In Italia quasi 60mila detenuti. Ora il governo allarga le carceri di Marco Birolini Avvenire, 7 novembre 2023 Allarme sovraffollamento: 8mila reclusi in più rispetto ai posti disponibili. Il ministero delle Infrastrutture vara 21 interventi: via libera alla costruzione di nuovi istituti. Di fronte a una popolazione carceraria che ormai sfiora le 60 mila unità - oltre 8 mila in più dei posti effettivamente disponibili - il governo tenta di correre ai ripari. Il ministero delle Infrastrutture metterà a disposizione 166 milioni di euro per una maxi ristrutturazione degli istituti penitenziari italiani: sono in tutto 21 gli interventi previsti, tra cui anche due nuove realizzazioni, a Forlì e a San Vito al Tagliamento (Pordenone), entrambi progetti fermi da anni, più l’ampliamento di Brescia Verziano. Lo ha deciso il comitato interministeriale sull’edilizia carceraria in una riunione di ieri mattina, guidato dal vicepremier e ministro Matteo Salvini. Si tratta di interventi importanti - spiega il Mit - alcuni dei quali attesi da anni, riguardanti la sicurezza degli istituti e il miglioramento delle condizioni di vivibilità, nonché l’adeguamento funzionale delle strutture, spesso vetuste. “Si tratta di interventi essenziali per aumentare la capacità ricettiva del sistema penitenziario italiano - commenta Andrea Delmastro delle Vedove, sottosegretario alla Giustizia - Il sovraffollamento carcerario si affronta con l’edilizia penitenziaria”. A segnalare l’ulteriore aumento della popolazione che vive dietro le sbarre sono i dati del ministero della Giustizia aggiornati al 31 ottobre. Se all’inizio del 2023 i detenuti erano 54.966, ora sono a quota 59.715. Tenuto conto che la capienza delle carceri è di 51.275 posti, i detenuti in sovrannumero sono 8.440. Il maggiore sovraffollamento è in Lombardia e Puglia: nella prima regione i detenuti sono 8.691 rispetto a 6.153 posti letto; nella seconda i detenuti sono 4.387 a fronte di una capienza pari a 2.912. I condannati definitivi sono 43.523, quelli giudicati da una sentenza di primo o secondo grado sono 6.402, mentre quelli in attesa di primo giudizio sono 9.468. I detenuti stranieri sono 18.803 e la maggior parte proviene dal Marocco (3.946), dalla Romania (2.055), dall’Albania (1.941), dalla Tunisia (1.922) e dalla Nigeria (1.184). Le donne in carcere sono 2.525. Le detenute madri con figli al seguito sono 22, i loro bimbi sono 23. Numeri che, secondo il governo, rendono urgenti i lavori. Nel dettaglio, per Forlì saranno stanziati quasi 28 milioni, mentre per allargare la struttura di Brescia ne serviranno 39. L’impegno più ingente riguarderà però il nuovo carcere di San Vito al Tagliamento, che costerà 41 milioni. A Milano San Vittore saranno effettuati lavori per 8 milioni circa, mentre Poggioreale beneficerà di quasi 14 milioni. Proprio nel carcere napoletano si svolgerà venerdì un convegno sulla giustizia riparativa organizzato dall’ufficio diocesano della Pastorale carceraria di Napoli, in collaborazione col Provveditorato penitenziario della Campania e la Conferenza volontariato e giustizia regionale. Le conclusioni saranno affidate a monsignore Domenico Battaglia, arcivescovo metropolita di Napoli, che, insieme alla Caritas italiana ha promosso un progetto sul tema. “Parlare di giustizia riparativa in un luogo dove si paga la pena dettata dalla giustizia punitiva, vuole essere un segno - ha dichiarato don Franco Esposito, direttore della Pastorale carceraria di Napoli - per dire che è possibile un’altra giustizia, non in contrapposizione a quella retributiva, ma che coinvolga anche le vittime e la comunità in un percorso di riparazione e riconciliazione”. Spuntano 166 milioni per fare prigioni più grandi di Mario Di Vito Il Manifesto, 7 novembre 2023 Il governo: “Niente leggi svuota-carceri”. Magi (Più Europa) lancia le case per il reinserimento sociale: in 7.200 uscirebbero. Una pioggia di euro sulle carceri italiane: sono 166 i milioni di euro che il ministero delle Infrastrutture sostiene di avere “a disposizione” per la ristrutturazione di alcune strutture penitenziarie. In alcuni casi (Forlì, San Vito al Tagliamento, Brescia, Firenze) gli interventi saranno tali da aumentare la capienza delle patrie galere, nella più eloquente delle risposte possibili al problema del sovraffollamento: nessuna prospettiva di tirar fuori persone dalle prigioni, ma viceversa prigioni sempre più grandi. Fa nulla constatare che, a fronte di un calo dei reati costante da ormai tre decenni, la popolazione carceraria continui ad aumentare. Il sottosegretario Andrea Delmastro è chiarissimo su quale sia l’opinione in merito del governo Meloni: “Il sovraffollamento carcerario si affronta con l’edilizia penitenziaria e non con i soliti provvedimenti svuota carceri a cui ci hanno abituato i governi passati che erodono la certezza della pena, aumentano l’insicurezza sociale e non affrontano strutturalmente il tema del sovraffollamento”. Le reazioni alla notizia sono arrivate quasi tutte da destra, con deputati, senatori, consiglieri regionali e cacicchi territoriali che “parlano di promesse mantenute” ed esprimono comprensibile entusiasmo per l’ingente quantità di denaro che pioverà sui loro territori. Tra il dire e il faro, comunque, di mezzo resta il proverbiale mare: i soldi spuntati fuori dalla riunione del comitato interministeriale sulle carceri - dove i tecnici del ministero di Salvini hanno annunciato di aver trovato ben 166 milioni per fare i lavori - non saranno erogati direttamente, ma verranno gestiti dai provveditorati interregionali, che assumeranno il ruolo di soggetti attuatori. L’opposizione, dal canto suo, questa mattina presenterà alla Camera una proposta di legge sulle case territoriali di reinserimento sociale, ovvero “una riforma possibile del carcere”, come la definisce il primo firmatario Riccardo Magi. La proposta mira a “istituire strutture alternative al carcere, volte ad accogliere tutti i detenuti e le detenute che stanno scontando una pena detentiva anche residua non superiore a dodici mesi”. Parliamo di 7.200 persone (dati aggiornati al 31 dicembre dell’anno scorso) che potrebbero uscire di prigione, con un miglioramento sensibile della vivibilità all’interno degli istituti di pena, che vedrebbero diminuire sensibilmente la loro popolazione, che, al 31 ottobre, ammonta a 60.000 unità, di cui 8.000 in sovrannumero. “In queste nuove strutture, di capienza limitata, compresa tra cinque e quindici persone, che sarebbero istituite d’intesa con la Conferenza Stato-Regioni, sentiti i Comuni, sarebbe concretamente possibile dare attuazione al principio costituzionale della finalità rieducativa della pena, con lavori di pubblica utilità e progetti che coinvolgano figure di educatori, psicologi e assistenti sociali, e altre attività cogestite con enti del terzo settore - questo prevede la pdl -. Anche il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, presieduto da Mauro Palma, aveva evidenziato l’opportunità di istituire strutture di responsabilità territoriale diverse dal carcere di questo tipo, riconoscendo l’inadeguatezza della stragrande maggioranza delle carceri italiani a rappresentare un luogo in cui sia garantito il reinserimento Sociale dei detenuti”. Oltre a Magi, la proposta è stata sottoscritta da Deborah Serracchiani e Federico Gianassi del Pd, Enrico Costa di Azione, Luana Zanella e Devis Dori dell’Avs e Benedetto Della Vedova di Più Europa. Dignità, riscatto e lavoro: anche dal carcere si può ripartire di Alessio Nisi vita.it, 7 novembre 2023 Intesa Sanpaolo e Caritas lanciano “Aiutare chi aiuta”, programma dedicato quest’anno al sostegno ai detenuti. Èun programma che ha l’obiettivo di contrastare le diseguaglianze e le povertà nel nostro Paese, con interventi capillari su tutto il territorio. Giunta al quarto anno, nata nel 2020 con la pandemia, guidata da Intesa Sanpaolo e Caritas Italiana, è un’iniziativa che conferma, come sottolinea Paolo Bonassi, Executive Director Strategic Initiatives and Social Impact Intesa Sanpaolo, “la comunanza di valori, ideali e prospettive con Caritas”. Il programma, “nato come misura emergenziale e poi strutturatosi negli anni”, si chiama “Aiutare chi aiuta” e questa mattina è stato confermato anche per il 2023-2024, con un focus sul mondo del carcere e sul reinserimento delle persone detenute. “Il mondo del carcere”, spiega Bonassi, “è un ambito su cui Intesa Sanpaolo interviene con impegno e risorse per dare dignità e nuova speranza a chi ha sbagliato e vuole ricominciare sul binario giusto”. Nel triennio 2020-2023 Intesa Sanpaolo ha stanziato per il programma “Aiutare chi aiuta” 4,5 milioni di euro. Perché il carcere - “La popolazione carceraria è composta spesso dalle fasce più svantaggiate della popolazione”. Per Bonassi poi “la continuità è un importante fattore di efficacia nel contrasto alle disuguaglianze. Dopo i rilevanti risultati raggiunti rinnoviamo il nostro impegno al fianco della Caritas Italiana per proseguire il programma di collaborazione “Aiutare chi aiuta” a sostegno della sua attività meritoria”. Cabina di regia - Identità di vedute e di azione con Caritas, si diceva, a partire dalla creazione di una “cabina di regia nella quale andiamo a individuare le tematiche più urgenti per il nostro Paese e idonee per la soluzione di questi bisogni”. Tra gli aspetti del programma anche la volontà di “raggiungere in maniera capillare tutti i territori”. Il tasso di recidiva - L’azione di Intesa Sanpaolo e Caritas italiana poggia sulle necessità espresse dai numeri. “La popolazione dei detenuti in Italia”, precisa Bonassi, “conta oltre 57 mila persone, con un tasso di sovraffollamento pari al 118%”. In questo quadro, “i detenuti coinvolti in un programma di formazione professionale sono appena il 5,4% del totale”. Partendo da questi dati, spiega sempre Bonassi, “abbiamo deciso di raggiungere quanti più istituti possibili, grazie anche alla rete della Caritas”. Nuove strade e modalità di lavoro - “È importante”, sottolinea Don Marco Pagniello, Direttore Caritas Italiana, “avviare cooperazioni in un’ottica di corresponsabilità per cercare insieme nuove strade e modalità di lavoro, coinvolgendo la comunità, ad ogni livello, e opporre alla società dello “scarto” un nuovo modello economico che metta al centro le persone, valorizzando i talenti di cui ognuno è portatore. La partnership strategica con Intesa Sanpaolo è un esempio di co-progettazione virtuosa fra enti non profit e organizzazioni profit. Più riusciamo a fare rete più opportunità costruiremo per gli altri. Per Pagniello quello in è atto “è un tentativo di coniugare, a servizio del bene comune, il ruolo delle imprese per la crescita del Paese e il ruolo della rete Caritas per accompagnare le persone più ai margini, con particolare attenzione alle nuove forme di povertà”. I valori, i beni, la formazione, l’occupabilità - Il programma, “un’iniziativa multilivello”, si svilupperà lungo quattro direttrici: promozione e condivisione dei valori del rispetto delle regole, della legalità, degli altri, al fine di promuoverne il superamento delle condizioni di disagio e di esclusione. Distribuzione di beni primari e altri beni di prima necessità, in particolare pasti, indumenti, prodotti per l’igiene sia in carcere sia presso strutture protette, a cui si aggiungono servizi di accoglienza e accompagnamento per i detenuti in permessi premio, agli arresti domiciliari o che hanno da poco concluso il percorso di pena. La formazione, con corsi professionalizzanti e di accompagnamento al lavoro all’interno e all’esterno del carcere, con incarichi lavorativi durante e al termine del periodo di detenzione. “Non da ultimo c’è il tema della occupabilità: con l’individuazione di incarichi durante la detenzione e iniziative di avviamento al lavoro, con tirocini da poter fare anche al di fuori del carcere”. Le nuove fragilità - Il quadro in cui si muovono gli interventi di “Aiutare chi aiuta” è quello delle nuove fragilità. “Come ha riportato l’Istat”, mette in evidenza Bonassi, “in Italia ci sono 2 milioni e 180 mila famiglie sono in uno stato di povertà (un numero che corrisponde a 5 milioni e 600 mila individui), il 5,7% della popolazione in Italia”. Il nostro Paese conta 3 milioni di giovani che non studiano e non lavorano, il 25% della popolazione tra 15 e i 34 anni. “Se associamo questo dato a quello dell’occupazione femminile, 7 milioni di donne escluse dal mondo del lavoro”. Il progetto negli anni - Dal 2020 quando in periodo pandemico è iniziata la collaborazione, un milione di interventi (pasti, posti letto, farmaci e indumenti) hanno raggiunto 40 mila beneficiari con il coinvolgimento di 80 Caritas diocesane in tutta Italia. “Era necessario”, ricorda Bonassi, “immettere risorse nel sistema per sostenere le Diocesi chiamate a rispondere ai bisogni urgenti nel nostro Paese”. Tra gli ambiti di intervento, l’offerta di beni e aiuti materiali, casa e accoglienza, sostegno nella ricerca di lavoro e nell’avviamento di nuove imprese in particolare in aree periferiche del Paese dove risorse e opportunità sono limitate. Nel secondo anno 2021-2022 l’attenzione è stata rivolta alle persone anziane, mentre nel terzo alla povertà giovanile e all’inclusione della popolazione anziana. Riflessioni “in grate”: morire di carcere di Enrico Sbriglia* L’Opinione, 7 novembre 2023 È di pochi giorni la notizia della scomparsa della collega Patrizia Incollu, direttrice penitenziaria, dopo un’agonia durata circa due settimane, a seguito di un incidente stradale, a causa del quale è deceduto anche il suo autista, l’assistente capo di polizia penitenziaria Peppino Fois. La violenta collisione con un camion è accaduta sulle strade della Sardegna, che la dirigente continuamente percorreva per ragioni di lavoro. Si dirà che la sorte è stata matrigna, che ogni giorno accadono sinistri mortali sulle strade italiane e dappertutto nel mondo. Sì, è così, però a non tutti capita di dover svolgere un lavoro che, immaginato dietro una, per quanto scomoda, scrivania o, al massimo, all’interno di un luogo circoscritto (e cosa lo è più di un carcere ?), assumendo decisioni a ritmo impressionante e spesso difficili, governando una complessità costituita da persone detenute e detenenti, si trovino invece a dover trascorrere, quotidianamente, ore e ore in viaggi interminabili, da un luogo all’altro dell’Isola del vento. Come una biglia impazzita all’interno di un flipper, fatto di grate, di acciaio, di telecamere, ricevendo colpi su colpi e affrontando problemi che ne gemmavano degli altri. È quanto accadeva a Patrizia e quanto succede alla generalità di dirigenti penitenziari, sballottati da un carcere all’altro, dove le realtà che governano, con delle comunità composite e talvolta in conflitto, esigono la loro presenza e impongono continuità amministrativa. Perché nulla prenderà vita se non dopo la loro firma, la loro decisione, il loro intervento, sperando in Iddio che sia giusto, equilibrato, risolutivo. Sì, perché la collega Patrizia Incollu, insieme ai pochi colleghi (due, tre, quanti?) in servizio presso l’amministrazione penitenziaria della Sardegna, era stata incaricata di dirigere più di un istituto penitenziario: l’Isola ne ben conta dieci. Una vita di lavoro, perciò, trascorsa con l’ossessione del tempo che fugge e del rischio del mancato adempimento, fissando le sfere dell’orologio che non le davano tregua. Perché in ogni istituto c’erano problemi d’affrontare e, soprattutto, da risolvere: c’erano, ci sono, delle persone. Sono anni che i direttori penitenziari, in particolare quelli in servizio nella sacrificata Sardegna, lamentano, assolutamente inascoltati, una carenza rischiosissima dei loro organici, pericolosa per la stessa tenuta del sistema carcerario italiano. Si tratta di una vergogna tutta “nazionale” mentre, fortunatamente, per altre categorie, di cosiddetto “diritto pubblico”, altrettanto non è accaduto (magistrati, prefetti, diplomatici, quadri dirigenziali delle forze di polizia), una carenza così forte da trasformare lo stesso ordinamento penitenziario in una commedia dell’assurdo: Aspettando Godot. Tra non molto saranno operativi circa 