione Europea dopo l’inizio del conflitto in Ucraina. Tuttavia, solo una piccola percentuale di loro, appena 17.000 rifugiati ucraini, è stata inserita nel sistema di accoglienza italiano, rappresentando meno del 10% del totale. Questo basso tasso di accoglienza è dovuto a una serie di fattori, inclusi lunghi tempi d’attesa per la presentazione della domanda di asilo, rifiuto di posti in strutture di accoglienza basato sulla nazionalità e mancanza di strutture adeguate per le persone vulnerabili, come anziani e persone sopravvissute a violenze e torture. Secondo il rapporto di Oxfam, i richiedenti asilo devono attendere mesi prima di poter presentare la loro domanda di protezione internazionale. Molti di loro sono costretti a dormire per strada o nei giardini pubblici mentre aspettano di essere processati. Inoltre, il personale di polizia richiede spesso documentazione non necessaria e nega posti in accoglienza in modo costante, soprattutto a persone provenienti da paesi come Pakistan, Bangladesh, Afghanistan e Sud America. La situazione è ulteriormente peggiorata a causa delle recenti decisioni del governo italiano, che ha introdotto procedure accelerate per l’esame delle domande di asilo, detenzione nei Centri di Permanenza e Rimpatrio (CPR) durante la valutazione delle richieste e restrizioni alla protezione speciale. Queste politiche hanno portato a una desertificazione quasi totale del sistema di accoglienza, mettendo a rischio anche i minori tra i 16 e i 18 anni. Un problema imminente e potenzialmente catastrofico riguarda la scadenza dei permessi per protezione temporanea, che avverrà il 5 marzo 2025. In assenza di interventi normativi adeguati, tutte le persone ucraine che intendono rimanere in Italia saranno costrette a fare domanda di asilo, rendendo il sistema ancora più congestionato e a rischio di collasso. Oxfam ha lanciato un appello urgente al governo italiano affinché prendano misure immediate per affrontare questa crisi. L’organizzazione chiede al governo di garantire un equo accesso alla procedura di protezione internazionale, potenziando il personale dedicato nelle Questure, nelle Prefetture e nelle Commissioni Territoriali, e sanzionando le pratiche discriminatorie in atto. Chiede inoltre di rivedere drasticamente le disposizioni contenute nel Decreto Cutro, che prevedono il divieto di respingimento ed espulsione basato sul rispetto della vita privata e familiare e l’estensione delle procedure di frontiera a persone provenienti da paesi considerati sicuri. L’organizzazione umanitaria chiede anche una riforma radicale del sistema di accoglienza, garantendo l’accesso a servizi essenziali come l’insegnamento della lingua italiana, il sostegno psicologico e l’orientamento legale. Migranti. “Un passo indietro rispetto al diritto comunitario” di Carlo Lania Il Manifesto, 8 novembre 2023 Parla il prefetto Mario Morcone. “Il governo non può decidere l’extraterritorialità. Si tratta di un respingimento”. “Questo accordo rappresenta la fine del sistema di asilo. L’Europa non era mai riuscita a trovare un’intesa sul tema dei migranti né a trovare una soluzione per superare Dublino tre, però aveva costruito un percorso per il riconoscimento del diritto di asilo con le direttive del 2003 e 2004 recepite dall’Italia nel 2008 e 2009. Ora con l’accordo siglato con l’Albania che assomiglia molto a quello che la Gran Bretagna vorrebbe fare con il Ruanda, per fortuna bloccato, di fatto diamo un duro colpo al sistema d’asilo. Non credo che, se anche gli venisse chiesto, l’Alto commissariato Onu per i rifugiati si presterà a questa operazione, ma comunque dovrebbe dire qualcosa, farsi sentire: prendiamo delle persone su navi militari e le portiamo in un paese che è sì in Europa, ma non fa parte dell’Unione europea”. Il prefetto Mario Morcone è stato per dieci anni capo del Dipartimento libertà civili e immigrazione del Viminale, ruolo ricoperto negli anni in cui decine e decine di migliaia di migranti arrivavano in Italia attraverso il Mediterraneo o percorrevano la rotta balcanica cercando di raggiungere il nord Europa. Il governo però sostiene che le strutture in Albania saranno sotto la giurisdizione italiana, sottoposte alle leggi italiane, un po’ come le ambasciate. Se davvero sarà così perché si infrangerebbe il diritto internazionale? I diritti della difesa non sono garantiti. Quale assistenza legale può essere offerta alle persone lì richiuse? È un accordo devastante dal punto di vista del rispetto dei diritti dei migranti e dell’architettura del diritto d’asilo in Europa. Questo è il punto. Mi permetta di aggiungere che si sta esagerando con l’emergenza sbarchi. Nel 2015 abbiamo accolto 150 mila persone, nel 2016 180 mila e non è stato nominato un commissario all’immigrazione, non è stato dichiarato lo stato di emergenza. Aggiungo che questa intesa con l’Albania secondo me non onora le Forze armate, alle quali vien chiesto di traghettare in Albania anziché in Italia le persone che salvano. Mi chiedo come la prenderanno