Carceri, il “libro bianco” dell’Aiga dedicato al Papa Il Sole 24 Ore, 6 novembre 2023 A Genova la presentazione del volume stampato e rilegato dai detenuti dell’istituto ligure. Arriva il “Libro Bianco sulle Carceri”, redatto a cura dell’Associazione Italiana Giovani Avvocati mediante l’Osservatorio Nazionale bsulle Carceri (ONAC). Il volume contiene un’analisi fedele dei sopralluoghi svolti nel corso del biennio presso i diversi istituti penitenziari italiani, annotati dalle diverse delegazioni delle 140 sezioni dell’AIGA distribuite sul territorio nazionale. E raccoglie anche le proposte di modifica dell’Ordinamento Penitenziario e degli istituti carcerari formulate da AIGA insieme a numerosi esperti della materia penitenziaria. “Il primo Libro Bianco sulle Carceri - afferma il Presidente Perchinunno - è il punto di arrivo di un lavoro biennale che ci ha portato a visitare quasi cento istituti di pena e, sulla base di quanto constatato, ad individuare le prioritarie esigenze di riforma dell’ordinamento penitenziario. Ma è soprattutto il punto di partenza del vero lavoro che ci impegnerà nel prossimo futuro, quello di mettere in pratica e tradurre in realtà le proposte che con il Libro Bianco abbiamo formulato. Al di là di quel muro, ricordiamocelo, ci sono anche gli operatori penitenziari, che continuano a svolgere il proprio lavoro nonostante le gravose carenze strutturali e di organico”. La presentazione ufficiale si è tenuta sabato presso la Casa Circondariale di Genova-Pontedecimo. Non un luogo casuale, perché - fa sapere l’AIGA in una nota - il Libro Bianco è stato stampato e rilegato dai detenuti del carcere ligure nella tipografia legatoria che si trova all’interno dell’istituto. Anche la dedica, a Sua Santità Papa Francesco, non è casuale. I giovani avvocati sono stati ricevuti dal Papa a margine dell’udienza generale del 6 settembre scorso. “Papa Francesco - racconta il Presidente dei giovani avvocati Francesco Paolo Perchinunno - ci ha ricevuto e ha dato la propria benedizione ad un progetto che proprio dalle sue parole prende ispirazione”. Interverrà Sua Eccellenza Monsignor Marco Tasca, Arcivescovo metropolita di Genova e Presidente della Conferenza episcopale ligure. Sono stati invitati a porgere i saluti Carlo Nordio, Ministro della Giustizia e Andrea Delmastro Delle Vedove, Sottosegretario alla Giustizia. Pnrr, i veri numeri della giustizia di Tito Boeri e Roberto Perotti La Repubblica, 6 novembre 2023 Il Pnrr è un immenso programma di investimenti e riforme. Affinché il dibattito sui suoi pro e contro sia meno ideologico e più informato bisogna almeno misurare gli interventi (gli input) e i loro risultati (gli output) correttamente. Nessuna delle due operazioni è semplice. Proprio per questo è importante essere cauti con i trionfalismi e analizzare i dati con freddezza. Quindi chiediamo scusa in anticipo al lettore se questo articolo conterrà più numeri di un normale articolo di quotidiano. Prendiamo il caso di una riforma cruciale come quella della giustizia. Il Pnrr ha due obiettivi quantitativi (target): riduzione della durata dei processi nei tre gradi di giudizio del 40 per cento nel settore civile e del 25 per cento nel settore penale entro la fine del 2026; e riduzione del 65 per cento dell’arretrato civile in Tribunale e del 55 per cento in Corte d’Appello entro la fine del 2024 e addirittura del 90 per cento entro la fine del 2026. Tutti target estremamente ambiziosi. Come noto il Pnrr è stato approvato nel 2021 e i suoi effetti sull’arretrato possono essersi manifestati solo a partire dal 2022, con l’assunzione di 8000 addetti all’Ufficio per il processo a partire da febbraio e di 3000 tecnici a partire da ottobre (purtroppo quasi la metà di questi nuovi assunti sembrano già essersi dimessi, ma questa è un’altra storia). Ulteriori effetti potrebbero essersi manifestati a partire dalla fine 2022, quando hanno cominciato a essere adottati i decreti attuativi della riforma del processo civile e penale e delle commissioni tributarie. Qualsiasi cambiamento intervenuto tra 2019 e 2021 perciò non può essere attribuito al Pnrr; e per il 2022 qualsiasi cambiamento può essere attribuito solo al piano di assunzioni. Alla luce di queste premesse, è utile tornare su una affermazione di Sabino Cassese sul Corriere della Sera del 31 ottobre, secondo cui il Pnrr sta funzionando, come mostrerebbe per esempio il settore della giustizia: “Finora, non possiamo lamentarci […] La durata dei processi civili è stata ridotta di quasi il 20% e di quelli penali di quasi il 30%. Per gli arretrati della giustizia può dirsi lo stesso, perché nei tribunali la riduzione è del 20%, nelle Corti di appello di quasi il 34%”. Che poche migliaia di addetti appena assunti (e quindi da inquadrare, istruire, mettere a regime) possano avere effetti così enormi dovrebbe apparire implausibile. Ed infatti un’analisi attenta dei dati porta a conclusioni opposte. Partiamo dal primo target, l’arretrato, cioè i procedimenti aperti da più di tre anni nei tribunali. Nel 2020 c’è stato un crollo di 200.000 unità nei nuovi procedimenti civili iscritti nei tribunali, che si è pressoché mantenuto anche nel 2021. Quindi, anche se i tribunali avessero continuato a definire (cioè a chiudere) i procedimenti agli stessi ritmi pre-Pnrr, l’arretrato sarebbe diminuito comunque perché c’era meno da lavorare sui nuovi procedimenti, e ci si poteva dedicare di più a smaltire gli arretrati. Per valutare l’impatto del Pnrr bisogna dunque guardare al flusso dei procedimenti definiti in un anno, che al contrario del flusso in entrata dipende dall’efficienza dei tribunali ed è influenzato dal Pnrr. Nel 2022 i procedimenti definiti sono aumentati in modo irrisorio, dello 0,3 per cento. Nel primo semestre del 2023 rispetto al primo semestre del 2022 è andata solo leggermente meglio, un aumento del 3 per cento. Niente a che vedere con i numeri citati da Cassese. E se si prende l’insieme della giustizia (tribunali, corti d’appello, Cassazione) i procedimenti civili definiti sono addirittura diminuiti nel 2022. Ed infatti l’andamento della durata dei processi civili, il secondo target del Pnrr, è perfettamente coerente con queste conclusioni. Tra il 2021 e il 2022 è diminuita dell’1 per cento (ricordiamo che il target sarà raggiunto se diminuirà del 40 per cento entro il 2026). Cassese e tanti altri commentatori sono stati tratti in inganno perché i documenti ufficiali calcolano il cambiamento dal 2019; ma tra il 2019 e il 2021 la durata dei processi civili era già diminuita di molto, per ragioni che non possono aver nulla a che fare con il Pnrr. Anzi, a voler essere malevoli, con il Pnrr il trend di riduzione della durata si è fermato. I risultati sono stati un poco migliori nel penale, anche se lontani dal miglioramento del 30 per cento citato da Cassese. Se si vuole provare a valutare gli effetti del Pnrr, bisogna considerare misure e periodi di riferimento che siano influenzabili dal Pnrr. Applicare questi due accorgimenti al settore della giustizia porta a raffreddare di molto i trionfalismi che stanno circolando insistentemente (trionfalismi, peraltro, non limitati al settore della giustizia). C’è un altro modo per comprendere come questi trionfalismi siano immotivati. Se veramente assumere poche migliaia di addetti ha questi effetti clamorosi, perché abbiamo aspettato il Pnrr? Il costo di queste assunzioni è modesto, circa 2 miliardi una tantum. Secondo i documenti ufficiali dei governi da Conte II in poi, raggiungere i target sulla giustizia porterebbe a uno stratosferico aumento del Pil di 70 miliardi ogni anno (!) da qui alla fine del mondo. Stiamo parlando di migliaia di miliardi di Pil extra contro una spesa una tantum di 2 miliardi. Qualcosa non quadra, nella propaganda di allora e nell’analisi dei dati di oggi. I giudici e la legge. Quel dovere di disapplicare le norme ingiuste di Emanuele Ficara* Il Fatto Quotidiano, 6 novembre 2023 Sono un avvocato dell’associazione no profit torinese StraLi che si occupa della tutela dei diritti umani utilizzando la tecnica della Strategic Litigation con la quale, attraverso il singolo caso giudiziario, si mira a modificare la legge e ad adeguarla agli standard europei e sovranazionali in genere. In virtù di tale quotidiana occupazione dobbiamo ringraziarla per avere pubblicato l’articolo “Apostolico; Per i giudici, Pinelli si ispira allo Zar”, a firma Filoreto D’Agostino. In tale articolo si faceva riferimento alle parole del collega Pinelli e del sottosegretario Mantovano circa il dovere del giudice, in nome della credibilità, di attenersi alla sola interpretazione letterale delle norme, sia in ambito interno sia in ambito sovranazionale. Tale affermazione non tiene in considerazione, volontariamente, il fatto che la nostra legge si inserisce in un sistema normativo complesso di interpretazioni di leggi nazionali e sovranazionali. La frase “il giudice deve attenersi alla legge”, che in questi giorni è sulla bocca di molti politici e giornalisti al seguito, è priva di significato: la “legge” infatti è oggi il frutto di interpretazione di diverse disposizioni nazionali e sovranazionali. Desta sconforto, peraltro, come il dibattito pubblico attorno al caso Apostolico non si sia mai confrontato con la motivazione della sentenza (anzi: delle oramai plurime sentenze), ma abbia sempre visto delegittimare il magistrato attraverso il tristemente noto metodo “ad hominem”. L’ovvio ragionamento avrebbe dovuto essere il seguente: il provvedimento del giudice contrasta con la legge (anche sovranazionale)? E solo nel caso di risposta affermativa si sarebbero dovuti indagare eventuali interessi della giudice che ne minassero la credibilità. Si dice invece, etichettandoli come “ribelli”, che i giudici che hanno disapplicato il decreto Cutro abbiano commesso un atto contrario alla legge, ma già nel 1978 la Corte di Giustizia dell’Unione Europea imponeva a tutti i giudici del vecchio continente di disapplicare “di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale”. D’altra parte, il Governo italiano dovrebbe gioire di fronte a magistrati che non si limitino a una pedissequa applicazione della legge interna. L’interpretazione dei giudici consente il progredire della normativa e “adegua” la stessa ai parametri europei, peraltro spesso evitando procedure di infrazione e/o condanne da parte della Corte Europea dei Diritti Umani. Nel lavoro quotidiano della nostra associazione, proprio grazie a questa interpretazione complessa delle norme, il singolo caso giudiziario diventa propulsore di miglioramenti nella normativa interna. L’impatto positivo della strategic litigation (l’uso del processo per migliorare la normativa vigente sollevando questioni di legittimità costituzionale e/o di compatibilità con le leggi sovranazionali) sulla qualità della giustizia è da tempo riconosciuto anche in sistemi di civil law come il nostro. *Associazione StraLi Le macerie dell’antimafia di Riccardo Lo Verso Il Foglio, 6 novembre 2023 Nel repertorio dei disastri toccherebbe all’antimafia televisiva raccogliere le ultime macerie. La memoria corta, però, è uno degli effetti collaterali della vita nelle fabbriche dello share. Chi volete che si ricordi delle sventure di un piccolo paese, Mezzojuso, che “Non è l’Arena” di Massimo Giletti rese capitale della mafia e dell’omertà (che pur ci sono e nessuno intende sostenere il contrario). La narrazione, stereotipata e con venature trash, metteva al centro la storia delle sorelle Napoli, tre donne minacciate e intimidite per costringerle a cedere i terreni della loro azienda agricola nell’entroterra della provincia palermitana. Ebbene, gli imputati sono stati assolti dall’accusa di estorsione. Assolti dopo essere stati arrestati nel 2018 e già condannati, senza appello, dal tribunale parallelo della tv. Recinzioni tagliate, trattori danneggiati, lanci di pietre, cani avvelenati, animali mandati al pascolo per distruggere i terreni delle “dannate” (così Giletti ha definito le tre sorelle in un libro): è lunga la lista degli episodi denunciati. Chi siano i colpevoli non si sa. Di certo gli imputati nulla c’entrano. Un ribaltone quello della Procura di Termini Imerese che prima li ha fatti arrestare, poi ha chiesto l’assoluzione in primo grado e infine non ha appellato il verdetto. Ergo, assoluzione definitiva in un silenzio (o quasi) che più assordante non si può. Un dettaglio di second’ordine per il giustizialismo televisivo che brucia storie e reputazioni per un pugno di telespettatori in più. Massimo Giletti scelse la storia e ne fece un caso di respiro nazionale. Le sorelle Napoli divennero il simbolo della resistenza al sopruso mafioso. Il sindaco di Mezzojuso, va detto, ci mise del suo facendosi beccare impreparato alla domanda delle domande. È vero che era andato al funerale di don Cola, boss del paese e amico fraterno di Bernardo Provenzano? Salvatore Giardina, così si chiama l’ex primo cittadino, prima farfugliò una giustificazione legata alla carità cristiana, poi rispose che si era confuso. Non aveva memoria del funerale celebrato una dozzina di anni prima, nel 2006, quando era assessore comunale. Il suo “non ricordo” portava con sé funesti presagi. Tra gli imputati del processo scagionati c’è, infatti, Simone La Barbera, figlio di don Cola. Che assist mediatico-giudiziario. L’uomo che dava “il tormento” alle tre donne, “la causa di tutti i loro mali” era figlio di un mafioso ed egli stesso imputato per un’altra tentata estorsione con metodo mafioso che nulla aveva a che fare con le sorelle Napoli. La produzione di Giletti accese i motori. Si fiondò in piazza a Mezzojuso. Da una parte erano sedute le sorelle Napoli, dall’altra il sindaco. In mezzo, Giletti. Tutti intorno, oltre le transenne, i cittadini. Insomma, un’Arena. Giardina aveva gli occhi spiritati durante il faccia a faccia con Giletti. Si ritrovarono l’uno a una manciata di centimetri dall’altro. Fiato contro fiato. E urlavano. “Mistificatore della realtà”; “Che fa, mi mette le mani addosso”. L’allora ministro dell’Interno, Matteo Salvini, fiutò aria di popolarità a buon mercato e inviò gli ispettori in Sicilia. Il Consiglio dei ministri commissariò il comune. Tra le contestazioni mosse a Giardina c’era proprio la partecipazione ai funerali di don Cola. A nulla servì dimostrare che non poteva esserci andato perché si trovava al lavoro. Oramai il caso era esploso. Le puntate si susseguivano, una dopo l’altra. Non andava ancora di moda Salvatore Baiardo. Il gelataio di Omegna, condannato in passato per avere aiutato i boss Graviano di Brancaccio, definito in maniera surreale “portavoce” dei fratelli stragisti di Palermo, da lì a poco sarebbe diventato il nuovo profeta. Il livello doveva alzarsi per fare breccia e accomodarsi nei salotti televisivi dopo che certe panzane del passato hanno segnato un’epoca. Una lunga stagione di sospetti spacciati per prove, con gli adepti che rispondevano al richiamo dei santoni dell’Antimafia. Baiardo sapeva come sedurre. Ha tirato fuori la hollywoodiana rivelazione della vacanza dei Graviano in Sardegna vicino alla villa di Silvio Berlusconi. Ha parlato della moltiplicazione dell’agenda rossa trafugata dalla borsa di Paolo Borsellino nei minuti successivi alla strage di via d’Amelio e fotocopiata affinché più persone la usassero come arma di ricatto. In un crescendo di rivelazioni Baiardo ha sostenuto che l’arresto di Messina Denaro sia stato una messinscena, un rigurgito dell’eterna Trattativa stato-mafia, per consentire a qualcuno “che ha l’ergastolo ostativo di uscire senza che ci sia clamore”. Le ospitate, ben retribuite, di Baiardo hanno fornito l’ennesima prova del perverso intreccio mediatico-giudiziario. Perché è travasando certi personaggi dalla televisione nei palazzi di giustizia che è andata a sbattere un’altra antimafia, quella chiodata delle procure. Dalle porte girevoli per primo transitò Massimo Ciancimino, facendo da ventriloquo al padre, il defunto ex sindaco mafioso di Palermo. Raccontava ciò che tornava utile alla sua causa, facendo attenzione che fosse al contempo comodo e confortevole anche per i pubblici ministeri che si guardavano allo specchio mentre lo interrogavano. Ciancimino jr divenne così il supertestimone del processo sulla Trattativa naufragato assieme alla credibilità di un personaggio al limite del grottesco. È stato sostituito nottetempo, scaricato dopo averlo spremuto a dovere. Avanti un altro: ecco farsi sotto l’ex collaboratore di giustizia Gaspare Mutolo, uscito dal programma di protezione e pronto a rivelare - udite udite - che esiste “un terzo livello che comanda e ha comandato sempre”, che regge i fili ed è pronto a fare un