Stefano Anastasia: “Servirebbero le carceri a numero chiuso” di Riccardo Maggiolo huffingtonpost.it, 5 novembre 2023 Il Garante dei detenuti nel Lazio: "Solo così si costringerebbe la politica e l’autorità giudiziaria a rispettare il principio di extrema ratio, obbligandole a scegliere chi davvero è necessario che venga detenuto e chi invece no. Ma siamo diventati molto più intolleranti, anche solo parlare di amnistia o indulto provoca reazioni scomposte". Professor Anastasia, lei si occupa di giustizia penitenziaria e carceri da più di 35 anni: come è cambiato l’atteggiamento verso la devianza in questi anni? Siamo diventati molto più intolleranti. Si pensi, per esempio, al fatto che nella Prima Repubblica abbiamo avuto ben 22 provvedimenti di clemenza generalizzata: si trattava di interventi di routine e socialmente accettati. Il fatto che si votasse un’amnistia o un indulto non provocava particolare indignazione: basti pensare a come nella commedia all’italiana di allora fossero frequenti i personaggi appena usciti dal carcere per un provvedimento di clemenza. Oggi siamo in tutt’altro scenario: anche solo parlare di amnistia o indulto provoca reazioni scomposte. Cosa ha causato questo cambio di sensibilità? La Seconda Repubblica nasce sulle ceneri di un sistema politico liquidato da inchieste giudiziarie, ma i segnali della nuova sensibilità erano già intuibili nella modifica costituzionale del 1992, che ha reso quasi impossibile approvare provvedimenti di amnistia e indulto. E, ancora prima, con la legge Iervolino-Vassalli che aumentava le pene per la detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti. Insomma, la sensibilità popolare stava cambiando, ed emergeva prepotente il cosiddetto “populismo penale”, sia verso l’alto che verso il basso. Vale a dire l’idea di poter e dover risolvere i problemi della società per via giudiziaria, sia quelli delle classi abbienti e influenti che di quelle più povere e marginali. Come si saldano queste due dimensioni di “populismo penale”? Ogni populismo è una lotta contro un nemico potente. Anche il tossico delle periferie o il piccolo delinquente sono visti come fattori di disagio causati da poteri più o meno occulti che ci impediscono di esser padroni a casa nostra. Il caso dei migranti è chiarissimo in questo senso: infatti si dice sempre che arrivano da noi per colpa dell’Europa. Perciò la rabbia verso i potenti si incarna in quella verso gli ultimi, e la reclusione in carcere può così sembrare una vittoria anche contro i potenti. La politica ha cavalcato molto queste pulsioni... Sicuramente. Ma a mio parere c’entra soprattutto il mutamento della nostra società. Un tempo si pensava che la conflittualità sociale, quella basata sulla classe o sul censo, per quanto aspra potesse portare a un maggiore benessere per tutti. Oggi invece con la venuta meno delle tradizionali strutture sociali e politiche il conflitto avviene non tra gruppi sociali ma tra gruppi identitari, ed è considerato a somma zero: o vinco io o vinci tu. Per cui la criminalizzazione dell’altro, il diverso o il nemico, rassicura rispetto alle proprie debolezze. E invece i media che ruolo hanno avuto? Enorme. La comunicazione odierna rende costantemente presente e prossimo qualsiasi fatto di violenza: anche quello che avviene molto lontano da noi nello spazio e nel tempo. Un tempo non era così. La cronaca nera esisteva, certo, ma era vista con maggior distacco: con una certa attrazione macabra come oggi, ma senza la sensazione che quello che succedeva in un’altra parte dell’Italia o del mondo ti potesse riguardare direttamente. Se a questo aggiungiamo il costante flusso sia di notizie che di fiction sul “true crime”, allora si capisce perché ci sia questa percezione diffusa di violenza e devianza. Eppure i dati dicono chiaramente che criminalità e devianza sono in costante calo da anni... Credo ci sia un circolo vizioso. Alla base c’è la diffusa incertezza e insicurezza esistenziali, a cui le classi dirigenti non possono davvero rispondere: vuoi perché impotenti rispetto a dinamiche sempre più globali, vuoi perché chiuse in un orizzonte di breve periodo. Allora si ricorre allo stratagemma più antico del mondo: l’individuazione del capro espiatorio, e quindi l’aumento della repressione e delle pene. E più aumentano le pene più cresce la percezione della devianza. Ora però il gioco sembra arrivato al limite: le carceri esplodono... Sì, ma quando si parla di sovraffollamento delle carceri le considerazioni si esauriscono nei posti letto e nei metri quadrati delle celle. Il che è sicuramente un tema importante, ma il fatto forse più rilevante è che ci sono meno risorse per ciascun detenuto. E quindi non solo meno spazi, ma anche meno opportunità per attività rieducative, per inserimenti lavorativi, per azioni di formazione, di supporto psicologico e di reinserimento sociale… Insomma, non dobbiamo cedere anche noi all’idea che il carcere sia solo un luogo in cui “parcheggiare” le persone che sbagliano. Anche chi lavora in carcere è spesso vittima di pregiudizio... Sì, e anche per questo la polizia penitenziaria soffre da sempre di un complesso di inferiorità rispetto alle altre forze di polizia. Un complesso che nasce dal carcere stesso, che in un certo senso infanga di sé chiunque lo tocchi. Magistrati, poliziotti, insegnanti, operatori… chiunque abbia a che fare con le prigioni è visto nel proprio gruppo sociale o professionale come uno “sfigato”. E poi c’è il contesto: si lavora in ambienti di per sé difficili, di privazioni della libertà, spesso lontani da casa …. L’ambiente, insomma, è logorante. Specie nel lungo periodo. Cosa si può fare per cambiare la situazione? Bisognerebbe lavorare su un cambio di mentalità che renda chi lavora nelle carceri il vero protagonista di quella finalità rieducativa della pena che è indicata dalla nostra Costituzione. Per farlo però bisogna intervenire sul territorio intorno alle carceri. Quelle che funzionano meglio sono infatti inserite in contesti che prestano attenzione alle condizioni di vita in carcere e, nello stesso tempo, offrono opportunità e supporto per il reinserimento sociale. Le alternative alla detenzione peraltro sono in grande crescita: dalle 3mila di trent’anni fa sono diventate oltre 60mila; più dell’intera popolazione carceraria di un tempo. Anche perché aumentano i carcerati. C’entra il crescente ricorso