i vertici militari. Portare in Albania i migranti salvati nel Mediterraneo si potrebbe configurare come un respingimento o il fatto che quelle sono strutture giuridicamente italiane lo consente... Secondo me è un respingimento in un Paese terzo. Perché? L’extraterritorialità di un luogo non la decide il governo, occorre una norma con la quale un determinato posto viene dichiarato territorio italiano. Altrimenti è un respingimento. Le ambasciate, ad esempio, nascono all’interno di un’intesa internazionale. Il trattenimento di un migrante viene deciso dal questore ma deve essere convalidato da un giudice entro 48 ore. Come sarà possibile questo se i centri si trovano in Albania? Potranno trasferire un questore in Albania, ma poi quale giudice si occuperà della convalida? Uno che si trova a Brindisi o a Bari non lo so. E lo farà per mail o con una Pec? Non si capisce. Ma pensiamo anche all’assistenza legale dei migranti, chi la garantirà? Questo accordo è la rinuncia definitiva a modificare il regolamento di Dublino? Non credo, come dicevo prima è semplicemente un ulteriore un colpo di teatro finalizzato a sottolineare la severità della nostra normativa e e quindi ad arginare comunque un flusso di migranti che fino adesso non sono riusciti a contenere. La premier dice in questo modo manda l’ennesimo messaggio di dissuasione verso chi vuole arrivare in Italia. In base alla sua esperienza, potrebbe funzionare? No. Ma vorrei ricordare che anche quando ministro era Matteo Salvini, che pure abbiamo criticato, ha trattenuto i migranti su una nave italiana, la Diciotti, adesso invece li portiamo in Albania. Mi sembra singolare. Ripeto: stiamo facendo dei passi indietro rispetto al lavoro svolto negli anni passati a livello europeo con la pienezza del diritto d’asilo, diventato parte integrante del diritto comunitario. Migranti. I Cpr, il panopticon e la dialettica tra caos e controllo ossessivo di Stefano Velotti* Il Domani, 8 novembre 2023 Alcuni giorni fa, Giovanni Tizian e Nello Trocchia hanno rivelato su questo giornale che i progetti per i “Centri di Permanenza e di Rimpatrio” (Cpr) previsti dal governo sono ispirati al Panopticon disegnato da Jeremy Bentham nel 1791, eletto da Foucault in Sorvegliare e punire a paradigma della moderna “società disciplinare”. Non più segrete buie e affollate dove rinchiudere gli “irregolari” di turno - con il pericolo che si associno, si contagino, si azzuffino - ma corpi isolati, sempre esposti e visibili, sotto l’occhio di un unico guardiano posto al centro di una struttura circolare: invisibile, il guardiano vede tutto. O meglio, il guardiano può anche essere distratto o assente, ma i prigionieri non possono saperlo. Sanno e sentono però che possono essere controllati in ogni momento. Costretti alla solitudine, i detenuti non sono mai soli con sé stessi perché sottoposti a una (possibile) sorveglianza permanente. Non mi soffermerò qui sulle critiche a questo modello disumano, arbitrario, controproducente, inefficiente e costoso. Vorrei invece soffermarmi su un termine-chiave dei nostri giorni, tanto diffuso quanto ambiguo e sfuggente: “controllo” è forse una delle parole più usate sui giornali o nei discorsi comuni, in riferimento a vicende individuali, economiche, politiche, militari, tecnologiche, ambientali etc. Nodi difficili da sbrogliare - Solitamente, il controllo è inteso come dominio, padronanza, potere o invece come rilevamento di una differenza tra “ciò che è” e certi parametri stabiliti di ciò che “deve essere” e questa differenza induce ad azioni correttive o sanzionatorie. Ma i rapporti tra controllo e ciò che sfugge al controllo sono intrecciati in mille modi e costituiscono nodi essenziali della nostra esistenza, difficili da sbrogliare. Sul finire degli anni Settanta, Tehching Hsieh, un giovane “illegal alien” fuggito rocambolescamente da Taiwan per approdare a New York e perseguire le sue aspirazioni artistiche, stanco di lavori clandestini e malpagati, vivendo continuamente nella paura di essere scoperto e rimpatriato, decide di mettere in scena la sua condizione: costruisce nel locale in cui vive una gabbia di circa sette mq, fa sigillare l’entrata, scrive una dichiarazione in cui si impegna a restarvi rinchiuso per un anno, senza leggere, scrivere, ascoltare la radio, guardare la tv o comunicare con qualcuno. Ogni giorno, un amico gli porta da mangiare e svuota il secchio con i suoi escrementi. Ogni 21 giorni è ammesso il pubblico. Un avvocato, molto noto negli ambienti artistici, formalizza i termini della performance e, al suo termine, certifica che i sigilli sono rimasti intatti. Le reazioni dell’operosa comunità cinese sono violentissime (“sei la nostra vergogna…”), altre sono più benevole ma sconcertate. Perché sottoporsi a una prova così estrema? Hsieh sostiene di non avere alcun intento di denuncia sociale o politica, ma semplicemente di fare arte “scontando la pena” (doing time). Vita e arte sono e devono restare separate: Hsieh non è stato rinchiuso in un Cpr o in un