57 nuovi direttori, anzi consiglieri penitenziari, dopo l’espletamento di un concorso dai tempi lunghissimi e a oltre vent’anni dall’ultimo bando pubblico. Non basteranno neanche per colmare tutti i vuoti d’organico che, nel frattempo, si sono verificati a causa dei pensionamenti e delle dimissioni o per altri motivi, né quelli ulteriori che, a breve, si conteranno, pur dopo aver selvaggiamente ridimensionato, ovviamente al ribasso, e senza conoscere la complessità delle carceri, le precedenti dotazioni organiche degli uffici. Ma il problema che denuncio non da adesso, mentre con ritmi veloci si avvicendavano i capi dipartimento e gli stessi inconsapevoli e distratti ministri, non è stato affrontato da costoro con quella onestà intellettuale che mi sarei aspettato, né tantomeno con efficacia e massima urgenza, quella della formula “ora e subito”. Si è preferita, invece, la malvagia astuzia, quella di investire i direttori superstiti di ulteriori ed eguali incarichi di direzione (ovviamente senza alcun riconoscimento stipendiale), per cui chi dirigeva un solo istituto se ne sarebbe visto appioppare un secondo e poi, semmai, un altro ancora e così in un crescendo. Addirittura, carceri site in regioni diverse, perfino divise dal mare. Specie nei periodi estivi o nelle feste comandate, che per questi dirigenti dello Stato non rappresentano una pausa, non sono un tiro di respiro, ma una maledizione scagliata contro di loro, perché non messi nelle condizioni di curare i propri affetti, i pochi interessi rimasti. Sulla scrivania di un direttore penitenziario, sappiatelo, si getta di tutto, dal problema delle centrali termiche, che vanno fuori uso sempre nelle giornate festive e prefestive, alle cimici da letto, che torturano i detenuti e talvolta gli stessi operatori penitenziari, e che a titolo di prova ti poggiano schiacciate sul pianale, dopo averle catturate tra le pieghe dei materassi ignifughi, semmai quest’ultimi scaduti, ma non antiparassitari, accompagnate dal burocratico report; insieme ci mettono anche quello che ti segnala la protesta dei detenuti, perché lamentano la qualità del vitto o il mancato funzionamento delle docce in comune; oppure la relazione relativa al problema del nuovo giunto, tossicodipendente, abbandonato dalla famiglia e invisibile ai servizi sanitari, che ha tentato di suicidarsi strozzandosi il collo con le maniche della sua camicia; il poliziotto ti guarda con rassegnazione e ti rappresenta l’ovvio: mica potevamo lasciarlo a petto nudo ? Nel mentre continui a sentire “le novità” e leggi contemporaneamente i numerosi report della giornata, scorri così i “registri di bordo”, libroni tutti da vedere e da vistare con la tua firma, che si trasforma in un graffio doloroso; ogni pagina racconta una storia di detenuti e detenenti; giunge nel frattempo il responsabile della matricola, per dirti che tal pubblico ministero è su tutte le furie, perché un detenuto che doveva interrogare nel suo ufficio, presso il Palazzo di Giustizia, è giunto in ritardo, che queste cose non devono assolutamente accadere, che lui, “gladius et vox legis” per eccellenza, non è a nostra disposizione e che segnalerà la cosa a chi di competenza; il responsabile del nucleo delle traduzioni interviene, rappresentando che nelle stesse ore c’era da portare un ristretto aggressivo in ospedale, perché si era autolesionato, e che, quindi, aveva problemi ad organizzare la scorta anche per il detenuto da condurre in Procura, mancavano gli uomini e sarebbe occorso ridurre, ancora una volta, i posti di sorveglianza all’interno del carcere, rivedendone i compiti, per recuperare qualche unità, tale circostanza aveva fatto perdere del tempo. Sia il cellulare che il telefono poggiato sulla tua scrivania iniziano a trillare, vorresti lanciarli fuori dalla finestra protetta dalle sbarre, ma non puoi, un respiro e decidi di rispondere; scegli il cellulare, dal display vedi che ti chiamano dal Dipartimento, deve trattarsi di qualcosa d’importante. Nel mentre, però, pensi che anche sulla linea del telefono fisso possa esserci una qualche comunicazione urgente. Alzi la cornetta mentre, dal cellulare, ascolti la voce del centralinista del Dipartimento che ti informa che sta per passarti l’ufficio del personale. Senti però, dalla cornetta di quello fisso, anche la voce preoccupata del funzionario giuridico-pedagogico, il quale ti ricorda che sei atteso per il Consiglio di disciplina nei confronti di un detenuto: se non si dovesse dare corso al procedimento entro oggi, rischierà di andare perento. La scrivania sembra un mare agitato, con tutte le carte e le cartelle che ti hanno portato e che attendono la tua firma, foglio per foglio, nessuno escluso; atti che dovresti, che devi, leggere, perché dietro ogni foglio A4 c’è una storia umana, di detenuti, talvolta di dipendenti, di altri che incrociano le carceri per i più diversi motivi. E poi vi sono anche le carte che ti possono esporre contabilmente: la Corte dei conti non scherza e se ne frega se sei da solo e non hai l’aiuto di altri colleghi, nonostante che una volta fossero previsti anche dei vicedirettori, dei funzionari contabili e altri ancora. Ma i tagli lineari di una politica killer, favorita anche da finti salvatori della Patria, che odiavano il pubblico impiego perché ritenuto inutile e fannullone, hanno mutilato tutto e ora stanno minacciano anche la tua testa. Come se non bastasse, il segretario ti porta il comunicato sindacale appena giunto. E di una sigla della polizia penitenziaria che ha dichiarato lo stato di agitazione e minaccia di ricorrere innanzi al giudice del lavoro. Come è intuibile, il problema è quello dell’insopportabile carico di lavoro, accoppiato al sottorganico. Fuori piove, e vorresti lanciarti sulla strada e sentire la pioggia scivolarti addosso, portando via con sé anche tutti i problemi che pure quel giorno dovrai affrontare, il cui numero è maggiore di quello di ieri, ma meno di quello di domani, come una volta veniva scritto parlando d’amore sulle medagliette che i fidanzatini si scambiavano. Scorri nel frattempo l’agenda che hai sul tavolo, che ti ricorda dell’altra riunione di mezzogiorno presso l’Asl, una riunione che tu stesso hai chiesto, per denunciare la scarsa risposta sanitaria che viene assicurata ai detenuti, anzitutto ai tanti folli violenti che, non accolti nelle residenze per le misure di sicurezza in capo alle aziende (Rems), sono illegittimamente ospitati in carcere. Persone per le quali, comunque, ti senti e rimani il responsabile, quantomeno morale, di ogni disservizio ed ingiusta sofferenza. Vi assicuro, quello che racconto è solo una piccola parte di uno spaccato quotidiano di un direttore penitenziario, senza tener conto dei tentativi di evasione, delle liti tra i ristretti, degli esposti dei familiari, delle denunce dei parlamentari in visita, delle lampadine fulminate, dei crediti non onorati con i fornitori, del piano ferie che il personale esige di vedere onorato, delle uniformi che mancano o che, quando pure arrivano, sono di taglie errate. Questo nel caso di un solo istituto penitenziario. Ma se invece sono due, tre o di più? Capite come davvero ci si senta in balia dei venti e degli eventi? Ebbene, questo era pure il lavoro di Patrizia Incollu, una donna straordinaria, una mente raffinata, che il diritto lo viveva e non si limitava a recitarlo. Dirigeva più istituti, come i suoi pochi colleghi sardi, e ogni giorno doveva decidere quali dovessero essere le urgenze delle urgenze, le priorità tra le priorità. Per dare il massimo, per fare il massimo e non soltanto quello che poteva. L’auto, così, diventava spesso il secondo ufficio, dove cercava di concentrare la sua attenzione sulle carte, per essere sempre preparata, efficiente, mentre continuava a rispondere alle numerose chiamate telefoniche, con quel maledetto cellulare incuneato, come i chiodi di Cristo, sul palmo della mano. Chilometri e chilometri ogni giorno, centinaia di chilometri, qualunque fossero le condizioni meteo, chilometri che non interessavano quanti, giocando al Risiko delle più alte dirigenze. Se soltanto avessero voluto farsi carico morale della fatica degli ormai pochi direttori penitenziari, ne avrebbero potuto migliorare le condizioni, rispettandone il lavoro e la dignità professionale. Patrizia non c’è più, ma c’è però il suo ricordo, il ricordo della forza d’animo di una donna che sapeva rappresentare il volto fiero della Repubblica del dovere. Un ricordo che, per quanti sono rimasti, si sta traducendo in rabbia. Una rabbia che urla e chiede che il lavoro degli operatori penitenziari, tutti, sia per davvero rispettato e che le carceri siano per davvero quelle volute dalla nostra Carta costituzionale. Patrizia, grande donna sarda, grazie per averci donato la tua passione civica e il tuo impegno di servitrice dello Stato; al tuo compagno la nostra sincera vicinanza. *Penitenziarista, presidente onorario del Cesp-Centro europeo di studi penitenziari Vi spiego perché non si possono pubblicare immagini di persone arrestate o in manette di Giuseppe Losappio* L’Unità, 7 novembre 2023 Il suppliziato è il colpevole, noi gli spettatori, golosi della sua sofferenza, innocenti a buon mercato. “Quando saremo tutti colpevoli, ci sarà la democrazia”, scriveva Albert Camus. La cronaca ha di recente fatto esplodere il caso di una giudice arrestata perché la sentenza era diventata definitiva e non sussisteva nessuna delle condizioni per la sospensione dell’ordine di carcerazione. La notizia non è nella (sconcertante e gravissima) vicenda giudiziaria “a monte”, già ampiamente conosciuta fin dai primi atti delle indagini preliminari. La notizia non è nemmeno nel provvedimento restrittivo, che di per sé era appunto solo un atto dovuto. Il clamore è stato suscitato dal disperato e toccante tentativo del figlio di preservare la madre dalla voracità spietata della “infocrazia” (Byung-Chul Han), che rivendicava di riprendere le ultime fasi dell’arresto. Spetta ai difensori della donna, innanzitutto, nelle sedi che riterranno più opportune di tutelare i diritti che potrebbero essere stati violati. Senza entrare nel merito più tecnico della questione, certo è che numerose fonti positive e giurisprudenziali riconoscono il diritto alla riservatezza della persona sottoposta a una situazione di “cattività”. Il codice di procedura penale (art. 114, co. 6) vieta “la pubblicazione dell’immagine di persona privata della libertà personale ripresa mentre la stessa si trova sottoposta all’uso di manette ai polsi ovvero ad altro mezzo di coercizione fisica”. Edmondo Bruti Liberati, già Procuratore della Repubblica di Milano, ricorda che la violazione di questa disposizione costituisce illecito disciplinare ma “non risultano segnalazioni del pubblico ministero e tantomeno iniziative disciplinari a fronte della non infrequente pubblicazione di foto e riprese di arrestati in manette, talora, ma non sempre, con l’ipocrita accorgimento delle manette “pixelate” e dunque paradossalmente ancor più sottolineate”. L’art. 8 del Codice deontologico relativo al trattamento dei dati personali nell’esercizio dell’attività giornalistica stabilisce che “il giornalista non riprende né produce immagini e foto di persone in stato di detenzione senza il consenso dell’interessato”. La disposizione fa salvi i casi in cui sussistano “rilevanti motivi di interesse pubblico o comprovati fini di giustizia e di polizia”. Sulla stessa linea una sentenza del 2005 della Corte europea dei diritti dell’uomo (Sciacca c. Italia) ha ritenuto che la divulgazione alla stampa della foto di una persona arrestata, non necessaria per lo sviluppo delle indagini, costituisce un’ingerenza non giustificata nel diritto al rispetto della vita privata. L’indice è lungo ma la sostanza delle diverse voci è ampiamente corrispondente. Il quadro è chiaro, mentre fosche, direi tenebrose, sono alcune considerazioni che la vicenda sollecita. Tra le molteplici chiavi di lettura alle quali si presta l’episodio, la cifra più rilevante mi sembra l’intramontabile fortuna dello “splendore dei supplizi” - affermazione del filosofo francese Michel Foucault - che la “presa-diretta” permanente, nella quale siamo immersi, ha radicato e vascolarizzato in ogni angiporto della nostra società, sempre più feroce e “gotica”. In questa prospettiva, più di tutto, mi ha impressionato un aspetto, un dettaglio che può sembrare marginale. Le sirene urlanti delle autovetture dei finanzieri in fuga verso il carcere. Assolutamente inutili per la sicurezza della “procedura”, assolutamente indispensabili perché l’iconografia dell’arresto fosse esaltata dalla colonna sonora più appropriata e coinvolgente. Così funziona l’esorcismo penale, come ha scritto Luigi Stortoni. Ad onta della buona novella costituzionale, che recita l’umanità delle pene, la prassi spesso è la crudeltà dell’esecuzione. La promessa del perdono dello spettatore che incattivendo contro il “condannato” si impietosisce verso sé stesso contemplandosi nella sua onestà, senza prova contraria. “Di qui - scrive ancora Foucault - la straordinaria curiosità che preme” il pubblico “intorno al patibolo e alle sofferenze che dà in spettacolo; vi si decifrano il delitto e la innocenza, il passato e il futuro, il terreno e l’eterno”. Con lo splendore del supplizio, la liturgia dell’arresto, il canto gregoriano delle sirene, il “ciclo è chiuso”. L’esecuzione della pena “ha prodotto e riproduce la verità del crimine. O piuttosto, costituisce l’elemento che attraverso tutto un gioco di rituali e di prove confessa che il crimine ha avuto luogo … assicura la sintesi della realtà dei fatti e della verità dell’informazione”: il suppliziato è il colpevole, noi gli spettatori, golosi della sua sofferenza, innocenti a buon mercato. “Quando saremo tutti colpevoli, ci sarà la democrazia”. Così scrisse Albert Camus oltre settant’anni fa. Credo che avesse profondamente ragione. *Professore ordinario di diritto penale, Università degli studi di Bari “Aldo Moro” Pnrr e giustizia: si riduce la durata dei processi, accelera l’abbattimento dell’arretrato Italia Oggi, 7 novembre 2023 I dati di monitoraggio del primo semestre 2023, il primo dopo l’entrata in vigore delle riforme del processo civile e penale. Si riduce la durata dei processi ed accelera l’abbattimento dell’arretrato, in linea con gli obiettivi del PNRR concordati con l’Europa. Questo il quadro che emerge dai dati di monitoraggio del primo semestre 2023, il primo dopo l’entrata in vigore delle riforme del processo civile e penale, e che registra gli effetti dei cambiamenti organizzativi attuati dagli uffici giudiziari, anche con l’arrivo degli addetti all’Ufficio per il processo. La relazione, curata dalla Direzione generale di statistica e analisi organizzativa (DgSTat) del Dipartimento per la transizione digitale della giustizia l’analisi statistica e le politiche di coesione del ministero della Giustizia, pubblicata sul sito del Ministero insieme con i dati di monitoraggio, esamina gli andamenti considerando i fattori che incidono sugli stessi, incluse le positive influenze dovute alla riduzione del numero degli iscritti accaduto durante il periodo pandemico. I valori al 30 giugno 2023, confrontati con quelli del 2019 (anno di riferimento fissato nel PNRR) segnalano una decisa accelerazione nella riduzione della durata dei processi calcolata in base al disposition time, l’indicatore di durata che misura il rapporto tra i processi pendenti e quelli definiti, con valori di: - 19,2% nel settore civile, - 29,0% in quello penale. Particolarmente decisa la riduzione nell’ultimo anno nel settore penale (- 17,5% rispetto al I semestre del 2022), grazie a un aumento consistente dei procedimenti definiti. In attesa di un consolidamento di tali andamenti, sulla base dei dati dei prossimi mesi, la tendenza registrata nel primo semestre 2023 è in linea con l’obiettivo finale concordato con la Commissione europea, consistente nella riduzione del 25% della durata dei processi penali entro giugno 2026. La durata media di un processo penale, in tutte le sue fasi, è scesa al di sotto della soglia dei mille giorni. Più contenuto nell’ultimo anno