alla detenzione preventiva? Certamente. Anche se bisogna dire che il numero di detenzione cautelare è sceso negli ultimi anni dal 40-45% al 30%, rimane un problema enorme. Un conto infatti è imprigionare una persona che si ritiene possa compromettere le prove, un altro è farlo perché si pensa si possa sottrarre all’arresto o possa commettere altri reati. In modo particolare in questa seconda ipotesi, siamo di fronte a una pre-cognizione di un fatto che non è mai stato compiuto: come in Minority Report. Su questo sarebbe davvero necessario intervenire, perché contrario ai principi garantisti secondo cui il diritto penale interviene su fatti accaduti, non su ipotesi di reato future. Anche perché chi viene incarcerato preventivamente di solito è un povero marginalizzato... Esatto. Abbiamo le carceri piene di persone senza fissa dimora, con problemi di salute mentale o dipendenze e che sono lì per reati minori. Le nostre prigioni sono diventate ospizi per i poveri. Che il sistema vada ripensato è oramai sotto gli occhi di tutti. Anche perché abbiamo decenni di studi e di prove a dimostrare che non funziona per diminuire il crimine e la devianza, ma anzi ha l’effetto opposto. Cosa si potrebbe fare, nel breve? Direi che per cominciare è importante fare in modo che le carceri possano dire di no. Bisognerebbe fissarne un limite massimo di capienza invalicabile, commisurato non solo agli spazi, ma anche alle disponibilità di personale, di assistenza socio-sanitaria e di offerta trattamentale. Solo in questo modo si costringerebbe la politica e l’autorità giudiziaria a rispettare il principio di extrema ratio, obbligandole a scegliere chi davvero è necessario che venga detenuto e chi invece no. Lei ha scritto, assieme a Luigi Manconi e altri, il libro “Aboliamo il carcere”: un’utopia? Forse no. Bisogna ricordare che all’inizio il carcere non serviva a scontare una pena, ma solo a trattenerle in attesa del processo. Se il punto è restituire un debito alla società ci sono molte forme diverse alternative alla detenzione per farlo, anche molto sperimentate. Poi certo, ci saranno casi estremi di persone così pericolose da volerle tenere fuori dalla società almeno per un certo tempo: ma questo è già un orizzonte molto diverso, perché non si parlerebbe più di detenzione come mezzo punitivo o addirittura riabilitativo, ma - più sinceramente - come strumento di prevenzione e sicurezza. Giustizia, prescrizione e processo. Sul cammino degli dei di Gerardo Di Martino Corriere dell'Irpinia, 5 novembre 2023 In principio fu la Cirielli. Tanto contestata, nel testo finale, che finanche il suo primo firmatario, l’On. Cirielli per l’appunto, se ne dissociò. Senza un padre e costretta a veleggiare per acque tempestose, la ex-Cirielli non impiegò molto a scatenare il super classico da barba bianca sulla prescrizione dei reati, il bilaterale fra etica e morale, integerrimi colpevolisti e timidi garantisti, manettari a spada tratta e impunitari a testa bassa. In altre parole, una sfida all’ultimo puritano, al più puritano tra i puritani, sempre a condizione che la disputa riguardi comprensibilmente la vita degli altri, nel solco della migliore tradizione italica. Fu così che giunse l’Orlando, una riforma furiosa, capace di riassumere in sé tutte le nostre virtù, sbaragliando ogni record: prim’ancora di entrare in vigore, fu soppiantata da altra legge, la Bonafede che, a sua volta, funzionò solo per metà. L’altra metà fu rinviata, senza nemmeno poter dimostrare le doti taumaturgiche, in ogni caso sulla pelle degli altri. Ecco allora intervenire la Cartabia, proprio quella che oggi il Ministro Nordio intende rimpiazzare. Si torna ad un cocktail realizzato con una spremutina della Orlando ed una spruzzatina di ex-Cirielli, escludendo totalmente la Bonafede. E cioè? Che succederà? Beh, tecnicamente va considerato il momento di consumazione del fatto, la fase o il grado di pendenza del processo, la data di emissione della eventuale sentenza, gli effetti favorevoli o meno della legge successiva e, per finire, il tempo di vigore del testo, nel suo complesso o per metà; in attesa della successiva riforma, naturalmente. Un pellegrinaggio lungo il cammino degli Dei, più che l’applicazione di una mera causa di indifferibilità dell’oblio. E non finisce qua perché, come ogni percorso, anche questo, ahinoi, è ricco di terrazzamenti e mulattiere. Come quelle che riguardano la conoscenza della celebrazione di un processo da parte di chi lo subisca, in uno al fatto da cui difendersi. Ci ha pensato la Corte costituzionale, qualche giorno fa, a ricordarci che sempre in cammino siamo e, di fronte, sempre un sentiero abbiamo: il loro, quello degli Dei, per l’appunto. Diritto fondamentale ed inalienabile di ogni Uomo (si è innanzitutto ricordato con la pronuncia), la partecipazione al processo è comunque tale, salvo che quest’Uomo (si è immediatamente dopo stabilito) non sia un agente pubblico egiziano e sempreché lo stesso Uomo non sia accusato di tortura. In questi casi, e solo in questi (per ora), il “diritto alla conoscenza” degrada, da inalienabile a disponibile, ed il processo si fa, senza se e senza ma. Soprattutto senza che ne sappia qualcosa - e possa difendersi - chi incasserà procedimento e pena. È proprio vero: periglioso ed impervio è il cammino che conduce alla Giustizia. Contro il racket serve (anche) una rivolta civile dei consumatori di Mario Nasone nessunoesclusomai.it, 5 novembre 2023 Malgrado i durissimi colpi inferti alla ‘ndrangheta da magistratura e forze dell’ordine, e malgrado la resistenza di tante aziende che si sono ribellate alla schiavitù delle estorsioni, la strada per liberare il territorio e l’economia da racket e usura è ancora lunga, e richiede un ruolo più incisivo delle istituzioni e l’impegno diretto dei cittadini-consumatori. Qualche anno fa un commerciante venne nella sede di Libera, e, dopo averci chiesto se fossimo disponibili ad ascoltarlo senza che ci desse le sue generalità, con gli occhi pieni di rabbia e frustrazione, ci fece questo racconto. “Avevo deciso di aprire una attività nel mio quartiere. Durante i lavori, un operaio mi ha domandato: Principale, avete parlato con chi di dovere? Io gli ho risposto di no. Dopo qualche giorno dall’ inaugurazione il locale è andato completamente distrutto da un incendio doloso. Allora sono andato a trovare una persona che sapevo essere