suo equivalente, non è sottoposto a un regime da 41bis, né vuole far finta di esserlo. L’estensione temporale della vita vissuta coincide con quella della performance che la mette in mostra, ma un conto è vivere nell’insensatezza, un altro è darle forma, vivendola. Hsieh tace sull’intento del suo lavoro perché esprimerlo ridurrebbe la sua performance all’univocità di un “messaggio”, che la renderebbe superflua. Il suo unico auspicio è che il pubblico che lo ha visto in gabbia o che ha esaminato la documentazione legalistica e fotografica della sua performance se ne torni a casa con qualche interrogativo in più, che metta in relazione la propria vita e quella altrui con la sua azione. E, dunque, che cosa ricavarne? Spirali imprevedibili - Secondo Foucault il Panopticon “deve essere inteso come un modello generalizzabile di funzionamento; un modo per definire i rapporti del potere con la vita quotidiana degli uomini”. Certamente, ma i volti del controllo sono innumerevoli e cangianti: la prigionia che Hsieh si autoinfligge non è anche un gesto che attesta una ripresa di controllo sulla propria vita? Non essere più in balìa delle circostanze, ma esercitare la propria autonomia, una regola stabilita da sé? La regola, tuttavia, sembra essere la riformulazione - “in purezza”, con l’eliminazione di tutte le variabili accidentali - di un sentimento del vivere che deriva dal suo profilo di “illegal alien”. È questa la sua “persona”, la sua qualità o proprietà che gli è riconosciuta nella società in cui ha deciso di immigrare. Dunque, se la gabbia non la fornisce un Cpr di turno, la costruisco io stesso, ma sempre gabbia resta. Anzi, sarebbe facile obiettare che non c’è migliore gabbia di quella che facciamo nostra. D’altra parte, ripete Hsieh, un anno è lungo, e lo spaventoso autocontrollo messo in atto non può estendersi anche alle eventuali conseguenze inattese di un progetto pur così ben pianificato... Le spirali in cui si avviluppano controllo, autocontrollo e perdita di controllo sono infinite e imprevedibili. Ribaltamento - Negli anni seguenti, Hsieh porterà a termine altre tre performance, tutte della durata di un anno: nella prima, timbrerà un cartellino ogni ora, 24 ore al giorno (non potendo così dormire più di 59 minuti di seguito, o allontanarsi più di mezz’ora): una messa in scena del controllo in quanto tale, un controllo che non controlla niente, tranne sé stesso? (Quanti lavori insensati si riducono a questo!). Nella seconda, si costringe a vivere nella città di New York senza poter usufruire di alcun riparo: abbandonandosi, a prima vista, a tutte le incontrollabili contingenze di una città tanto vasta e non padroneggiabile (verrà arrestato, ma rilasciato prontamente grazie a un giudice di larghe vedute, che gli consentirà perfino di restare all’aperto, per non infrangere la propria regola: la norma della performance finisce per prevalere su quella del diritto). Nell’ultima, vive notte e giorno legato con una corda lunga un paio di metri a un’altra artista, Linda Montano, con il divieto di toccarsi: sperimentando, grazie a una scelta deliberata, la dipendenza, i limiti del controllo sulla propria vita. Poi, a modo suo, smetterà di “fare arte” per vivere, semplicemente. Come se fosse davvero possibile solo vivere, semplicemente vivere, eludendo gli instabili e inevitabili intrecci tra controllo e non controllo. Da tempo sappiamo che esiste una sorta di dialettica del controllo, un ribaltamento paradossale degli effetti voluti da chi si illude di poter controllare tutto: il sociologo tedesco Hartmut Rosa lo ha chiamato “il ritorno mostruoso dell’incontrollabile”. Gli esempi sono innumerevoli, e nascono dallo scarto tra una controllabilità teorica e un’incontrollabilità pratica. La vita quotidiana, le conquiste della scienza, i piani politici, economici e militari, sono tutti segnati da una capacità di controllare la realtà che genera incontrollabilità mostruose. Benché lontano dalle intenzioni di Rosa, si potrebbe vedere in questo atteggiamento il rischio di incoraggiare il quietismo, la stasi, accodandosi a quei conservatori che sostengono il pervertirsi sistematico dei progetti umani nel loro contrario. I due poli - Tuttavia, ritengo che ci sia qualcosa di più preoccupante ancora del “ritorno mostruoso dell’incontrollabile”: in tutte le sfere della vita abbiamo bisogno di un rapporto dinamico tra controllo e perdita di controllo (attestarsi su uno solo dei due poli sarebbe disastroso), purché tra i due poli si stabilisca un rilancio continuo, un nutrirsi a vicenda, un restare uniti nel conflitto. Ho l’impressione, invece, che quel che accade oggi su molti piani sia un alternarsi di controllo ossessivo - tracciabilità, sorveglianza, self quantificato, (auto)valutazioni di ogni genere, profilazioni etc. - a fasi di perdita di controllo caotiche - panico, impotenza, dipendenze, escalation irrazionali, etc. - senza che un polo venga messa a frutto dall’altro. Come se quel dinamismo essenziale ad ogni cosa viva si fosse bloccato