favore ai mafiosi eliminando l’ergastolo ostativo. Una minestra riscaldata in stile Baiardo alle cui chiacchiere hanno dato credito magistrati in pensione assoldati dalla politica come Roberto Scarpinato e Federico Cafiero De Raho, e in carica come Antonino Di Matteo e i pubblici ministeri di Firenze che indagano da decenni su Silvio Berlusconi. Questi ultimi si sono messi a caccia della fantomatica foto di Graviano e Berlusconi che Baiardo mostrò a Giletti. Bisogna credere per fede che lo scatto li ritraesse davvero insieme perché nella penombra del dietro le quinte mica si vedevano le facce. Stessa cosa per il colpo basso che Baiardo tentò di rifilare a Giletti sostenendo che il conduttore gli avrebbe allungato di nascosto un foglietto con cui lo invitava a fare da cassa di risonanza alle minacce subite dal giornalista. Ora Baiardo rischia il carcere dove finirà se il suo ricorso in Cassazione non dovesse essere accolto. Si è rimangiato la storia della fotografia ed è accusato di avere calunniato colui che gli ha dato voce, Massimo Giletti. Incidenti di percorso quando si sta in piedi come funamboli sulla corda del nonsense. Se ce n’è abbastanza per avventurose ricostruzioni giornalistiche spacciate per scoop, basta e avanza per alimentare indagini e processi. Qualcuno finirà nel tritacarne, vittima dello sputtanamento in nome dell’antimafia, esposto al pubblico ludibrio nella frenetica ricerca di nuovi mostri. Spunteranno altri infedeli servitori dello stato e agenti, segreti e deviati, seduti attorno a chissà quale tavolo ovale o nella stanza dei bottoni. I racconti di Mutolo, ad esempio, ci hanno regalato un déjà-vu che rimanda a un’altra antimafia che raccoglie i cocci, quella dei familiari delle vittime. L’ex collaboratore è stato accolto a braccia aperte da Salvatore Borsellino, fratello di Paolo, il magistrato assassinato in via D’Amelio. Era già accaduto con Ciancimino jr prima che venisse sommerso dalle patacche rifilate per anni ai pubblici ministeri di Palermo. La famiglia Borsellino si è spaccata. Da una parte i figli del magistrato, dall’altra il fratello Salvatore che pur di iscriversi al partito delle ombre e della Trattativa ha troncato quei residui rapporti che lo legavano ai nipoti. Una frattura insanabile come è emerso in una recente convocazione in commissione parlamentare antimafia a Palazzo San Macuto. I Borsellino e l’avvocato Fabio Trizzino (marito di una delle figlie, Lucia) hanno criticato la scelta della magistratura di essere rimasta aggrappata alla tesi della Trattativa con il coltello fra i denti, abbandonando colpevolmente altre possibili piste. Su tutte il dossier “mafia e appalti” dove risiederebbe il movente dell’eccidio. Se la sono presa anche con Roberto Scarpinato, che era uno dei titolari del fascicolo archiviato (anche se Scarpinato ha sempre detto che furono chiuse alcune posizioni e stralciato un grosso filone) e che da senatore del Movimento 5 stelle è entrato a San Macuto. A difesa dell’ex magistrato si sono fatti avanti Di Matteo, oggi al Csm, e il collega di partito Federico Cafiero de Raho, ex procuratore nazionale antimafia. Le impalcature processuali crollano ma continuano a ripetere che “Cosa nostra non ha agito da sola”, che ci sono i mandanti esterni, che qualcuno li copre e qualcun altro traccheggia con la verità. Lo dicono da decenni, nelle aule dei tribunali e in Parlamento quando svestono la toga per ungere la politica e di riflesso il popolo italiano con il crisma dell’infallibilità. Il loro sta diventando il refrain stucchevole dell’antimafia delle chiacchiere. Suggestive, affascinanti se volete, ma indimostrabili. Si sono cambiati di abito ma propongono le stesse teorie che non hanno retto al vaglio dei tribunali e che minano la credibilità della magistratura. Una credibilità colata a picco per colpa dell’antimafia giudiziaria. Che dire dell’ex giudice Silvana Saguto scoperta a banchettare sui beni sequestrati ai mafiosi e agli imprenditori accusati di avere fatto affari con i boss, condannata per corruzione e arrestata assieme ad alcuni amministratori giudiziari. È stata una batosta per la magistratura e un’occasione persa per rivedere l’intero sistema delle misure di prevenzione che, così come è concepito, lascia le macerie, vere e non metaforiche, dei beni che lo stato dimostra di non sapere amministrare. Imprese fallite e immobili in malora: la colpa non è solo di Silvana Saguto, ma conviene fare credere che la distruzione sia solo opera sua. La legge Rognoni-La Torre sulla confisca dei beni è stata decisiva nella lotta alla mafia. Quarant’anni dopo ci si doverebbe interrogare sulla sua applicazione, partendo dal presupposto che ogni euro “mafioso” va tolto ai boss. Accade spesso, però, che leggi e princìpi vengano applicati senza considerare gli effetti reali, il cui studio eviterebbe i guasti. Se le cose non funzionano a Roma figuriamoci a Bruxelles. Lì nei palazzi europei del potere credono che se una cosa va bene a Stoccolma possa essere replicata anche a Palermo. Così finisce per andare in frantumi anche l’antimafia sociale, quella dei presidi di frontiera, come Daniela Lo Verde che si sarebbe portata a casa pc, tablet e telefonini acquistati con i fondi destinati alla scuola dello Zen che porta il nome di Giovanni Falcone. Progetti su progetti, migliaia di euro spesi con risultati prossimi allo zero. Chi mai si sarebbe sognato in Europa di bloccare il flusso continuo di denaro verso una scuola intitolata a Falcone. Eppure sarebbe bastato presentarsi in aula e chiamare l’appello per rendersi conto che i corsi di scolarizzazione e inclusione, che i laboratori di cucina e persino i corsi di calcetto andavano deserti. Un semplice appello e si poteva cambiare rotta, evitando di bruciare i soldi senza incidere sul degrado. Ed invece allo Zen, come nelle periferie di mille altre città, le cose non cambiano. Nonostante la buona volontà di pochi sono i boss, che assomigliano sempre più a malacarne di borgata, a sostituirsi allo stato. Di fronte a tali macerie bisognerebbe chiedersi cosa resta dell’antimafia vera. Non quella degli apparati e delle scorte, dei vestiti eleganti per le cerimonie, delle ombre e dei sospetti, delle verità spacciate per tali anche se lo sono. Non quella che disquisisce della eredità e della successione dei boss morti, che lancia la volata dello share nei palinsesti dei programmi televisivi, che sforna racconti romanzati e scrive le sceneggiature dei film. Piemonte. L’allarme dei Radicali per le carceri: “Carenza di spazio e personale” targatocn.it, 6 novembre 2023 Nel weekend la visita di una folta delegazione nelle case di reclusione di Alba, Cuneo, Fossano e Saluzzo. Blengino e Depetro: “Sulle presunte torture al ‘Cerialdo’ venga dato spazio alle indagini”. Un fine settimana di mobilitazione per gli attivisti di Radicali Cuneo “Gianfranco Donadei”: circa sessanta persone, nel contesto della campagna ‘Devi Vederè di Radicali Italiani, hanno fatto parte delle delegazioni in visita alle carceri di Cuneo, Alba, Saluzzo e Fossano. In carcere con i radicali anche esponenti locali di +Europa, Azione, Fratelli d’Italia, Partito Democratico e Possibile. “Per noi è un appuntamento fisso visitare le carceri del cuneese - hanno commentato Filippo Blengino e Alice Depetro, segretario e membro di direzione di Radicali Cuneo - . Il dramma è che diverse situazioni, anziché migliorare peggiorano. Rimangono problemi di base indiscutibili: manca la concezione di carcere come luogo di riabilitazione del reo, le iniziative rieducative sono carenti, mancano attività di formazione, manca personale. Importante dedicare attenzione al numero esorbitante di persone con problemi psichiatrici in carcere, che avrebbero necessità di strutture totalmente differenti. Difficili anche le condizioni di lavoro degli agenti di Polizia Penitenziaria, degli educatori e dei dipendenti amministrativi: mancano molte risorse organiche. In tutte le carceri ci sono stati segnalati disagi relativamente alla lentezza con cui magistrato di sorveglianza risponde alle istanze dei detenuti: anche in questo caso, la carenza di personale è cronica. Questo è un disservizio che viola i diritti dei detenuti”. Detenuti in sciopero della fame al carcere di Alba - “I lavori di ristrutturazione del padiglione chiuso dal 2016 - continuano Blengino e Depetro - , iniziati lo scorso anno con un ritardo notevole e la cui previsione di fine era prevista entro ottobre 2023, termineranno indicativamente soltanto nel 2025. Nel frattempo, un detenuto, dopo aver già espiato tutta la propria condanna, è entrato in sciopero della fame a inizio novembre in seguito ad un nuovo rinnovo della misura di sicurezza. La casa lavoro, ideata per persone giudicate socialmente pericolose, è un istituto di origine fascista che viola profondamente la Carta costituzionale. Servono strutture adeguate alla tipologia di utenza”. “Il magistrato di sorveglianza qui può rendere infinita una pena per ragioni di sicurezza: un vero e proprio ergastolo bianco insomma. Nonostante il nome, il lavoro all’interno di questi istituti è una chimera. Ad Alba è inoltre troppo poco presente la figura dello psichiatra”. Cuneo e Saluzzo in carenza di personale - “Sulle denunce legate al reato di tortura registrate all’interno della struttura, ribadiamo la fiducia nel lavoro della magistratura - continuano Blengino e Depetro - . Nella Casa circondariale sono state finalmente aperte le serre esterne ed è stato inaugurato il padiglione Stura. É previsto anche l’allargamento della sezione 41bis. Le iniziative rieducative, se pur molteplici, riguardano ancora troppi pochi detenuti. Grave la carenza cronica di personale, a partire dagli educatori”. “La Casa di reclusione di Saluzzo è molto distante dalla città, mancano totalmente linee di collegamento con il centro. Sollecitiamo nuovamente il Sindaco Mauro Calderoni ad agire su questo fronte. Da tempo, ci sono problemi con la caldaia, per cui spesso manca l’acqua calda nelle docce. In molti ci hanno ricordato che i farmaci in fascia C devono essere acquistati, come in tutti gli istituti della regione, e non resi disponibili dalla Regione gratuitamente. Carenze croniche di personale e alcuni locali in stato di degrado, a partire dall’ingente presenza di muffa in alcuni locali docce, rendono parte della struttura fatiscente. Meglio i locali del nuovo padiglione e degna di nota la sezione dedicata agli studenti universitari. Buona la copertura medica di base, ma difficoltà ad accedere a specialisti, a partire dallo psichiatra” aggiungono i due radicali. Fossano: “Ambito dai detenuti, dimensioni umane” - “La Casa di Reclusione di Fossano - proseguono - è un istituto ambito dai detenuti: sono presenti molteplici attività rieducative, lavoratori e scuole. La struttura è in uno stato manutentivo buono e non abbiamo riscontrato evidenti particolari criticità”. Milano. Sesta Opera e il carcere, una storia di amicizia, lavoro e rinascita chiesadimilano.it, 6 novembre 2023 Per i 100 anni della realtà che fa riferimento alla comunità dei Gesuiti di San Fedele, una testimonianza del valore del volontariato a favore dei detenuti. A novembre quattro eventi, aperti venerdì 10 da un incontro con la partecipazione dell’Arcivescovo. Un lavoro nelle produzioni televisive, una vacanza in Italia con la fidanzata, un brutto caso di cronaca che gli vale una pesante condanna. Poi il vuoto e la solitudine del carcere, la volontà di offrire al mondo qualcosa di utile. Un progetto in ambito ambientale, un bando vinto, una macchina prototipo per la raccolta differenziata che diventa realtà e che dà lavoro ad altri detenuti. Poi una cooperativa sociale, la prima in Italia fondata da persone autori di reato per il reinserimento lavorativo dei detenuti, nel campo del videomaking. Tante svolte nella vita di Fernando G., brasiliano di 44 anni. Un percorso, il suo, che si lega a quello di Sesta Opera San Fedele, associazione milanese di volontariato carcerario che quest’anno celebra i 100 anni di attività e che prende appunto il nome dalla sesta opera di misericordia (“visitare i carcerati”). Nel carcere di Bollate incontra Guido Chiaretti, Presidente di Sesta Opera, lo affianca, lo consiglia sul suo futuro lavorativo e lo aiuta a costruire la base della sua attività. “Non sarei riuscito a venire fuori dalla mia situazione senza questa compagnia così personale, un’assistenza morale, psicologica a materiale - racconta Fernando -. È stato presente in tutti i passaggi della mia attività, siamo diventati amici. Ma chi dal mondo libero ha voglia di venire dentro, passare per 11 cancelli, lasciare documenti e telefonino per magari passare un’ora a chiacchierare con un detenuto? La presenza dei volontari in carcere è davvero insostituibile per cercare una nuova strada nella vita”. “Atakama”, che in brasiliano significa “deserto”, è il nome della cooperativa sociale che gli dà lavoro. Un nome per ricordare che anche nel deserto possono crescere bellissimi fiori. “Come suggeriva il cardinal Martini per costruire percorsi di giustizia occorre visitare le persone in carcere e lavorare con loro, fianco a fianco - spiega il presidente Chiaretti -. Dare testimonianza che la società può dare loro fiducia, offrendo una seconda possibilità. E il primo passo è riconoscere, oltre i loro errori, la loro dignità di persona umana”. La storia - Sesta Opera San Fedele è una delle più antiche associazioni italiane di volontariato penitenziario. Nel 1923 un gruppo di liberi professionisti della Congregazione Mariana - gruppo di laici di spiritualità ignaziana (oggi Comunità di Vita Cristiana), che allora aveva sede presso l’Istituto Leone XIII a Porta Volta, oggi in San Fedele - dopo aver frequentato un corso di esercizi spirituali a Triuggio, tenuto dal gesuita padre Beretta, decise di dedicare alcune ore alla settimana ai reclusi del carcere di San Vittore, ottemperando così al precetto evangelico di visitare i carcerati. Nessuno di loro avrebbe mai pensato che questa iniziativa potesse avere uno sviluppo così significativo e duraturo. Il 30 novembre 1963 venne formalmente costituita l’Associazione “Sesta Opera San Fedele”. Tra i soci fondatori si ricordano Giovanni Lazzati e Francesco e Giovanni Battista e Giuseppe Legnani, Luigi Gatti. Nel 1968, su impulso di Sesta Opera, Azione Cattolica Italiana si fece promotrice del Coordinamento degli enti e dei singoli volontari impegnati nell’assistenza carceraria, costituendo un Segretariato Enti Assistenza Carceraria (Seac). Forte della adesione di 120 Enti, il Sea., tramite l’opera di Gianbattista Legnani, poté far pressione sul legislatore perché riconoscesse nel volontariato carcerario la forma migliore di operatività per la rieducazione del detenuto. Nel 1975 diventa legge la proposta di Legnani, allora Presidente dell’Associazione, degli attuali art. 17 e 78 dell’Ordinamento Penitenziario, medianti i quali gli assistenti volontari furono formalmente istituiti per legge, legittimando quindi l’ingresso negli istituti penitenziari di cittadini impegnati nel volontariato in carcere. Attualmente i suoi 200 soci operano a Milano - fuori e dentro nel carcere - negli Istituti di San Vittore, Opera, Bollate, nel Carcere minorile Beccaria, nel reparto speciale dell’Ospedale San Paolo e nel carcere di Cremona. “La mission - spiega Chiaretti - è quella di prestare assistenza morale e materiale ai carcerati e alle loro famiglie, promuovendone la dignità e attivandosi per la rimozione delle cause di emarginazione e per facilitarne il reinserimento nella società”. Fin dalle sue origini l’Associazione fa riferimento alla Comunità dei Padri Gesuiti di San Fedele di Milano. Gli eventi - Le iniziative per i 100 anni dell’associazione iniziano venerdì 10 novembre con un evento “Nel cuore di Milano” (ore 17-19, Fondazione Ambrosianeum - via delle Ore 3 Milano), cui partecipano l’arcivescovo Mario Delpini, il sindaco Beppe Sala e altre autorità civili e religiose di Milano, con gli interventi di Guido Chiaretti, Luigi Pagano (già direttore del carcere di San Vittore), Franco Bonisoli (ex detenuto) e Piero Colaprico (giornalista). Modera Fabio Pizzul. Sabato 11 novembre (ore 9-13), presso l’Auditorium San Fedele (Galleria Hoepli 3/b), in collaborazione con Seac, si tiene il convegno “Il contributo del volontariato e della società civile per declinare il senso di umanità nelle pene” con gli interventi di Carlo Condorelli (Presidente Seac, padre Maurizio Teani s.j. (biblista), Claudia Mazzucato (Professore associato di Diritto penale nella Facoltà di Scienze politiche e sociali dell’Università Cattolica), Monica Martinelli (Professore Associato di Sociologia presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università Cattolica), Giovanni M. Pavarin (già Presidente dei Magistrati di Sorveglianza) e Patrizia Patrizi (Università di Sassari e Presidente Forum Europeo Giustizia Riparativa). Concluderanno Guido Chiaretti e il professor Andrea Rangone, docente al Politecnico di Milano e presidente di Digital360. Dalle 15 alle 18, il Convegno continua nel carcere di San Vittore dove il mondo del volontariato dialoga con Giovanni Russo (Capo del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) e Antonio Sangermano (Capo del Dipartimento di Giustizia Minorile e di Comunità) per aprire nuovi percorsi di collaborazione. I lavori pomeridiani saranno aperti da Giacinto Siciliano, direttore di San Vittore, e dal racconto “Qui tutto è cominciato” di Guido Chiaretti e Lugi Pagano. Mercoledì 15 novembre, alle 12, presso la Fondazione culturale San Fedele (piazza San Fedele 4, Milano - Sala Ricci), nell’ambito di “BookCity 2023” presentazione del libro Per una giustizia “degna del senso ultimo dell’essere umano” con il professor Giovanni Maria Flick (Presidente emerito della Corte Costituzionale, autore della prefazione), Claudia Pecorella (Professore ordinario di Diritto penale presso l’Università di Milano Bicocca, coordinatrice scientifica dell’opera) e Guido Chiaretti (curatore del libro); modera Ferruccio de Bortoli, giornalista. Bologna. La Dozza scoppia di nuovo: 800 detenuti su 500 posti di Matteo Pignagnoli cantierebologna.com, 6 novembre 2023 A tre anni dalle rivolte nelle carceri torna il problema del sovraffollamento in una struttura vecchia e fatiscente. Fino a quattro persone per cella con un drastico abbassamento della qualità della vita dei carcerati. Per il Garante Ianniello, “Preoccupa la mancanza di personale penitenziario e medico”. A rischio le attività educative e lavorative. Sovraffollamento, pochi medici e agenti, ma anche scarse possibilità lavorative per i detenuti. Questa la situazione attuale della Casa Circondariale Rocco D’Amato, nota anche come Dozza. Sono infatti più di 800 i detenuti presenti all’interno della struttura, a fronte di una capienza regolamentare di circa 500. Una situazione talmente delicata che sul finire di luglio aveva addirittura portato a sospendere l’ingresso di nuovi carcerati per alcuni giorni. Capita così che celle doppie o addirittura singole arrivino a contenere fino a quattro persone, con tutti i disagi igienici e psicologici del caso. Non ci sono ancora segnali di possibili rivolte come quelle del 2020, quando i disordini in cento penitenziari italiani portarono alla morte di 13 detenuti, uno dei quali proprio alla Dozza, ma la situazione è al limite. Lo conferma Antonio Ianniello, Garante dei detenuti di Bologna: “La stabile condizione di sovraffollamento, oltre a comportare comunque un drastico abbassamento complessivo della qualità della vita all’interno dell’istituto, preoccupa, in particolare, se posta in relazione all’organico dell’area educativa, ma anche con riferimento al personale della Polizia Penitenziaria e alla inadeguata offerta di attività lavorative rispetto alla domanda proveniente dalle persone detenute”. Tutto ciò amplifica anche l’inadeguatezza degli spazi. “La struttura - sottolinea Ianniello - è stata a suo tempo costruita male, secondo vecchie logiche improntate prevalentemente alla custodia. Il profilo architettonico è decisivo, in quanto la congruità degli spazi può consentire la piena attuazione del trattamento”. A complicare le cose poi si sono interrotti i lavori per la realizzazione del nuovo padiglione, a causa del fallimento della ditta incaricata. Negli ultimi mesi sono stati diversi i problemi segnalati, come il grande caldo dei mesi estivi o la mancanza di acqua in alcune sezioni, che vanno a inficiare nettamente sulle condizioni detentive e lavorative dei detenuti. La situazione migliora nel reparto femminile, in cui sono presenti una settantina di detenute, dove gli spazi e le celle risultano più curate e vivibili rispetto a quelle presenti nei reparti maschili. A lamentarsi delle condizioni sono anche gli agenti della penitenziaria tramite la Uil, che lo scorso agosto hanno lamentato la presenza di topi e scarafaggi all’interno della caserma agenti. Il sovraffollamento influenza ogni aspetto della vita carceraria, compreso quello legato alle attività lavorative. Tra di esse l’officina di Marchesini, Coesia e Ima, che permette ai detenuti di iniziare un percorso che porta fino all’assunzione in azienda. Alla Dozza però lavora in media solo un detenuto su quattro, di cui pochissimi (poco più di una decina) sotto datori esterni, come evidenzia anche l’ultimo report dell’associazione Antigone. Un problema serio visto che avere opportunità lavorative riduce nettamente le possibilità di ritorno al crimine dei detenuti: dall’80% al 15-20% per chi ha l’occasione di costruirsi una nuova vita. Nonostante le tante richieste da parte dei detenuti, restano però poche le possibilità a disposizione, soprattutto per le donne, le cui attività finiscono spesso per ricalcare gli stereotipi di genere. Gli stranieri, che rappresentano il 55% della popolazione carceraria, soffrono della mancanza di una rete sociale di riferimento al di fuori del carcere, che ne inficia le possibilità di accedere a percorsi lavorativi e didattici esterni. Grave anche la carenza di personale sia penitenziario che educativo o medico: lo scorso anno c’erano solo un medico dipendente, due dottoresse a contratto per 36 ore settimanali e altre 2 a contratto per 24 ore, mentre notti e weekend vengono coperti solo dagli specializzandi. Numeri insufficienti anche per gli agenti della penitenziaria, che nel 2022 erano 430, su un organico di 540, e con un forte ricambio di personale legato alle richieste di trasferimento degli agenti. Anche se un piccolo rinforzo è giunto in estate con i dieci arrivi annunciati dal sottosegretario alla giustizia Dalmastro. Se gli agenti sono pochi e i detenuti tanti i pericoli crescono. L’ultimo episodio è di metà ottobre: l’aggressione a due agenti penitenziari da parte di un paziente con problemi psichiatrici. Un problema talmente presente, quello della malattia mentale, che alla Dozza ha portato all’adozione del protocollo “Insonnia” sull’uso di sedativi o ipnotici, a favore di una somministrazione di farmaci che non generano dipendenza. Il problema della salute mentale ha inoltre spinto ad aggiornare il protocollo di prevenzione del rischio di suicidi, che prevede adesso riunioni settimanali congiunte tra l’area sanitaria e la direzione. E a rendere davvero complicata la convivenza dietro le sbarre c’è poi la dipendenza da alcool e droghe pesanti, che secondo Antigone colpisce il 38% dei detenuti, con oltre 240 casi nel 2022. Una situazione complessa, come si vede, dove una qualunque scintilla potrebbe provocare un’esplosione. Era successo tre anni fa con il Covid, è accaduto al Pratello lo scorso anno. Potrebbe accadere di nuovo se le autorità non ascolteranno l’allarme del Garante. Napoli. “Rinati in carcere perché traghettati verso la scrittura” Il Mattino, 6 novembre 2023 Le voci dei detenuti, il bilancio del progetto. La coscienza incomincia a chiedere aiuto alla morale e alla riconoscenza e si trova di fronte delle ombre che vanno scomparendo. Iniziamo così noi che abbiamo avuto la fortuna e la possibilità di poter partecipare al progetto “Parole in libertà”. Fortuna la prima parola che abbiamo usato, fortuna di essere accompagnati in questa nuova esperienza da persone - e dire persone sarebbe spersonalizzante per le stesse per cui li chiameremo amici e amiche pregiandoci senza retorica di usare questa preziosa parola - che in modo sempre certo, fin dal primo giorno della nostra conoscenza, come fratelli, hanno abbattuto ogni tipo di barriera restituendoci la dignità e riconoscendo grande valore a noi, persone deboli a causa della condizione che viviamo qui a Poggioreale, condizione che spesso ci sottomette e ci distrugge. Ma il loro comportamento morale la loro professionalità ci ha coinvolti sempre in un percorso di capacità e di interessi e traghettato verso un mondo fatto di scritture e di conoscenze che neanche immaginavamo di avere, accompagnandoci in nuove dimensioni contornate da arcobaleni di etica, di valori e forse senza neanche rendersene conto, ci hanno condotto per mano in un cambiamento di pensiero. Ci hanno traghettato verso la scrittura. Il pensiero della possibile chiusura di questo progetto (che per fortuna sarà prorogato, ndr) ci spinge a rivolgerci direttamente ai nostri amici trovando le parole giuste. Ed allora, ecco la serafica Giuliana Covella, la nostra giornalista che dietro il suo insegnarci, sempre cortese, le tecniche e l’approccio al mondo del giornalismo ombreggia la sua determinazione e la sua preparazione professionale. E la bella e giovane Paola Cascone, professionista che a dispetto della sua giovane età riesce sempre a darci consigli e informazioni, da dietro quel sorriso accennato e furbo. La pensierosa e discreta Isabella Imperiali, ragazza-donna attenta con fare che sembra distaccato e sarcastico invece sempre molto attento e di profilo moderno filosofico. A Simona un ringraziamento per tutto il tempo prezioso che ci hai dedicato. E poi la prof Benedetta, all’apparenza rigida seria e con i dogmi dell’insegnamento, ma sempre disposta al ragionamento e alla riflessione sul pensiero logico e razionale. La piccola Valeria, dagli occhi blu sempre attenta a mantenere un simpatico ordine al fine di produrre risultati di livello e di comprensibilità per tutti. Christian, operatore sempre attento ad aiutare famiglie e bambini disagiati allontanandoli dalla violenza. A lui va un grazie speciale. Ci mancherà il suo sorriso E infine, ma solo per galanteria verso le nostre amiche, il grande Prof Samuele Ciambriello che grazie al suo impegno costante è riuscito a realizzare progetti che danno opportunità diverse ai detenuti tentando il reinserimento. Grazie di esserci, grazie che ci siete e come siete. Noi forse da liberi non avremmo mai potuto immaginare che esistessero amici eccezionali, e speciali, come voi. Tutti i detenuti del progetto “Parole in libertà” (Dalla finestra del Carcere di Poggioreale) Napoli. Poggioreale, riapre la pizzeria dei detenuti Italia Oggi, 6 novembre 2023 La pizzeria Brigata Caterina della casa circondariale G. Salvia di Poggioreale ha riaperto i battenti martedì 24 ottobre. I detenuti potranno quindi acquistare le pizze prodotte dai due pizzaioli, detenuti anche loro, selezionati e assunti dal Consorzio Gesco unitamente a quelli che in qualità di rider provvederanno alle consegne. La pizzeria, si legge su gnewsonline, quotidiano del ministero della giustizia, è stata allestita grazie a fondi della Cassa delle ammende che nel 2019 ha finanziato arredi, attrezzature e un primo corso di qualificazione professionale per 15 detenuti. Grazie all’opera di sensibilizzazione della Chiesa di Napoli un secondo forno è stato donato da un imprenditore privato. La seconda edizione del progetto, al via in questi giorni oltre che con la riapertura della pizzeria anche con l’inizio dell’attività formativa, è stata realizzata con un finanziamento della Regione Campania nell’ambito del Programma operativo regionale &ndash Fondo sociale europeo 2014-2020, e affidata, con gara pubblica, al gruppo di imprese sociali Gesco in associazione temporanea d’impresa con l’Agenzia per il lavoro. Quattro quindi i detenuti assunti, oltre 100 pizze prodotte al giorno. Le attività didattiche per il rilascio della qualifica professionale di pizzaiolo riconosciuta dalla Regione Campania, hanno una durata di 650 ore e coinvolgono 20 detenuti di cui 12 percepiranno una borsa lavoro di un anno. Milano. “Tessere un’Impresa”, il quinto incontro dedicato all’economia carceraria comune.milano.it, 6 novembre 2023 Prosegue il ciclo di incontri promosso dal Comune di Milano e realizzato in collaborazione con il Consorzio VialedeiMille dedicato all’economia carceraria e in particolare, per il quinto appuntamento dal titolo ‘Tessere un’Impresa’, alle opportunità di sviluppo delle imprese ristrette nel settore del tessile e della sartoria. L’evento, gratuito e aperto ad addetti ai lavori, a imprese e a cittadini e cittadine su registrazione a questo link, si terrà domani, martedì 7 novembre, alle ore 18:00 proprio nella sede del Consorzio Vialeidemille (viale dei Mille, 1), costituito da cooperative sociali che impiegano detenuti negli istituti penitenziari di San Vittore, Opera e Bollate. Sono tanti i progetti nati nel settore del tessile e della sartoria con la finalità di inserimento al lavoro di persone detenute, ma solo pochi sono riusciti a trasformarsi in impresa e a resistere sul mercato. Partendo dalla testimonianza di esperienze di successo - tra cui la Cooperativa Catena in Movimento, la Cooperativa Siamo Qua (con il progetto Gomito a Gomito - laboratorio di sartoria nella sezione femminile della Casa Circondariale Dozza di Bologna) e il progetto Made in Carcere - durante l’incontro saranno approfondite le modalità di fare impresa e le opportunità di sviluppo e di rilancio delle imprese ristrette nel settore del tessile e della sartoria. L’evento rientra nel ciclo di ‘Incontri sull’economia carceraria’ promosso dall’Amministrazione nell’ambito delle attività a sostegno delle realtà imprenditoriali che operano nel campo dell’economia carceraria, dentro e fuori dagli istituti di pena milanesi, e del ‘Patto per il lavoro’. Ad oggi sono stati realizzati quattro incontri dedicati a differenti settori produttivi: la filiera produttiva del vino, della birra e delle bevande analcoliche, i servizi di ristorazione e catering, quello dedicato alla filiera di produzione e recupero di biciclette e quello sulla transizione energetica ed efficientamento degli istituti penitenziari. Napoli. Nel carcere di Poggioreale convegno sulla giustizia riparativa di Simona De Luca lanostravoce.info, 6 novembre 2023 L’ufficio diocesano della Pastorale Carceraria di Napoli, in collaborazione col Provveditorato Penitenziario della Campania e la Conferenza Volontariato e Giustizia Regionale ha organizzato il 10 novembre 2023: Restorative Justice, il volto umano della giustizia; un convegno sulla giustizia riparativa, rivolto agli operatori penitenziari e al volontariato carcerario, con inizio alle ore 9.30, che avrà luogo all’interno della Casa Circondariale Napoli “Poggioreale - Giuseppe Salvia”, alla via Nuova Poggioreale, 167. Dopo i saluti della dottoressa Lucia Castellano, provveditore delle carceri campane, del dottore Carlo Berdini, direttore dell’istituto penitenziario e di don Franco Esposito, direttore dell’Ufficio Diocesano della Pastorale Carceraria di Napoli, prenderanno parte all’incontro: Agnese Moro, figlia dello statista ucciso dalle brigate rosse e da sempre impegnata nel cammino riparativo con i colpevoli del sequestro e dell’omicidio di Aldo Moro; padre Guido Bertagna, gesuita, che da anni si occupa di giustizia riparativa, rivisitando il dolore degli anni di piombo del terrorismo; Patrizia Patrizi, docente ordinaria di psicologia sociale e giuridica presso l’università di Sassari, presidente del forum europeo sulla giustizia riparativa, autrice di vari saggi sulla “Restorative Justice”. Le conclusioni saranno affidate a monsignore Domenico Battaglia, arcivescovo metropolita di Napoli, che, insieme alla Caritas Italiana ha promosso un progetto sperimentale di formazione e sensibilizzazione alla giustizia riparativa per la diocesi di Napoli. Il convegno sarà moderato da Giuliana Covella, giornalista e autrice del libro “Il mostro ha gli occhi azzurri. il delitto di Ponticelli”. Un convegno all’interno dell’istituto penitenziario napoletano di Poggioreale, per riflettere sulla possibilità di riparare, dove al centro dell’interesse della giustizia vi è la “riparazione”: “Parlare di giustizia riparativa in un luogo dove si paga la pena dettata dalla giustizia punitiva, vuole essere un segno per dire che è possibile un’altra giustizia, non in contrapposizione a quella retributiva, ma una giustizia dal volto umano che coinvolga anche le vittime e la comunità in un percorso di riparazione e riconciliazione”, ha dichiarato don Franco Esposito, direttore della Pastorale Carceraria della Diocesi di Napoli. Sassari. Asinara, laboratorio di emozioni: “Per noi non è stato solo carcere” di Gianni Bazzoni La Nuova Sardegna, 6 novembre 2023 I racconti di chi ha vissuto per anni sull’isola in un luogo fuori dal mondo. Ascoltare e cogliere le emozioni. Quelle vere, trasmesse dalle persone che raccontano storie e fatti, che mettono in fila i ricordi e si caricano il peso del passato per regalare