il calo del disposition time in ambito civile (-1,0% rispetto al I semestre 2022), ma si registra un andamento positivo del Tribunale e della Corte di appello, con una diminuzione (rispettivamente, dell’8,9 e del 7,8 per cento). Con il mantenimento di questo andamento risulta raggiungibile l’obiettivo preso con la Commissione europea della riduzione del disposition time complessivo del 40% entro giugno 2026. Riguardo all’arretrato civile, gli ultimi dati segnalano una accelerazione nella tendenza di smaltimento, in particolare nel Tribunale, l’ufficio che fino ad ora ha mostrato le maggiori difficoltà. Al 30 giugno 2023 le variazioni rispetto al 2019 si sono attestate sui valori seguenti: -19,7% in Tribunale, -33,7% in Corte di appello. I dati mostrano quindi un buon andamento dello smaltimento dell’arretrato, che tuttavia rimane ancora al di sotto di quello necessario a raggiungere gli obiettivi concordati con la Commissione europea che prevedono, per giugno 2026, un abbattimento del 90% rispetto al dato del 2019, sia in Tribunale sia in Corte di appello. Il monitoraggio viene inviato alla Commissione europea due volte all’anno e pubblicato sul portale istituzionale del Ministero della giustizia e su sito della DgStat. Il prossimo aggiornamento, relativo alla chiusura dell’anno 2023, verrà pubblicato ad aprile 2024. Così Nordio cancella la prescrizione di Cartabia, opposizioni divise sul no di Giulia Merlo Il Domani, 7 novembre 2023 Si ritorna a quella solo sostanziale, via la riforma scritta per rispettare il Pnrr. Ma il testo proposto dal ministro potrebbe cambiare nel passaggio alla Camera. Riscritta, cancellata e ricorretta cinque volte in diciotto anni: la prescrizione è considerata la panacea contro tutti i mali in materia di giustizia. Così, anche il governo Meloni ha deciso di rimetterci mano, riscrivendola completamente a meno di due anni dalla riforma penale approvata dalla guardasigilli Marta Cartabia, nell’ottica del rispetto degli obiettivi imposti dall’Unione europea con il Pnrr. Il testo di cui ieri si è conclusa la discussione generale alla Camera ed è passato in commissione Giustizia con un emendamento governativo prodotto dagli uffici del ministro Carlo Nordio ha come punto centrale il cancellamento di quello che è stato definito un “ibrido”: la coesistenza della prescrizione sostanziale fino al primo grado, che poi veniva sostituita per il grado d’appello e di cassazione dalla prescrizione processuale. Ovvero, l’estinzione del secondo e del terzo grado - a prescindere da qualsiasi elemento di merito - nel caso di superamento dei due anni e un anno di durata del procedimento. Il sottosegretario Andrea Delmastro si è presentato soddisfatto in aula: “Facciamo ritornare la prescrizione sostanziale, agganciata alla gravità del reato e alla pericolosità del reo, archiviando la parentesi “bonafediana” di indagati e imputati a vita e anche la stagione della improcedibilità, che secondo alcuni procuratori avrebbe rottamato 150mila processi in Italia”. La nuova formulazione, infatti, prevede che la prescrizione ritorni ad essere determinata sulla base della pena, con però due sospensioni, “in seguito alla sentenza di condanna di primo grado, per un tempo non superiore a due anni” e poi, “in seguito alla sentenza di appello che conferma la condanna di primo grado, per un tempo non superiore a un anno”. Tradotto: al termine di prescrizione che varia a seconda del reato e della pena, si possono aggiungere tre anni in tutto di sospensione. Curiosamente, il pdl ha avuto di fatto due relatori di sostanzialmente di maggioranza: il meloniano Andrea Pellicini per il centrodestra, insieme ad Enrico Costa di Azione, favorevole anche lui alla modifica. “Negli anni, motivi di opportunità politica e maggioranze composite hanno impedito di lavorare ad un ritorno alla prescrizione sostanziale in tutti i gradi di giudizio. Ora, quel tempo è arrivato”, ha detto chiedendo di aprirsi in senso favorevole anche alle altre forze di opposizione. Per ora, la grande confusione regna soprattutto tra le opposizioni, infatti. Nessun coordinamento ma ognun per sé: Azione e Italia viva favorevoli alla riforma del governo; Alleanza verdi e sinistra ancora divisa, ma il deputato Devis Doris che ha parlato in aula ha detto che si tratta di un “ritorno positivo alla prescrizione sostanziale”; Pd e Cinque stelle invece fermi sulla contrarietà, ma per ragioni molto diverse. Con questa riforma, infatti, viene definitivamente smantellata la riforma Bonafede (che fermava la prescrizione al primo grado) e per i grillini significa “impunità” e un ritorno alla riforma ex Cirielli “che mandò in prescrizione il 25 per cento dei processi”. Il Pd, invece, ragiona in chiave più pragmatica. Di principio non ci sarebbe contrarietà preconcetta sul tema della prescrizione sostanziale, visto anche che una delle cinque riforme passate era stata scritta da Andrea Orlando. Tuttavia la contrarietà riguarda le ragioni e il metodo: “La riforma Cartabia, votata anche da una parte di questa maggioranza, ha imposto alle corti d’Appello di riorganizzare il lavoro e in molte questo è avvenuto con successo, tanto che i dati del disposition time dei processi nel primo semestre del 2023 hanno già raggiunto gli obiettivi del Pnrr previsti per il 2026”, spiega la responsabile Giustizia, Debora Serracchiani. “Con questa riforma, l’ennesima a costo zero in materia di giustizia, rischiamo di rimettere in discussione i risultati raggiunti e su cui la maggioranza non ha nemmeno acquisito i numeri del monitoraggio. Invece di rendere la giustizia efficace ed efficiente, viene di nuovo complicato il lavoro degli uffici giudiziari che dovranno riorganizzarsi per l’ennesima volta, mettendo a rischio le scadenze europee”. Anche in maggioranza, però, l’ombrello offerto dal testo di Nordio potrebbe non essere sufficiente. Soprattutto in Forza Italia, infatti, ci sarebbe più di qualche malumore sulla formulazione e potrebbero arrivare emendamenti correttivi. Chiusa la discussione generale, non sono ancora state calendarizzate le prossime sedute e il voto. Gli effetti - Al netto delle valutazioni politiche, la nuova prescrizione rischia di avere un problema strutturale: il pdl non prevede infatti un regime transitorio rispetto alla vecchia normativa. Questo potrebbe produrre grossi problemi di ricalcolo della prescrizione sui procedimenti già in corso, visto che - sulla base del principio del favor rei - dovrebbe entrare in vigore da subito. La ministra Cartabia, inoltre, aveva previsto un ufficio di monitoraggio sulla sua riforma penale, proprio per valutarne gli effetti in vista del raggiungimento delle milestones previste dal Pnrr. Secondo i dati del monitoraggio statistico del ministero della Giustizia, la riforma Cartabia sta dando i frutti sperati: la riduzione del tempo dei processi rispetto al 2019 è del 29,7 per cento in tribunale, del 27,1 in Corte d’Appello e del 39,1 in Cassazione. Tradotto: ad oggi la media nazionale del processo d’appello è di 613 giorni, cioè poco più di venti mesi, dunque è sotto al temine massimo di due anni fissato dalla Cartabia con l’improcedibilità che la maggioranza vuole abrogare. Il rischio può quindi essere che, tolta la tagliola della prescrizione processuale di Cartabia, che ha imposto di riorganizzare il lavoro nelle corti e di renderlo più efficiente, i tempi possano tornare a dilatarsi. Scucendo così di nuovo la tela di Penelope della giustizia penale e mettendo a rischio il raggiungimento degli obiettivi europei di ridurre del 25 per cento la durata dei processi penali. La riforma della prescrizione è un tampone che non agisce per eliminare il problema di Costantino De Robbio* Il Domani, 7 novembre 2023 Probabilmente la soluzione va cercata proprio dove non la si vuole cercare perché è più faticoso: agire sulle cause della lentezza dei processi e non sulla clessidra. Il 6 novembre è atteso in parlamento il disegno di legge che modifica l’istituto della prescrizione. I giuristi e gli operatori del diritto dovranno dunque, quasi sicuramente, fare i conti con l’ennesima riforma di un istituto tra i più delicati del nostro sistema penale, quello che decreta la “morte” dei processi penali non ancora conclusi dopo che è passato troppo tempo perché la punizione abbia un senso. Le modifiche legislative ai codici fanno parte della fisiologia del sistema giudiziario, e guai se il Parlamento non fosse attento ad adeguare le leggi al mutare dei tempi o alle esigenze che via via si affacciano alla sua attenzione. Quello che non è fisiologico è che si intervenga quattro, cinque volte in pochi anni sullo stesso argomento, perché questo implica nella migliore delle ipotesi la mancanza di una visione chiara e condivisa tra le forze politiche su un argomento importante per la vita dei cittadini, nella peggiore la volontà di strumentalizzare per fini politici delicati istituti processuali. Il problema esiste - Intendiamoci, il problema da cui prendono spunto gli interventi legislativi esiste ed è innegabile: i processi penali nel nostro Paese sono spesso intollerabilmente lenti. Non si può e non si deve attendere anni per sapere se una persona ha commesso un reato o no; non è giusto né per chi del reato è accusato, né per chi lo ha subito, né per la collettività. Su questo non si può non essere d’accordo. È sui rimedi al problema che cominciano… i problemi. Chiunque frequenta, per lavoro o più sfortunatamente perché coinvolto a qualsiasi titolo in un procedimento penale, non può non sapere che i tribunali vivono da sempre una cronica mancanza di risorse materiali, umane ed informatiche e che ogni udienza, ogni certificato richiesto, ogni provvedimento deve fare i conti con una macchina obsoleta e del tutto inadeguata a fronteggiare numeri e qualità della domanda di giustizia odierna. Basti pensare che per venti anni (un tempo infinito) non sono stati banditi concorsi per la nevralgica funzione di cancelliere per comprendere come stanno le cose, o che il processo penale telematico è a tutt’oggi una specie di chimera. Per tacere delle condizioni in cui giudici, avvocati e utenza sono costretti a lavorare, tra fili scoperti, infiltrazioni di umidità e sedie rotte (per non parlare dei tragici e noti episodi di Tribunali interi costretti a spostarsi in tendopoli improvvisate causa inagibilità). Il rimedio a questo stato di difficoltà ormai cronicizzato dovrebbe essere intuitivo: investire risorse, adeguare le strutture, implementare le dotazioni informatiche, aumentare organici di magistrati e personale amministrativo. Per motivi difficilmente spiegabili, questo non avviene e si reagisce alla lentezza dei processi, inevitabile conseguenza - in buona parte - delle condizioni sopra descritte agendo sull’istituto della prescrizione. È come se i treni arrivassero in ritardo a causa dell’obsolescenza dei binari, delle macchine, della mancanza di personale…. E si reagisse decretando per legge che se un treno non arriva da Roma a Milano in tre ore deve fermarsi su un binario morto. E tanti saluti ai viaggiatori. Negli ultimi anni abbiamo avuto sulla prescrizione una riforma Orlando, una riforma Bonafede, una riforma Cartabia e ora avremo una riforma Nordio. Con la prima, per restare alla metafora del treno, era stato stabilito che dopo la sentenza di primo grado, se di condanna, la clessidra della prescrizione si fermasse: sostanzialmente, si era detto, se si accerta almeno provvisoriamente che un soggetto è responsabile di un reato (salvi ribaltamenti in appello o in cassazione) non si può più dire che la risposta giudiziaria sia arrivata tardi e sia inutile. Il condannato avrebbe potuto fare appello, ma questo suo legittimo diritto non poteva più porre nel nulla quanto fatto fino a quel momento: il treno, ormai, sarebbe arrivato a destinazione. Per evitare che il treno corresse fino alla sentenza di primo grado e poi rallentasse fino all’infinito nei gradi successivi, era stato però previsto che per i successivi due gradi non si impiegasse più di un anno e mezzo. Peccato che si trattasse di tempi incompatibili con l’attuale stato di carico delle Corti di Appello, oberate di fascicoli oltre l’umana esigibilità. Sicché l’effetto era che i processi rischiavano di prescriversi tutti in appello: è inutile dire che se il treno Roma-Milano arriva almeno a Firenze non ci vogliono più le due ore prescritte e poi aggiungere che il tratto finale Firenze-Milano deve essere percorso in mezz’ora altrimenti ci si ferma lo stesso. Le varie riforme - Caduto il governo di cui era espressione Orlando, era intervenuta la riforma Bonafede, che aveva disposto che la clessidra si fermasse definitivamente dopo la sentenza di primo grado, fosse essa di condanna o di assoluzione. Ma questo rimedio aveva provocato le critiche di chi ha osservato che in questo modo i guidatori del “treno-processo” avrebbero spinto al massimo i motori fino al primo grado per poi fermarsi o quasi nei gradi successivi, condannando l’imputato a rimanere in attesa di giudizio definitivo per sempre. Ancora più complessa la soluzione offerta dalla riforma Cartabia, che nel confermare lo stop alla prescrizione dopo il giudizio di primo grado, ha introdotto per i successivi gradi l’inedito istituto della “improcedibilità”, prevedendo che i giudizi di impugnazione dovessero terminare entro un certo lasso di tempo. In caso contrario? Anche in questo caso, stop al processo e ai suoi “viaggiatori”. Ma a quanto pare neanche questo rimedio riuscirà a resistere al cambio di Governo, ed ecco pronta la quarta (o quinta) riforma della prescrizione in meno di dieci anni: il Governo Meloni si appresta a discutere una nuova modifica che prevede la sospensione della prescrizione per 24 mesi dopo la sentenza di condanna in primo grado e per 12 mesi dopo la conferma della condanna in Appello. Torna la selezione dello stop alla prescrizione a seconda dell’esito del giudizio (viene dato più tempo al processo per fare il suo tragitto se l’esito è sfavorevole al reo, mentre se in primo grado si è avuta una sentenza di assoluzione la clessidra non si ferma, ciò che potrebbe implicare che ci si concentrerà sui processi in cui l’appello lo ha fatto l’avvocato contro una sentenza di condanna, perché sono processi che meno probabilmente si prescriveranno mentre per quelli in cui l’appello lo ha presentato il pubblico ministero avverso una sentenza di assoluzione non varrà la pena di perdere tempo e fatica essendo quasi certo il verificarsi della prescrizione. I rischi - In più, come è stato osservato dai primi commentatori, ancora una volta si costringeranno i giudici a fermarsi per rideterminare, secondo l’ennesimo criterio, il termine di prescrizione per migliaia di processi, operazione che già di per sé rallenterà ancora una volta le udienze. C’è già chi ha scritto che il solo fatto di rimettere mano ancora una volta alle regole della prescrizione, con i conseguenti rallentamenti nel breve periodo di cui sopra, comporterà il fallimento degli obiettivi del PNRR. Ma ciò che più preme ad un gruppo di magistrati, ovvero di operatori del diritto quale è AreaDG è sottolineare lo strano fenomeno per cui si continua ad escogitare soluzioni eccentriche e di tampone anziché agire per eliminare il problema alla radice. Probabilmente la soluzione va cercata proprio dove non la si vuole cercare perché è più faticoso: agire sulle cause della lentezza dei processi e non sulla clessidra. Rendere i processi veloci e la macchina efficiente e non dichiarare per legge che i treni si devono fermare. L’obiettivo deve essere quello che l’istituto della prescrizione diventi solo un’eventualità remota nelle aule, sì che le relative regole - quali che siano - inutili. Come si fa? Trovare le sacche di inefficienza, dove ci sono, combattendo lungaggini dovute a negligenza e a comportamenti scorretti di chiunque operi nel processo. E costruire treni veloci e moderni, senza lesinare né nel personale né in dotazioni tecnologiche e… tradizionali. Oggi la maggior parte dei giudici e dei Pubblici Ministeri si compra a proprie spese persino i Codici: immaginate se ai chirurghi fosse imposto di pagare di tasca propria bisturi e