su due binari paralleli: la perdita di controllo della pandemia viene fronteggiata da misure di controllo asfissianti, ma passata l’emergenza tutto torna “alla normalità”, in attesa della prossima ondata; la piazza ipercontrollata diventa un luogo di battaglia dopo la mezzanotte, ma il giorno dopo viene risistemata in attesa del prossimo ciclo, senza che la socialità sia stata in grado di metabolizzare questo movimento etc. etc.. Rescissi i nodi conflittuali tra controllo e non controllo, l’esperienza si svuota, si frantuma, si atomizza. Eppure, sarebbe così difficile immaginare strategie concrete per riannodare i due estremi? *Filosofo Medio Oriente. Bambini senza infanzia, quella vita derubata dei piccoli palestinesi di Simona Musco Il Dubbio, 8 novembre 2023 Il rapporto della relatrice speciale dell’Onu sulla condizione dei minori nei Territori. Per definirli è necessario coniare nuovi termini. Perché nulla nella tragedia dei bambini palestinesi può essere riconducibile alla normalità, compresa quella che può essere rintracciata nei vocabolari. Si chiamano bambini senza infanzia, “unchild”, come li ha definiti Nadera Shalhoub- Kevorkian, criminologa e specialista in diritti umani e diritti delle donne. Bambini che, dal 1967 ad oggi - senza contare l’ultimo mese di conflitto - sono stati privati di tutto. Delle circa 10mila vittime contate a Gaza negli ultimi 30 giorni, la metà sono minori. Un cimitero di bambini, ha tuonato con dolore il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres. Ma la morte, le mutilazioni, i traumi e gli abusi non sono una novità in quella striscia di terra contesa e disperata. E sulla non-vita di quei bambini ha acceso i riflettori il rapporto stilato dalla Relatrice Speciale Onu sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi, l’avvocata Francesca Albanese. Dal 2008 al 6 ottobre 2023, stando al rapporto, 1434 bambini palestinesi sono stati uccisi, 1025 nella sola Gaza, e 32.175 sono stati feriti, principalmente per mano dell’esercito israeliano. Nello stesso periodo, 25 bambini israeliani sono stati uccisi, per lo più da palestinesi, e 524 feriti. I bambini, d’altronde, rappresentano la metà della popolazione palestinese (il 30 percento non raggiunge i 15 anni) e a loro Israele dovrebbe garantire protezione, nel rispetto delle convenzioni internazionali a cui aderisce, compresa la Convenzione sui diritti dell’infanzia. Ma “ogni anno le forze israeliane uccidono, mutilano, rendono orfani e detengono centinaia di bambini di tutte le età”, in quella che è definita “una prigione a cielo aperto”. Per la relatrice, siamo davanti a una violazione del diritto internazionale: oltre ad essere negato il diritto alla terra, ai mezzi di sostentamento, alla casa, alle cure e all’istruzione, ai bambini - spesso sottoposti ad arresto e detenzione a prescindere dalla loro età è negato letteralmente il futuro. Con la conseguenza di un aumento esponenziale del rischio di radicalizzazione. “Siamo meno umani?” è la domanda straziante che i bambini pongono agli osservatori internazionali. E il contesto è spiegato bene dalle dichiarazioni degli stessi militari israeliani: “Non ricordo bambini - ha dichiarato un ex soldato -. Quando indossi la tua uniforme siamo noi e loro”. Una narrazione che ha un impatto forte anche sui bambini israeliani, educati alla paura e all’odio. Israele ha ratificato la Convenzione sui diritti dell’infanzia nel 1991, la Palestina lo ha fatto nel 2014. Una firma che impone l’obbligo di “proteggere e realizzare i diritti dei bambini”. Ciononostante, le violazioni dei diritti dei bambini nei territori occupati “sono state ampiamente documentate”, soprattutto dall’Unicef, cui la relazione rimanda, che parla di “bambini in detenzione militare israeliana”. Una “violenza strutturale” che si basa su un approccio “disumanizzante”. Per le forze israeliane si tratta di “autodifesa” e la morte dei bambini “uccisi accidentalmente” sarebbe “irrilevante”, come affermato su Twitter da Mauriche Hirch, uno dei tenenti dell’occupazione israeliana. Che ha preso di mira ospedali, ambulanze, aree residenziali - spesso colpite di notte -, azioni che violano il diritto internazionale. Diritto violato dagli stessi palestinesi, il cui utilizzo di razzi rudimentali nella controffensiva può costituire “crimine di guerra”. Di mezzo ci sono sempre i bambini, secondo cui la vita è un lutto costante: “Anche quando si sopravvive - afferma uno di loro - la vita diventa insopportabile”. Una costante attesa della morte, tant’è che i bambini palestinesi in Cisgiordania hanno iniziato a portare in tasca lettere d’addio, come documentato da New Arab. Se non sono la morte e le mutilazioni a distruggere l’infanzia, lo sono gli arresti arbitrari. Dal 2000 ad oggi, sono circa 13mila i bambini palestinesi detenuti, interrogati, processati e imprigionati, senza nemmeno la possibilità Hamas e tenta di giocare ancora la carta di una mediazione sia pure di parte. La visita di Blinken ha avuto probabilmente lo scopo di