risposte che guardano al futuro. Spesso se ne parla, raramente si riesce a creare un confronto semplice, una sorta di esperimento senza barriere come è accaduto nella sede del Parco nazionale dell’Asinara dove si sono ritrovate un gruppo di persone che in quell’isola che mette insieme amore e odio, condanna e speranza, ambiente da contemplare e momenti vissuti tra dolore e tragedia, hanno trascorso una parentesi della loro vita. L’idea l’ha realizzata Carlo Hendel, ideatore del gruppo pubblico “Affetti dal mal d’Asinara”, una sorta di grande abbraccio che contiene quanti a vario titolo hanno vissuto o sono transitati sull’isola dell’Asinara e non sono più riusciti a togliersela dalla mente. Un primo passo, al quale ne seguiranno degli altri. Con un impegno chiaro: coinvolgere gradualmente tutte le persone, a cominciare da quelle che quasi mai hanno raccontato, quindi meno esposte anche dal punto di vista mediatico, capaci di proporre anche storie inedite. Il commissario straordinario del Parco nazionale Giancarlo Muntoni ha sposato il progetto-laboratorio: “Ascoltare le storie delle persone - ha detto nel saluto agli ospiti - aiuta a cogliere le emozioni e a capire la vita”. Sulla stessa linea il direttore del Parco nazionale Vittorio Gazale: “Apriamo un filone toccato sempre timidamente - afferma -. Per noi è motivo di emozione e di insegnamento. Vivere l’isola significa cogliere le magie: era da tempo che con Carlo Hendel volevamo fare questo esperimento: conservare per valorizzare e riannodare il filo fino ai giorni nostri”. Carlo Hendel, agronomo, ha trascorso un lungo periodo all’Asinara ai tempi del carcere. E non ha nascosto la commozione per l’apertura del laboratorio di emozioni che può regalare altri momenti. “Quello del carcere è solo un aspetto, l’ultimo prima del parco. Abbiamo capito che la gente ha grande interesse a conoscere la storia e le emozioni. Noi non vogliamo fare i reduci, solo utilizzare il passato e fare in modo che il futuro sia ancora migliore guardando i tanti vestiti dell’isola”. La sindaca Rita Vallebella, oggi avvocato e sindaca di Stintino non è nata ma è stata concepita all’Asinara. Racconta di “un mondo fuori dal mondo”. Ricorda le sue emozioni di bambina a Cala Reale. I sacchetti della spesa ricamati che arrivavano da Cala d’Oliva. Del cavallo con il detenuto in cassetta che portava i bambini da Campu Perdu alla scuola di Cala Reale. “Ho avuto un trauma quando mi hanno portata via dall’Asinara - dice - mi sono sentita strappata dalla mia terra. Ho provato terrore quando sono passata da una pluriclasse con pochi bambini a quella di Sassari con 30 alunni”. E poi Antonello Flumene, medico sassarese che all’Asinara c’è arrivato da giovanissimo dottore appena specializzato. “Fino all’ultimo lì - racconta - ero di guardia anche l’ultimo giorno che ha chiuso il carcere. Ho avuto un maestro come il dottor Vindice Silvetti che mi ha insegnato da subito come ci si comporta in una galera. Ci sono rimasto 15 anni e ne sono rimasto affascinato. Il mio viaggio è cominciato in autobus da Sassari fino al molo dell’Ancora di Stintino e da lì in gozzo fino a Fornelli. Mi aspettava un infermiere con 70 cartelle riferite ai detenuti tra le mani”. Quindi l’episodio mai dimenticato: “Mi dissero: dottore cammini sempre dalla parte del muro, mai davanti alle celle dove può essere afferrato da qualche detenuto. Il primo giorno fu segnato dal terrore: mi senti afferrare per il collo, restai paralizzato. Era un gigante: lei è dottore. Si, risposi. E quale squadra tifa? Io pensai, se sbaglio squadra sono morto. Inter, dissi a bassa voce. Quale? lui urlò. E io: Inter...Inter. Cominciò a baciarmi sulla testa e mollò la presa. Fu il mio battesimo in carcere che era stato orchestrato dalle guardie. Quando tornai a Sassari, all’edicola dell’Emiciclo comprai un poster dell’Inter e lo regalai a quel detenuto, era un killer condannato a diversi ergastoli. Quando uno dei detenuti mi prese in giro e disse che la laurea l’avevo presa regalando formaggi ai professori, lui intervenne senza che nessuno glielo avesse chiesto. Prese quel detenuto per l’orecchio e lo portò in ambulatorio: chiedi scusa al dottore, disse”. All’Asinara il dottor Flumene (pediatra) scoprì presto che si faceva di tutto: venne chiamato a fare il cesareo a una mucca che stava per partorire ed era rimasta ferita gravemente mentre saltava il muretto di cinta. Bisognava salvare il vitellino: “Te la senti? Mi dissero. Ma a una mucca? Andò bene, salvammo il vitellino”. Lucia Amato ha vissuto ed è cresciuta all’Asinara. Un filo che sancisce il legame con il passato: “Discendo da coloro che nel 1885 vennero allontanati dall’Asinara. A Cala d’Oliva avevamo anche il cinema”, ricorda. Rita Vona si considera una figlia dell’Asinara. Il suo è stato un lungo viaggio, da appena nata fino a 19 anni. “Ho imparato tutto sull’isola. Anche a fotografare utilizzando la reflex di mio padre”. É lei l’autrice del video “Il barattolo dei bottoni”: “Apparteneva a mia madre. Conteneva bottoni e tante cose che venivano riciclate per altri usi. All’Asinara non c’erano negozi e ogni giorno con ago e filo mia madre cuciva per 5 figli. Ricordo che si conservava tutto, anche un ago poteva essere riutilizzato. C’era un filo rosso che ci legava. Una comunità nella comunità. Non era solo il carcere, c’eravamo anche noi. Una convivenza stretta. Facevamo tutti la stessa vita”. Marilena Vitalone, oggi referente Pari opportunità della Regione Campania, è la figlia dell’allora comandante delle guardie - poi diventate polizia penitenziaria - Gian Leterio Vitalone, . E si porta dentro un carico di emozioni e pensieri. Racconta di quel trasferimento da Poggioreale a Roma, quando misero suo padre a scegliere fra tre sedi: Regina Coeli, Volterra e l’Asinara. “Lui la cercò sulla cartina l’Asinara: ah sta ngoppa alla Sardegna. E decise di partire in avanscoperta. Quando rientrò a Napoli ci disse: vi porto in villeggiatura, un primo soggiorno che durò 10 giorni. Arrivammo a bordo del Virtude e io dissi subito: non ci voglio stare qui”. Il suo ricordo dell’esperienza all’Asinara è segnato da una forte inclusione. Un’isola che considera come una borsa piuttosto che un abito: “È come una borsa che hai con te, e la conservi con cura quella borsa che un luogo così unico ti ha dato e che ti ha permesso di essere ciò che sei”. Infine Gianmaria Deriu. Uno che può raccontare di essersi fermato all’Asinara. Prima come agente della polizia penitenziaria e poi come collaboratore-volontario del Parco nazionale. “Posso dire che quando mi ci hanno mandato, in galera ho trovato la mia libertà. Mi dissero non ci andare quando ritirai l’assegnazione: “Non fa per te”. Nel mese di luglio del 1980 ci arrivai vestito di bianco, giovanissimo agente. A bordo della barca “Rosalba” c’era anche il cappellano don Giorgio Curreli. Sbarcai a Fornelli tutto impolverato”. Impatto durissimo, un riposo al mese. “Mi dissi: io qui non resisto. Il medico mi diede 30 giorni di riposo e una volta a casa me la presi con mia madre, artefice del mio arruolamento: È tutta colpa tua le dissi. Al rientro sull’isola mi destinarono in ufficio a Cala d’Oliva, mi ritrovai il mare come amico, come momento di svago”. “E lì sono cresciuto fino alla pensione nel 2012. Mi ha accolto il parco dove ho fatto tante cose, anche l’attore. Con il rispetto e l’attenzione che si deve a una parte di me e della mia vita. E oggi sono ancora qui, al servizio dell’Asinara, un’isola particolare, fantastica e ricca di emozioni che rappresenta un grande laboratorio di vita per tante persone”. “Un innocente assassino” di Margherita Altea, memoria di una vita di Ilaria Tirelli leurispes.it, 6 novembre 2023 “Un innocente assassino” è il racconto di una vita necessario ad un padre per testimoniare la propria versione alle sue figlie. Quel che resta all’innocente assassino è un ricordo nebuloso, ormai quasi del tutto cancellato dal carcere. Quella di Margherita Altea è una storia “familiare”, nata quasi per caso dal ritrovamento di un diario e alimentata dalla volontà di dare voce a chi non è riuscito a dimostrare la propria innocenza. Il carattere personale di questa storia si interseca indissolubilmente con quello che è, forse, il fine ultimo della scrittura: consegnare alla pagina una memoria che tramandandosi diventi imperitura, che testimoni una verità altrimenti inascoltata, sottraendo alla caducità del tempo l’esistenza stessa di un individuo che ha come unica arma di difesa la sua stessa scrittura. Un innocente assassino è il racconto di una vita, una storia intima e profonda, necessaria ad un padre per testimoniare la propria versione alle sue figlie, mai conosciute proprio a causa della reclusione: è il racconto di un errore giudiziario nel quale possiamo riconoscere molti altri casi di cronaca, dove non è la giustizia a fare il proprio corso ma l’invidia e il pregiudizio. La potenza narrativa di un inizio in medias res serve a calare immediatamente il lettore nel cuore degli avvenimenti: quella che ci si prefigura davanti è una cella di isolamento del carcere di Tempio Pausania sul finire del 1898. Il fatto saliente di questa storia è già accaduto e, in un certo senso, viene dato per assodato dall’autrice sia attraverso il titolo - l’innocente assassino di cui si parla non potrà che essere il nostro protagonista, Giovanni Antonio Oggiano - sia attraverso un prologo che poco spazio lascia all’immaginazione, restituendo la descrizione di un luogo, un carcere della Sardegna di fine secolo, che un lettore moderno sicuramente fatica ad immaginare: “Quattro mura strette e soffocanti, nessuna finestra […]. Nessun angolo o pertugio per sfuggire alla disumanità di quel luogo. Il soffitto troppo basso gli impediva di stare dritto”. Fin da bambino il piccolo Giovanni si trova ad affrontare un’esistenza difficile, a dover lottare per non essere sopraffatto dal più forte di turno che riconosce, in primis, nella figura del patrigno. Ma anche al di fuori delle mura domestiche il contesto sociale non è dei migliori: la Sardegna è, a quei tempi, una terra aspra, prettamente rurale, dove il bestiame e il raccolto rappresentano l’unica fonte di sostentamento familiare e dove la lite con un vicino può facilmente finire con un assassinio. Giovanni, però, nonostante il suo carattere impulsivo è molto amato ed aiutato nel corso delle sue vicissitudini; ha persino amici pronti a sacrificare la propria libertà - e, alla fine, la vita stessa - per proteggerlo e nasconderlo durante la latitanza. Il lettore viene accompagnato in questo arcaico mondo in modo semplice, lineare, soprattutto grazie ad una prosa fluida ed uno stile che risulta immediatamente familiare. Quello che tiene viva l’attenzione di chi legge spingendo a proseguire pagina dopo pagina è, senza dubbio, la curiosità, abilmente instillata dall’autrice fin dalle prime pagine: un omicidio è stato commesso, ma non sappiamo di chi, o come sia successo né, tantomeno, perché. Ed è proprio per scoprire la verità che la storia si legge tutta d’un fiato. I due piani narrativi del presente e del passato si intrecciano e si rincorrono continuamente, manifestando in maniera ossimorica la situazione stessa del protagonista e, allo stesso tempo, creando un complessivo effetto di suspence: la reclusione e l’immobilità del presente si contrappongono alla vivacità e alla vitalità del ricordo passato, alimentando in questo modo quel senso di nostalgica malinconia nei confronti di una vita e di una libertà ormai perdute. Il gioco dei piani narrativi culmina nella seconda parte del libro, ambientata esclusivamente nel carcere: il protagonista è ormai stato arrestato e il racconto si dirada sempre di più per far spazio a stralci del diario stesso che conferiscono una rapidità ancora maggiore alla storia. Il finale coincide con l’ultimo giorno del protagonista nel carcere di Pianosa. Non ci viene detto come è stato per il protagonista riabbracciare moglie e figlie e cercare di recuperare una normalità a lungo agognata. Quel che resta di questa storia è un ricordo nebuloso, ormai quasi del tutto cancellato dal carcere, una nostalgia per gli anni persi e per i cari perduti nel corso del tempo e, allo stesso tempo, una connessione fisica con la propria terra natìa: “Mi restano immagini sbiadite, simili a sogni. Mi restano gli odori, i colori della Gallura. […] Domani torno a respirare la tua aria, mondo! Inutile crucciarsi di quello che è stato, rimpiangere ciò che è perso. Inutile. Questa notte durata anni si è quasi conclusa e io mi sveglierò solo più vecchio”. Antisemitismo, la peste che ritorna in Italia di Salvatore Settis La Stampa, 6 novembre 2023 Sta rinascendo in Italia la peste dell’antisemitismo, che credevamo estinta come un virus sconfitto dalla medicina. Chi ha profanato a Roma le pietre d’inciampo non può credere che delle decisioni di Netanyahu siano corresponsabili Michele, Giacomo ed Eugenio Spizzichino o Aurelio Spagnoletto, assassinati ad Auschwitz nel 1944. Quel gesto può avere un solo significato: chi l’ha compiuto aderisce oggi al verbo nazi-fascista di ieri, e usa cinicamente gli scontri di Gaza per rilanciare lo sterminio non degli israeliani, ma degli ebrei d’ogni tempo. Offende perfino i terroristi di Hamas, perché considera le loro incursioni, le morti e la cattura degli ostaggi come innescati non da aspri conflitti territoriali, ma dal proposito di perseguire il progetto nazista di sterminio totale degli ebrei. Si insinua così nelle coscienze più deboli non solo l’erronea convinzione che tutti gli israeliani condividano le politiche di Netanyahu (che ha invece moltissimi oppositori), ma anche la pretesa equivalenza fra “ebreo” per discendenza e religione anche se cittadino italiano e “israeliano” per cittadinanza (come se Israele non avesse almeno due milioni di cittadini non-ebrei, in gran parte palestinesi). Ma l’oltraggio alle pietre d’inciampo e simili indizi non si possono liquidare come gesti estemporanei dettati dall’ignoranza, perché mai e poi mai l’ignoranza può giungere al punto di attribuire le politiche di Israele oggi a chi fu trucidato ottant’anni fa. No, quello di oggi non è un “nuovo antisemitismo”, è l’antisemitismo di sempre, identico a se stesso. Quello che accusava gli ebrei di ogni perfidia confezionando perfidamente a loro danno un falso smaccato (i famigerati Protocolli dei Savi di Sion). Quello che esplose in Italia quando Mussolini scoprì di essere ariano come Hitler e impose a un’Italia servile le infami leggi del 1938. Quello di una rivista come Difesa della razza, che ebbe tra i suoi artefici Giorgio Almirante, ancor oggi spirito-guida di una destra impenitente che, al riparo di una sbandierata distanza generazionale, ha saputo trar profitto dall’inerzia di quel che fu la sinistra per insediarsi al governo. Già, le generazioni. A chi abbia oggi più di sessant’anni non c’è bisogno di spiegare quel che fu la Shoah: e chi pur sapendolo venera i busti e gli scritti del Duce-che-fu dovrebbe avere il coraggio di sventolare fasci e svastiche, e non bugiarde professioni di democrazia. Mio padre, capitano del Genio, prigioniero venti mesi nel lager di Wietzendorf per non aver aderito alla Repubblica di Salò, fu liberato dalle truppe inglesi e trasferito al lager di Bergen-Belsen, dove per un giorno gli affidarono la custodia di una baracca piena di scheletrici ebrei sulla soglia della morte. Già da bambini, raccontò a mio fratello e a me quel che con i suoi occhi aveva visto, e lo racconto ora io ai miei figli. Ma le nuove generazioni non hanno nel proprio Dna né l’immediata memoria degli eventi né altre difese immunitarie. Perfino il senso ultimo della parola “genocidio” si è diluito nelle coscienze, anche per i troppi eccidi che vediamo compiersi nel mondo. Eppure nessuno di essi, nemmeno il massacro degli armeni nel morente impero ottomano, condivide con la Shoah due dati che la caratterizzano: una lunghissima storia alle spalle (l’antisemitismo in Europa ha molti secoli di storia) e lo scudo di una giustificazione pseudo-scientifica fornita da compiacenti medici, storici, antropologi. L’esame di coscienza della Germania in ginocchio, divisa e ridotta in rovine, stentò a decollare ma fu poi profondo e radicale. Lo stesso non può dirsi dell’Italia, che tende ad auto-assolversi di quei delitti, come anche dei misfatti perpetrati nelle sue sfortunate colonie. La mitologia mendace degli “italiani brava gente” finisce per coprire anche i più scellerati aguzzini. Nessuno di chi scriveva sulla Difesa della razza ha pagato per quella colpa imperdonabile: né il suo direttore Telesio Interlandi, prontamente amnistiato, né Almirante che ne era redattore, né collaboratori