garze, e in più di finire ogni intervento chirurgico entro due ore? *Coordinamento nazionale Area democratica per la giustizia La rabbia dei tirocinanti degli uffici giudiziari: “Non siamo mai stati pagati” di Enrico Ferro La Repubblica, 7 novembre 2023 Anche lo Stato comincia a non pagare i praticanti. Era previsto un rimborso spese di 400 euro, ma ora non viene più garantito perché il plafond non basta per tutti. I ragazzi scrivono una lettera a Nordio. Il praticante avvocato che lavora senza prendere il becco di un quattrino, il tirocinante giudiziario che si fa 18 mesi con lo stesso trattamento economico, cioè nemmeno un soldo. Dal privato al pubblico, stesso malcostume tutto italiano: non pagare i giovani appena usciti dall’università nella fase di formazione. Alle storie dei praticanti avvocati non pagati ci si era in qualche modo abituati ma che adesso anche lo Stato, cioè il pubblico, cominci a fare lo stesso, questo è un orizzonte ancora tutto da esplorare. “Se anche quando lavoriamo, dopo aver speso tanti soldi per la nostra formazione, nemmeno ci viene riconosciuto il minimo indispensabile, allora fa bene chi se ne va all’estero”, dice combattiva Camilla Santocchio, 27 anni, originaria di Salerno, laureata in Giurisprudenza alla Luiss. Il problema, dunque, è il seguente. Esiste questa figura del tirocinante giudiziario, che presta servizio nei tribunali, in Cassazione e al Consiglio di Stato. Sarebbe previsto il pagamento di 400 euro mensili a titolo di rimborso ma ormai da tempo l’automatismo è saltato. E i soldi che il Ministero della Giustizia mette a disposizione non riescono a coprire l’intero plafond dei partecipanti. “A fronte di 3586 domande, 2872 hanno trovato accoglimento. Sono pertanto rimasti esclusi 714 tirocinanti giudiziari dall’assegnazione della borsa di studio, i quali non percepiranno alcun rimborso per lo svolgimento delle loro mansioni durante il periodo di riferimento”, scrivono i tirocinanti d’Italia in una lettera indirizzata al ministro della Giustizia Carlo Nordio. “Lettera che abbiamo inviato il 26 ottobre e per cui non abbiamo ancora ricevuto risposta”, evidenzia Camilla Santocchio. “Il tirocinio fino a poco tempo fa era l’unica modalità prevista per poter poi accedere al concorso in Magistratura, una volta completati i 18 mesi. Ora questo blocco è stato tolto ma il problema del mancato pagamento delle borse resta”. I tirocinanti sostengono che il loro lavoro sia in qualche modo equiparabile a quello di una figura già presente nei tribunali, l’addetto all’ufficio del processo: lavoratori assunti a tutti gli effetti, con uno stipendio che si aggira intorno ai 1.600 euro al mese. “E invece a noi non pagano nemmeno i 400 a titolo di rimborso spese”, continua Santocchio. I possibili futuri magistrati di domani denunciano situazioni deficitarie sotto tutti i punti di vista. “Dobbiamo portarci il pc da casa e siccome nei tribunali non c’è il wi-fi, dobbiamo collegarlo al nostro telefonino, consumando i giga della nostra connessione. Io l’ho fatto a Roma e lavoravamo anche fino alle 18”. Al tribunale di Roma, giusto per dare un riferimento numerico, sono 110 i posti previsti per i tirocinanti giudiziari. “Il problema non nasce oggi con questo Governo”, specifica Camilla Santocchio, a nome della categoria. “È un’eredità che si trascina da qualche tempo ma non riusciamo a scorgere la voglia di risolvere il problema. Non chiediamo qualcosa di impossibile, semplicemente che vengano rispettati i nostri diritti. Se a 27-28 anni non riusciamo neanche ad avere 400 euro al mese da questo Stato, come possiamo mettere su famiglia presto o andare via da casa? Chi fa Giurisprudenza lo fa per restare nel proprio Paese ma se le porte sono chiuse, allora l’unica alternativa è andarsene. Per questo chiediamo che il Governo si mobiliti, per dare più tutele. Ma non solo quest’anno, anche i prossimi”. Veneto. Carceri, 6 nuovi direttori: ecco tutti i nomi di Enrico Ferro Il Mattino di Padova, 7 novembre 2023 “Promessa mantenuta. Come avevamo annunciato, entro il 20 novembre entreranno in servizio 57 nuovi direttori negli istituti di pena del nostro Paese. Fra questi, sei saranno assegnati al Veneto, presso le sedi che precedentemente risultavano scoperte: le case circondariali di Padova, Venezia, Vicenza, Belluno e Rovigo”. Il senatore Andrea Ostellari, sottosegretario alla Giustizia, esulta di fronte all’iniezione di funzionari che il Dipartimento per l’amministrazione carceraria ha attuato. “Un nuovo vicedirettore prenderà servizio nel carcere Due Palazzi di Padova. Ringrazio il Dipartimento e il Provveditore per il lavoro svolto e l’attenzione dimostrata nei confronti del nostro territorio. Per assolvere al suo mandato e garantire la sicurezza dei detenuti e del personale di servizio ogni carcere ha bisogno di una guida, assegnata in pianta stabile. Con le nuove assegnazioni si chiude per il Veneto la stagione degli incarichi a scavalco, che hanno penalizzato funzionalità e operatività degli istituti nella nostra Regione”. Ecco chi sono, dunque, i nuovi dirigenti. Irene Pagano sarà vicedirettore della Casa di reclusione di Padova, Anastasio Morante direttore della Casa circondariale di Padova, Enrico Farina direttore a Venezia, Luciana Traetta a Vicenza, Lara Rampin a Belluno, Mattia Arba a Rovigo. “L’attenzione del Governo per il territorio veneto è massima, anche sui temi dell’esecuzione penale e delle infrastrutture” continua Ostellari. “Ringrazio il vicepremier e ministro Matteo Salvini per aver messo a disposizione l’ingente cifra di 3,5 milioni di euro, che servirà a coprire i costi necessari al completamento dell’istituto per minorenni di Rovigo. La nuova struttura, che contiamo di inaugurare entro la fine del prossimo anno, rappresenterà un’eccellenza per tutto il Paese, con ampi spazi per la formazione e il trattamento dei minori ristretti”. Brescia. Dal Governo altri 38 milioni per il nuovo carcere di Pietro Gorlani Corriere della Sera, 7 novembre 2023 Si sommano ai 15 milioni già disponibili per il nuovo Verziano. Verrà superato l’attuale progetto di sfruttare solo il sedime esistente ma servono 50mila metri quadrati di aree a fianco dell’attuale struttura. Gli appelli e le denunce evidentemente non sono caduti nel vuoto. Dal Governo arrivano ulteriori 38 milioni di euro per finanziare l’ampliamento del carcere di Verziano. Lo stanziamento atteso da anni arriva dopo le tantissime denunce della polizia penitenziaria, dei sindacati, dei magistrati bresciani riguardo alle condizioni di invivibilità dell’istituto penitenziario cittadino, sovraffollato, fatiscente e inadeguato da troppi anni. Stanziamento che fa parte di un pacchetto di 166 milioni erogati ieri mattina dal comitato interministeriale (Mit e Giustizia) per 21 interventi di edilizia carceraria. Per la deputata leghista Simona Bordonali ed il senatore Stefano Borghesi è “un risultato straordinario per Brescia, ottenuto grazie al lavoro della Lega e del ministro Salvini” mentre la deputata FdI Cristina Almici sottolinea l’impegno del suo partito nel finanziare “progetti fermi da anni” per contrastare il sovraffollamento carcerario e ringrazia il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro delle Vedove. Bordonali ha avuto rassicurazioni da un dirigente del Mit che i 38 milioni sono in aggiunta ai 15 già stanziati nel 2013 quindi sufficienti per l’intervento: estendere e ammodernare Verziano, chiudendo Canton Mombello. Anche per il senatore Alfredo Bazoli, capogruppo Pd in commissione Giustizia si tratta di una bellissima notizia. “Finalmente si completa un percorso iniziato nel 2014, quando il ministro Orlando stanziò i primi 15 milioni di euro. Ora bisognerà monitorare che il progetto risponda pienamente alle necessità e ci sia una tempistica accettabile”. Bordonali fa pressing sulla Loggia “affinché metta a disposizione il prima possibile le aree per il nuovo progetto”. Perché il rifacimento dell’attuale casa di reclusione, limitandosi a realizzare 400 nuove celle dentro l’attuale sedime non basta.È un progetto “monco”, perché non andrebbe ad ampliare la struttura sui 50mila metri quadri di campi adiacenti dove realizzare una serie di laboratori per fare lavorare i detenuti, strutture sportive ma anche casermette per gli agenti di polizia penitenziaria. La giunta Paroli nel Pgt del 2012 aveva ottenuto 70 mila metri quadrati di campi dall’azienda agricola Verziano in cambio di 25 mila metri quadrati di aree residenziali e commerciali al Villaggio Sereno: accordo cancellato in nome della riduzione di consumo di suolo dalla giunta Del Bono nel 2016, giunta che però ha previsto destinazione a servizi per quei campi, che devono però entrare nella disponibilità del Demanio o con un accordo (in passato la Loggia aveva pensato di dare in cambio palazzo Tosio, poi ha cambiato idea), o con l’acquisto o con l’esproprio. La sindaca: ecco come acquisiremo le aree - E la sindaca Laura Castelletti, nell’esprimere soddisfazione per il finanziamento, promette che la Loggia farà la sua parte: “Siamo certi che in questa dinamica abbia avuto un ruolo significativo la convocazione di tutte le istituzioni da parte del presidente della Corte d’Appello, Claudio Castelli. Auspichiamo che questi 38,8 milioni vadano ad aggiungersi ai 15 milioni da tempo stanziati, coprendone così l’intero fabbisogno e speriamo di poter vedere presto il progetto, anche per capire se l’ampliamento di Verziano consentirà la chiusura di Canton Mombello, struttura ormai obsoleta e inadeguata”. E riguardo alla disponibilità delle aree arriva la risposta a Bordonali: “Il Comune, che ha sempre dimostrato la massima collaborazione per cercare di agevolare i processi che portassero alla realizzazione di una più moderna e funzionale struttura carceraria, conferma che le aree per l’ampliamento di Verziano hanno già una destinazione urbanistica specifica a carcere. Si tratta complessivamente di 86.580 metri quadri, comprensivi dell’attuale penitenziario, quindi di circa 50mila per il suo ampliamento. L’acquisizione delle aree potrà avvenire o mediante procedura espropriativa o, in alternativa, su richiesta dei proprietari, con la compensazione mediante attribuzione di diritti edificatori, come già previsto nelle norme tecniche di attuazione del Pgt”. Il maxi finanziamento supera anche la bozza di accordo tra l’ex sindaco Emilio Del Bono e l’ex ministro Marta Cartabia, che nell’estate 2022 avevano discusso di un possibile “scambio” coinvolgendo Cassa Depositi e Prestiti alla quale sarebbe andato il carcere cittadino di Canton Mombello (da valorizzare a livello immobiliare) in cambio della costruzione di un nuovo penitenziario a Verziano. Ora sarà il ministero a mettere a bando la realizzazione del nuovo carcere. Ma tra progettazione, gara e cantieri se ne andranno come minimo 5 anni. L’esigenza però è quella di fare presto. La magistratura: fare presto - “Canton Mombello è una realtà ingestibile, che non garantisce un minimo di vivibilità al fine di rendere la pena davvero rieducativa: serve un nuovo progetto per realizzare il carcere”: anche i magistrati bresciani negli ultimi giorni hanno alzato la voce sul tema chiedendo si proceda “il più presto possibile” con un tavolo di lavoro istituzionale. Numeri alla mano, il presidente della Corte d’appello Claudio Castelli, il pg Guido Rispoli e la presidente del Tribunale di Sorveglianza Monica Cali, hanno ricordato che la casa circondariale conta 371 detenuti contro una capienza di 189, di cui 180 stranieri di 40 etnie. Da gennaio si contano 62 aggressioni verso altri detenuti e 25 nei confronti della polizia penitenziaria. Per la direttrice del carcere Francesca Paola Lucrezi l’idea “più percorribile” è l’ampliamento del carcere di Verziano acquisendo le aree circostanti, senza sacrificarne gli spazi all’aperto dedicati alle tante attività per i detenuti, “che funzionano”. “L’impegno è quello di portare a termine il progetto entro la fine della legislatura”, aveva fatto sapere il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Ostellari. Forlì. Arrivano i fondi per il nuovo carcere. Stanziati dal governo quasi 28 milioni di Matteo Bondi Il Resto del Carlino, 7 novembre 2023 L’annuncio dato ieri dal deputato Morrone (Lega) e dal sottosegretario Delmastro Delle Vedove, in visita alla casa circondariale. Potrebbero riprendere presto i lavori di costruzione del nuovo carcere di Forlì. È quanto si evince dall’importante annuncio di vari esponenti di centrodestra dei quasi 28 milioni di euro che sono stanziati dal governo proprio per la struttura carceraria forlivese al Quattro, la cui costruzione è divenuta una storia infinita. In visita al vecchio carcere ieri c’era il sottosegretario alla giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove, esponente di Fratelli d’Italia, accompagnato dalla collega di partito e deputata Alice Buonguerrieri: entrambi hanno elogiato il lavoro del governo guidato da Giorgia Meloni per i 21 interventi di edilizia penitenziaria approvati, fra cui, appunto, anche quello forlivese. “Abbiamo trovato le risorse necessarie” hanno affermato i due, ringraziando nel contempo anche il viceministro Galeazzo Bignami “per l’intenso e proficuo lavoro di squadra che ci ha permesso di raggiungere questo importante risultato”. “Per la sinistra il sovraffollamento si affrontava con provvedimenti svuota carcere - ha puntualizzato il sottosegretario -, per noi lavorando seriamente sull’edilizia penitenziaria e il risultato di oggi ne è la riprova”. Il sottosegretario in serata ha poi preso parte a un convegno sulla riforma della giustizia in sala Randi. Si dice fiera del risultato ottenuto anche la deputata, che puntualizza come “Il nuovo passo sull’edilizia penitenziaria è garanzia di maggiore sicurezza per uomini e donne della Polizia Penitenziaria, maggiore sicurezza per i cittadini e migliori condizioni per i detenuti, ferma restando la certezza della pena”. Esprime grande soddisfazione, inoltre, l’onorevole Jacopo Morrone della Lega: “Dopo le note vicissitudini con i relativi ritardi del progetto per il nuovo carcere di Forlì in località Quattro - afferma il segretario della Lega Romagna -, si vede la luce in fondo al tunnel. Il Ministero delle Infrastrutture, guidato dal ministro Matteo Salvini, ha messo a disposizione oltre 166 milioni di euro per progetti di edilizia carceraria in tutt’Italia. Tra questi rientra anche il carcere forlivese a cui sono destinati quasi 28 milioni di euro suddivisi su più annualità”. Lo stesso deputato ricorda come la costruzione del carcere abbia subìto un ultimo arresto causato da una vicenda giudiziaria - sull’appalto - risolta da una decisione assunta dal Consiglio di Stato nel dicembre 2022 e pubblicata qualche mese dopo. Parlano infine di “opera imprescindibile a servizio della città” anche il vicesindaco di Forlì, Daniele Mezzacapo, e l’assessore Andrea Cintorino, entrambi del carroccio “Una notizia attesa a lungo e un grande passo in avanti per la città in termini di sicurezza”. I due amministratori cittadini annunciano che “la somma messa a disposizione dal ministro Salvini rappresenta un punto di svolta. Dopo anni di chiacchiere e promesse non mantenute, la Lega porta a casa un risultato storico per Forlì. La nuova struttura penitenziaria al Quattro, oltre a rappresentare un cambio di passo in termini di qualità degli spazi detentivi, ‘libera’ lo spazio della Rocca a beneficio dell’intera comunità forlivese”. Firenze. Sei milioni per adeguare le carceri, ma Sollicciano ha le celle sott’acqua di Antonella Mollica Corriere Fiorentino, 7 novembre 2023 Ci sono anche sei carceri toscane tra quelle che riceveranno i fondi per le ristrutturazioni stanziati dal ministero delle infrastrutture e dei trasporti guidato dal vicepremier Matteo Salvini. In totale arriveranno 166 milioni di euro in tutta Italia, alla Toscana ne sono destinati quasi sei, così come deciso dal Comitato interministeriale sull’edilizia carceraria che si è riunito ieri. Per Sollicciano sono stati stanziati quasi 500 mila euro per realizzare un capannone che diventerà un laboratorio per corsi di formazione per pellettieri, un progetto che vedrà la collaborazione