raffreddare gli animi e tentare forse di costruire una possibilità di dialogo, per interposta persona, con l’Iran, l’altro attore di questa tragedia. In questo senso è bene tenere conto degli incontri tra i massimi esponenti politici turchi e il regime degli Ayatollah ma soprattutto della misura del discorso di Nasrallah, capo di Hezbollah (creatura di Teheran), pochi giorni fa a Beirut, nel quale si è potuta leggere una volontà iraniana di non intervenire (magari attraverso il partito di Dio) per non scontrarsi con gli americani che a quel punto sarebbero costretti a una guerra con poche vie d’uscita. Blinken sta tentando un’operazione difficilissima che però le parole di Netanyahu possono mettere in crisi. Una presenza sine die degli israeliani a Gaza contrasta infatti con la disponibilità dell ANP di assumere l’amministrazione della Striscia a guerra finita, come detto da Abu Mazen proprio a Blinken. Già questa di per sé non sembra un’opzione solidissima ma è chiaramente il segnale che gli Usa si oppongono a qualsiasi mossa completamente autonoma di Israele. Medio Oriente. Cacciari: “Hamas va distrutto politicamente, per i palestinesi serve un piano Marshall” di Umberto De Giovannangeli L’Unità, 8 novembre 2023 Israele, Gaza, ad un mese dal giorno che ha sconvolto lo Stato ebraico e trasformato, per dirla con le parole del Segretario generale dell’Onu Antonio Guterres, la Striscia di Gaza in un “cimitero di bambini”. La parola a Massimo Cacciari. “Finché ci sarà una leadership o una posizione forte di Hamas all’interno del popolo palestinese, sarà un disastro, perché questa leadership mira all’impossibile - ribadisce l’ex sindaco di Venezia a l’Unità - ed è quindi la peggior politica del mondo. Idem dall’altra parte, con i Netanyahu che pensano che colonizzando, moltiplicando le occupazioni di territori contro ogni risoluzione dell’Onu, giungeranno a vincere i palestinesi. Potranno fare terra bruciata a Gaza ma torneranno fuori in Libano, torneranno fuori in Siria…”. Con una Europa nano politico, la carta della politica può essere giocata soltanto dagli Stati Uniti. “Tutto sommato - annota Cacciari - l’amministrazione Biden e più in generale la politica americana non si sta neanche comportando male. Hanno imparato qualcosa dal colossale errore, se così può essere definito, commesso da Bush e la sua corte di neocon esportatori della democrazia con le baionette, la guerra in Iraq e dopo l’11 settembre in generale. È chiaro che gli Usa cerchino ora di frenare Israele. Lo hanno detto anche esplicitamente: non trasformate la vostra politica in una sorta di vendetta. Laddove tra le leadership, da un lato israeliana dall’altro palestinese, non c’è possibilità di confronto perché entrambe, come dicevo, mirano all’impossibile, l’unica potenza in grado di imporre un patto sono gli Stati Uniti, tutti gli altri sono neanche comparse, a cominciare dall’Europa”. Professor Cacciari, è trascorso un mese dall’attacco terroristico di Hamas che ha sconvolto Israele. Un mese di guerra, di morte, di distruzione. I morti a Gaza hanno superato i 10mila. E il bilancio è destinato a crescere. Che cosa racconta questo mese insanguinato? È la dimostrazione, tragica, di una tremenda incapacità delle leadership occidentali nel cercare una soluzione, nel senso unico possibile, cioè quello di trattare seriamente con Israele, da un lato, ma anche con tutti i paesi arabi dall’altro, per tagliare ogni possibilità di influenza politica di Hamas all’interno della nazione palestinese. Per far questo occorre che l’Occidente si presenti in modo credibile, con un piano concreto di straordinari aiuti alla nazione palestinese, in maniera convinta e convincente, dire chiaramente: dovete riconoscere lo Stato d’Israele in cambio della formazione di un vostro vero Stato. Ma per procedere in questa direzione, l’Occidente, che poi significa essenzialmente gli Stati Uniti, deve convincere anche Israele. Perché se Israele continua a colonizzare i territori che all’epoca erano stati dall’Onu destinati allo Stato palestinese, la guerra non può terminare se non con la distruzione dei palestinesi, visto che la distruzione d’Israele è impossibile tecnicamente. Da un mese, dopo l’attacco terroristico di Hamas, la leadership israeliana, a cominciare dal primo ministro Benjamin Netanyahu, continua ad affermare che l’obiettivo della guerra in corso è “annientare Hamas”... Annientare Hamas non ha alcun senso. Chi è l’Hamas e chi è il palestinese? Cosa fanno? Schierano i due milioni di palestinesi che vivono nella Striscia di Gaza, poi passano uno a uno e gli chiedono: sei di Hamas? E se sì, gli sparano. Non sei di Hamas? Allora vai. La distruzione di Hamas deve essere una distruzione politica. E per distruggere Hamas politicamente occorre che l’Autorità Palestinese, cioè gli sciagurati eredi di Arafat, assumano una credibilità e una legittimità autentiche. Per far questo, devono presentarsi come quelli che garantiscono un avvenire di speranza al popolo palestinese. Per poter avere questa