come il medico Nicola Pende, fautore di una “Bonifica umana” eugenetica. E nessuna pena ha scontato il francescano Agostino Gemelli, fondatore e rettore dell’Università Cattolica, secondo cui (1939) nelle leggi razziali “vediamo attuarsi quella terribile sentenza che il popolo deicida ha chiesto su di sé e per la quale va ramingo per il mondo, incapace di trovare la pace di una patria”. Impossibile sfogliare l’enorme dossier di simili impunità. Ma quale sarà mai la medicina per sconfiggere il virus di un antisemitismo mai morto, che ora rialza la testa? Le Giornate della memoria e le gite ai lager, ha ragione Lucetta Scaraffia (La Stampa, 3 novembre), non bastano a orientare le coscienze dei più giovani. E nemmeno i libri di storia, nemmeno la condanna postuma di qualche gerarca reso inoffensivo dalla morte. Meno che mai “la retorica che accompagna fatalmente le commemorazioni, le stesse parole, sempre fatalmente le stesse, ripetute da rappresentanti del potere costituito” (Scaraffia). Innalzando l’immane tragedia della Shoah sul piedistallo di un evento irripetibile, materia di celebrazione e in qualche modo fuori dalla storia, stiamo forse creando una distanza eccessiva non tanto fra noi vivi e quei milioni di vittime innocenti, ma tra le nuove generazioni e il loro futuro. ““Mai dimenticare” non può significare semplicemente “ricordare sempre”, perché la memoria si è dimostrata uno strumento rozzo e non abbastanza ampio. La memoria può intrappolare i suoi seguaci in un circolo vizioso. Scatena a sua volta una logica omicida”: lo scrive Linda Kinstler In un libro recentissimo, Il contrario dell’oblio (Einaudi), dopo aver indagato - anche nella propria famiglia - la sinistra pista delle brigate della morte al servizio dei nazisti in Lettonia. Il contrario dell’oblio non è la memoria, è la giustizia (Yerushalmi), una giustizia bifronte rivolta tanto al passato quanto al presente. In nome del futuro. In Italia dovremmo saper combattere l’oblio mediante la confessione delle colpe di chi, fra i vivi, ha professato una fede fascista e razzista, e troppo facilmente si auto-concede la patente di democrazia col misero argomento che quelle cose le diceva cinque o dieci anni fa, e ora, sulla sua comoda poltrona (para)governativa, ha cambiato idea. Spieghi come mai coltivava quei pensieri, e da quando e perché non è più così. Ci aiuti a disfarci di quegli orrori. Nessuno tocchi Caino, è vero; ma tutti ricordino che ha ucciso il fratello e potrebbe ucciderne altri. Il solo vero esorcismo della violenza che incombe è saperla fermare prima che si scateni. La discriminazione dei rom a scuola continua ancora oggi di Marica Fantauzzi Il Domani, 6 novembre 2023 La storia della discriminazione dei rom è anche una storia di una ingiustizia e discriminazione a scuola. Da sempre si è pensato di isolare le comunità rom, come se fossero “speciali”. Oggi questo continua a avvenire in modo informale: due terzi degli studenti rom non prendono la licenza media. Nel giugno del 2018, mentre Matteo Salvini e Giorgia Meloni chiedevano misure idonee a risolvere una presunta “questione nomadi” sul territorio italiano, alcuni studenti iscritti al Centro di istruzione per adulti di Roma, affrontavano il loro esame di terza media. Fra questi, molti erano di origine rom e vivevano nei campi, campi istituzionali - come si dice - regolamentati tuttora dall’amministrazione capitolina. La storia delle comunità Romanes in Italia è, tra le altre, anche la storia dei rapporti intercorsi fra i minori di quella comunità e le istituzioni scolastiche italiane, una storia di discriminazione e sofferenze. A partire da un equivoco semantico, brutalmente sintetizzato da Meloni stessa (“se sono nomadi, devono nomadare”), che vede nel nomadismo un tratto culturale imprescindibile di quelle comunità. Del resto, fino al 2015, nelle rilevazioni del ministero dell’Istruzione, i bambini italiani di origine rom figurano all’interno della sezione alunni nomadi. Una categoria omogenea? La tendenza secolare dell’autorità pubblica, anche in Europa, considerare i rom come una categoria omogenea, accomunata essenzialmente da tratti quali l’antisocialità, l’extra-legalità e il nomadismo, ha avuto una serie di conseguenze anche sul piano educativo. Dal XVII secolo in poi le politiche puramente repressive degli Stati nazionali nei confronti dei gruppi rom presenti nel continente si alternarono a politiche di assimilazione forzata rivolte ai minori rom. Nel 1782 fu promulgato il De regulatione zinganorum, con cui Giuseppe II d’Austria volle “risanare i costumi dei minori rom”, che consentì l’allontanamento dei minori dai propri genitori sin dal quarto anno di età. Secondo il ricercatore Luca Bravi fu proprio nel secolo illuminato che si posero le basi del concetto di asocialità zingara: “L’educazione di stato si rivelò un nodo fondamentale nel passaggio verso la persecuzione di rom e sinti sia nel nazismo che nel fascismo italiano”. Dal 1928 - anno in cui Mussolini dichiarò “ebrei e zingari spie dello Stato italiano” - venne avviata la deportazione dei gruppi rom nei campi. Tra le varie testimonianze raccolte da Bravi, c’è quella proveniente da un’area di internamento esclusivamente per rom e sinti nella cittadina di Agnone, in Molise. Creata dentro un ex-convento, venivano ammassate decine di famiglie rom. Il direttore del campo, Guglielmo Casale, aveva previsto l’istituzione di una scuola per “rieducare alla disciplina e alla fede nel Duce” i bambini rom. Il campo di Agnone chiuderà con la firma dell’armistizio del settembre del 1943. Se le migrazioni del popolo rom erano state nei secoli spiegate da fattori “interni” quali la spinta al nomadismo, una straordinaria capacità di adattamento e mestieri itineranti, gli eventi catastrofici dopo la Seconda guerra mondiale spinsero questi popoli a nuove, inevitabili, migrazioni. Sui numeri dei rom in Europa in quel periodo non si hanno stime certe, si parla di 200-280mila Rom che si sono spostati da est e ovest, in particolare in Germania, Austria e Italia. In Italia l’universo delle comunità rom si fa più ampio e variegato. Quando si fa riferimento alla “recente” migrazione rom si parla dei gruppi scappati dalla dissoluzione dell’ex Jugoslavia. Accanto a questi, vi sono anche i rom romeni che, in quegli stessi anni (1990-1995), si stabilirono in Italia. Le classi speciali - Durante le prime regolamentazioni delle aree-sosta in diverse regioni d’Italia, l’esperienza delle classi speciali ideate da Opera nomadi con il Miur, denominate classi Lacio Drom, videro i minori rom accedere a un’istruzione separata e “speciale” a partire dagli anni Sessanta. La missione educativa nei confronti dei bambini rom fu assunta in toto dall’associazione e, come scrivono Luca Bravi e Nando Sigona, si concentrò ben al di là della “semplice” scolarizzazione. Il disciplinamento dei centri di sosta, secondo i volontari dell’Associazione avrebbe permesso anche la possibilità di orientare positivamente una cultura dove “i condizionamenti tradizionali del gruppo, quali il sesso, il culto dei morti, la religione, rendono difficile l’evoluzione dello zingaro e la sua maturazione sociale. (…) A causa della sua cultura lo zingaro è in ritardo, è un bambino che deve essere aiutato a crescere, a recuperare il suo gap”. Le classi Lacio Drom rimasero attive fino agli anni Ottanta e fino agli 2000 in maniera informale, quando, una nuova visione interculturale favorì l’integrazione e l’espletamento della scuola dell’obbligo, a condizioni eguali rispetto agli altri bambini. Le convenzioni scolastiche con l’Opera nomadi non vennero più rinnovate. Le conseguenze di quella tendenza pedagogica alla “deculturazione” ebbero effetti duraturi anche all’interno della scuola pubblica. Sergio Bontempelli, nel suo recente volume I Rom. Una storia chiarisce bene come le culture dei rom non erano - né sono - semplicemente un “deposito di tradizioni ancestrali: si sono modificate nel tempo, adattandosi ai contesti e alle circostanze. La tesi della “deculturazione” ridefiniva in termini etnici un problema che era soprattutto sociale”. Disuguaglianze - A oggi, rispetto all’epoca non così lontana delle classi speciali, molto è cambiato. La maggior parte dei cittadini di origine rom in Italia non vive più in aree-sosta o campi, ma in abitazioni convenzionali e l’esclusione de iure a cui bambini e bambine erano sottoposte a scuola è, anche se con colpevole ritardo, stata abolita. Al netto di ciò, le disuguaglianze in termini di accesso ai diritti fondamentali persistono in maniera preoccupante, soprattutto per chi è costretto a vivere in condizioni abitative precarie e in campi istituzionalizzati già più volte messi sotto accusa dall’Unione europea. Dall’ultimo rapporto dell’Associazione 21 luglio, sappiamo che sono circa 13mila persone su una popolazione che approssimativamente si aggira attorno ai 180mila. E, come è sempre avvenuto nella storia, anche oggi l’accesso alla scuola è condizionato dai luoghi dell’abitare. Vivere in un campo o in un quartiere isolato, progettato dall’amministrazione come luogo etnicamente identificato e identificabile ha, tra i vari costi sociali, anche quello di ostacolare una qualsiasi continuità scolastica. Secondo uno degli ultimi rapporti realizzato dall’Istituto Innocenti per il Miur, il 68 per cento dei bambini e delle bambine di origine rom lascia prematuramente la scuola e solo il 18 per cento raggiunge i livelli più alti di istruzione. Alle medie questo strappo si fa più evidente: il 65 per cento dei minori non conclude il ciclo. Ascoltando la testimonianza di Stefania Bevilacqua, studentessa universitaria calabrese di origine rom, che ha vissuto tutta la sua infanzia in un campo di Cosenza, emergono due ordini di problemi: il primo è sostanzialmente politico e riguarda la progettazione di uno spazio urbano, o per meglio dire extra-urbano, isolato ed escludente, abitato solo da alcune comunità. Questo porta centinaia di bambini a vivere lontano dai servizi essenziali, dal tessuto cittadino e, quindi, dai propri possibili compagni di scuola. Questo accade in molte regioni italiane tra cui il Lazio che detiene il numero maggiore di campi formalmente progettati dalle diverse amministrazioni comunali. Accorgersi - L’altro problema è di ordine formativo e investe la scuola italiana nella sua incapacità di - cito la ricercatrice Silvia Carbone - “accorgersi dei minori rom”. Bevilacqua racconta come da un lato, molte famiglie rom in Calabria abbiano paura di mandare i propri figli a scuola a causa di continue e persistenti forme di discriminazione e dall’altro molti docenti finiscano per richiedere una visita specialistica poiché si riscontrerebbe una qualche forma di disabilità nel minore: “Ma la verità è che questi bambini non ne hanno bisogno e che le difficoltà che hanno a esprimersi, nei primi anni scolastici, derivano piuttosto dal fatto che la loro esistenza si svolga esclusivamente nel campo e la loro lingua a casa sia soprattutto il romanès o il dialetto locale”. E poiché è proprio la scuola il luogo dove può avvenire una contaminazione positiva e rigenerativa, allora è bene che i dirigenti scolastici e il corpo docente stesso siano informati e formati in maniera adeguata. Questa è la fotografia di un diritto allo studio tutt’ora frammentato e condizionato dal peso di una storia che fatica a cedere il passo al presente. Un presente fatto ancora di ghetti e scelte politiche classiste e xenofobe, e di bambine e bambini che vorrebbero, semplicemente, andare a scuola. Da Eva a Rosa Parks, il lungo cammino della liberazione femminile di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 6 novembre 2023 La battaglia per liberare se stesse ha portato le donne a porre il problema universale del potere, simbolico e costituito, la messa in discussione delle leggi e della tirannia dentro e oltre il femminismo. La prima disobbediente della Storia è semplicemente la prima donna di cui si ha notizia: Eva, o più precisamente H’aWaH, il nome palindromo che nella Genesi viene assegnato alla madre dell’umanità. Eva la “traditrice” che si lascia sedurre dal demonio, assapora il frutto del peccato nel giardino dell’Eden, dividendo la mela con il compagno e condannando così il genere umano al dolore e alla sofferenza. Eva la suddita, creazione secondaria e posteriore all’uomo, il “secondo sesso” nato dalla costola di Adamo addormentato e per questo di natura inferiore e costretta a vivere all’ombra del maschio, nell’ordine biologico come in quello sociale. Ma anche la donna responsabile di tutti i nostri mali, travolta dalla curiosità che le fa smarrire saggezza e ragione, che cede alla tentazione satanica e diventa sua volta infida tentatrice. La porta del Diavolo parafrasando Paolo di Tarso. È l’interpretazione letterale e doppiamente misogina che ne danno le religioni del Libro, sia dal punto di vista della creazione e che da quello della “caduta” la quale per millenni ha giustificato e sostanziato un sistema che, a ogni latitudine, ha consegnato all’uomo il monopolio del potere e della forza. Dall’antichità fino ai nostri giorni. Ma in ogni mito coesiste una stratificazione di significati non univoci e persino il racconto biblico del nostro paradiso perduto può essere interpretato al rovescio, attraverso estrapolazioni meno dogmatiche e facendo parlare un po’ l’inconscio delle Scritture. Dopo aver colto il frutto proibito Eva fa infuriare il Signore, destinando il suo compagno a “lavorare con sudore” e lei stessa a “partorire con dolore”, ma quella condanna è in fondo ciò che ci ha resi completamente umani, che ci ha scaraventati lontani dall’Eden per realizzare la nostra irriducibile natura. Già negli anni sessanta la francofona Scuola biblica e archeologica di Gerusalemme vede nella disobbedienza di Eva un tentativo di appropriarsi della ragione, la mela viene colta dall’albero della conoscenza “del bene e del male”, laddove bene e male sono una metonimia per indicare la totalità dello scibile e la mela un oggetto “desiderabile per acquisire l’intelletto”. Non si tratta di curiosità malsana e morbosa ma del desiderio di conoscere e comprendere, che forma e completa l’essere umano e che è anch’essa una finalità della creazione. Quel gesto di ribellione, quella “voglia di conoscenza” tutta femminile, è il prologo incompiuto di una liberazione che ha iniziato a prendere corpo soltanto nell’età moderna ma che nel corso della Storia si è incarnata nel coraggio e nell’intelligenza di donne “disobbedienti” che hanno sfidato i poteri maschili spesso mettendoli in crisi o comunque svelandone l’arbitrio e la prevaricazione. Non un album di figurine virtuose, un catalogo inerte di santini, ma una schiera indomita di ribelli che hanno tracciato la linea prima immaginaria, poi reale dell’emancipazione. Pagando spesso con un tributo pesantissimo l’aspirazione a voler vivere e realizzare i propri talenti come gli uomini. Prendiamo il barbaro omicidio della filosofa e matematica Ipazia (le vennero cavati gli occhi, il corpo tagliato a metà e le ceneri sparse in tutta la città), assassinata dai cristiani di Alessandria perché invidiosi e spaventati dalla sua eloquenza, dalla sua passione per l’insegnamento e dal suo libero pensiero. L’uccisione di Ipazia ci porta nel cuore del fanatismo religioso che si costituisce come sistema di dominio tetragono e interamente maschile, la ferocia con cui venne fatta a pezzi traduce la paura che ogni regime ha della libertà scoprendo le fragili fondamenta filosofiche della discriminazione. La battaglia per liberare se stesse dall’oppressione ha portato le donne a porre il problema universale del potere, simbolico e costituito, la messa in discussione delle leggi e della tirannia, dentro e oltre il femminismo. È il caso di Antigone, la protagonista della tragedia di Sofocle che disubbidisce al re di Tebe Creonte che aveva negato la sepoltura al fratello Polinice e affronta il suo drammatico destino accusando il tiranno di violare le leggi non scritte della polis ideate dagli dei, di non essere amato ma solamente temuto dai sudditi: “Tutti costoro direbbero di approvare il mio atto, se la paura non chiudesse loro la lingua. Ma la tirannide, fra molti altri vantaggi, ha anche questo, che le è lecito fare e dire quel che vuole”. Come Eva nell’ordine sociale giudeo-cristiano, anche Antigone è un archetipo della disobbedienza femminile nel mondo pagano, una figura che dialoga direttamente con la contemporaneità, tratteggiando la moderna idea di democrazia e di diritto, senza dubbio Antigone è un archetipo femminista tanto che Sofocle descrive così lo smarrimento di Creonte di fronte a una donna così tenace e