delle grandi griffe della moda. Arriveranno poi 450 mila euro per Pisa, 1 milione e mezzo per Prato, quasi un milione per Porto Azzurro, un milione e 200 mila per Gorgona, un milione e 300 mila per la realizzazione di una sala polivalente a Volterra. Le attività saranno affidate al Provveditorato interregionale che comprende la Toscana e l’Umbria, che avrà il ruolo di soggetto attuatore. E mentre si sta mettendo in cantiere una nuova opera per il carcere fiorentino - che al momento ospita poco più di 500 detenuti - arriva la notizia che l’alluvione che ha sconvolto la Toscana nei giorni scorsi non ha lasciato indenne Sollicciano. Le celle sono nuovamente sott’acqua nonostante la struttura sia stata interessata da importanti lavori di efficientamento energetico: grazie anche ai finanziamenti della Regione sono stati sostituiti tutti gli infissi ma le piogge dei giorni scorsi hanno portato a pesanti infiltrazioni di acqua, al punto che è stato necessario organizzare lo sfollamento del reparto maschile. “È incredibile ma è proprio così - conferma Eleuterio Grieco, segretario generale della Uil Pa polizia penitenziaria - per questo riteniamo che andrebbe aperta un’inchiesta. Si continuano a spendere soldi per ristrutturazioni straordinarie quando questa struttura andrebbe demolita e ricostruita. È inutile mettere le mani per miglioramenti che non possono arrivare. Sollicciano è un carcere degno di un Paese sottosviluppato: i detenuti continuano a combattere contro blatte e cimici e devono continuamente ricorrere alle cure nelle infermerie”. Per Sollicciano negli ultimi anni sono stati stanziati 11 milioni di euro tra opere di efficientamento energetico, sistemazione delle facciate esterne, la realizzazione di un corpo di fabbrica per potenziare il lavoro penitenziario, due campi di calcetto, risanamento dei locali docce, recupero della chiesa e del teatro. Lo stesso sindaco Dario Nardella, un anno e mezzo fa, nel corso di una visita aveva detto che è necessario “ricostruire da zero questa struttura”. Vicenza. Carcere, dopo anni di assenza ora c’è il nuovo direttore (fisso) di Francesco Brun Corriere del Veneto, 7 novembre 2023 Al Del Papa arriva Luciana Traetta. Contenti i sindacati. Dopo circa cinque anni, la casa circondariale “Del Papa” di Vicenza torna ad avere un direttore fisso, o meglio, una direttrice. Ieri mattina il senatore leghista Andrea Ostellari ha annunciato l’entrata in servizio di 57 nuovi direttori negli istituti di pena italiani e fra questi sei sono nelle sedi venete che risultavano scoperte, “Del Papa” compreso. Per quanto riguarda Vicenza, toccherà alla 28enne Luciana Traetta il difficile compito di dirigere il carcere di via Dalla Scola. Originaria del Salento, Traetta arriva a Vicenza dopo avere appena concluso il corso di formazione. Nonostante si tratti della prima esperienza, nell’ultimo anno del suo percorso di istruzione la neo direttrice ha avuto esperienze nelle case circondariali di Lecce, Alessandria e Milano. L’arrivo di Traetta è considerata una “grande notizia” dai sindacati, che da tempo denunciano le precarie condizioni dell’istituto penitenziario “Del Papa”. Oltre a un sovraffollamento delle celle del 141 per cento e ai circa 70 agenti che mancano all’organico, uno dei problemi principali era rappresentato infatti proprio dalla mancanza di un direttore fisso. L’ultimo era stato Fabrizio Cacciabue, ora in pensione, trasferito a Padova nel 2019 e per anni reggente a Vicenza, una situazione non dissimile da altre realtà venete e che non ha permesso di dare continuità al loro operato. “Dopo un lungo periodo di assenza dei direttori - le parole del segretario interregionale dell’Uspp Leonardo Angiulli - si sono concluse le assegnazioni che permetteranno a tutti gli istituti del Veneto di avere un direttore di sede. Questo era uno degli impegni che l’attuale governo aveva preso con tutti noi e diamo atto che finalmente qualcosa si sta muovendo. Sono piccoli passi, ma siamo certi che finalmente con un direttore in sede si possa iniziare un vero confronto con le organizzazioni sindacali per migliorare la situazione negli istituti del Triveneto”. I nuovi direttori, che entreranno in funzione il prossimo 20 novembre, vanno a sopperire una grave carenza del sistema carcerario italiano. “C’è un barlume di speranza - il commento di Luigi Bono, segretario provinciale del Sappe - perché la funzione di direttore è fondamentale all’interno di un istituto, anche ai fini di una valida collaborazione con il comandante di reparto, che spesso in questi anni si è trovato da solo a dover gestire la complessa struttura penitenziaria. Diciamo che, quello del direttore, è un problema equivalente rispetto alla mancanza in organico del personale: abbiamo bisogno di un dirigente, ma soprattutto di un valido dirigente”. La situazione che Luciana Traetta troverà a Vicenza è tutt’altro che semplice: sono 70 i reati per violazione delle norme penali segnalati all’istituto Dal Papa nel 2023. L’ultimo in ordine cronologico lo scorso venerdì, quando un detenuto di difficile adattamento, che solamente due giorni prima aveva causato un incendio all’interno della propria cella dopo avere dato volontariamente fuoco ad alcuni suppellettili, ha aggredito un poliziotto addetto alla manutenzione, provando dapprima a tagliargli la gola con un pezzo di plexiglass, per poi tentare di strangolarlo: solamente il pronto intervento dei colleghi ha scongiurato il peggio. Milano. “Mi riscatto per il futuro”, primi risultati dell’accordo tra Ministero e Ferrovie dello Stato fsitaliane.it, 7 novembre 2023 Con i primi cinque detenuti già al lavoro nelle stazioni è operativo l’accordo del Protocollo d’intesa. Entra nel vivo il primo accordo attuativo del Protocollo d’intesa tra Ministero della Giustizia - Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e Ferrovie dello Stato Italiane “Mi riscatto per il futuro”, che prevede l’attivazione di percorsi volti a favorire il reinserimento sociale dei detenuti. Cinque di loro, tutti provenienti dalla Casa di Reclusione di Milano Opera, sono stati assunti, con contratti a tempo determinato di sei mesi, da Rete Ferroviaria Italiana e Trenitalia, rispettivamente capofila dei Poli Infrastrutture e Passeggeri del Gruppo FS Italiane. Dopo aver completato un percorso di formazione dedicato, lavorano adesso all’interno delle stazioni e degli uffici ferroviari. L’obiettivo è estendere il progetto anche ad altri istituti penitenziari della Penisola. Un primo bilancio del Protocollo, firmato nel luglio 2022 da Ministero della Giustizia e Gruppo FS Italiane, è stato presentato questa mattina da Andrea Ostellari, Sottosegretario di Stato al Ministero della Giustizia, Giovanni Russo, Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, e Luigi Ferraris, Amministratore Delegato del Gruppo FS Italiane, presso l’Auditorium di Villa Patrizi, sede centrale del Gruppo. “Le nostre carceri accolgono e custodiscono donne e uomini privati della libertà, ma non della loro dignità. Il compito principale del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria è collaborare al loro pieno recupero e al successivo reinserimento. La bella notizia è che questo compito si può svolgere insieme ad altri attori: imprese e aziende italiane, che scelgano di formare e avviare al lavoro detenuti e persone sottoposte a misure restrittive. Ferrovie dello Stato è una di queste e merita la nostra gratitudine e il nostro incoraggiamento. Grazie all’accordo sottoscritto con il Ministero della Giustizia, cinque detenuti, formati e abili, hanno iniziato oggi un percorso lavorativo. L’auspicio è che domani possano essere sempre di più. I dati parlano chiaro: il lavoro non è un premio, ma lo strumento più utile per abbattere la recidiva e recuperare i condannati. Promuoverlo significa investire nella sicurezza delle nostre Comunità”, ha dichiarato Andrea Ostellari, Sottosegretario di Stato al Ministero della Giustizia. Ha espresso grande soddisfazione il Capo del DAP, Giovanni Russo: “Abbiamo avviato una importantissima sinergia con uno dei più importanti gruppi industriali del Paese che, come l’Amministrazione Penitenziaria, si estende e raggiunge tutto il territorio nazionale. E quindi, per questo, è potenzialmente in grado di interessare e coinvolgere tutti i 190 istituti penitenziari della Penisola in opportunità di rieducazione e reinserimento della popolazione detenuta. La nostra Amministrazione guarda al futuro con occhi nuovi e propositivi e io ringrazio il Gruppo Ferrovie dello Stato per aver deciso di affiancarci in questo impegno per la realizzazione di politiche di sviluppo inclusivo che possono dimostrarsi un grande investimento in campo sociale”. Luigi Ferraris, Amministratore Delegato del Gruppo FS, ha dichiarato: “Oggi diamo concreta attuazione a un impegno, che è anzitutto sociale, siglato lo scorso anno, con l’auspicio di estendere tale iniziativa a un numero sempre maggiore di penitenziari. Ringraziamo il Ministero della Giustizia e il DAP per la collaborazione e per aver contribuito alla diffusione di una cultura della responsabilità, presupposto fondamentale per sostenere quei cambiamenti necessari allo sviluppo del sistema Paese e di cui il Gruppo FS si rende portatore”. I primi cinque detenuti che hanno preso parte al progetto sono stati selezionati con la supervisione della magistratura di sorveglianza e sono stati individuati insieme a rappresentanti delle Risorse Umane delle società del Gruppo FS. Tre di loro sono stati assegnati al servizio con Rete Ferroviaria Italiana rispettivamente nei ruoli di addetto alla Sala Blu per i servizi di assistenza ai viaggiatori con ridotta mobilità, addetto a supporto del referente di stazione e addetto a supporto dello staff di formazione della scuola professionale. Gli altri due operano in Trenitalia, in qualità di addetti alla segreteria tecnica di impianto. Il Protocollo d’intesa Mi riscatto per il futuro, sottoscritto nel luglio 2022 dal Ministero della Giustizia e dal Gruppo FS Italiane, è nato proprio con l’obiettivo di favorire l’istruzione, l’orientamento e la formazione professionale dei detenuti sostenendo il loro coinvolgimento in programmi di pubblica utilità, fino ad arrivare a un loro reinserimento nel tessuto civile e sociale delle comunità. Nel luglio 2023 la firma del primo accordo attuativo che ha concretizzato i principi ispiratori del Protocollo, dando il via al primo progetto pilota. Torino. Formazione altamente innovativa per detenuti dimittendi askanews.it, 7 novembre 2023 Per la prima volta in Italia, il carcere diventa protagonista e destinatario di una formazione altamente innovativa e specializzata che verte sui temi della Robotica, dei sistemi di automazione e dei linguaggi di programmazione. Presso la Casa Circondariale ‘Lorusso e Cutugno’ di Torino, infatti, ha preso avvio un progetto finanziato dalla Città di Torino e rivolto a detenuti ‘dimittendi’, cioè con fine pena residuo non superiore ai 24 mesi, che vengono formati alle discipline S.T.E.M. (in particolare Matematica, Robotica e Programmazione), all’uso e alla programmazione di robot industriali, al coding e alla saldatura robotizzata. L’Assessore al Lavoro e ai Rapporti col Sistema Carcerario del Comune di Torino, Giovanna Pentenero, spiega: “In questi mesi di attività abbiamo cercato di considerare la permanenza in carcere secondo quel principio costituzionale per il quale la detenzione è una parentesi nel tempo della vita di un detenuto. Anche sotto il profilo della formazione, così come i servizi che intendiamo fornire come Città, l’obiettivo è quello di preparare alla vita ‘fuori’ per ridurre anche la percentuale di recidiva che è ancora troppo alta per i nostri detenuti e per le detenute. Far sì che il lavoro dentro consenta di far uscire le persone migliori rispetto a quando sono entrate è un traguardo che vogliamo e dobbiamo raggiungere con l’istruzione, la formazione professionale e umana più qualificata possibile e adeguata alla nostra contemporaneità”. Il progetto vede come capofila la Fondazione Casa di Carità Arti e Mestieri, che da cinquant’anni opera all’interno degli Istituti di pena offrendo alle persone detenute opportunità di formazione professionale, che consentano di costruire un bagaglio di competenze spendibili per il loro reinserimento lavorativo e sociale. Come spiega Martino Zucco Chinà, Direttore Formazione, “l’elemento sfidante di questo progetto è investire nell’acquisizione di competenze altamente specializzate attraverso cui favorire il reinserimento sociale dei detenuti anche quando il loro background formativo e lavorativo è caratterizzato da fattori di rischio di marginalità sociale. In tal modo il tempo della pena diventa realmente occasione e opportunità di un futuro dignitoso da cittadino libero.” Il progetto sperimentale ha preso avvio nel luglio scorso e si concluderà a dicembre. I partecipanti vengono accompagnati in un percorso di attivazione delle “competenze di cittadinanza” e delle soft skills necessarie per il reinserimento sociale e lavorativo. Inoltre le persone coinvolte, che si accingono a rientrare a pieno titolo tra la popolazione attiva, hanno l’opportunità di sviluppare solide basi nel mondo della Robotica e Automazione, acquisendo un profilo di occupabilità adeguato ai cambiamenti tecnologici in atto. Un’iniziativa importante per favore i processi di inclusione e di contrasto alla povertà e alla marginalità sociale, come sottolinea la Direttrice del “Lorusso e Cutugno”, Elena Lombardi Vallauri: “Percorsi formativi che consentano di trovare un posto di lavoro sono una delle risposte più necessarie ai bisogni delle persone detenute. L’uscita dal carcere, dopo il periodo di esecuzione della pena, deve essere un momento di riscatto e non un momento di nuova difficoltà. Il corso, che sta procedendo con ottimi risultati sia di apprendimento che di interesse e di collaborazione tra gli studenti, si conferma quindi un’ottima offerta che sarà valorizzata con i previsti inserimenti lavorativi”. Vigevano (Pv). Morta mentre era ammanettata: due agenti di polizia locale indagati per omicidio di Adriano Agatti La Stampa, 7 novembre 2023 La donna, 39 anni, è stata fermata dopo aver dato in escandescenze in chiesa prima di un funerale: voleva baciare la statua della Madonna. Indagati i due agenti della polizia locale che venerdì mattina hanno bloccato una donna che dava in escandescenze all’interno della chiesa della Madonna Pellegrina di via Monti. Marinela Murati, 39 anni di origine albanese, domiciliata nelle case Aler di via Alfieri, è morta all’arrivo in pronto soccorso. I due agenti ora sono indagati con l’accusa di omicidio colposo. Si tratta di un atto dovuto da parte della procura per poter proseguire l’inchiesta. Saranno gli accertamenti medico-legali e i filmati che dovranno stabilire se i due abbiano usato violenza eccessiva nel bloccare la donna che, poco prima dell’inizio di un funerale, stava cercando di far cadere la statua della Madonna, oppure se la morte della donna abbia avuto una causa del tutto indipendente. L’autopsia - L’autopsia è in programma mercoledì mattina all’Istituto di Medicina legale dell’Università di Pavia. L’esito dell’esame stabilirà la cause del decesso. Sono anche previsti esami tossicologici per chiarire se Marinela Murati quella mattina abbia assunto sostanze stupefacenti oppure dosi eccessive di farmaci. In pratica il magistrato vuole chiarire le cause di un simile comportamento all’interno di una chiesa piena di persone che stavano aspettando il feretro e l’inizio del funerale. I parenti - Intanto sono stati anche rintracciati i parenti stretti della vittima. Si tratta del padre e della madre, dell’ex marito e anche di una figlia. La donna, dopo la fine del matrimonio, era arrivata a Vigevano, dove stava aspettando di entrare in una comunità. L’inchiesta - In attesa dei filmati, alcune testimonianze hanno permesso di stabilire in che modo la donna è stata bloccata dagli agenti della polizia locale. Marinela Murati era entrata in chiesa e si era inginocchiata sul tappetino sul quale doveva essere sistemato il feretro, proprio davanti all’altare. E si era messa