carta in mano, devono disporre di grandi risorse. L’Occidente, gli americani devono rendere credibile l’Autorità Palestinese anti-Hamas, riempendoli di soldi e poi controllando che questi sciagurati dell’Olp non li spendano come li ha spesi in gran parte Arafat. Li spendano per fare assistenza, costruire scuole, ospedali, per sostenere economicamente questa martoriata nazione palestinese, che per tanti versi nel mondo arabo è l’equivalente degli ebrei nel mondo occidentale. Lei fa riferimento al mondo arabo, ai “fratelli coltelli” dei palestinesi... Sarà pure così. Però non c’è una nazione, una, che non si esprima a favore dei palestinesi. È chiaro che sono divisi tra di loro, che si massacrano tra di loro, ma è altrettanto vero che su questa questione formalmente non c’è divisione. Occorre rendere credibile questa strada, iniziata con Camp David, con gli accordi di Oslo Washington ecc… Se la rendi credibile, allora sì che fai fuori Hamas, altrimenti non elimini Hamas, distruggi i palestinesi. Gli Stati Uniti, perché sono loro che contano gli altri non contano niente, devono dichiararsi favorevoli a questa strada: noi garantiamo aiuti e sostegno al popolo palestinese, gli garantiamo la formazione di un autentico Stato e l’Autorità Palestinese, gli eredi dell’Olp devono impegnarsi in prima persona, loro, a far fuori Hamas. Altrimenti, lo ripeto, c’è il massacro dei palestinesi. Per far fuori i fascisti che dovevano fare, ammazzare tutti gli italiani? Cosa significa per Massimo Cacciari essere oggi un vero “amico d’Israele”? Questo. Perché questa è la linea che dà veramente sicurezza a Israele. Sennò Israele sarà in una situazione di continua guerriglia. Una volta sarà Hamas, una volta Hezbollah, una volta chissà chi. Ma è evidente che la sicurezza d’Israele dipende dalla soluzione della questione palestinese. Quello che sapevano benissimo i Rabin ed anche gli Sharon. Quello che sapevano tutti i leader palestinesi dotati di sale in zucca. Prima Rabin con i negoziati che portarono, nel settembre del ‘93, agli accordi di Oslo-Washington, poi Sharon con il ritiro da Gaza, nell’agosto del 2005. La leadership israeliana seria, lungimirante, ha sempre saputo che la sicurezza strategica d’Israele dipende dalla soluzione della questione palestinese. Questa che sto dicendo è una posizione autenticamente “filo israeliana”, come poi sanno tutti gli israeliani dotati di sale in zucca. Ma la linea che è stata seguita negli ultimi dieci anni è l’opposto. È chiaro che è impossibile pensare alla distruzione dello Stato d’Israele. Ma se non si va nella direzione di cui parlavo, Israele continuerà a svolgere la politica di Netanyahu e continuerà a subire altri atti terroristici. Una volta partiranno dalla Striscia di Gaza, un’altra volta dal Libano, un’altra ancora dalla Giordania ecc. Dopo la sciagurata guerra in Iraq, siamo arrivati ad un passo dal formarsi di uno Stato del terrore, lo Stato islamico. L’hanno capito anche gli americani. Quando vanno a Tel Aviv e dicono ai governanti israeliani: non fate i nostri errori. Il problema è che poi non seguono atti concreti. Gli americani vanno da Abu Mazen, parlano con lui. Ma non è così che puoi rilegittimare un’Autorità Palestinese anti-Hamas. Non è con le parole. Devono seguire dei fatti che riguardano anche Israele e la politica israeliana. Chi può imporre questa strada? Gli Stati Uniti. Punto e basta. E questo è anche per sicurezza loro… Vale a dire, professor Cacciari? Ma come pensano gli Stati Uniti di potere tenere in piedi la competizione con la Cina, la guerra in Ucraina e questo casino in Medioriente? Ma sono impazziti? Che cosa credono di essere, il padreterno? Come puoi pensare di gestire tutto questo, anche da un punto di vista economico.? Faranno vincere Trump. Per tornare a Israele. Non è una questione semantica, ma di sostanza politica, culturale, identitaria e per certi versi anche di sicurezza. Questo voler identificare lo Stato d’Israele come lo Stato ebraico… Questa è una vecchia questione. Ci sarebbe da discutere a lungo della storia del sionismo, dell’idea sionista che riprende indubbiamente certi elementi propri della tradizione ebraica, ma resta il fatto che il sionismo rappresenta una corrente dell’ebraismo e non il tutto. Quanti sono stati gli intellettuali, i filosofi, i grandi esponenti dell’ebraismo contemporaneo che non sono stati affatto sionisti. Il sionismo è una corrente specifica dell’ebraismo sulla base della quale si forma lo Stato d’Israele. Quanti sono stati quelli che anche dopo la Shoah hanno criticato il sionismo? Molti e autorevoli. Certo che la Shoah ha contribuito fortemente a determinare l’egemonia del sionismo all’interno della cultura ebraica contemporanea, ma è importante ricordare che il sionismo resta una componente dell’ebraismo moderno e contemporaneo, non è la totalità. Lei faceva riferimento ad una pace fondata sulla soluzione a due Stati. Ma uno Stato di Palestina, che non si riduca a un bantustan, come potrebbe realizzarsi oggi? Sulla linea che