considerata molto “influente” in zona. Alle mie rimostranze che nessuno era venuto a chiedere nulla, mi ha risposto: non eravamo noi a dovere venire da voi, al contrario eravate voi che dovevate chiedere il permesso “prima mi ‘mpicciati nu’ chiovu” (prima di mettere un chiodo - ndr). Dopo essersi sfogato, al nostro invito di presentare denuncia come primo passo per poterlo tutelare, rispose piangendo: “Non posso fare niente, mi hanno minacciato, e, per farmi capire che ci possono andare di mezzo anche i miei figli, mi hanno detto che nella scuola dove vanno i ragazzi la ditta che sta facendo i lavori si è comportata bene, così tutti possono stare tranquilli, anche i miei figli che frequentano quella scuola”. Il controllo del territorio - Un episodio tra i tanti, che mi è tornato in mente dopo le recenti indagini e le sentenze della magistratura che documentano, se ancora ce ne fosse bisogno, la persistente pervasività del racket in città ed in regione. Per la ‘ndrangheta sappiamo che il pizzo non è la voce più importante nelle sue entrate. Certamente non è paragonabile ai proventi del traffico della droga o all’accaparramento degli appalti pubblici. Se non ha un rilevante valore economico, la pratica delle mazzette rappresenta ancora una delle modalità attraverso la quale le cosche da sempre esercitano il controllo dei territori ed in particolare delle imprese che vi operano. Tanto è vero che non di rado, quando il titolare di una impresa deve aprire una attività commerciale o effettuare dei lavori deve chiedere preventivamente “il permesso” ai capi ‘ndrangheta di quel quartiere, come nel caso dell’episodio prima citato. A ciò si aggiunge molto spesso, per le imprese più grandi, anche il “suggerimento” di avvalersi per determinate lavorazioni di ditte “amiche”, ovvero di assumere “bravi lavoratori” opportunamente segnalati; e per le ditte più piccole il “suggerimento” di rifornirsi per i materiali presso negozi e aziende per così dire di “fiducia”. Sostenere le imprese che non si piegano - Per questi motivi, una delle strategie concrete di contrasto alla ‘ndrangheta è senz’altro quella di sostenere gli imprenditori ed i commercianti che si rifiutano di pagare il pizzo. In atto solo una parte minoritaria di essi ha scelto di ribellarsi, a fronte della stragrande maggioranza che si è invece piegata o che subisce il ricatto mafioso. Le testimonianze coraggiose di Tiberio Bentivoglio, Filippo Cogliandro, Rocco Mangiardi, Gaetano Saffioti, Antonio De Masi ed altri ancora che hanno avviato una rivolta contro il pizzo, non sono state finora sufficienti a cambiare la storia dei nostri territori. Lo stesso è avvenuto per le aziende e le cooperative sociali che, per non piegarsi al ricatto mafioso, subiscono continuamente attentati ed intimidazioni e sono diventati bersaglio da colpire perché simboli scomodi di una possibile ribellione di massa che alla ‘ndrangheta fa paura. La sfida allora (soprattutto nel Mezzogiorno, ma non solo) è quella di passare dalle testimonianze simboliche e circoscritte ad una vera e propria rivolta contro questa forma di oppressione che lede la dignità delle persone ed il diritto di fare impresa in modo libero, nella consapevolezza che non si può delegare la lotta solo allo straordinario lavoro di magistratura e forze dell’ordine, che in questi anni hanno inflitto colpi durissimi alle cosche. Le associazioni antiracket - Un contributo fondamentale in questa direzione viene dalle associazioni di imprenditori come quella promossa da oltre un decennio dall’associazione Libera di don Luigi Ciotti, che ha dato vita nel nostro territorio all’associazione antiracket Reggio-Libera -Reggio, presente soprattutto nel settore del commercio e dei servizi, che ha adottato uno slogan che è al tempo stesso un progetto di vita e di un nuovo modo di fare imprenditoria: La libertà non ha pizzo. Una esperienza avviata tra non poche difficoltà, che oggi vede coinvolte oltre settanta aziende aderenti, alle quali Libera ha cercato di offrire ascolto ed accompagnamento, favorendo il mettersi in rete per vincere la solitudine e l’isolamento. Mentre bisogna lavorare affinché un numero sempre maggiore di imprese trovino la forza ed il coraggio di ribellarsi, occorre avere la consapevolezza che il mosaico antiracket sarà completo solo se a magistratura, forze dell’ordine ed imprese sane si aggiungeranno altri due tasselli. Il ruolo fondamentale dei cittadini - Il primo è quello dei cittadini, che devono scegliere di diventare consumatori responsabili, partecipando alla campagna Reggio-Libera-Reggio, scegliendo di boicottare le imprese mafiose o dei loro prestanome, decidendo di fare gli acquisti presso i commercianti che non pagano il pizzo o che essendo state vittime di estortori hanno denunciato. Una modalità concreta di contrasto al potere mafioso, che tocca le loro tasche e che può erodere il consenso di cui godono. L’altro tassello è quello delle istituzioni pubbliche. In primis delle Prefetture che, superando lungaggini burocratiche insopportabili, devono garantire tempestivamente a chi denuncia quello che le norme attuali prevedono per le vittime di racket ed usura. E poi il Parlamento, il Governo, le Regioni e Comuni, che nell’ambito delle rispettive competenze devono rivisitare le leggi ed i regolamenti esistenti per individuare forme di sostegno più adeguate a chi denuncia e resiste, ivi compresa la possibilità di destinare beni ed aziende confiscate anche alle vittime del racket. Anche la guerra è sotto la legge. La lezione della sentenza Regeni di Rosario Aitala* Avvenire, 5 novembre 2023 Dal Palazzo della Consulta arriva una lezione politica memorabile. L’occasione è particolare, il processo Regeni, le implicazioni universali. Nella sentenza del 26 ottobre la Corte ha stabilito che la mancata cooperazione di uno Stato non può paralizzare un processo per atti di tortura commessi da agenti pubblici. La Repubblica non può tollerare questo spazio di “immunità”: si legga impunità. La giustizia, scrivono i giudici, deve fare il suo corso anche se non si ha la prova che i quattro funzionari dei servizi segreti accusati di avere sequestrato, torturato e ucciso il giovane dottorando italiano, siano a conoscenza del processo, a causa della mancata assistenza delle autorità egiziane. Lo Stato, conclude la Corte, ha il dovere di giudicare la tortura, che è un delitto universale, fermo