a pregare e a urlare frasi sconnesse. Aveva anche pronunciato più volte il nome di Allah. Il sacerdote era stato costretto a chiedere l’intervento delle forze dell’ordine. Gli agenti della polizia locale erano riusciti a convincerla ad avvicinarsi all’uscita della chiesa ma, a questo punto, la 39enne aveva cercato di far cadere la statua della Madonna. E così i due uomini del comando di via San Giacomo l’avevano ammanettata. La donna era a pancia in giù: uno le teneva la testa bloccata per impedirle di picchiarla contro il pavimento mentre il colleghi le aveva bloccato le gambe. La donna aveva perso conoscenza ed era morta pochi minuti dopo. Reggio Emilia. Convegno regionale sul tema carcere e lavoro assemblea.emr.it, 7 novembre 2023 Si realizzerà a Reggio Emilia il prossimo 1 dicembre 2023 un convegno regionale sul tema carcere e lavoro promosso dal Garante in collaborazione con il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria dell’Emilia-Romagna e Marche e la Commissione per le parità e i diritti delle persone dell’Assemblea legislativa della Regione Emilia-Romagna. Nel corso dell’intera giornata esperti di diversi settori, amministrazione penitenziaria, aziende e cooperative sociale analizzeranno lo stato dell’arte del lavoro in carcere e dei percorsi di inserimento lavorativo dei detenuti. Nel corso del convegno sarà presentato anche il Repertorio di immagini degli spazi trattamentali delle carceri dell’Emilia-Romagna, una raccolta di oltre 1.200 immagini riprese nei dieci istituti presenti in regione e che restituiscono una visione imparziale e completa di quanto esiste nelle carceri con la finalità di stimolare le proposte dei territori per la realizzazione di attività che possano rappresentare per i detenuti una occasione di crescita personale e acquisizione di competenze utili per il futuro rientro nella società libera. Il programma del convegno è disponibile a questo indirizzo web https://www.assemblea.emr.it/garante-detenuti/segnalazioni/1-dicembre-carcere-e-lavoro Cavallina, l’educazione contro tutti i pregiudizi di Chiara Bazzanella L’Arena di Verona, 7 novembre 2023 “Di sasso in sasso” l’ultimo libro del fondatore dei Pac, 12 anni in carcere e poi la vita spesa per il volontariato. Giustizia, perdono, nonviolenza, droga, carcere, volontariato. E infine educazione, il tassello più importante per favorire l’abbandono dei pregiudizi. Sono queste le soste previste nel percorso che si affronta scorrendo le pagine dell’ultimo libro di Arrigo Cavallina, “Di sasso in sasso”. Come in una camminata nell’amata montagna, l’ex brigatista veronese, convertitosi al cattolicesimo e al mondo del volontariato, porta il lettore a proseguire tra le parole, cercando appiglio tra un sasso e l’altro e soffermandosi, guardando attorno e in lontananza. Eversione e dissociazione - Arrigo Cavallina, classe 1945, è stato uno dei fondatori del gruppo eversivo Proletari Armati per il Comunismo. Ma è stato anche uno dei protagonisti della dissociazione politica dal terrorismo. Dopo i 12 anni trascorsi in carcere, si è dedicato ad attività sociali e di volontariato. La sua vita, descritta nel libro autobiografico “La piccola tenda d’azzurro”, torna a essere narrata all’inizio della nuova pubblicazione, ma solo attraverso interviste, articoli, lettere ai giornali, recensioni, porzioni di libri di cui è stato coautore. Raccogliere i sassi - “Ho pensato di tornare a raccogliere lungo i sassi quello che altrimenti andrebbe disperso o non sarebbe facile recuperare e tenere insieme”, scrive Cavallina nella presentazione del volume. “Non è stato facile ordinare i testi seguendo un filo principale, anche i sassi non sono allineati, si salta qua e là, ci si avventura in deviazioni; e ancora c’è l’esperienza che si sta vivendo e quella che si ricorda, come tornando indietro ma per rivederne ad oggi il senso”. Il lavoro di selezione è stato lungo, come pure la difficoltà nel trovare un editore, Echos, che abbracciasse l’idea di pubblicare un libro privo di un centro unificante, se non quello del rapporto con la giustizia e su come, recuperando termini educativi, si possa rivolgersi in modo nuovo e diverso alle conflittualità e alle ferite sociali. È il grande tema della giustizia riparativa, fatta di “gesti che portino al superamento dei rispettivi pregiudizi e alla convinta affermazione che l’offesa non doveva essere fatta”, come è scritto nella quarta di copertina di libro. La Fraternità - Da circa 25 anni Cavallina è volontario nell’associazione veronese La Fraternità dove, oltre al centro di ascolto e alla formazione, si occupa in particolar modo di organizzare, e spesso partecipare in prima persona, agli interventi nelle scuole. “La maggior parte dei giovani che incontriamo sono interessati e coinvolti. Quello che conta è la qualità dell’insegnante che ci chiama e li prepara per ragionare sul rispetto degli altri, su come evitare di aderire alla vendetta, astenendosi anche dai pregiudizi. Spesso ci sentiamo chiedere come mai i ragazzi di oggi abbiano così poche curiosità rispetto a quelli di una volta per le vicende politiche o sociali, per le povertà che hanno attorno. Ci fa sorridere che chiedano a noi quello che vorremmo sapere da loro”. Cavallina invita a non schierarsi, a riconoscere sempre ragioni e torti delle parti in conflitto. Oggi più che mai guardando alla guerra in Medio Oriente. “Ci sono torti colossali e ragioni per protestare da entrambe le parti”, dice. “La ragione di uccidere i civili, però, non ce l’ha nessuno”. Il libro si trova nella libreria Libre in via Interrato dell’Acqua Morta, oppure può essere ordinato in altre librerie e online. Migranti. Intesa per due Centri in Albania. L’opposizione: “No alla Guantánamo italiana” di Marco Cremonesi Corriere della Sera, 7 novembre 2023 La premier Meloni e il collega albanese Rama firmano un’intesa per la gestione degli arrivi: le strutture saranno sotto l’autorità italiana. Le proteste dem: Meloni rinuncia a modificare Dublino. “Non penso che saremo in grado di pagare il debito verso l’Italia e il popolo italiano per quello che hanno fatto per noi dal primo giorno in cui siamo arrivati su queste coste. Quel debito non si ripaga. Ma se l’Italia chiama, l’Albania c’è”. Il premier albanese Edi Rama fa un grande discorso, in ottimo italiano, che sarà suonato come musica alle orecchie di Giorgia Meloni. Per annunciare, ad assoluta sorpresa, l’accordo “storico e innovativo” per la realizzazione in Albania di due centri per la gestione dei migranti, solo quelli soccorsi in mare. Esclusi “i minori - ha detto la premier -, le donne in gravidanza e i vulnerabili”. Una volta intercettati, i migranti saranno portati nel porto di Shëngjin, a due passi dal Montenegro, dove verranno sbarcati, identificati e sottoposti a screening. Da qui, saranno spostati in una sorta di cpr nella vicina Gjadër. “L’Albania - si legge in una nota - collaborerà per la sicurezza e la sorveglianza”. Ma le due strutture saranno sotto giurisdizione italiana. Dovrebbero complessivamente ospitare 3.000 persone e secondo la premier “grazie alle procedure accelerate volute da questo governo, che consentono di processare le richieste di accoglienza entro 28 giorni, il flusso sarà di circa 36 mila persone all’anno”. Il protocollo “disegna la cornice politica e giuridica della collaborazione” a cui seguiranno i provvedimenti tecnici, incluse le coperture finanziarie. I centri dovranno “essere operativi entro la primavera 2024”. All’intesa ha dato un importante contributo l’ambasciatore italiano a Tirana, Fabrizio Bucci, che in molti vedono come possibile successore di Francesco Talò, ormai ex consigliere diplomatico della premier. Un portavoce della Commissione sentito da La Presse si dice “a conoscenza dell’accordo”, sia pure senza “aver ancora ricevuto informazioni dettagliate”. Consapevoli che il patto “dovrà essere tradotto in legge e ulteriormente implementato. È importante che qualsiasi accordo rispetti pienamente il diritto comunitario e internazionale”. L’intesa è nata nell’ormai famosa visita lampo di Giorgia Meloni in Albania nei giorni in cui era in vacanza in Puglia. Che aveva dato il via ad alcune polemiche sull’italianità delle vacanze e sul conto pagato a un ristorante per alcuni nostri connazionali scappati dopo aver mangiato. “Altro che aperitivi...” si commenta a Palazzo Chigi. Per la premier “l’immigrazione di massa è cosa che gli Stati non possono affrontare da soli”. E dunque, ecco la cooperazione “con gli Stati che solo per ora sono extra Ue”, fiera “che l’Italia sia da sempre uno dei grandi sostenitori dell’Albania nell’Ue”. Il discorso del premier Edi Rama, socialista, in alcuni passaggi è toccante: “L’Albania non è uno stato Ue, ma questo non ci impedisce di vedere il mondo come europei”. Ma “noi non avremmo fatto questo accordo con nessun altro. Per la natura storica e culturale ma anche emozionale” del rapporto con l’Italia. L’intesa serve a dare “respiro in una situazione difficile”. Dal Pd, commenta Peppe Provenzano: “Nel migliore dei casi un pasticcio, nel peggiore una violazione di diritti. Ma la “dottrina” Meloni è chiara: rinuncia in Ue a cambiare Dublino (per non turbare gli amici nazionalisti) e accordi indegni che nemmeno funzionano (Tunisia)”. Per Angelo Bonelli (Verdi) è “una vera deportazione”, per Riccardo Magi (+Europa) “una Guantánamo italiana”. Masera: “La detenzione dei migranti in Albania è incompatibile con la nostra Costituzione” di Liana Milella La Repubblica, 7 novembre 2023 Intervista al docente di diritto penale: “Negato il diritto alla difesa, si crea un ginepraio che sarei in difficoltà a spiegare ai miei studenti”. “Le garanzie scritte nella Costituzione, che ovviamente valgono anche per i migranti detenuti in Albania, non potranno essere effettivamente rispettate”. Questo, a proposito dell’accordo tra Italia e Albania sui migranti, dice Luca Masera, ordinario di diritto penale a Brescia, ma anche componente dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione. Davanti alla Corte dei diritti umani di Strasburgo, la Cedu, è stato l’avvocato di tre cittadini tunisini nel primo ricorso che si è chiuso con la condanna dell’Italia per i trattamenti inumani subiti nel centro di Lampedusa. Meloni e i suoi ministri considerano l’accordo una notizia entusiasmante, Tajani dice che così l’Italia sarà più forte in Europa. “Più che di una reale novità parlerei dell’ennesimo tentativo di cercare delle scorciatoie rispetto alla vera soluzione dei problemi. Il modello che si vuole adottare sembra ricalcare quello già tentato in Gran Bretagna con la deportazione dei richiedenti asilo in Ruanda. Cioè una forma estrema di allontanamento fisico dei possibili richiedenti asilo dal territorio dello Stato. E proprio quell’esperienza non è confortante, né di buon auspicio per il governo italiano, perché nonostante il progetto risalga a diversi mesi addietro nessuno straniero è stato sinora trasferito laggiù, in quanto sia la Cedu che la Corte suprema britannica hanno definito questa procedura incompatibile con il diritto d’asilo”. Il ministro Fitto addirittura considera quello appena fatto in Italia un “accordo storico”, importantissimo e innovativo nella gestione dei flussi... “Bisogna riconoscere che la proposta è nuova, perché non era mai stato ipotizzato di trasferire fuori dall’Italia i richiedenti asilo. Parlo proprio di un diritto d’asilo violato in quanto non si può sapere subito, al momento del salvataggio in mare, se il soggetto chiederà o meno la protezione. Quindi siamo di fronte a un respingimento vero e proprio in contrasto con l’articolo 3 della Cedu - il divieto di tortura e di trattamenti disumani e degradanti - e della norma che vieta i respingimenti collettivi. Per me quella di Meloni è solo una pessima novità”. Invece, proprio per tutti i meloniani, questo sarebbe un sistema per controllare i confini dell’Europa bloccando i trafficanti... “INon si può parlare affatto di una misura risolutiva considerata l’entità dei numeri. Quest’anno sono già arrivate in Italia più di centomila persone. Anche se il progetto si realizzasse, comunque riguarderebbe un numero nettamente inferiore a quello degli arrivi. Ma c’è di peggio, perché questo sistema ignora del tutto la tutela dei diritti fondamentali degli stranieri, considerando che nell’ipotesi ventilata già si parla di luoghi di detenzione. E proprio la detenzione di tutti, italiani o stranieri, è tutelata dall’articolo 13 della nostra Carta che prevede l’intervento di un giudice entro 48 ore dall’inizio della privazione della libertà. Tutto questo è compatibile con una detenzione in Albania? A me pare decisamente del tutto impossibile”. Il governo parla di centri italiani sotto il controllo di personale italiano. È realistico? “Concretamente non mi sembra possibile. Mi spiego con un esempio. Un soggetto salvato in mare e portato in Albania decide di chiedere la protezione internazionale. Da quello che leggo lo farà di fronte a un’autorità italiana. La nostra procedura prevede che la domanda sia vagliata da una commissione che ascolta in presenza il richiedente e dalla sua viva voce apprende la sua storia. Se la commissione rigetta la domanda il richiedente, con un avvocato, può fare ricorso. Tutto questo come può avvenire in un centro in Albania? In concreto, il richiedente asilo non potrà esercitare il suo diritto di difesa garantito dalla Costituzione se il suo avvocato si trova a centinaia di chilometri di distanza”. Anche lei vede, come fa l’opposizione, una deportazione in atto che viola il diritto nazionale e internazionale? “Sicuramente è una pratica lesiva dei diritti fondamentali. Deportazione in senso stretto significa un trasferimento forzato fuori dal territorio dello Stato, quello che voleva fare il governo britannico. Il progetto italiano non arriva fin qui perché parla di portare in Albania soggetti soccorsi in acque internazionali, quindi non ancora entrati in Italia, anche se secondo il diritto internazionale una nave che batta bandiera italiana si considera territorio italiano. Ma si tratta comunque di una forma di deportazione, perché allontana queste persone dal luogo dove volevano arrivare per veder tutelati i propri diritti”. Riccardo Magi di +Europa già vede una Guantanamo italiana, senza nessuna possibilità di controllo sullo stato di detenzione di queste persone nei centri... “È un parallelo che condivido, almeno per quanto riguarda l’illegalità della detenzione e l’impossibilità di controlli giudiziari effettivi, mi auguro non quanto ai trattamenti riservati ai detenuti, non voglio neanche pensare a condizioni detentive che somiglino all’inferno dei centri di detenzione libici”. È accettabile distinguere il destino tra chi viene salvato in mare e chi invece approda sulle coste italiane? “Si crea effettivamente una disparità del tutto irragionevole. Questi campi di detenzione - perché di detenzione si tratta - come potranno essere controllati dai giudici italiani? Si pensa a una task force che lavorerà in Albania esercitando la nostra giurisdizione in un territorio straniero? E se un migrante si allontana dal centro cosa succede? Per lui varrà la giustizia albanese o quella italiana? Insomma, siamo di fronte a un ginepraio giuridico che io sarei in difficoltà a spiegare ai miei studenti”. I minori non andranno in Albania. Si rischia pure una divisione delle famiglie? “Pure questo non è ancora chiaro. Il progetto parla di minori, donne e di oggetti vulnerabili. Una cernita che verrà fatta sulle navi dopo il salvataggio? In molti casi l’età del minore non è facile da accertare subito e quindi è all’orizzonte il serio rischio di famiglie divise”. In una parola lei vede in questo accordo un’evidente violazione della nostra Carta costituzionale? “Penso proprio di sì. Per questo è importante che l’accordo Italia-Albania, se dovesse avere sviluppi, non rimanga solo a livello di un’intesa tra governi. Se - com’è evidente - incide sui diritti fondamentali è indispensabile, come avviene per i trattati internazionali, che venga discusso e approvato dal Parlamento”. Maurizio Veglio (Asgi): “L’accordo con l’Albania è una nuova umiliazione del diritto