era stata già delineata dall’Onu subito dopo la guerra. La posizione internazionale allora era quella dei due Stati, ed era anche definito quale fosse il territorio. È anche responsabilità dei palestinesi che questa linea non sia andata in porto. Allora c’erano tutte le condizioni per realizzarla, ma loro si sono battuti contro lo Stato d’Israele. Il problema è sempre quello. Deve esserci un riconoscimento pieno dello Stato d’Israele da parte dei palestinesi, c’è poco da fare. Dovrebbero partire loro, sulla base di un appoggio esplicito americano. Dobbiamo vivere come due Stati vicini, confinanti e quindi ti riconosciamo. Vediamo poi come risponde Israele. Ma per fare questo gesto, e quindi per sconfiggere politicamente Hamas, occorre che gli Stati Uniti sostengano concretamente quella parte dei palestinesi che ragionano. Appoggino concretamente. Ci vuole un grande Piano Marshall per la Palestina. Un tempo si diceva che in Medioriente l’Europa fosse un gigante economico e un nano politico. Ed oggi? L’Europa è completamente fuorigioco in tutte le grandi crisi internazionali. Di fronte a situazioni acute di conflitto che possono sfociare in una catastrofe mondiale, di fronte a questi scenari sempre più apocalittici, l’Europa è un nano e basta. Stendiamo un pietoso velo. È inutile anche parlarne. Si può, con l’ottimismo della volontà, intravvedere un barlume di luce in questo tunnel senza fine che è il conflitto israelo-palestinese? Se gli Stati Uniti si muoveranno nel senso che ho detto. Soltanto così. Altrimenti sarà guerra, guerriglia, terrorismo e anti terrorismo, fintanto che uno dei due resiste. E visti i rapporti di forza in campo, la fine sarebbe la distruzione della nazione palestinese, con mille rivoli di terrorismo sparsi ovunque. Esattamente come dopo la guerra in Iraq. Brasile. L’inchiesta sugli omicidi della polizia non è adeguata per garantire l’accertamento delle responsabilità La Repubblica, 8 novembre 2023 Human Rights Watch: le misure adottate dalla polizia per indagare su 28 uccisioni avvenute nel luglio scorso nello stato di San Paolo non sono conformi agli standard internazionali. I primi passi compiuti dalla polizia civile e “scientifica” per indagare su 28 omicidi avvenuti nel luglio 2023 durante un’operazione di polizia militare a Baixada Santista, nello stato di San Paolo, in Brasile, “sono stati inadeguati e non conformi agli standard internazionali”. Lo afferma un rapporto di Human Rights Watch pubblicato oggi. La vendetta della polizia: uccise 28 persone. Nelle 19 pagine del dossier si ricorda, tra l’altro come il 28 luglio scorso, la polizia militare della metropoli brasiliana, che conta 12 milioni e mezzo di abitanti, ha lanciato l’Operazione Escudo nell’area metropolitana di Baixada Santista, per vendicare l’uccisione di un ufficiale nella città di Guarujá, sulla costa atlantica, a circa 90 km a Sud-Est di San Paolo. Ventotto persone sono state uccise nell’operazione che si è poi conclusa il 5 settembre, rendendola una delle più feroci e sanguinose nello stato di San Paolo, dopo il massacro di Carandiru dell’ottobre 1992, avvenuto nel carcere di Carandiru, sempre a San Paolo. Un episodio considerato come la più grave violazione dei diritti umani nella storia del Brasile liberale. Il ruolo del nuovo governatore. L’elevato numero di omicidi segue un calo significativo degli omicidi da parte della polizia tra il 2020 e il 2022. A seguito di una serie di misure adottate dal governo di San Paolo per ridurre l’uso eccessivo della forza da parte della polizia militare, gli omicidi politici in servizio in Secondo i dati ufficiali, San Paolo è crollato del 59%. Ma da quando il governatore Tarcísio de Freitas è entrato in carica, nel gennaio 2023, gli omicidi della polizia in servizio sono aumentati, aumentando del 45% da gennaio a settembre rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, e dell’86% rispetto solo al terzo trimestre. L’inadeguatezza degli investigatori. “Avevano promesso di uccidere 30 persone”, si legge ancora nel dossier di Human Rights Watch. E questo descrive chiaramente i fallimenti nelle fasi iniziali delle indagini della polizia. Il 28 luglio 2023, le forze dell’ordine hanno avviato quella operazione vendicativa a Baixada Santista, rendendola una delle operazioni di polizia più letali nello stato di San Paolo negli ultimi 3 decenni. Peraltro, altri tre agenti sono rimasti feriti durante gli interventi punitivi. “Le indagini, dunque sono state tristemente inadeguate e non soddisfano gli standard internazionali”, ha dichiarato Juanita Goebertus, direttrice per le Americhe di Human Rights Watch. “Indagini approfondite, indipendenti e tempestive, compresa un’adeguata analisi forense, sono cruciali e devono essere guidate dai pubblici ministeri invece di affidarsi agli investigatori della polizia”. L’esame dei rapporti post-mortem. Human Rights Watch ha esaminato i rapporti della polizia su 27 omicidi e 15 rapporti di autopsia; intervistato le autorità, i familiari delle vittime e i