restando il diritto dell’imputato a comparire davanti ai giudici e chiedere la riapertura del procedimento. Le torture commesse da soggetti che esercitano l’autorità sono macabri strumenti di inquisizione o mezzi arbitrari di punizione e umiliazione, finalizzati a ridurre la persona umana a povera materia dolente. Esercizi di vendetta e dominio, vietati e puniti dal diritto internazionale. Ma la sentenza invita a riflessioni più ampie. Vi sono contenuti due principi interpretabili in termini generali che nella contemporaneità, preda del male, diventano paradigma. Primo. Il diritto internazionale “imperativo”, cioè tassativo, inviolabile, prevale sulla legge interna. Certi obblighi universali trascendono la discrezione di governi e parlamenti perché proteggono la pace e la sicurezza internazionali, le libertà e i diritti individuali, dunque la stessa civiltà umana. La guerra non è affatto uno spazio sottratto alla legge. È soggetta a principi di umanità. Nei conflitti armati è proibito dirigere la violenza contro i civili e i beni non militari: case, luoghi di culto, ospedali. La forza deve essere usata in modo da evitare danni anche non intenzionali a non combattenti e a beni civili. Se non è possibile distinguere, è vietato attaccare. La popolazione dell’avversario non può essere trasferita né si può insediare la propria nei territori occupati. I civili non possono essere privati di acqua, cibo, farmaci. Sono sempre vietati, in tempo di pace e di guerra, gli atti intesi a suscitare terrore. Attentati, omicidi e rapimenti contro civili inermi e incolpevoli non sono mai giustificati dal fine perseguito, non importa quanto nobile. È proibito agli Stati discriminare, perseguitare e segregare per motivi politici, nazionali, etnici o religiosi i propri cittadini o altri. L’elenco è lungo. La violazione di queste norme cogenti non solo chiama in causa Stati, movimenti politici e milizie. Comporta anche la responsabilità penale personale di chi concepisce, ordina e commette atrocità di massa. Questi crimini sono detti “internazionali” perché talmente gravi da offendere idealmente l’intera umanità, a prescindere dal luogo dove sono commessi e dalla nazionalità delle vittime e dei carnefici. Quando la campana suona, suona per tutti. Secondo. La giustizia dei crimini internazionali realizza l’obbligo degli Stati di salvaguardare la dignità umana anche quando l’assenza dell’imputato non ne permetta l’effettiva punizione. La giustizia penale internazionale ha forte valenza simbolica. Un mandato di arresto della Corte penale internazionale o di un altro tribunale cui non può seguire un giudizio per l’assenza dell’imputato è di per sé un importante accertamento dei fatti e delle responsabilità, che attua il diritto delle vittime alla verità e difende valori universali nati sul sangue delle guerre mondiali, patrimonio comune di tutti gli esseri umani. Il diritto internazionale è indispensabile affinché gli Stati non risolvano le controversie ricorrendo alla forza sregolata e alla vendetta. La giustizia internazionale penale è necessaria, ma è improprio assegnare ai processi il fine di risolvere i conflitti armati. Le guerre sono politica e i governi hanno la responsabilità di fermarle. La giustizia ha la primaria funzione di difendere l’asimmetria fra l’inciviltà della violenza disumana e la civiltà dei processi, del diritto e dei diritti. In un mondo senza regole, l’umanità è perduta. *Giudice della Corte penale internazionale Liberazione anticipata: requisiti e criteri valutativi per la concessione di Riccardo Radi terzultimafermata.blog, 5 novembre 2023 La Corte di cassazione, con la sentenza 43091/2023, ha indicato i criteri che deve seguire il giudicante per concedere o negare il beneficio penitenziario previsto dall’articolo 54 ord. pen. La Suprema Corte premette che al pari degli altri benefici penitenziari, la concessione della liberazione anticipata è soggetta all’apprezzamento discrezionale del giudice di sorveglianza, la cui valutazione, che deve riflettersi nella motivazione, deve essere condotta sui binari segnati dall’art. 54 ord. pen. Tale disposizione subordina la concessione della liberazione anticipata alla prova che il detenuto abbia tenuto regolare condotta e partecipato all’opera di rieducazione. In particolare, in materia vale il principio secondo il quale l’oggetto della valutazione del Tribunale di sorveglianza è la partecipazione, nel semestre temporale di riferimento, del condannato all’opera di rieducazione e non il conseguimento dell’effetto rieducativo (Sez. 1, n. 5877 del 23/10/2013, Rv. 258743, che ha annullato con rinvio il diniego della liberazione anticipata motivato in ragione della commissione di gravi reati a distanza di circa sei anni dalla fine dell’esecuzione della prima parte della pena e dell’evasione al termine del secondo periodo di detenzione, senza compiere alcun esame dell’impegno dimostrato dal condannato nel corso di ciascuno dei semestri rilevanti ai fini della concessione del beneficio). Pertanto, la condotta del richiedente deve essere valutata frazionatamente, in relazione a ciascun semestre cui l’istanza si riferisce, sebbene tale principio non abbia carattere assoluto, non escludendo esso che un comportamento tenuto dal condannato dopo i semestri in valutazione, in costanza di esecuzione o in stato di libertà, possa estendersi in negativo anche ai periodi precedenti, pur immuni da rilievi disciplinari; la ricaduta nel reato è poi indubbiamente un elemento rivelatore di mancata adesione all’opera di rieducazione e di espresso rifiuto di risocializzazione (Sez. 1, n. 47710 del 22/09/2011, Rv. 252186; Sez. 1, n. 2702 del 14/04/1997, Rv. 207705). Nel caso esaminato, il Tribunale di sorveglianza non ha fatto buon governo dei superiori principi. In primo luogo, dalla lettura del provvedimento emerge la carenza di valutazione del comportamento posto in essere dal detenuto nei cinque semestri per i quali veniva richiesto il beneficio. In secondo luogo, i fattori negativi posti a fondamento del rigetto si riferiscono quasi integralmente a semestri di pena diversi da quelli in valutazione, contigui o lontani nel tempo, senza che il giudice motivi, al di là di un generico riferimento alla gravità dei fatti commessi e alla contiguità con il contesto mafioso, sulla loro reale rilevanza ai fini della valutazione imposta dall’art. 54 