di asilo” di Giansandro Merli Il Manifesto, 7 novembre 2023 L’avvocato commenta l’intesa annunciata ieri da Giorgia Meloni con l’omologo di Tirana Edi Rama. Il governo italiano vuole aprire due centri per migranti, uno di identificazione e uno di trattenimento, al di là dell’Adriatico. “Immaginare sia possibile trattenere i richiedenti in un contesto giuridicamente complicato come una enclave extraterritoriale è solo una speculazione propagandistica”, afferma Maurizio Veglio. L’avvocato, che fa parte dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), è uno specialista in materia di protezione internazionale. L’accordo con l’Albania inaugura una nuova fase delle politiche migratorie italiane? Se alle parole corrisponderanno i fatti si tratterà di un nuovo capitolo dell’umiliazione del diritto d’asilo. Si passa dalla finzione alla materialità del non ingresso. Il vero scopo è una versione carceraria del diritto d’asilo. A livello tecnico-giuridico il problema è capire come si può garantire in un territorio che non rientra nella giurisdizione dell’Italia l’applicazione della sua legge. Secondo il governo in quei centri varrà la giurisdizione italiana... Affermazione azzardata. La possibilità di prevedere un’applicazione extraterritoriale è complessa e interesserà gli specialisti per molto tempo. I precedenti sono pessimi: l’accordo tra Australia e Papua Nuova Guinea, che ha “affittato” alcune isole per far costruire strutture di trattenimento, e quello Uk-Ruanda sospeso dalla Corte d’appello britannica. Questi esempi mostrano la peggiore ripartizione possibile di oneri tra un paese servente e uno dominante. Tornando all’accordo tra Meloni e Rama, è tutto da verificare cosa debba fare l’autorità albanese per garantire che un territorio di sua giurisdizione sia espropriato e soggetto a norme italiane e Ue nei cui confronti l’Albania non ha alcun vincolo. L’accordo Uk-Ruanda è stato bloccato perché quest’ultimo paese non era considerato sicuro. L’Albania è ritenuta tale... La qualifica di paese sicuro è prevista dalla direttiva Ue ma anche soggetta alla periodica revisione. Non devono solo mancare rischi di persecuzioni o maltrattamenti, ma va anche garantito l’accesso a un sistema di rimedi effettivi, cioè allo Stato di diritto. Su questo fa scuola il caso tunisino. Qualora si dovesse indagare sull’effettivo grado di adesione dell’Albania a criteri che non riguardano solo l’assenza di guerra o persecuzioni, ma anche la possibilità di accedere alla giustizia e l’esclusione di violazioni sistemiche di diritti e garanzie fondamentali, non è scontato che i giudici confermino la valutazione di sicurezza del paese. Servirà una “Commissione territoriale per l’asilo” di competenza extraterritoriale? È un’ipotesi che fatico a immaginare. Le domande vanno processate dai funzionari amministrativi delle commissioni, ma le loro decisioni devono essere soggette alla giurisdizione italiana. Modalità e termini di impugnazione sono concreti e pratici. Anche chi dovesse fare domanda di protezione in una dimensione extraterritoriale avrebbe comunque diritto a informazione, contraddittorio, ricorso. Queste garanzie fondamentali, che innervano struttura e natura del diritto di asilo, sarebbero puramente astratte in una dimensione extraterritoriale. Il diritto di difesa potrebbe essere tutelato? La difesa a distanza sarebbe un simulacro. La delicatezza della materia richiede il contatto diretto con le persone. Non vedo come la giurisdizione possa accettare una simile decisione. Dobbiamo puntare sulla sua capacità di attivare gli anticorpi che possano fermare un tentativo così maldestro, clamoroso e sfacciato di annientamento del diritto d’asilo. Il governo vuole mandare in Albania i migranti dei “paesi sicuri”? I numeri che ha dato - 3mila persone al mese e 36/39mila l’anno - alludono a permanenze brevi... È verosimile che i primi candidati siano loro, ma dalle prime dichiarazioni il meccanismo sembra riguardare le persone soccorse in mare a prescindere da nazionalità e status di richiedente asilo. Fanno eccezione solo i vulnerabili. Quei numeri, comunque, sono frutto di un’operazione meramente matematica in una materia che di matematico non ha nulla, cioè l’applicazione delle procedure accelerate di frontiera. Per questo iter l’Italia non può legittimamente trattenere i richiedenti neanche sul suo territorio. Immaginare possa farlo in un contesto giuridicamente complicato come un’enclave extraterritoriale è una speculazione propagandistica. Frammenti di un mondo senza dialogo di Lucrezia Reichlin Corriere della Sera, 7 novembre 2023 Proprio oggi, mentre è evidente che i problemi più gravi che dobbiamo affrontare richiedono cooperazione internazionale, il mondo si frammenta in blocchi. Apparentemente scatenate da ragioni diverse, le due orribili guerre - Ucraina e Palestina - sono figlie della crisi dell’ordine internazionale emerso dopo la Seconda guerra mondiale. Una crisi che ha preso forme diverse nel corso degli ultimi ottanta anni e oggi fa riemergere conflitti regionali mai risolti. Per questo, se ci si domanda quale siano le conseguenze economiche delle due guerre, bisogna anche rispondere alla domanda madre su quale sia il futuro di quell’ordine che oggi non regge più. Nel 1944, a Bretton Woods, le potenze vincitrici del conflitto mondiale si accordarono su un sistema che doveva garantire stabilità ad un mondo devastato dalla guerra. Questo sistema era basato su cambi fissi, cioè parità delle valute con il dollaro che a sua volta era convertibile con l’oro, istituzioni come il Fondo Monetario Internazionale (Fmi) e la Banca Mondiale (allora chiamata Banca internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo) che dovevano vegliare sulla stabilità finanziaria e la ricostruzione economica e limiti ai movimenti dei capitali per permettere ai Paesi una flessibilità nelle politiche economiche domestiche. Questo era un sistema multilaterale basato sulla forza militare e economica degli Usa e la centralità del dollaro, la nuova moneta globale. Con la guerra fredda l’Unione Sovietica ne restava fuori e altre parti del mondo, inclusa l’Asia, ai margini. Fu definito multilateralismo a bassa profondità: sí multilaterale ma costruito intorno agli interessi economici degli Stati Uniti. Il sistema ci mise circa quindici anni a stabilizzarsi (la convertibilità con il dollaro, per esempio, arrivò solo nel 1958) e già dagli anni 60 cominciò a dare segni di una crisi di legittimità in parte causata da Europa e Giappone divenuti più forti grazie alla crescita del dopoguerra, in parte da una maggiore assertività di quello che allora si chiamava Terzo Mondo. Tra il 1970 e il 1971 il sistema di Bretton Woods entrò in crisi e gli Stati Uniti furono costretti ad abbandonare la convertibilità tra dollaro e oro. Si entrò in un sistema di cambi flessibili che allentò l’ancora esterna delle politiche nazionali. Gli anni Settanta, tra shock petroliferi, causati dall’entrata in gioco dei Paesi produttori e conflitti distributivi nei Paesi sviluppati, furono un interim e forse una occasione perduta per ripensare all’ordine internazionale. All’instabilità non si rispose con la riforma delle istituzioni internazionali ma con un nuovo credo, il liberismo di Thatcher e di Reagan. Cominciò un ventennio di liberalizzazioni. Si domò l’inflazione, ma al prezzo di una compressione della parte salariale sulla torta del reddito e di una finanziarizzazione dell’economia che la rese più vulnerabile. La liberalizzazione del commercio internazionale favorì la crescita di alcuni Paesi emergenti, in particolare Cina e India, ma la liberalizzazione dei capitali e la deregolamentazione del sistema finanziario portò ad una enorme crescita dei flussi di capitale rispetto al Pil mondiale, rafforzò il ruolo del dollaro e la centralità del mercato finanziario Usa. Negli Stati Uniti e nel Regno Unito, poi, il credito facile si sostituì alle politiche di welfare creando nuove fragilità. In questo contesto si disintegra il blocco sovietico e mentre si canta la vittoria del capitalismo liberale, la Cina va per conto suo e realizza un miracolo economico mai visto prima nella storia del mondo. C’è chi vince e chi perde in questa fase. A vincere sono le classi medie dei Paesi emergenti e i ricchi dei Paesi maturi, ma anche chi vive in grande povertà nei Paesi a reddito più basso. A perdere sono le classi medie delle economie avanzate. Una grande redistribuzione tra Paesi e all’interno dei Paesi che mina la stabilità geopolitica, politica e sociale. E su questa fragilità di fondo, arriva la crisi del 2007-08 che delegittima questo sistema, ne rivela le debolezze e pone nuove questioni. Questioni a cui non viene data risposta. Se è vero che la stabilità finanziaria viene restaurata grazie all’azione delle banche centrali, i costi e gli effetti distributivi sono enormi: si spendono soldi pubblici per salvare le banche, ma si impone un’austerità di bilancio a spese dei ceti più deboli. La conseguenza è una crisi politica delle democrazie occidentali soprattutto nel Paese che ne è al centro, gli Stati Uniti. Nuovi rischi, negati per decenni, diventano evidenti: l’insostenibilità del riscaldamento climatico, il disequilibrio sociale, la distruzione della natura e le conseguenze economiche che questo ha per noi, Paesi più ricchi, ma soprattutto per l’insostenibilità che crea nelle aree del mondo più esposte che sono anche le più povere e che a sua volta genera conflitti locali e flussi migratori inarrestabili. Tutto ciò richiederebbe risposte comuni perché il mondo ormai è connesso in modo profondo ma il sistema multilaterale “a bassa profondità” non è adatto a fornirle. A differenza di ottanta anni fa non si tratta di assistere alcuni Paesi in crisi, ma di gestire le connessioni tra Paesi in modo da rendere il sistema nel suo insieme più robusto e non c’è più una sola potenza egemone ma una nuova multipolarità che vede protagonisti Paesi con differenti sistemi politici e economici. Quel sistema disegnato negli anni Quaranta e poi evoluto nel modo che ho descritto è ormai percepito come illegittimo da una larga parte del mondo e inefficace anche da chi si riconosce nei valori democratici e liberali dei Paesi che ne costituiscono l’asse portante. Nel 2020 arriva il Covid. La risposta dimostra che il mondo, così diviso per interessi e convinzioni, può ancora essere capace di trovare risposte comuni come ha dimostrato la corsa ai vaccini, per esempio, ma mostra anche che la dipendenza tra Paesi ha un costo e i limiti del sistema nella capacità di affrontare le fragilità di certe regioni e settori della società. La povertà mondiale, in diminuzione per decenni, ricomincia a crescere, i Paesi emergenti rallentano, nell’Occidente crescono pressioni per la deglobalizzazione. L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia e l’attacco di Hamas si inseriscono in questa situazione di debolezza del sistema esistente e nella sua crisi di legittimità, che incitano protagonisti in differenti parti del mondo a riaprire dossier mai risolti. Sì, guerre regionali, ma soprattutto il sintomo di un mondo che è diventato fondamentalmente instabile e quindi pericoloso. Il costo umano di questi conflitti è immenso ma come valutarne il costo economico? L’effetto immediato è sul prezzo dell’energia e dei beni alimentari anche se per ora i movimenti sono stati modesti e l’effetto dipenderà dal grado di estensione del conflitto. Ma il vero rischio non è questo, lo sono piuttosto le conseguenze globali di una crisi geopolitica endemica, che blocca ogni possibilità di cooperare per affrontare i problemi che hanno soluzione solo se si coopera e che sono connessi tra loro. Penso al clima, le migrazioni, la povertà, l’intelligenza artificiale. È un paradosso che proprio oggi, quando è evidente che i problemi più gravi che dobbiamo affrontare richiedono cooperazione internazionale, il mondo si frammenta in blocchi non dialoganti. Una grande riforma delle istituzioni internazionali è oggi irrealistica e comunque prematura. Le Nazioni Unite sono paralizzate e Fmi e Banca Mondiale percepite come di parte anche per la loro governance sbilanciata. Accettare il nuovo multipolarismo e schemi di cooperazione flessibili, anche tra Paesi con sistemi politici ed economici diversi su temi mirati è quindi forse l’unica via possibile da percorrere per evitare che i conflitti si estendano e che il mondo si avvii ad una catastrofe economica ed ecologica. Povertà sommersa di Enzo Pranzini Il Manifesto, 7 novembre 2023 Crisi climatica. Piogge estreme e mareggiate eccezionali colpiscono più chi ha di meno. Piani di difesa, evacuazione e mitigazione restano roba da Paesi ricchi. Una nuova frontiera delle disuguaglianze. Non parliamo di quella che sfugge ai censimenti o alle inchieste e neppure di quella che si annida negli scantinati e sotto i ponti delle megalopoli, ma della povertà che viene sommersa dall’acqua durante gli uragani e le mareggiate. Due studi pubblicati recentemente su Science consentono di avere un quadro di quanto le popolazioni più povere siano colpite da eventi alluvionali per piogge estreme e mareggiate eccezionali. Circa 1,8 miliardi di persone vivono in aree dove è elevato il rischio di inondazione e di questi nove su dieci hanno un reddito inferiore a cinque dollari e mezzo al giorno. Vivono in paesi poveri o aree depresse di paesi in via di sviluppo. Qui non ci sono opere che possano attenuare gli effetti degli eventi estremi: canali, argini e barriere, come il Mose di Venezia. La povertà non consente di mitigare gli impatti. L’Europa settentrionale, dalla Scozia alla Svezia, è stata colpita nei giorni passati dalla tempesta Babet, che ha causato alcuni morti e messo in ginocchio molte comunità. Ma cosa avrebbe provocato in paesi privi di difese e piani di evacuazione? I luoghi colpiti si risolleveranno presto, per interventi governativi o grazie alle assicurazioni subito sollecitate dal ministro dell’industria danese a risarcire rapidamente i danneggiati. Se visiteremo quei paesi la prossima estate, molto probabilmente non ci accorgeremo neppure dell’inferno che si è scatenato nei giorni passati. Nei paesi poveri un’alluvione può cancellare anche i piccoli sforzi fatti per passare dalla fame a un livello minimo di sussistenza; e ripartire, senza aiuti, è pressoché impossibile. Se volessimo valutare il danno economico potenziale di un tale evento nei vari paesi, vedremmo che è massimo nei paesi ricchi, dove vi sono insediamenti e strutture molto costose, mentre risulterebbe insignificante dove a finire sott’acqua sono baracche e strade sterrate. Ma gli adattamenti agli eventi estremi riducono il danno economico reale nei paesi ricchi, ma lo lasciano inalterato nel sud del modo. I 22mila km di argini fluviali e marini e le barriere mobili alla foce dei fiumi consentono a nove milioni di olandesi di vivere sotto al livello del mare. L’impatto degli eventi estremi è maggiore nei confronti delle popolazioni più povere, anche perché qui sono gli “ultimi” a essersi insediati in un territorio in cui le classi agiate avevano già scelto le posizioni più sicure. E per ultimi s’intende anche in ordine di tempo, dato che nei decenni passati l’occupazione delle aree inondabili è stata maggiore nei paesi a basso reddito che non in quelli più ricchi. Sono i poveri che dalle campagne si spostano nelle aree urbane che vanno a occupare terreni marginali, spesso sul bordo dei fiumi o lungo la costa, dove questa non è un attrattore turistico, per non parlare degli insediamenti su palafitte o piccole barche affiancate l’una all’altra, tipiche del sud-est asiatico che, con l’area sub-sahariana, è una di quelle in cui dalla povertà non si riesce a emergere, ma si viene sommersi. Nel nostro paese gli eventi meteorologici estremi (ora abbiamo Ciaran!) determinano alluvioni che, per intensità e tempi di recupero, ci pongono più vicino al Bangladesh che all’Olanda. Ma se confrontiamo il reddito pro capite calcolato del Fondo Monetario Internazionale per l’Italia (circa 100 dollari al giorno) con quello degli altri due paesi (5 il Bangladesh e 150 l’Olanda) ci rendiamo conto che la nostra