coraggiosa, facendogli negare la sua stessa natura: “Costei è un uomo se quest’audacia le rimarrà impunita”, ma allo stesso tempo la sua critica dell’autorità e del dispotismo tocca il fondamento universale dell’oppressione lo schema gerarchico dal quale nasce anche il patriarcato. Ci sono voluti più di due millenni perché le nostre società mettessero in discussione la dominazione maschile e anche nei periodi più luminosi, dal Rinascimento all’Illuminismo, la conquista dei diritti ha sempre visto l’esclusione delle donne (pensiamo al diritto di voto negato ovunque fino al XX Secolo), cadevano i re e l’aristocrazia, cadevano i privilegi dell’ancien regime spazzati via dalle rivoluzioni, ma il timone rimaneva saldamente nelle mani degli uomini. Anzi, quando qualcuna ha provato a strapparlo quel timone, la rappresaglia è stata feroce. Come nel caso della drammaturga e intellettuale francese Olympe de Gouges che in pieno fervore rivoluzionario (1791) scrisse la Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina in cui affermava la totale uguaglianza politica e sociale tra l’uomo e la donna e addirittura il diritto al divorzio. L’égalité non era forse uno dei pilastri della Rivoluzione giacobina assieme alla libertà e alla fratellanza? Non la pensava così Robespierre che non solo rigettò con sprezzo la dichiarazione, ma fece chiudere tutti i club e le associazioni femminili. Poiché de Gouges aveva più volte criticato gli eccessi del Terrore, la furia cannibale con cui i giacobini si stavano trucidando tra di loro, quella Rivoluzione che finisce per “mangiare i suoi figli” come disse un’altra donna celebre di quel periodo, Charlotte Corday. La reazione di Robespierre e soprattutto di Marat (il compilatore compulsivo delle liste di proscrizione dei controrivoluzionari) fu di spedire Olympe de Gouges direttamente alla ghigliottina “per aver dimenticato le virtù che convengono al suo sesso ed essersi immischiata nelle cose della Repubblica”. È stato un cammino penoso quello che ha portato all’emancipazione, le donne hanno infatti dovuto lottare contro i loro nemici storici ma anche diffidarsi degli amici, compagni di viaggio nello sfidare l’oppressione politica ed economica e nel costruire la democrazia o nell’inseguire utopie socialiste ma ben poco disposti a condividere il potere, anche negli ambienti più illuminati e libertari. La lotta delle suffragette inglesi guidate alla fine del Settecento da Mary Wollstonecraft per ottenere il diritto di voto è stata luminosa ma spesso solitaria se si esclude qualche uomo di modernissime vedute come l’economista e filosofo John Stuart Mill, grande sostenitore del suffragio universale. Bisogna infatti aspettare il 1918 perché il governo di Londra autorizzi il voto femminile alle elezioni nazionali. Insomma viva le donne, ma che rimangano “al posto loro”. Una che al suo posto non ci è saputa e non ci è voluta proprio stare è Rosa Parks, il simbolo della lotta contro la segregazione e il razzismo della comunità afroamericana negli Stati Uniti, non una femminista in senso stretto. Montgomery, Alabama, primo dicembre 1955, Parks stremata da una giornata di duro lavoro si rifiuta di cedere il suo posto sull’autobus a un bianco che le ordina di alzarsi. Lo fa ben due volte, con educazione e fermezza. L’autista ferma l’autobus, si avvicina alla donna e le ripete di lasciare il posto e al terzo rifiuto chiama la polizia che l’arresta immediatamente. Un gesto che poteva passare inosservato nella società razzista del sud degli Usa ma che invece acceso la scintilla del movimento per i diritti civili dei neri americani. La sera stessa migliaia di persone guidate dal giovane reverendo Martin Luther King scendono in piazza per protestare: nella sua comunità Rosa non era una tipa qualunque ma una protagonista della sua comunità, una networker, istruite e politicamente impegnata, Parks aveva un talento fuori dal comune nel costruire reti e relazioni e godeva di grandissima stima, anche tra i pochissimi bianchi non razzisti che aveva conosciuto, tra i quali Clifford Durr, l’avvocato “liberal” che pagò la cauzione e la riportò a casa il giorno dopo l’arresto. Nella città di Montgomery viene organizzato un boicottaggio dei mezzi pubblici che durerà oltre un anno, fino a quando le leggi sulla segregazione saranno abolite dal Congresso: i posti riservati sugli autobus non ci saranno più mentre le scuole e le università aprono le porte ai giovani afroamericani. Ci vorranno ancora decenni per raggiungere la piena uguaglianza di diritti (ma non quella economica) e ancora oggi nel cuore di tenebra dell’America risuonano le eco della segregazione (basta pensare ala violenza della polizia, una piaga tutt’altro che debellata), ma il solco era stato tracciato. Il piccolo grande gesto di Rosa Parks è una rivincita della Storia che affida alla voce di una donna il compito di riscattare i diritti di tutti e di disegnare un modello potente e non violento di disobbedienza civile. Come Antigone, anche Parks si è ribellata all’ingiustizia delle leggi, ma invece di trovare la morte, ha conquistato la libertà, per se stessa e per tutti noi. Medio Oriente. Yocheved Lifshitz, quel “folle” gesto di pace e il sogno tradito di un’armonia tra arabi e ebrei di Francesca Spasiano Il Dubbio, 6 novembre 2023 L’85enne liberata da hamas che stringe la mano al suo carceriere è tra gli attivisti che ancora sperano in una società condivisa. Le immagini della guerra che ogni giorno entrano nei nostri salotti ci sconvolgono e ci indignano. Qualche volta ci lasciano indifferenti, assuefatti di fronte all’ennesimo orrore che scorre via rapido tra i titoli del tg. Ma quasi mai succede che un’immagine ci restituisca fiducia e speranza, come invece è successo quando abbiamo visto un’anziana signora afferrare la mano del suo carceriere. La foto ha fatto rapidamente il giro del mondo: ritrae Yocheved Lifshitz, 85 anni, uno dei due ostaggi di Hamas che ha lasciato la Striscia di Gaza nella notte del 24 ottobre. Suo marito Oded, 83 anni, è ancora in quella ragnatela di cunicoli dove il movimento islamista trattiene gli oltre 200 civili israeliani rapiti durante il massacro del 7 ottobre. Yocheved Lifshitz lo racconterà di lì a breve da un ospedale di Tel Aviv, quell’inferno al quale temeva di non sopravvivere. Ma dopo due settimane passate negli abissi di Gaza, l’orrore della guerra non ha ancora spazzato via il desiderio di pace. E allora Yocheved si volta un’ultima volta verso l’uomo che l’ha appena consegnata nelle mani della Croce rossa internazionale e gli dice: “Shalom”. Benda verde in testa e fucile in spalla, lui accetta volentieri la stretta. È sorpreso oppure un po’ compiaciuto? Non possiamo saperlo: è impossibile indovinare l’espressione di quel miliziano col volto interamente coperto. Ma sappiamo che una donna, reduce da una delle esperienze più traumatiche che si possano immaginare, è riuscita con un semplice gesto a tenerci incollati davanti allo schermo per incassare la lezione che aveva da darci. Un messaggio di pace che Yocheved Lifshitz coltivava insieme a suo marito da sempre - lui giornalista, lei appassionata di fotografia -, come attivisti per i diritti umani impegnati in quel territorio nel sud di Israele colpito così duramente da Hamas. La mattina del 7 ottobre si trovavano nella loro casa nel Kibbutz Nir Oz, uno dei luoghi presi d’assalto dai miliziani. Che hanno “fatto saltare in aria la recinzione elettronica, quella recinzione speciale la cui costruzione è costata 2,5 miliardi di dollari ma non è servita a nulla”, spiega la donna. “Hanno assalito le nostre case, picchiato la gente, preso ostaggi, non facevano distinzione tra giovani e anziani”, racconta ancora Yocheved ai giornalisti riuniti davanti all’ospedale Ichilov di Tel Aviv. È su una sedie a rotelle, visibilmente provata per quell’incubo che ora rivive attraverso i ricordi, ma le sue parole tradotte in inglese dalla figlia accorsa in fretta e furia dalla Gran Bretagna lasciano sbigottiti l’intera platea. Chi si aspettava rabbia e vendetta ha fatto male i suoi conti. “Ho attraversato un inferno al quale non pensavo che sarei sopravvissuta. Non pensavo che saremmo arrivati fin qui”, dice Yocheved. È stata caricata su una motocicletta e colpita con dei bastoni di legno durante il trasferimento verso la Striscia. Le costole le fanno così male che non riesce a respirare. Ma la “mostrificazione del nemico” che un po’ tutti erano pronti ad accogliere, non è mai arrivata. “Abbiamo camminato sottoterra per chilometri, per due o tre ore, in una ragnatela di tunnel, fino a raggiungere una grande sala, dove eravamo un gruppo di 25 persone e ci hanno separato in base al kibbutz di provenienza. Ci hanno detto che credono nel Corano, che non ci avrebbero fatto del male e che avremmo vissuto come loro nei tunnel. Poi un medico è arrivato e ci ha visitato a giorni alterni”. E ancora: “Eravamo sdraiati su materassi, si assicuravano che tutto fosse igienico, che non ci ammalassimo. Si assicuravano che mangiassimo, lo stesso cibo che mangiavano loro: pita con formaggio bianco e cetrioli. Ci hanno trattato con gentilezza e si sono presi cura di noi”. Insomma, dice Yocheved, ci hanno trattato bene. Ma un fatto è certo: quelle immagini le torneranno in mente per sempre. Insieme al dolore per la comunità israeliana che viveva intorno alla Striscia e che è stata “abbandonata” a se stessa: “Tre settimane fa, masse di gente sono arrivate alla recinzione” al confine ma “le forze armate non hanno preso la cosa sul serio. Siamo stati lasciati a noi stessi. Eravamo il capro espiatorio”, accusa la donna. La cui testimonianza non è passata inosservata: nei giorni a seguire le parole e quel gesto riservato a chi l’aveva rapita hanno sollevato più di un interrogativo tra gli israeliani. La figlia di Yocheved spiega alla stampa che quel miliziano a cui sua madre ha stretto la mano era un paramedico che si era preso cura di lei. Ma “come si può attribuire gentilezza a un gruppo che ha appena brutalmente spazzato via gran parte del kibbutz, Nir Oz, che era la sua casa? Potrebbe essere la sindrome di Stoccolma da manuale? O forse ha sentito il bisogno di parlare bene dei suoi rapitori, dato che stanno ancora trattenendo suo marito?”, si chiede Linda Dayan su Haaretz. “Lifshitz non sta dimostrando che Hamas sia umano - scrive la giornalista -, sta dimostrando di esserlo lei”. Ma la storia di Yocheved racconta qualcosa di più. È la storia di una donna che da anni aiuta i palestinesi di Gaza feriti e malati a lasciare la Striscia per essere curati negli ospedali israeliani. Li accompagnava lei stessa come faceva anche Vivian Silver, l’attivista italo-canadese di 74 anni dispersa dal 7 ottobre. La sua famiglia teme che sia finita tra gli ostaggi di Hamas, rapita dal Kibbutz Bèeri dove viveva dagli anni ‘90. Lì al confine, tra le comunità di attivisti che hanno deciso di dedicare la propria vita alla costruzione di una società condivisa tra ebrei e arabi. Lì dove quel sogno ora sembra essersi spezzato per sempre. Iran. Nasrin Sotoudeh, l’avvocata che non tace di fronte alla violenza degli ayatollah di Simona Musco Il Dubbio, 6 novembre 2023 Se i diritti umani in Iran avessero un volto e un nome sarebbero quelli di Nasrin Sotoudeh, avvocata che ha messo la sua vita e il suo corpo al servizio della difesa del suo popolo. “Per me, rimanere in silenzio di fronte all’ingiustizia non è un’opzione. In realtà, trovo più difficile sopportare le ingiustizie sociali che la prigione”, ha spiegato parlando di sé. Accusata di “propaganda sovversiva” e di “aver incoraggiato la corruzione e la dissolutezza” - ha difeso le donne che si sono rifiutate di portare il velo -, l’attivista è stata condannata nel 2018 a 138 frustate e 33 anni e mezzo di carcere, dei quali dovrà scontarne almeno 12. Un processo che si è svolto in sua assenza e contro il quale il Consiglio nazionale forense italiano ha alzato la voce, attirando l’attenzione del mondo sulla sistematica violazione dei diritti umani in Iran e sul sacrificio degli avvocati a tutela dei diritti. Già condannata nel 2011 a sei anni di reclusione per propaganda e attentato alla sicurezza dello Stato, l’attivista era stata rilasciata nel 2013 dopo uno sciopero della fame di 50 giorni, che ha suscitato indignazione in tutto il mondo. Poi era tornata in prigione, salvo ottenere un permesso per ragioni sanitarie. Le continue minacce di farla tornare di nuovo in carcere non l’hanno fatta desistere: Sotoudeh ha infatti sempre continuato a denunciare le ingiustizie e le angherie del regime iraniano, combattendo contro lo hijab obbligatorio. E ora, dopo aver “osato” partecipare al funerale della giovane Armita Garavand, la 16enne uccisa a forza di botte dalla polizia morale di Teheran per non aver indossato il velo, è stata nuovamente arrestata e condotta nella prigione di Qarchak, ex allevamento di bestiame trasformato nella più grande prigione femminile dell’Iran, un buco nero per i diritti dove lei e le altre detenute sono state picchiate e private del sonno. “Una prigione senza norme, sporca e sudicia, con la puzza di liquami, spazi strettissimi e irrespirabili, una gestione atroce e servizi limitati”, ha spiegato pochi giorni fa al Dubbio il marito di Sotoudeh, Reza Khandan. La sua azione a favore dei diritti umani è stata premiata nel 2012 dal Premio Sacharov, assegnato dal Parlamento Europeo. E poco prima di essere nuovamente arrestata è stata insignita del “Civil Courage Prize”, che ha dedicato simbolicamente al movimento “Donna, vita, libertà”, nato dopo la morte di Mahsa Amini, altra vittima della polizia morale iraniana. Si tratta di “donne che si sono sollevate per liberarsi dal giogo opprimente del patriarcato”, ha spiegato. E una dedica speciale è andata ad Armita, che in quel momento lottava tra la vita e la morte. “Gli occhi dei manifestanti sono stati cavati per negare loro la vista - ha affermato in un video messaggio -, ma i loro occhi si sono moltiplicati in migliaia”. Il movimento “Donna, vita e libertà”, ha aggiunto, “non è giunto al termine”. E perdere “la speranza nel coraggio civile” non è un’opzione. “Sono ancora molte le donne che, quotidianamente, sfidano l’hijab obbligatorio nelle nostre strade - ha spiegato -. Dimostrano il loro coraggio civico ma rimangono a rischio di arresto e violenza”. Parlando della sua condanna, Nasrin ha spiegato che “la gran parte delle accuse sono politiche - ha raccontato in un’intervista andata in onda su La7 -. Sono stata inquisita per essermi opposta alla pena di morte e sono anche all’interno dell’associazione dei difensori dei diritti umani. Ho difeso imputati politici e civili, imputati di minacciare la sicurezza del Paese. Ci sono tante altre accuse infondate. Una è stata quella di aver difeso le ragazze della via della Rivoluzione a Teheran, che erano salite su dei cubi di cemento in segno di protesta togliendosi il velo, l’hijab, e agitandolo per aria. Io ho deciso di non contestare pubblicamente questa sentenza ingiusta e illegale e a due anni di distanza mi hanno ridotto la pena a 27 anni. Ho fatto quello che ho fatto, come avvocato, perché era giusto farlo. Non potevo non difendere le ragazze della via della Rivoluzione, ignorando le sofferenze che avevano subito e i rischi che avevano affrontate. Se ripenso a quei giorni sono felice: ho avuto l’opportunità di combattere. Quando mi hanno portata in prigione, nessuna delle mie clienti era in carcere: loro erano libere”. La vicenda suscitò sin da subito l’indignazione internazionale, portando ad una moltiplicazione degli appelli per la sua liberazione. A schierarsi al suo fianco, oltre all’avvocatura istituzionale italiana, furono anche diversi capi di Stato, tra i quali Emmanuel Macron, che il 10 aprile 2019, in un colloquio telefonico con il suo omologo iraniano Hassan Rohuani, sollevò il caso chiedendo la scarcerazione di Sotoudeh. Lo stesso fece il Parlamento europeo, senza però ottenere il risultato sperato. Nasrin è infatti rimasta in carcere, da dove ha continuato a condurre la propria battaglia di libertà. Con lo sciopero della fame e denunciando, nei momenti in cui le veniva concesso di uscire dal carcere per motivi di salute, la corruzione del sistema giudiziario iraniano. Nel settembre del 2020 fu costretta a interrompere un digiuno di protesta iniziato quasi 50 giorni prima per denunciare le condizioni dei prigionieri politici durante l’epidemia di coronavirus. Una prova fisica che la constrinse ad un ricovero di cinque giorni in ospedale, a causa di un’insufficienza cardiaca. Ma dopo il ricovero si riparirono di nuovo le porte del carcere, questa volta a Qarchak, a 25 miglia a sud est della capitale iraniana. Fino