ord. pen. Invero, il provvedimento si fonda: a) su due sanzioni disciplinari riportate da M., una nel quinto semestre, rilevante ma non approfondita nella sua valenza negativa, e l’altra nel “sesto semestre”, che tuttavia non è oggetto di istanza; b) sui fatti riportati nel d.m. di proroga del regime speciale di cui all’art. 41-bis ord. pen., e accaduti, come riporta l’ordinanza impugnata, “prima” della sua applicazione, quindi, in semestri di pena certamente antecedenti quelli in valutazione, senza che, tuttavia, il giudice spieghi come fatti posti in essere a significativa distanza di tempo possano riverberarsi negativamente sulla positiva partecipazione del detenuto all’opera di rieducazione nel periodo di interesse; c) sui trattenimenti della corrispondenza, sulla cui rilevanza il giudice a quo non si sofferma. La motivazione appare, dunque, manifestamente illogica, se non apparente, per l’effetto che il provvedimento impugnato deve essere annullato con rinvio per nuovo esame, da condurre alla luce dei principi suindicati. Sicilia. Lo sport entra nelle carceri per unire detenuti e famiglie di Fabrizio Bertè La Repubblica, 5 novembre 2023 Il progetto “Giocare per diritto” è promosso dalla Uisp Sicilia. “Ciao papà, ci vediamo sabato”. Una frase che racchiude emozioni e sentimenti. Gioia e malinconia. E che rappresenta l’essenza del progetto “Giocare per diritto,” promosso dalla Uisp Sicilia e sostenuto dall’impresa sociale “Con i bambini”, attraverso il bando pubblico “Un passo avanti”. Un progetto che ha coinvolto ben otto istituti penitenziari della Sicilia: Palermo, Catania, Messina, Agrigento, Ragusa, Trapani, Enna e Giarre e che ha visto la realizzazione di laboratori, aree-gioco e attività sportive. “E non solo - racconta Santino Cannavò, presidente della Uisp Messina e responsabile della cabina di regia territoriale del progetto Giocare per diritto - perché pian piano abbiamo coinvolto anche Barcellona Pozzo di Gotto e siamo riusciti a creare qualcosa di incredibile. Abbiamo restituito bellezza e dignità. E attraverso lo sport abbiamo creato momenti di unione e aggregazione tra le famiglie, ma soprattutto siamo riusciti a riavvicinare i figli ai genitori che stanno scontando una pena. In carcere, spesso, ci finisce chi è già stato emarginato dalla società. Ma il nostro sogno, sin dall’inizio, è stato quello di ridare vita e normalità a persone che ne hanno bisogno. E vedere padri e figli salutarsi al termine di una giornata ricreativa e dirsi “Ci vediamo sabato prossimo” è stata una grande vittoria per tutti noi”. L’obiettivo? Restituire sorrisi e speranze: “Sentirci dire “Quando venite la prossima volta? Così possiamo rivedere papà”, è stata la cosa più bella - racconta Paola Piatta, educatrice sportiva della Uisp Messina - Per me, che sono un’educatrice, è un successo”. E tra partite di mini-volley, attività motoria di base, corse, trekking e quattro calci a un pallone rinascono intere famiglie. E alla fine di ogni giornata i bimbi hanno preso in mano fogli, matite e colori e hanno raffigurato le loro giornate. Assieme ai genitori: “Mio papà sta in carcere - dice Jasmin, che ha 12 anni - E qui ci sono persone che possono e vogliono cambiare grazie allo sport. Questo progetto mi ha permesso di giocare a pallone con mio papà, di camminare con lui e correre assieme. Senza vederlo sempre dietro a un tavolino del carcere”. Il progetto si concluderà il prossimo 30 novembre. Ma la Uisp, attraverso il suo presidente regionale Vincenzo Bonasera, ha lanciato un appello: “Giocare per diritto nasce per avere un prosieguo. I detenuti hanno sbagliato, ma bisogna dar loro la possibilità di non sbagliare più e restituire dignità a tutti”. E la speranza è quella che il ministero della Giustizia possa magari prendere spunto e rilanciare questo progetto: “Abbiamo creato un modello virtuoso, sulla scia delle carceri nordeuropee - conclude Santino Cannavò - E attraverso le aree-gioco abbiamo anche riqualificato tanti spazi all’interno degli istituti penitenziari e favorito in questo modo la riduzione dell’impatto traumatico dei bambini con il carcere. Il momento che mi ha toccato di più? Mi ha commosso sentirmi dire da un ragazzino, dopo una giornata con il papà, che non faceva una passeggiata con suo padre da due anni e mezzo”. Palermo. Morto in carcere Antonino Lauricella: fu definito la “terza linea” di Cosa Nostra di Gabriella Mazzeo fanpage.it, 5 novembre 2023 Il boss Antonino Lauricella, 69 anni, è morto di malattia in carcere a Palermo. L’uomo fu definito la “terza linea” di Cosa Nostra e fu arrestato dopo anni di latitanza nel 2011 al mercato di Ballarò. Nel quartiere dove viveva lo chiamavano "Scintilluni", per via della sua "eleganza". Antonino Lauricella, 69 anni, boss del quartiere della Kalsa, è morto a Palermo in seguito a una lunga malattia. Risultava latitante dal 2005 e fu arrestato solo nel 2011 a Ballarò. Il boss è morto in carcere. Il boss del quartiere del centro storico di Palermo era cresciuto alla corte del boss Masino Spadaro e del capomafia Gerlando Alberti. L'uomo era accusato di traffico di stupefacenti, omicidi, mafia ed estorsioni. Proprio l'ultima condanna per estorsione lo ha costretto a 7 anni e mezzo di galera. Lauricella era legato a malavitosi quali Pietro Senapa, ritenuto importante nelle gerarchie dei clan palermitani. Al momento della cattura era stato definito dal procuratore Ignazio De Francisci una "terza linea" di Cosa Nostra. "Scintilluni" aveva scalato le gerarchie di Cosa Nostra dopo gli arresti che avevano decimato i vertici mafiosi. Nel '96 era stato raggiunto da ordine di carcerazione per alcuni omicidi e aveva provato a darsi alla fuga, ma un anno dopo era stato catturato a Busto Arsizio. Dalle accuse a lui rivolte, Lauricella era stato spesso assolto. Era riuscito a sfuggire a un blitz delle forze dell'ordine dopo le dichiarazioni di Francesco Famoso, un collaboratore di giustizia che aveva collocato il boss nella rete degli esattori del racket delle estorsioni. Lauricella si diede alla latitanza a partire dal 3 ottobre 2005. Sarà arrestato nel dicembre 2011 dagli agenti della squadra mobile di Palermo nel mercato di Ballarò. Le indagini erano state coordinate da Maurizio de Lucia, allora sostituto procuratore e oggi a capo della Procura di Palermo. Il decesso del boss è avvenuto nel carcere di Palermo, dove Lauricella si trovava da anni