posizione dovrebbe essere ben diversa. Ovviamente vi sono differenze geografiche che rendono complessi questi confronti, ma l’Olanda è il paese in cui il danno economico potenziale delle alluvioni è il più elevato al mondo per l’elevata infrastrutturazione e per il fatto che buona parte della sua superficie è posta sotto al livello del mare. Ma secoli di cura del territorio, con anche la realizzazione di opere idrauliche innovative, hanno consentito di ridurre in modo drastico il rischio di una sua sommersione, se non in aree in cui questa è programmata per salvare i centri urbani. In Italia, l’urbanizzazione selvaggia, nelle aree golenali e nelle parti più basse delle pianure alluvionali, ha esposto la popolazione, e non certo quella più ricca, a un rischio che le variazioni climatiche rendono sempre più elevato. L’idea di rendere obbligatoria l’assicurazione per i danni da eventi estremi, cosa forse possibile dove non vi sono sacche di povertà, metterebbe ancora più in difficoltà i meno abbienti, dimenticando che buona parte delle colpe di questa situazione è da attribuirsi a chi ha governato, o non-governato, il territorio. Non basta il passaggio dalla sanità pubblica a quella privata, si arriverà a che la difesa del suolo, o gli effetti della non difesa, saranno a carico dei singoli cittadini. Ma così lo Stato a che serve? Israele-Hamas, un mese di guerra: l’Occidente chiuso in se stesso non vuole vedere l’orrore di Domenico Quirico La Stampa, 7 novembre 2023 Ci vantiamo di stare nel giusto, ma non facciamo nulla per dimostrarlo sperando che quello in Medio Oriente resti un “rassicurante” conflitto locale. Sfogliare un mese di guerra, senza convinzione, con il cuore pesante: come accade di fare una cosa aspra messa in conto ma che si vorrebbe rinviare e soprattutto non prolungare nel tempo. Già. Cosa c’è più lungo del tempo in guerra? Un mese da quel sette ottobre alla frontiera di Gaza è fatto di ore, pensieri, parole, dolori segreti e palesi, impennate e scoramenti. A rifletterci bene c’era in quei tragici giorni una occasione per tutto. Non per la pace. Sono questi trenta giorni di guerra i momenti in cui qualcosa si scompone e non ha apparente ragion d’essere. Eppure quante guerre sono in corso nel mondo? Dicono, a contarle, decine forse cento, a iniziar da quella: sì l’Ucraina, che pensavano di potere chiamare la guerra con la G maiuscola. Sgrani un mese di immagini dei deserti di Palestina dove il cielo si dilata in biancori lattiginosi così spenti e svenati da sembrare che vi alitino le roche bestemmie delle artiglierie e dei razzi che sibilano, la polvere dei palazzi che si sbriciolano in buche che paiono fatte ad arte per ospitare tombe. E senti una sorta di trasalimento continuo, una insofferenza a uno stato di cose e un disagio che solleva apprensioni palpabili. Anche se non vedi, senti. Per Gaza immaginare una parola come “la fine” ha una tale immensità, di fronte al furore di ogni nuovo giorno, che sembra osatissima. Faccio un tentativo, scelgo di negare il consueto modo di rievocare gli anniversari, lo svuoto dentro. Ovvero non mi accingo a mettere in fila e descrivere gli avvenimenti di questi giorni: l’incursione di Hamas dentro quelli che un tempo erano confini inviolabili dell’invincibile Israele, il massacro della giovane folla del “rave”, il pogrom nei kibbutz di confine, tangibile rimembranza di ciò che fu il sogno iniziale di Israele, idealista e comunitario in cui, forse, c’era posto anche per convivere con i palestinesi. E poi i bombardamenti minuziosi e spietati, l’operazione di terra, la guerra che plasma gli uomini, combattenti e vittime. I fatti, in ogni caso, sono sempre lì. Aspettano. Dicono e ridicono, sovrabbondano con la loro tessitura di strazi. Ci inchiodano a una omissione che ci riguarda: da questa parte del mondo, guardando al Vicino Oriente e a questa mischia infinita, ci siamo isteriliti in un gioco di perenni attese, di viltà consapevoli, di mormorii di corridoio. Altro che raddrizzare con la nostra Giustizia il legno storto dell’umanità. Siamo dei santi senza aureola, degli ideologi senza idee, degli indecisi, dei risoluti ma al momento sbagliato. Siamo arrivati, con Israele e i palestinesi, tardi a tutti gli appuntamenti o abbiamo fatto finta di essercene dimenticati. Abbiamo blaterato sempre che siamo i giusti ma non abbiamo fatto nulla per provarlo veramente. Ora ci rallegriamo, dopo un mese, degli egoistici e assai ipocriti sforzi americani per evitare che il conflitto “si allarghi”, tutta vernice sotto cui ruggisce la vecchia tiritera degli “interessi”. Noi speriamo che resti una rassicurante guerra “locale”, quelle che una tollerante rassegnazione rende sopportabili. Con i caschi blu arabi a far da pacieri! Arruolati nelle genti che smentiscono i loro accomodanti despoti e vogliono la scomparsa di Israele, come hanno dimostrato le piazze di questi giorni, da Amman a Tunisi. La aggiungeremo, la guerra del 2023, a quelle del secolo scorso, e alla infinita lista di attentati e di rappresaglie, solo un po’ più grande. Ma l’importante è che ne siamo lontani e possiamo permetterci, ancora una volta, di non capire la dignità della morte, il senso misterioso del dolore, quel cupo nodo di simboli e di significati che in modo lugubre e grandioso si accompagna sempre alla guerra. Provo dunque a coniugare i verbi solo al futuro, a immaginare cosa può succedere domani e oltre, poiché tutti parlano di una guerra lunga, perfino quelli che agiscono in uno stato d’animo da repulisti, da facciamola finita. Il progredire della guerra o il suo ristagnare un tempo si misurava in chilometri, le avanzate e le ritirate, legate al mobilissimo e sempre insanguinato “fronte”. Questa operazione di Tzahal nella striscia di Gaza è scandita invece dall’aggiornamento di una unità di misura misteriosa, sfuggente. Ogni mattina Israele aggiorna il numero degli “obiettivi di Hamas” eliminati. Cosa significhi è incerto: i singoli militanti della organizzazione jihadista uccisi o neutralizzati? O anche qualcosa di inanimato, un bunker, un centro comando, un deposito di armi, un tunnel, uno dei razzi mobili che ancora provano a desolare anche le città di Israele? All’ultimo aggiornamento erano arrivati, i bersagli colpiti, a oltre quindicimila, e ogni notte se ne aggiungono, via via che l’avanzata metodica e lenta verso Gaza progredisce. Ogni tanto da quel cupo anonimato, “eliminati!”, in cui è impossibile inoltrarsi da speleologo, salta fuori un nome, il capo della sicurezza di Hamas, il comandante delle brigate di assalto del sabato di sangue, perfino un improbabile “capo della aviazione” e un “ammiraglio” terrorista... Mi chiedo quale è il numero finale di eliminazioni, vere o presunte, che consentirà a Israele di proclamare la vendetta come compiuta e la vittoria, ovvero la eliminazione di Hamas ? Mi suggeriscono che il punto finale sarà la cifra di trentamila ovvero quanti erano secondo le stime le possibili reclute che componevano “l’esercito” di Gaza il sette di ottobre. Forse è così. Forse Israele si illude. Bisognerebbe che i perseguitati diventino savi. Altri numeri incombono come macigni, ben più papabili e definiti. Un solo ostaggio, una soldatessa, è stato liberato nell’operazione. Novemila invece sono le vittime dei bombardamenti israeliani che non credo rientrino tra gli obbiettivi di Hamas eliminati. Non alimentano solo furori contro Israele, metton dubbi e veleni nell’alchimia difficile di ciò che lo Stato ebraico pensa di sé, della propria condizione umana e del proprio destino di popolo. Ci vogliono dopo un mese di guerra, subito! Visi nuovi e cieli nuovi, spade di giustizia e Muri, ma di vetro. Ci vuole che si sappia cosa è il dolore e lo spirito di buoni profeti. Da Gaza al Libano, 36 i reporter uccisi. Con tanti familiari di Linda Ginestra Giuffrida Il Manifesto, 7 novembre 2023 Domenica quattro membri della famiglia del giornalista Samir Ayub, corrispondente dal Libano per Russia TV, sono stati uccisi da un raid israeliano nei pressi di Aynata, nel distretto di Bent Jbeil, nel Libano meridionale. Inizialmente la protezione civile libanese aveva dichiarato morto anche lui, successivamente è stata smentita la sua morte ma accertata quella delle sue tre figlie di 9, 10 e 14 anni e di sua madre. La moglie del giornalista è rimasta gravemente ferita. Secondo il comitato per la protezione dei giornalisti sono almeno 36 i giornalisti e gli operatori uccisi a Gaza dall’inizio del conflitto ad ora. A loro si aggiunge il corrispondente della Reuters, Issam Abdallah, ucciso in Libano lo scorso 13 ottobre. Un’inchiesta indipendente di Reporters senza frontiere ha confermato che Israele avrebbe deliberatamente colpito la stampa quel giorno. Secondo il materiale visionato, l’analisi sulla conformazione del territorio e l’analisi balistica, gli spari provenivano da Israele e l’indagine dimostrerebbe che non si è trattato di un errore. A confermare quanto accaduto ci sono anche le testimonianze degli altri giornalisti presenti sul posto in quella giornata. Sei di loro sono rimasti feriti nell’attacco. Ad essere colpiti da Israele non sono solo i giornalisti ma anche i loro familiari. È accaduto domenica a Samir Ayub e lo scorso 25 ottobre al corrispondente di Al Jazeera nella striscia di Gaza, Wael Al-Dahdouh. Quel giorno era in diretta quando ha ricevuto la notizia che anche la sua famiglia era morta nei raid israeliani. A un’altra corrispondente di Al Jazeera a Gaza, Youmna ElSayed, lunedì 30 ottobre è stato intimato di lasciare la sua casa perché sarebbe stata bombardata insieme al resto della zona di Gaza City in cui abita. Nella Striscia ci sono numerosi reporter freelance che adesso chiedono non solo di essere ascoltati ma anche di essere protetti. Iran. La Nobel per la pace inizia in carcere lo sciopero della fame di Riccardo Noury* Corriere della Sera, 7 novembre 2023 Narges Mohammadi, la difensora iraniana dei diritti umani e Nobel per la pace 2023, ha iniziato lo sciopero della fame nel carcere di Evin, dov’è detenuta. Già in cattive condizioni di salute, le vengono ritardate se non addirittura negate cure indispensabili col pretesto che non indossa il velo per recarsi alle visite mediche. Mohammadi ha poco più di 50 anni e, di questi, sono molti di più quelli delle sue condanne rispetto a quelli che ha trascorso in libertà. In cinque diversi procedimenti giudiziari ha subito condanne complessivamente per oltre 30 anni di carcere. Attualmente sta scontando un cumulo di condanne per un totale di 11 anni e dieci mesi, con varie sanzioni aggiuntive: 154 frustate, due anni di “esilio interno” fuori dalla capitale Teheran, dove risiede normalmente; due anni di divieto di appartenenza a movimenti della società civile; infine, altri due anni di divieto di rilasciare interviste o pubblicare contenuti sulle piattaforme social. Le accuse, sempre le stesse. Quelle con cui si riducono al silenzio i difensori dei diritti umani, ridicole e pretestuose: “fondazione di un gruppo illegale”, “reati contro la sicurezza nazionale”, “diffusione di propaganda contro il sistema”. Il tutto solo per aver rilasciato interviste ai principali media internazionali o aver incontrato rappresentanti degli organismi intergovernativi, aver invocato l’abolizione della pena di morte, aver preso parte a manifestazioni pacifiche per i diritti delle donne, in un periodo - la fine dello scorso decennio - in cui erano frequenti gli attacchi con l’acido nei loro confronti o aver svolto sit-in di protesta in prigione. Ora la sua vita è in pericolo. Qui l’appello di Amnesty International per la sua immediata scarcerazione: https://www.amnesty.it/appelli/iran-nuova-condanna-per-narges-mohammadi/ *Portavoce di Amnesty International Italia Iran. Nasrin Sotoudeh colpita con un taser. “Non vogliono che parli” di Simona Musco Il Dubbio, 7 novembre 2023 “Nasrin è stata colpita con un taser”. Sono notizie terribili quelle che arrivano dalla prigione femminile di Qarchak, dove da domenica scorsa si trova rinchiusa, tra le altre, anche Nasrin Sotoudeh, avvocata iraniana per i diritti umani arrestata durante il funerale della 16enne Armita Garavand perché non indossava il velo. A spiegare la situazione è ancora una volta il marito Reza Khandan, che monitora dall’esterno la situazione, senza che gli sia concesso di far visita a sua moglie. Diverse donne, stando al suo racconto, avrebbero avuto un infarto, dopo i maltrattamenti subiti al loro ingresso in prigione. “Ieri sera (sabato, ndr) una delle donne arrestate al funerale di Armita Garavand ha avuto un infarto e le sue condizioni sono molto gravi - ha spiegato Khandan in un post su Facebook -. La prigione di Qarchak non aveva sedie a rotelle e barelle. È stata in ospedale fino al mattino”. Un’altra donna, colpita da un attacco di cuore della stessa gravità, non è stata invece portata in ospedale. “Anche Nasrin e altre due donne arrestate durante il funerale di Armita hanno subito attacchi di cuore negli ultimi giorni. A causa dell’eccessiva pressione esercitata su queste prigioniere il primo giorno e la prima notte della loro detenzione nella sede della polizia morale, non si trovano in condizioni normali. Il numero di donne arrestate durante il funerale di Armita, che si trovano nella prigione di Qarchak, è di 21, e il numero di uomini arrestati durante la stessa cerimonia, che si trovano nelle carceri di Evin e Teheran, è di 15. Ho notato che durante la detenzione di Nasrin, oltre alle solite percosse, l’hanno colpita con il taser”. Sabato Khandan ha provato a far visita a Nasrin in carcere, ma non gli è stato concesso di farvi ingresso. “Non sta bene - spiega al Dubbio -. Ci ho parlato al telefono e non ha ancora nessuna notizia su una possibile liberazione. Le sue condizioni fisiche non sono buone. Le condizioni ambientali di quella prigione sono insopportabili. Non volevano che dicesse nulla”. Le donne arrestate dopo il funerale della 16enne ridotta in coma dalla polizia morale iraniana per non aver indossato il velo erano state picchiate nel centro di detenzione della polizia di Irshad, dove Mehsa Amini - dalla cui tragedia è nato il movimento “Donna, vita e libertà” - è stata uccisa dagli agenti. Sotoudeh, nel tentativo di fermare le violenze, è stata respinta a forza di botte, aveva spiegato nei giorni scorsi Khandan, che in queste ore sta lottando per far scarcerare la moglie. Il pestaggio ai danni di Sotoudeh è scaturito dal tentativo, il giorno del funerale, di difendere dalle aggressioni Manar Zarrabi, familiare di alcune delle vittime volo 752 della Ukraine International Airlines, abbattuto l’8 gennaio 2020 pochi minuti dopo il suo decollo dall’aeroporto Internazionale di Teheran-Imam Khomeini dal Corpo delle Guardie rivoluzionarie islamiche iraniane. Da lì una slavina di botte, soprattutto in testa, come raccontato da alcuni presenti. Botte che sono poi continuate nel centro di detenzione della polizia di sicurezza di Teheran, fino al trasferimento presso l’ufficio del procuratore di Evin, insieme ad altri detenuti. Le accuse a carico di Sotoudeh sono surreali: “Riunione e collusione per agire contro la sicurezza del Paese” e “disobbedienza agli ordini degli ufficiali”, compreso il fatto di non aver indossato l’hijab obbligatorio. Sotoudeh e Zarrabi sono rimaste bloccate per ore davanti all’ufficio del pubblico ministero nel veicolo speciale per il trasporto dei detenuti, poiché senza velo. Quando gli agenti di sicurezza hanno cercato di caricare le donne con la forza in un veicolo speciale per il trasporto di prigionieri al carcere di Qarchak, Zarrabi è svenuta e ha iniziato ad avere le convulsioni. Per tale motivo, le autorità sono state costrette a rilasciarla. Nonostante per ciascuna delle donne arrestate sia stata fissata una cauzione di 500 milioni di toman - circa 11mila euro - la procura continua a rifiutare il pagamento della stessa. “Nonostante il fatto che la signora Nasrin Sotoudeh e altre persone detenute arbitrariamente al funerale di Armita Garavand abbiano ottenuto la libertà su cauzione - spiega l’avvocato Mohammad Moghimi - le autorità giudiziarie hanno rifiutato la libertà su cauzione con una mossa illegale”.