al permesso concesso per ragioni di salute poco tempo dopo. A novembre dello scorso anno, in occasione dell’8° Congresso mondiale contro la pena di morte, Sotoudeh è stata insignita del Premio Robert- Badinter. Pochi giorni prima, l’attivista aveva inviato una lettera ai 1.500 delegati provenienti da 128 paesi diversi. “Io, Nasrin Sotoudeh, avvocato e prigioniera politica in Iran, chiedo al mondo intero e a questo congresso di essere gli occhi e le orecchie degli iraniani in questi giorni difficili”, aveva scritto allora, lanciando un appello per l’abolizione della pena di morte nel suo Paese. Turchia. Ebru Timtik, il corpo come arma: il digiuno mortale contro il digiuno dai diritti di Simona Musco Il Dubbio, 6 novembre 2023 La battaglia di Ebru Timtik è durata 238 giorni. Giorni in cui ha scelto di non mangiare, usando il suo corpo come arma contro la giustizia turca, che di diritti non vuol sentir parlare. È morta così, dopo esser stata arrestata insieme a altri 18 colleghi per il suo impegno nella difesa dei diritti civili in Turchia. Il 14 agosto 2020, la Corte costituzionale turca aveva respinto la richiesta di rilascio a scopo precauzionale sia per lei sia per il collega Aytaç Ünsal (ora di nuovo in carcere), entrambi in sciopero della fame, nonostante le loro condizioni di salute fossero già molto critiche. Per la Corte, però, non c’erano “informazioni o reperti disponibili in merito all’emergere di un pericolo critico per la loro vita o la loro integrità morale e materiale con il rigetto della richiesta per il loro rilascio”. Ebru Timtik e Aytaç Ünsal avevano avviato lo sciopero della fame a febbraio 2020 e non sono stati rilasciati nonostante siano stati dichiarati non idonei alla reclusione dall’Istituto di medicina legale. Nemmeno una denuncia alla Corte costituzionale turca di Ankara ha avuto successo. I due avvocati, trasferiti sotto osservazione contro la loro volontà in diversi ospedali di Istanbul, avevano deciso così di trasformare lo sciopero in un “digiuno mortale” il 5 aprile - la “Giornata degli avvocati” in Turchia. Nel complesso dei procedimenti contro presunti membri del Dhkp-C, gli avvocati sono stati condannati a lunghe pene detentive in base alle leggi sul terrorismo, a causa delle dichiarazioni contraddittorie di un testimone chiave. Con la loro protesta, i due avvocati invocavano un processo equo. Timtik è la quarta vittima del processo Dhkp-C: Helin Bölek, solista del gruppo musicale Grup Yorum, è morta il 3 aprile 2020. Si era rifiutata di mangiare per 288 giorni in segno di protesta contro l’imprigionamento di altri membri della band e il divieto di concerti per i Grup Yorum. Il 7 maggio, il bassista della band, Ibrahim Gökçek, è morto dopo uno sciopero della fame durato 323 giorni. In precedenza, il prigioniero politico Mustafa Koçak era morto il 24 aprile a causa di un digiuno di 296 giorni. Sezgin Tanrikulu, il principale deputato all’opposizione del Partito popolare repubblicano (Chp), ha criticato la magistratura per non aver rilasciato Timtik. “È impossibile non ribellarsi a questo. Fino a quando assisteremo a queste morti? Avevamo implorato la Corte costituzionale di occuparci di questo fascicolo”, ha detto Tanrikulu in un programma in onda su Halk Tv. I presidenti di diversi ordini degli avvocati hanno criticato le autorità statali per aver ignorato il caso di Timtik e Ünsal. “Non l’hanno sentita gridare per mesi chiedendo un processo equo. Coloro che hanno fatto orecchie da mercante e hanno voltato le spalle hanno massacrato la giustizia e la coscienza”, ha detto il presidente dell’Associazione degli avvocati di Ankara, Erinç Sagkan. Il presidente dell’Ordine degli avvocati di Antalya, Polat Balkan, ha descritto la morte di Timtik come un “omicidio giudiziario”, mentre il presidente dell’Associazione degli avvocati di Mersin, Bilgin Yesilbogaz, ha sottolineato che “l’ingiustizia uccide”. La colpa degli avvocati quella di aver difeso gli oppositori politici di Erdogan, ma non solo: tra loro ci sono anche i difensori delle famiglie espropriate delle loro case a Istanbul, abbattute per far posto ai grattacieli, o di donne che sono state picchiate dai mariti perché rifiutavano di portare il velo. Tra i volti più noti della protesta Selcuk Kozagacli, (presidente del Chd), condannato a un totale di 13 anni per aver fondato e gestito un’organizzazione internazionale di matrice terroristica, mentre gli altri (tra i quali Barkin Timtik, sorella di Ebru, condannata a 20 anni e sei mesi) per averne fatto parte. Il capo di imputazione si regge sull’aver suggerito ai propri clienti di avvalersi della facoltà di non rispondere, con una percentuale statistica considerata superiore al dato nazionale, ma anche a colloqui con le famiglie troppo lunghi e frequenti. La storia è iniziata con le purghe contro gli accademici, messa in atto da Erdogan dopo il mancato golpe, tra i quali Nuriye Gulmen e Semih Ozakca, imputati per “terrorismo” per presunti legami con il gruppo di estrema sinistra Dhkp. L’arresto di tutti e venti gli avvocati del collegio difensivo è avvenuto due giorni prima dell’inizio del processo a loro carico, diventato di colpo un processo politico per contrastare l’opposizione. Solo sei mesi dopo l’arresto, a marzo 2018, agli avvocati è stato concesso di prendere visione dei capi d’imputazione, secondo i quali l’associazione degli avvocati progressisti costituirebbe una branca del partito rivoluzionario messo fuori legge da Erdogan. La riforma costituzionale ha poi segnato in via ufficiale una vera e propria fusione tra potere governativo e sistema giudiziario: con la legge antiterrorismo del 25 luglio 2018 è stata infatti istituita una costola del potere che monitora gli istituti pubblici e che ha pieno e completo accesso a tutti gli elementi sensibili di tutti gli ordini degli avvocati della Turchia. Ma nemmeno le carceri-lager del Sultano sono riuscite a zittire Timtil e Ünsal. “Abbiamo fatto della nostra vita uno strumento di difesa - ha sottolineato dal carcere quest’ultimo, ricordando il prezzo pagato da Timtik -. Stiamo ancora resistendo con le nostre vite e i nostri denti. Difendiamo le nostre vite tra le macerie. Facciamo la guardia alle prove sotto il cemento. Seguiremo le cause che difenderanno le vite che costruiremo insieme alla nostra gente, che sta lottando per questo”. Russia. Marina Ovsyannikova, punita e perseguitata perché non ha paura di Putin di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 6 novembre 2023 La giornalista, famosa per la sua clamorosa protesta, è stata condannata a 8 anni e 6 mesi e ora vive in esilio in Francia. Il 14 marzo 2022 è una data che segna l’inizio di una nuova vita per la giornalista Marina Ovsyannikova. La sera di quel giorno, durante uno dei telegiornali più seguiti di Russia, in onda su Channel One, la reporter apparve alle spalle della conduttrice Ekaterina Andreeva mostrando un cartello con la scritta “No war”. Le immagini fecero il giro del mondo. Da quel momento Marina divenne un personaggio conosciuto anche fuori dalla Russia. Il Dubbio si è immediatamente occupato della vicenda professionale, umana e politica di Ovsyannikova. Il 27 marzo 2022 Marina è intervenuta da Mosca nella trasmissione Che tempo che fa, condotta da Fabio Fazio in onda su Raitre. Il nostro giornale è stato il secondo media italiano, il 14 aprile 2022, a intervistare l’ex reporter di Channel One. “Ogni tanto - è stata una delle prime dichiarazioni al Dubbio di Ovsyannikova - mi chiedono come mai mi sia ricreduta, dopo aver lavorato per circa vent’anni con la propaganda di Stato. Dopo il 24 febbraio 2022, ho cambiato definitivamente idea. Il Cremlino fa il lavaggio del cervello ai cittadini e parla male continuamente dell’Europa e degli Stati Uniti. Ora voglio dare il mio contributo per la verità, dato che le fake news sono quelle del Cremlino e non di altri “. Anche quella di Marina Ovsyannikova è una storia di “ordinaria” violazione dei diritti umani nella Russia di Putin. Ora Marina vive in Francia. Nel 2022, prima di affrontare i processi a suo carico e di organizzare la fuga dalla Russia, Ovsyannikova ha firmato una serie di articoli per il Dubbio sulle condizioni di vita dei russi, sui metodi di arruolamento dei giovani mandati sul fronte ucraino, sulle storie dei dissidenti processati per il semplice fatto di aver espresso il loro pensiero sulla guerra e sul modo di agire del Cremlino. Nell’estate di un anno fa la giornalista si è trasferita per un periodo in Germania, avviando una collaborazione con Die Welt. L’inizio di una nuova vita sancito anche dalla scrittura del libro dedicato alla sua esperienza umana e professionale. Nell’ottobre 2022 le comunicazioni tra il Dubbio e Ovsyannikova si sono interrotte per alcuni mesi. Un silenzio giustificato e, sotto certi versi imposto, per la fuga rocambolesca dalla Russia con la figlia all’epoca undicenne. Grazie, però, all’avvocato Dmitry Zakhvatov, è stato possibile continuare a ricevere notizie. Con la fuga in Francia la giornalista è riuscita a voltare pagina. Negli uffici parigini di Reporters sans frontières, organizzazione che difende la libertà di stampa, nel febbraio 2023, Marina ha potuto annunciare la sua nuova vita di giornalista “in esilio”. Qualche mese dopo è stato pubblicato il libro intitolato “Tra il bene e il male. Come mi sono opposta alla propaganda del Cremlino” e tradotto in varie lingue (non ancora in italiano). Ovsyannikova racconta l’esperienza nella televisione russa, partendo dalla fatidica data del 14 marzo 2022. Questa è la descrizione dell’apparizione nello studio televisivo con il cartello “No war”: “Corro in sala di montaggio. Una luce rossa lampeggia sulla porta della redazione. L’accesso alla zona di trasmissione avviene solo tramite appositi pass elettronici. Ne ho uno. Il blocco sulle notizie dall’Ucraina sta per finire; non ho molto tempo. Vado nel mio ufficio quasi volando e afferro la mia giacca bianca. Nella manica c’è un poster avvolto. Lo tiro fuori e salgo velocemente sul podio dove è seduta la conduttrice del telegiornale. Decine di riflettori mi colpiscono gli occhi”. “…Su come mitigare l’impatto delle sanzioni occidentali…”, ricordo queste parole lette monotonamente da Andreeva”. Eccomi. “Niente guerra! Fermate la guerra!’, grido, mostrando un enorme striscione dietro la schiena della mia collega. Non riconosco la mia voce. Andreeva continua a leggere con nonchalance. Capisco che un’altra videocamera funziona. La luce rossa è a sinistra, il che significa che gli spettatori non possono vedere il poster in onda dietro la conduttrice. Faccio un passo a sinistra. Ora possono vedere il cartello: “Niente guerra. Fermate la guerra. Non credere alla propaganda. Ti stanno mentendo qui. Russi schieratevi contro la guerra”. Con la coda dell’occhio mi vedo sul monitor, ma l’immagine cambia immediatamente. È stato il regista che alla fine ha reagito e ha avviato una sorta di reportage per nascondere ciò che stava accadendo in studio. La mia protesta è durata solo sei secondi. Esco dallo studio con le gambe molli. Una poliziotta bionda sbatte le ciglia sorpresa e guarda in silenzio nella mia direzione. Attraverso la redazione e lascio il poster accanto alla fotocopiatrice che sta sotto le scale. L’intera direzione del telegiornale di Channel One si sta già avvicinando a me lungo il corridoio. “Eri tu?” è la prima domanda. Il volto del vicedirettore è teso, le sopracciglia aggrottate. “Sì, sono stata io”, dico. È inutile negarlo. Il capo della direzione dei programmi di informazione, Kirill Kleimenov, sentendo la mia risposta, si volta improvvisamente e se ne va senza dire una parola. “Andiamo nel mio ufficio”, intima un altro vicedirettore della redazione”. Il 4 ottobre scorso Marina Ovsyannikova è stata condannata dal tribunale distrettuale Basmanny di Mosca a 8 anni e 6 mesi di carcere, a fronte della richiesta del pubblico ministero l’esilio: la vita in un paese straniero, senza famiglia, amici, casa, lavoro e, soprattutto, senza l’opportunità di tornare in patria e abbracciare i miei cari”. Il riferimento è alla fuga in Francia. Il ministero degli Esteri transalpino è intervenuto prontamente sulla sentenza del tribunale di Mosca: “La Francia denuncia con il più grande vigore la condanna in contumacia della giornalista russa Marina Ovsyannikova a 8 anni e mezzo di carcere”. Da Parigi anche un appello per il rispetto dei diritti umani. “Ovsyannikova - ha aggiunto il Quai d’Orsay - aveva coraggiosamente denunciato la guerra d’aggressione contro l’Ucraina durante un telegiornale in Russia nel marzo 2022. La Francia è molto preoccupata per l’intensificarsi della campagna di repressione condotta dalle autorità russe nei confronti di voci critiche del potere e della sua guerra di aggressione contro l’Ucraina. La propaganda russa rappresenta di per sé un’arma nella guerra di aggressione russa in Ucraina. Ci appelliamo alle autorità russe affinché rispettino il diritto internazionale relativo ai diritti umani e alla libertà d’informare. Liberino tutti i prigionieri politici e abbandonino le procedure giudiziarie avviate nei loro confronti”. Medio Oriente. Dalla Cisgiordania al cuore di Israele, soltanto il dolore è uguale per tutti di Domenico Quirico La Stampa, 6 novembre 2023 La bara con la bandiera di Israele, l’uomo nel sudario musulmano. La morte di Dio spinta in trincea, impigliata nel Talmud e nel Corano. Cosa resta di comune nei due fronti, se non un pianto senza via d’uscita. Oggi in Palestina la sola cosa che ha un significato è il dolore. La possibilità della speranza è un salto che si deve fare per disperazione, in quel punto in cui non essendoci più assolutamente nulla su cui contare, politica, diplomazia, ragione, diritto, si è costretti a contare soltanto su ciò che è opposto al mondo, il soffrire appunto. Scorro le fotografie di Fabio Bucciarelli, scattate in Israele e in Cisgiordania (Gaza è vietata, Gaza è una guerra senza sguardi, da spiare attraverso gli occhi di altri). Non me ne vorrà se non parlo delle sue immagini come fatto estetico, della qualità del bianco e nero, il color d’ombra riservato agli scatti tra i palestinesi e i colori, accecanti, di quelli che fissano gli israeliani. A indicare la continuità di un aspro seguito di pene da una parte; e dall’altra, quanto iniziato con il sabato di sangue firmato da Hamas. Conosco Bucciarelli, so che la sua fotografia sa esplorare le tenebre. Come tutti i buoni testimoni soffre, cava sangue ai suoi scatti, patisce la veglia del Tempo e ne raccoglie le agonie, rivela la sua camera oscura. La sensazione che raccolgo è di esser colti in flagrante per ogni elemento umano che è in noi, e di esser in balia di testimonianze implacabili. Le rovine per esempio, le speculari rovine della guerra, contratte, ammucchiate, lunari pietre delle catapecchie palestinesi rase al suolo e lunari pietre delle auto calcinate nei kibbutz devastati. Calcinacci nel tempo e nei luoghi eguali a se stesse. Ci lasciano nudi, ci strappano qualcosa. Tutto è posto dietro a tutto. Tutte le distruzioni infinite di settanta anni sono dentro ognuna di queste contemporanee distruzioni. Si cammina con lo sguardo lì in mezzo e non si finisce in nessun posto. Ci accorgiamo, stupefatti, che non riusciremo a trovare la strada che cerchiamo per portarci fuori da questa guerra; non ci sono strade in uno spazio così ristretto come la Palestina. Come ogni volta in questi interminabili settanta anni veglieremo la notte ma non arriverà la mattina della pace, della coesistenza. Forse che i periodi in cui ebrei e arabi non si sono combattuti non sono stati, anche questi, soltanto brevi periodi di pace incivile? La memoria, le memorie, il fanatismo che oltrepassano la Storia, che comandano nella notte, che minacciano, che impongono la loro tenacia, sono come una magia nera inesplicabile, unica che scorre nei volti dei due funerali, uno furente, quello palestinese l’altro più composto. I funerali e le donne dolenti. Scrutiamo quei volti, la bara con la bandiera d’Israele, o il corpo avvolto nel sudario musulmano. In quei cimiteri siamo usciti dal tempo, i confini, i Muri si riducono solo a un luogo dove porre i piedi su un poco di identica sabbia viva. Siamo in un luogo che dovrebbe costituire un gigantesco altare all’aperto. Una isola d’oro della fede, intatta come una nuvola in cielo, è diventata bunker e carta topografica militare allo stesso tempo. Con la vita e la morte di Dio trascinata in trincea, impigliata nei reticolati del Talmud e nei posti di blocco del Corano, senza via di uscita. Dietro queste foto che cosa resta di comune, nei due fronti che si può condividere se non il dolore? Per il resto da ben