dopo l'arresto avvenuto nel 2011. A ucciderlo, una lunga malattia. Sulmona (Aq). Malore in carcere, detenuto ergastolano muore nella sua cella Il Messaggero, 5 novembre 2023 Un detenuto, Stefano Fedeli, romano di 55 anni, è morto all'interno del carcere di Sulmona dove stava scontando una condanna all'ergastolo per aver ucciso una guardia giurata nel 2014. L'uomo, che era affetto da alcune patologie, è stato trovato ieri mattina nel suo letto privo di sensi. Immediatamente sono scattati i soccorsi, ma i tentativi di rianimazione non hanno prodotto effetti e l'uomo è deceduto. La morte è stata provocata da un malore, ma la Procura di Sulmona ha disposto comunque l'autopsia che sarà svolta all'Aquila a causa della indisponibiltà di una sala idonea nella città peligna. Fedeli era stato trasferito a Sulmona nel giugno scorso da un altro istituto di pena. Era stato condannato insieme ad altre due persone per l'omicidio del 27 marzo 2014 quando, poco prima delle 20, fu tra gli esecutori materiali del delitto di Giuliano Colella, guarda giurata. Reggio Calabria. Tortura nel carcere? “La presenza passiva” dei 6 agenti prosciolti di Francesco Tiziano Gazzetta del Sud, 5 novembre 2023 I motivi della sentenza del Gup: “Dalla videosorveglianza si vede chiaramente come restano sempre fermi”. Prosciolti “perché gli elementi acquisiti non consentono di formulare una ragionevole previsione di condanna”. È questa la motivazione con cui il Gup di Reggio Calabria, Vincenzo Quaranta, ha dichiarato “non luogo a procedere” nei confronti di sei agenti di Polizia penitenziaria in servizio alle carceri reggine “San Pietro” dove il 22 gennaio 2023 sarebbe stato pestato, e sottoposto a tortura, un detenuto napoletano. Sentenza che la Procura ha appellato; e disposto il processo (il via davanti al Tribunale collegiale di Reggio il prossimo 20 novembre) per l'ex comandante e cinque agenti penitenziari, oltre a un medico ed un infermiere (avendo secondo gli inquirenti affermato il falso “ostacolando e sviando le indagini in ordine al pestaggio del detenuto”). Per il Gup di Reggio i sei agenti non hanno usato violenza seppure presenti nelle incandescenti fasi della presunta sopraffazione fisica e morale: “Si deve evidenziare come sia provato che gli stessi non abbiano in nessun momento della gestione operativa compiuto atti di violenza in danno del detenuto; risulta come non abbiano nemmeno minimamente sfiorato il Peluso dal punto di vista fisico”. Presenti, operativi nell'adempiere alle direttive del loro comandante, ma non violenti: “Per gli imputati prosciolti vi è la sola partecipazione alle fasi operative, una presenza passiva, talora più vicini ai punti in cui il Peluso veniva colpito dai loro colleghi e talora a distanza da tali punti”. Nuoro. “La Colonia penale di Mamone va intitolata alla direttrice Patrizia Incollu” di Luciano Piras La Nuova Sardegna, 5 novembre 2023 “Un direttore di questa caratura professionale ed umana non lo si trova dietro una qualsiasi porta. Proponiamo perciò di intestare la Casa di reclusione di Mamone alla dottoressa Patrizia Incollu, un giusto riconoscimento tra i tanti che meriterebbe di avere, visto l’alta appartenenza allo Stato e l’abnegazione al dovere che l’ha sempre contraddistinta e che ha fatto della direttrice un pilastro della nostra amministrazione”. A firmare la richiesta è Giovanni Villa, segretario regionale della Cisl Fns. “In tutti questi anni la dottoressa Incollu ha amato la Colonia di Mamone con tutto ciò che essa comporta ed è stata ricambiata dall’affetto e dalla stima di tutti coloro che vi lavorano e la vivono per qualsiasi motivo” sottolinea il poliziotto sindacalista in una lettera inviata a Maurizio Veneziano, provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria, oltre che ha vertici nazionali della stessa Cisl Fns. All’indomani dei funerali a Sassari della direttrice della Casa circondariale di Badu ‘e Carros a Nuoro, del carcere San Daniele di Lanusei e della Colonia penale di Mamone, morta a seguito di un drammatico incidente sulla statale 389 (che nell’immediato è costato la vita anche all’assistente capo Peppino Fois), Villa ricorda il profilo umano e professionale di Patrizia Incollu in uno scenario e anni difficili che “hanno visto il Distretto Sardegna sempre martoriato dalla forte carenza di dirigenti penitenziari specialmente di direttori con la D maiuscola capaci di far sopravvivere le carceri dell’isola con innumerevoli sforzi sia nel lavoro sia personali”. “La dottoressa Incollu ha letteralmente salvato la Colonia da un disastro economico che avrebbe potuto causarne la chiusura” ribadisce a chiare lettere il segretario regionale della Cisl Fns. “Ancora mi piange il cuore - dice - e certo ieri avrei voluto essere all’Assemblea organizzata dalla Cisl sarda e non al funerale di Patrizia”. A ricordare la direttrice durante l’incontro ci ha pensato Michele Muggianu, segretario generale Cisl Ogliastra. “Siamo tutti vicini al compagno, ai genitori, alla sorella e familiari tutti”. “Grazie per essere stata la mia direttrice - chiude Giovanni Villa guardando verso l’alto alla ricerca del sorriso di Patrizia Incollu - e ancor di più un’amica che ha sempre dato il cuore come nell’occasione dell’alluvione che c’è stata in paese, a Bitti, quando preoccupata per me, la mia famiglia e i bittesi ti sei offerta di venire con il tuo compagno per dare il tuo contributo nonostante oberata di lavoro nella gestione di più carceri. Non ti dimenticherò mai”. Milano. Il Sindaco Sala: “Oggi chi delinque rischia troppo poco” di Fabrizio Guglielmini Corriere della Sera, 5 novembre 2023 La sicurezza in città e i taxi restano fra i dossier più dibattuti delle ultime settimane. E sono questi i temi che il sindaco di Milano Giuseppe Sala ha affrontato a margine della deposizione della corona di fiori al sacrario dei Caduti, in occasione della giornata delle Forze armate. Sulla sicurezza “indubbiamente la situazione continua a essere delicata e so anche che bisogna fare di più, sia in termini di controllo sia anche rispetto al fatto che c’è la sensazione di uno scarso rischio da parte di chi delinque”. Così il primo cittadino a poche ore di distanza dai due casi di accoltellamento avvenuti l’altra notte in Darsena, dove è stato ferito un 26enne a coltellate, e in Corso Como, dove i feriti sono stati due. C’è spazio per un affondo al sistema giudiziario: “Sono veramente lontano da immaginare un sistema ordinamentale della giustizia troppo aggressivo - ha detto Sala - ma così alla fine si rischia veramente poco e questo non va bene. Bisogna disincentivare gli atteggiamenti criminosi ancora prima di controllarli”. E a chi “invoca tolleranza zero rispondo “sì, e poi anche se fossero arrestati e non solo fermati, e messi in prigione, dove?” - ha concluso Sala - La realtà è che non ci sono le strutture adeguate”. Chiaro il riferimento al carcere Beccaria dove è ben noto il problema del sovraffollamento e dei lavori in corso da molti anni. Altro capitolo di strettissima attualità il caso taxi. Premessa: l’Antitrust ha inviato una segnalazione ai Comuni di Roma, Milano e Napoli sollecitandoli ad adeguare il numero delle licenze taxi; troppo poche rispetto alle richieste dei cittadini. L’Antitrust fornisce anche delle cifre. A Milano, che conta 4.853 tassisti, il rapporto tra auto bianche e popolazione è di 3,5 licenze ogni mille abitanti. Da qui l’invito dell’organo di controllo alle amministrazioni locali: “Per superare questa grave situazione, l’Autorità sollecita i comuni ad adeguare il numero delle licenze taxi alla domanda di tali servizi, di cui una significativa parte rimane, ad oggi, costantemente insoddisfatta, spingendo l’aumento oltre il tetto del 20 per cento fissato in via straordinaria nel cosiddetto decreto Asset e adottando in tempi brevi i bandi di pubblico concorso per l’assegnazione delle nuove licenze”. Pronta la risposta di Palazzo Marino: “Nonostante una legge un po’ confusa e discutibile - replica l’assessora alla Mobilità, Arianna Censi - la rispetteremo e faremo di tutto per far sì che presto a Milano possano esserci nuovi taxi in strada”. Le fa eco il primo cittadino: “All’Antitrust rispondo che noi stiamo facendo questa battaglia da tempo. Io confermo l’idea di lavorare su un migliaio di nuove licenze, poi si stabiliranno le formule. Un migliaio vuol dire intorno al 20 per cento e noi faremo quello”. E ha aggiunto: “Purtroppo fino a poco tempo fa le regole prevedevano di avere un’autorizzazione dalla Regione che noi non abbiamo mai avuto”. E sottolinea che quella dell’Antitrust è una richiesta legittima perché quello del governo è un intervento straordinario, mentre quello dell’Autorità è un intervento “definitivo”. In realtà il Comune si è già mosso nell’individuare la percentuale: 20 per cento di licenze equivalgono a 971 auto bianche in più. Ma, contemporaneamente, bisogna tenere conto di quante potrebbero essere le eventuali richieste di seconde guide; quindi fino a che non ci sarà questo numero è impossibile fissare il numero finale delle nuove licenze. Torino. I reati da “Codice rosso” sono quasi metà dei processi di Massimiliano Nerozzi Corriere di Torino, 5 novembre 2023 I dati del tribunale sui procedimenti collegiali. Il numero dei processi collegiali per reati contro le fasce deboli - dentro i quali ci sono quelli del “codice rosso” - sono passati dal 31,71 per cento sul totale del 2019, al 46,94 per cento del 2022, superando i generici. Emerge dai dati del tribunale. L’impennata dei reati contro le fasce deboli - dentro ci sono quelli da “codice rosso” - è dimostrata dal numero dei processi collegiali arrivati nelle aule del tribunale (dal gup, alla cui udienza si riferisce l’anno della statistica): erano il 31,71 per cento sul totale nel 2019, contro il 46,94 per cento del 2022. Per non parlare del 47,92 per cento dell’anno precedente. Nettamente superiore alla quota dei processi riguardanti reati generici, fermi al 31,12 per cento (nel 2022) e al 23,96 per cento (nel 2021). La sensazione - di un aumento delle denunce, o comunque dei reati da “Codice rosso” - s’è fatta percezione, statistica anche. La crescita è del resto evidente nell’elaborazione dei numeri del tribunale, che considera i processi collegiali arrivati dall’udienza preliminare tra il 2018 e il 2022: il 36,18 per cento hanno per oggetto i reati contro le fasce deboli, contro il 34,52 per cento dei procedimenti che riguardano quelli generici. Dietro l’incremento dei dibattimenti davanti al collegiale, c’è pure qualche (discutibile) scelta legislativa: su tutte, quella che ha modificato la competenza - dal monocratico al collegiale, appunto - dei maltrattamenti in famiglia, nel caso del secondo comma dell’articolo 572: poiché capita molto spesso che questi comportamenti sia avvenuti davanti ai figli. Logica considerazione di un magistrato: “Prima, tre giudici celebravano tre processi, adesso ce ne vogliono tre per farne uno”. Quella che sta ormai diventando un’emergenza sociale impegna ovviamente la Procura, che ai reati contro le fasce deboli dedica un pool di dieci pubblici ministeri, oltre all’aggiunto, Cesare Parodi. Altre modifiche legislative (entrate in vigore a fine settembre), vista la perenne carenza di risorse della giustizia, hanno obbligato a una direttiva, “per coniugare il rigoroso rispetto della legge con le esigenze di effettiva, concreta e rapida tutela delle persone offese dei reati in oggetto”. Ovvero, maltrattamenti in famiglia e violenza di genere. Si tratta di una mole di fascicoli che, nell’ultimo anno, ha portato la Procura ha chiedere 900 misure cautelari, tra carcere, allontanamento, divieto di avvicinarsi. La direttiva - firmata dal Procuratore reggente Enrica Gabetta e dall’aggiunto Parodi - contiene “indicazioni operative” alle forze dell’ordine, poiché la legge numero 122 del 2023 “impone una rapida ed efficace revisione di quelli che sono i principi operativi in materia di codice rosso, elaborati da questo ufficio”. Dunque: “In tutti i casi nei quali si intende inoltrare alla Procura una notizia di reato” per i delitti di cui si parla, “laddove fonte della notizia di reato sia la stessa persona offesa, si procederà a raccogliere la denuncia/querela”. E, dopo: con verbale immediatamente successivo, “si darà atto che a quel punto si procede, citando la presente direttiva, ad sentire la parte offesa nel termine di legge”, cioè entro tre giorni. Insomma, un lavorone. Dopodiché, c’è ovviamente molto da fare pure per le altre materie “criminali”, dalla Dda ai reati economici e di pubblica amministrazione: dove il numero dei fascicoli è minore, ma con “peso” inversamente proporzionale, tra numero di imputati, testimoni e attività d’indagine. Roma. In procura l’età dell’oro è finita: ora comanda la