membri della comunità; e minacce documentate contro il difensore civico della polizia di Stato. Su richiesta dellorganizzazione non governativa in difesa dei diritti umani, l’Independent Forensic Expert Group dell’International Rehabilitation Council for Torture Victims, un gruppo internazionale di eminenti esperti forensi, ha esaminato 15 rapporti preliminari di autopsia e ha scoperto che non erano conformi agli standard internazionali. La perizia ha concluso che “sulla base dei rapporti preliminari dell’autopsia, gli esami post-mortem dei quindici individui sono inefficaci e non riescono a soddisfare gli standard minimi accettabili sulle indagini sulle morti legate alle armi da fuoco nel contesto dell’azione della polizia”. La polizia violenta: un serio problema del Brasile. Il Brasile ha da tempo un serio problema con l’uso eccessivo della forza da parte della polizia. La polizia ha ucciso più di 6.400 persone nel 2022, secondo l’organizzazione no-profit Forum brasiliano di pubblica sicurezza, che raccoglie i dati da fonti ufficiali a livello statale. Mentre alcune uccisioni da parte della polizia sono per legittima difesa, molte sono il risultato di un uso eccessivo della forza, contribuendo a un ciclo di violenza che mina la sicurezza pubblica e mette in pericolo la vita dei civili e della polizia. Human Rights Watch ha identificato gravi fallimenti nelle indagini della polizia civile sulle uccisioni da parte della polizia. Omicidi aumentati dell’86%. Le uccisioni della polizia in servizio sono aumentate dell’86% nel terzo trimestre del 2023 nello stato di San Paolo rispetto allo stesso periodo del 2022. Human Rights Watch ha inviato una richiesta di informazioni sulle misure investigative intraprese, ma né il segretario alla pubblica sicurezza di San Paolo né il capo della polizia civile hanno fornito le informazioni. Stati Uniti. Decine di migliaia di libri vietati nelle carceri. “Ma così le prigioni diventano zoo” di Massimo Basile La Repubblica, 8 novembre 2023 Continua il proibizionismo culturale: dietro le sbarre al bando tutti i volumi con le copertine rigide e centinaia di titoli considerati una minaccia alla sicurezza e agli obiettivi della riabilitazione. Peggio di un corpo in carcere c’è la mente in gabbia. Le prigioni americane hanno messo al bando decine di migliaia di libri, tra cui guide da otto dollari per cucinare burritos, tortillas alla cipolla, di maiale all’arancia e autobiografie comiche. Ridere, svagarsi, dissacrare, pensare in modo creativo sono viste tutte come attività eversive dentro e fuori dai penitenziari. Ma nelle carceri la censura è andata ben oltre i divieti stabiliti da alcuni Stati conservatori per i cittadini su testi che parlano di razzismo e identità di genere. I detenuti sono ancora più penalizzati. Secondo Pen America, una delle più grandi no profit in difesa della libertà d’espressione, la Florida ha vietato 22.825 libri. È lo Stato con il maggior numero di titoli messi al bando. Al secondo posto, il Texas con 10.265. Terzo, il Kansas con 7.669 ma il dato non viene aggiornato da tre anni, per cui il numero potrebbe essere molto più alto. Tra i testi vietati, in gran parte ci sono romanzi con scene esplicite di sesso, libri d’arte, fotografici, manuali e riviste. Detenuti hanno denunciato il mancato arrivo del New Yorker, la rivista letteraria e di reportage tra le più famose al mondo. Il libro più temuto dalle autorità carcerarie americane è “Prison Ramen: Recipes and Stories from Behind Bars”, prefazione di Samuel L. Jackson, un testo che spiega nel dettaglio come riuscire a cucinarsi piatti saporiti, pur stando dietro le sbarre, e trovare il modo di riderci su. Il secondo libro più censurato è “Le 48 leggi del potere”, un saggio scritto da Robert Greene nel ‘98, più di un milione di copie vendute negli Stati Uniti, guida motivazionale ispirata dalla decisione di Giulio Cesare di attraversare il Rubicone e combattere Pompeo. E, naturalmente, un classico: “L’arte della guerra”, di Sun Tzu. Ma figurano anche il memoriale comico della comedian Amy Schumer, “The Girl with the Lower Back Tattoo”, vietato per i suoi contenuti sessuali e considerato, dallo Stato della Florida, “una minaccia alla sicurezza, l’ordine e agli obiettivi della riabilitazione” e “Anyone Can Draw” di Barrington Barber, un manuale che spiega in modo semplice come imparare a disegnare e farlo in breve tempo. Secondo Pen, poiché mancano registri e dati aggiornati, la censura potrebbe essere molto più larga. Non entrano in carcere testi usati o spediti dalle librerie o quelli con copertina rigida. “Ma ogni idea è vista come una minaccia - dicono - anche la possibilità di creare, di allargare la propria visione”. I detenuti hanno denunciato da tempo questa situazione. Qualcuno di loro ha spiegato che vietare i libri in cella trasforma le carceri in zoo, ma non è stato ascoltato. “Stiamo assistendo - continua Pen - a uno spreco di tempo e di denaro pubblico per vietare alla gente di leggere. Questa censura deve finire”.