prima del sette maggio affiorano solo aforismi propagandistici, che sono controsensi, grida di guerra, propositi pieni di odio, auguri di catastrofi accettate purché, alla fine, perisca anche il nemico. Per arrivare alla reciproca orribile affermazione che “in Israele non ci sono persone non coinvolte”, “a Gaza non ci sono persone non coinvolte”. A tutto ciò, a queste immagini, cosa opponiamo, noi parte perfetta del mondo, dopo aver ascoltato distrattamente questi aforismi rozzi e ottusi, discorsi privati e pubblici che manifestano solo la cruda volontà di uccidere, un nazionalismo invasato che abbiamo visto all’opera in mille luoghi e che non porta a niente se non a tragedie? I discorsi degli ultrà della Grande Israele e dei fanatici della jihad in tinta palestinese non erano, e lo sapevamo, esibizioni enfatiche di oratori senza cervello, ma programmi di azioni politiche concrete e preannunci di un tentativo di strage non appena giunto il momento ritenuto giusto. Ovvero il sette di ottobre. Guardate le foto dei due eserciti, i miliziani in t-shirt e i soldati di tsahal abbigliati tecnologicamente. Da una parte i kalashnikov dall’altro le bombe da duemila chili: uccidono meticolosamente entrambe. Tutti i motivi di discordia, dalla nascita di Israele in poi, in cui ci si affanna penosamente lontano dalla Palestina a prendere con le pinze le ragioni e torti che potrebbero esser divisi, ormai entrambi invitano a trascurarli: chiedono solo una soluzione totale. Uno solo è l’argomento vero su cui si ritorna sempre, quello delle origini: lo Stato di Israele e la Entità palestinese sono nati a torto, sono in se stessi una iniquità e un sopruso che si può correggere solo riportandoli alla inesistenza. Qualunque cosa faccia o dica l’altro è per natura ingiusto, definito, con formula sbrigativa, imperialismo all’occidentale o jihadismo medioevale. Una sentenza sommaria, senza sfumature, di una orrida teologia, una teologia della Storia, basata non su fatti futuri ma su un fatto compiuto, per questo irrevocabile come il passato. Presto o tardi, dicono i palestinesi, il mondo arabo eliminerà Israele come ha eliminato l’effimero regno dei crociati, dei latini di Gerusalemme. E dall’altra parte la soluzione che spunta, ancora non detta, è quella di far tornare i palestinesi alla loro inconsistenza, ricacciarli verso una diaspora che questa volta davvero li inghiotta e li trasformi. Coloro che per coprire la volontà di nulla fare, parlano di far tornare a galla la formula “due popoli due stati”, sono grotteschi. Guardiamo queste foto: Israele esiste. I palestinesi esistono. Ma a cercare quello che li unisce si trova solo il dolore. Francia. La legge sull’immigrazione minaccia i diritti La Repubblica, 6 novembre 2023 I legislatori non danno garanzie per un trattamento umano neanche ai minori. Lo afferma un documento diffuso oggi da Human Rights Watch. Il progetto di legge sarà discusso al Senato francese a partire da oggi. I legislatori francesi stanno esaminando un progetto di legge sull’immigrazione che minaccia di limitare i diritti dei richiedenti asilo e dei migranti. Lo afferma un documento diffuso oggi da Human Rights Watch. Il progetto di legge sarà discusso al Senato francese a partire da oggi, 6 novembre, e dovrebbe passare all’Assemblea nazionale a dicembre. Il governo ha inizialmente presentato il disegno di legge a febbraio, ma a marzo ha rinviato il dibattito a causa della mancanza di sostegno in Parlamento. Dividere le famiglie e annacquare i diritti. “Le autorità francesi stanno cercando di nuovo di proporre una serie di misure sull’immigrazione profondamente sbagliate”, ha dichiarato Eva Cossé, ricercatrice senior per l’Europa di Human Rights Watch. “Dividere le famiglie e annacquare i diritti dei richiedenti asilo non è la risposta alle preoccupazioni per la sicurezza del Paese”. Ecco le principali preoccupazioni. - Disposizioni volte a indebolire le tutele esistenti, sia per i cittadini stranieri a cui è stato ordinato di lasciare la Francia sia per quelli che vengono allontanati con la forza. - Una disposizione per revocare o rifiutare il rinnovo di un permesso di soggiorno per una persona che non rispetta “i principi della Repubblica”. - Disposizioni volte a indebolire i diritti di ricorso per i richiedenti asilo e per le procedure amministrative relative ai migranti. - Inclusione di una disposizione limitata per porre fine alla detenzione dei minori migranti di età inferiore ai 16 anni che non proteggerebbe i bambini nei territori francesi d’oltremare, in particolare a Mayotte, e quelli detenuti alle frontiere o negli aeroporti. - Il progetto di legge consentirebbe alle autorità di emettere un ordine di lasciare il territorio francese anche se una persona rientra in una o più categorie protette dal diritto vigente. Le tutele esistenti si riferiscono a situazioni personali e familiari, ad esempio per coloro che sono arrivati in Francia prima dei 13 anni, hanno una residenza a lungo termine in Francia o sono coniugi o genitori di un cittadino francese. - Il progetto di legge consentirebbe alle autorità di ignorare queste protezioni se il comportamento del cittadino straniero è considerato “una seria minaccia per l’ordine pubblico”, nonostante la vaghezza nel disegno di legge dei termini “grave minaccia” e “ordine pubblico”, ha detto Human Rights Watch. Ciò che la legge eliminerebbe. Il disegno di legge eliminerebbe anche le protezioni per quanto riguarda l’espulsione, una misura amministrativa volta a rimuovere un cittadino straniero dal territorio francese. Secondo la legge attuale, un ordine di espulsione può essere emesso nei confronti di un cittadino straniero che vive irregolarmente in Francia e che è considerato una “grave minaccia per l’ordine pubblico”, anche se dimostra un comportamento considerato dannoso per gli “interessi fondamentali dello Stato”, “si impegna nel terrorismo” o “incoraggia la discriminazione, l’odio o la violenza”. Le protezioni contro l’espulsione. Attualmente esistono protezioni contro l’espulsione per i cittadini stranieri che rispecchiano quelle per un ordine di lasciare la Francia. Il disegno di legge amplia le circostanze in cui le persone appartenenti a tali categorie protette possono comunque essere espulse se ritenute una “grave minaccia per l’ordine pubblico”, eliminando le poche garanzie per le cosiddette categorie protette. Secondo la legge vigente, una persona può essere espulsa se ha ricevuto almeno una pena detentiva di 5 anni. Secondo la proposta di legge, chiunque sia stato condannato per un reato che può comportare una pena detentiva di 5 anni potrebbe essere espulso, anche se ha ricevuto una condanna molto più breve. Il conflitto con la Convenzione ONU. Il difensore dei diritti francese, che ha pesantemente criticato l’intero disegno di legge, ha osservato che le modifiche previste vanno “a scapito della protezione dei diritti fondamentali degli stranieri”. Anche il Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia (UNICEF) ha criticato le disposizioni. L’Organismo ONU ha affermato che l’indebolimento delle protezioni sull’espulsione e l’espulsione dei cittadini stranieri - in particolare i genitori di bambini francesi - rischia di entrare in conflitto con la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia, di cui la Francia è parte, e che protegge la vita familiare e il principio di non separazione. Prevale un’ideologia radicale. Inoltre, il ministro dell’Interno francese ha segnalato che il governo intende aggiungere un’altra disposizione al disegno di legge per rendere più facile l’espulsione di cittadini stranieri con sospetti legami con “ideologia radicale”, citando il presunto assassino di un insegnante in una scuola in Francia a ottobre. Il presunto colpevole, un ex studente, è stato incriminato con accuse tra cui omicidio legato al terrorismo. Le autorità francesi considerano l’allontanamento di cittadini stranieri considerati una minaccia un elemento importante nella lotta contro l’estremismo violento, anche se ciò significa indebolire le garanzie dei diritti. Il contrasto al “separatismo” musulmano. Il disegno di legge reintroduce anche una disposizione di una controversa legge contro il “separatismo” che era stata censurata dal Consiglio costituzionale, la più alta autorità costituzionale francese, per motivi di vaghezza. Il provvedimento, che è stato modificato in seguito alla censura, verrebbe ora ripristinato, consentendo alle autorità di revocare o rifiutare di rinnovare i permessi di soggiorno per le persone che non rispettano “i principi della Repubblica”, una misura che sembra prendere di mira i musulmani ritenuti impegnati nel “separatismo”. I diritti dei richiedenti asilo. Il disegno di legge indebolirebbe anche le garanzie procedurali per i migranti e i richiedenti asilo, anche cambiando le commissioni che esaminano i ricorsi in materia di asilo nella maggior parte dei casi da tre giudici a uno, rimuovendo i giudici specializzati dal processo. Il difensore francese dei diritti ha affermato che la mossa rischia di minare il diritto a un ricorso effettivo per i richiedenti asilo ed è probabile che “privi i richiedenti delle garanzie procedurali fondamentali di una giustizia equa, vale a dire l’indipendenza e l’imparzialità della giustizia”. I limiti di tempo per i ricorsi. Il disegno di legge riduce anche i limiti di tempo per i ricorsi in vari processi di asilo e immigrazione, rendendo più difficile per i migranti e i richiedenti asilo raccogliere le prove necessarie per presentare il loro caso. Consentirebbe anche audizioni video, che sono spesso afflitte in Francia da problemi tecnici, secondo un rapporto del 2020 del gruppo non governativo European Council on Refugees and Exiles. Insieme, queste misure pregiudicano il diritto a un ricorso effettivo, come richiesto dal diritto internazionale ed europeo. La detenzione di migliaia di bambini. Il disegno di legge vieterebbe la detenzione di minori di 16 anni nei centri di detenzione amministrativa. Sebbene si tratti di un passo positivo, consentirebbe comunque la detenzione di migliaia di bambini, compresi quelli di età superiore ai 16 anni. Consentirebbe inoltre la detenzione dei bambini nei territori francesi d’oltremare, in particolare a Mayotte, e di quelli detenuti alle frontiere o negli aeroporti. La Corte europea dei diritti dell’uomo si è ripetutamente pronunciata contro la detenzione di minori da parte della Francia. I legislatori francesi dovrebbero cogliere l’occasione per porre fine alla detenzione di tutti i bambini, ha detto Human Rights Watch. Le restrizioni per i minori soli. Altre preoccupazioni includono le misure restrittive relative ai bambini e ai giovani adulti non accompagnati aggiunte dalla Commissione di legge del Senato a marzo, che l’UNICEF ha descritto come “particolarmente problematiche”, e la proposta di abolizione dell’assistenza medica statale, un sistema che consente ai migranti irregolari di accedere all’assistenza sanitaria generale. Nell’ultima versione del disegno di legge è stato sostituito con un accesso molto più limitato per le emergenze. Le pratiche migratorie abusive. Il progetto di legge, inoltre, non affronta le politiche e le pratiche migratorie abusive da parte delle autorità francesi. Tra queste figurano le molestie da parte della polizia; restrizioni all’accesso all’assistenza umanitaria, in particolare nel nord della Francia; respingimento sommario di minori non accompagnati alla frontiera italo-francese; e il divieto di accesso per i minori non accompagnati sul territorio francese alla protezione e ai servizi essenziali. “I legislatori francesi dovrebbero riflettere su quali riforme sull’immigrazione la Francia ha davvero bisogno, tra cui la fine della detenzione di tutti i bambini, un accesso significativo all’asilo, protezioni efficaci contro l’espulsione ingiusta e un trattamento umano per le persone in movimento”, ha detto Cossé. “Ridurre le protezioni dei diritti umani non renderà la Francia più sicura”. Africa. Droghe sempre più diffuse con aumento dei consumatori di Carlo Magni La Repubblica, 6 novembre 2023 I danni del loro smercio sulle economie, sulla stabilità, origine di violenze. Il World Drug Report 2023. L’unica cosa che prospera è il mercato delle nuove sostanze che stordiscono un numero sempre maggiore di persone. Crisi e conflitti continuano a infliggere sofferenze e pesantissime privazioni ad un numero crescente di persone costrette ad abbandonare tutto ciò che hanno dalla Nigeria, dalla Repubblica Democratica del Congo, dall’Etiopia, la Somalia, il Burkina Faso, il Sudan. Un nuovo record dei nostri tempi: circa 110 milioni di persone in fuga, in cerca di pace, giustizia e diritti. Lo si apprende dal World Drug Report 2023. Il flagello delle nuove droghe. A tutto questo si abbatte il flagello delle droghe e del loro traffico sulle fragilissime economie di stati poveri e in guerra, con tutte le conseguenze immaginabili in termini di instabilità e violenze sociali e sull’ambiente. L’unica cosa che invece prospera - e prospera molto - è il mercato delle droghe illecite cresce l’offerta di cocaina e aumenta soprattutto la diffusione di numerose altre nuove sostanze che stordiscono un numero sempre maggiore di persone, come ad esempio - lo ricorda un articolo di Rocco Bellantone su Nigrizia - L’poufa, Flakka, Gheddafi, Kobolo, Kush, Volet, La bombé, che stanno facendo aumentare le dipendenze, oltre a mietere vittime tra i giovani di tutto il continente africano. “Se L’poufa e Flakka sono molto diffusi in Marocco - si legge nell’articolo di Nigrizia - Kobolo lo è in Gabon, Kush in Sierra Leone, Volet in Senegal, Gheddafi in Costa d’Avorio e La bombé in Repubblica democratica del Congo”. La diffusione incontrollabile delle droghe sintetiche. Sono facili da produrre ovunque nel mondo e, come nel caso del fentanil, sono addirittura mortali anche se autosomministrate in dosi minime. I disturbi legati al loro uso danneggiano la salute, soprattutto quella mentale, minano la sicurezza sociale e in generale il benessere. Oltre tutto c’è poi lo stigma e la discriminazione che subiscono i tossicodipendenti di Paesi già disastrati sul piano economico e sociale, rendendo assai meno probabile che ottengano l’aiuto di cui hanno bisogno. Meno del 20% delle persone con i disturbi legati all’uso di droghe sono in cura e l’accesso ad ogni forma di assistenza è assolugtamente diseguale. Le donne, in questo quadro complessivo, rappresentano quasi la metà: sono in genere persone che usano stimolanti di tipo anfetaminico. La droga legata al crimine. Dice Ghada Waly, direttore esecutivo dell’Ufficio delle Nazioni Unite contro la droga e il crimine: “Soprattutto Paesi a basso e medio reddito, dove vive circa l’86% della popolazione mondiale, le sfide legate alla droga pongono difficili dilemmi politici. La questione non può essere affrontata da un solo Paese o regione”. Il World Drug Report ogni anno fornisce un quadro globale prospettiva e panoramica del problema. L’attuale edizione del Rapporto evidenzia la crescente complessità dell’evoluzione delle minacce legate alla droga. Un capitolo esplora il modo in cui le economie legate alla droga illecita si intersecano con crimini che colpiscono l’ambiente e l’insicurezza, come ad esempio avviene nel bacino amazzonico, con una popolazione rurale impoverita e gruppi indigeni che ne pagano il prezzo. Stupefacenti in contesti umanitari. Un’altra sezione del Rapporto esplora le sfide urgenti legate al consumo di droga in contesti umanitari: droga nei conflitti, in situazioni mutevoli e dinamiche dove prevale l’uso di sostanze sintetiche. Il rapporto approfondisce anche nuovi studi clinici che coinvolgono sostanze psichedeliche ma anche l’uso medico della cannabis e le innovazioni nel trattamento della droga e altri servizi. Il circolo vizioso da spezzare. Ancora una volta sono le persone più vulnerabili, i poveri e gli esclusi che pagano il prezzo più alto, a livello globale, che vivono nelle zone sottosviluppate e poco servite nelle comunità in tutti i nostri Paesi, nelle città, nei villaggi. Sono loro che soffrono la violenza e l’insicurezza alimentate che induce a ricorrere alla droga, a sua volta portatrice di malattie come l’HIV. In altre parole, si impoveriscono persone con un accesso incerto alle opportunità di crescita e sviluppo della propria vita, oltre che alle garanzie di uno Stato di diritto, intrappolati nell’illecito. Spezzare questi circoli viziosi è l’obiettivo primario. È la prevenzione precoce fondamentale e i governi devono farlo investendo di più nell’istruzione per costruire resilienza e donare ai giovani le informazioni di cui hanno bisogno.