prudenza di Giulia Merlo Il Domani, 5 novembre 2023 L’addio di Pignatone, l’esito di Mafia Capitale e il caso Palamara hanno intimidito l’azione dei pm. Poche grandi inchieste dall’arrivo del procuratore Lo Voi. Che ha l’organico ridotto del 25 per cento. Negli anni Settanta e Ottanta la procura di Roma si portava addosso il soprannome di “porto delle nebbie”. Certo l’edificio è un labirinto cupo di scale interne e corridoi bui, pavimentati di sampietrini che - nell’opera del progettista - dovevano rappresentare che la giustizia è vicina alle strade dove passeggiano i cittadini. Il soprannome, però, è rimasto incollato al palazzone di piazzale Clodio per lustri, perché le inchieste ai poteri economici e politici della Capitale si perdevano dietro una coltre di nebbia, per non uscirne più. Insabbiati o contesi con altri tribunali, con allungamento matematico dei tempi per poi non arrivare a nulla: dai due “scandali dei petroli” ai fondi neri dell’Iri, fino a scampoli delle indagini che poi produssero il terremoto di Tangentopoli ma che a Roma non diedero grandi frutti. “A Milano certe cose non succedono”, era il ritornello dei magistrati all’epoca, che però si sente pronunciare di nuovo oggi nell’anonimato delle conversazioni con le toghe milanesi. Poi, però, recentemente anche la procura meneghina ha visto incollarsi addosso il nomignolo scomodo di “palazzo dei veleni”, dopo gli scontri interni alla procura intorno al caso Eni Nigeria e alla presunta Loggia Ungheria inventata da Piero Amara. Il manuale Cencelli - A Roma si è insediato ormai da quasi due anni il nuovo procuratore capo, Francesco Lo Voi. Ex vertice della procura di Palermo e un passaggio anche da consigliere al Csm, il suo nome è stato sostenuto dalle correnti conservatrici dopo un lungo e pasticciato iter di nomina. La procura di Roma,come è noto, è stata l’oggetto della contesa all’Hotel Champagne tra consiglieri togati e politici e ha prodotto l’emersione di quello che è finito sotto l’etichetta di scandalo Palamara: l’accordo e la spartizione correntizia degli incarichi ai vertici degli uffici più importanti del paese. Non solo. Prima dell’anno di interregno di Michele Prestipino - prima reggente, poi guida formale con nomina del Csm infine annullata dai giudici amministrativi - infatti, la procura di Roma era guidata con indiscutibile carisma da Giuseppe Pignatone, e il suo addio per raggiunta età pensionabile non è stato indolore. Pignatone, infatti, ha lasciato dietro di sé quella che è stata la più deflagrante indagine per mafia che la Capitale avesse mai visto: “Mondo di mezzo” o “Mafia Capitale” sono stati i nomi mediatici che ha assunto. Il disegno sottostante le ipotesi di accusa, se confermate, sarebbe stato eclatante: non più solo le mafie storiche di Sicilia, Calabria e Campania, anche in Lazio avrebbe avuto una sua mafia autoctona, impastata con la politica e in contatto con le cosche del sud Italia. Il terremoto Mafia Capitale - Il processo, iniziato nel 2015 e finito nel 2020 con la sentenza di Cassazione, però, ha smontato quello che è poi è stato definito un teorema: quelle di Roma, guidate da Massimo Carminati e Salvatore Buzzi, erano due associazioni per delinquere sì, ma “semplici”. Il gip archivia subito le posizioni di 113 indagati, l’aggravante mafiosa cade nella sentenza di primo grado, viene ripristinata in appello e infine definitivamente cancellata dalla sentenza di Cassazione. Così si è concluso il maggior processo romano degli ultimi vent’anni e che ha prodotto un terremoto politico a livello comunale, lambendo politici di tutti gli schieramenti. Molte le condanne eccellenti definitive (anche quella dell’ex sindaco Gianni Alemanno per traffico di influenze), ma l’impatto della cancellazione dell’aggravante mafiosa - che era il cuore dell’inchiesta - è stato pesante. Cosa succede oggi - La caduta parziale dell’impianto accusatorio di Mafia Capitale, il successivo pensionamento di Pignatone, il terremoto di credibilità dell’intera categoria provocato dallo scandalo Palamara con conseguenti tentennamenti nella nomina del nuovo vertice, senza parlare di alcune assoluzioni a sorpresa, hanno inevitabilmente indebolito l’azione degli uffici. Con il risultato che il mantra di gran parte dei sostituti è diventato quello della “prudenza”. Complicato, in questo clima, indagare sulla politica e sulla corruzione dei colletti bianchi - la piaga principale della città eterna - senza rischiare di incorrere in attacchi mediatici, oppure al costo di scontare il deficit di fiducia oggi diffuso nei confronti della magistratura. In questa situazione ha assunto il mandato Lo Voi. Da quando si è insediato non si è avuta notizia di grandi indagini avviate o in corso. Anche le leggi nazionali sono cambiate, e la comunicazione con l’esterno è ridotta all’osso. Gli uffici dei nove aggiunti funzionano come possono. Particolare spinta ha avuto l’ufficio che segue i crimini di genere grazie alla corsia preferenziale istituita con il Codice rosso. Tuttavia, la sensazione interna è quella di una battaglia impari. “Il traffico di stupefacenti se non è fuori controllo poco ci manca” e associazioni per delinquere “con uso del metodo mafioso” sono presenti, ma si muovono e si scontrano “in parità di posizione” e non con il consenso delle mafie storiche come in Sicilia, ha detto Lo Voi in audizione in commissione Antimafia. Ci sono i numeri: un totale di quasi 2.000 indagati noti nel periodo 1 luglio 2022 - 30 giugno 2023, con una attuale pendenza di 8.036 indagati nell’ambito di 461 procedimenti penali. La ragione della quasi impossibilità di contrasto è duplice: “L’offerta enorme risponde a una altrettanto enorme domanda” e le forze sono impari, perché “dall’organico mancano 22 dei 90 magistrati previsti. Per fare le udienze ho dovuto coinvolgere anche i componenti della Dda: non riuscivamo a coprire le udienze”. Livorno. Fondazione Laviosa prosegue le attività a sostegno dei detenuti quilivorno.it, 5 novembre 2023 La Fondazione Laviosa ETS, ente del terzo settore che propone numerosi progetti sul territorio di Livorno di alto valore sociale, anche per quest’anno rinnova la propria adesione con attività a sostegno dei detenuti e il coinvolgimento della popolazione su tematiche di educazione civica improntate al rispetto, alla cooperazione e alla conoscenza reciproca. Grazie alla sensibilità del presidente, il Cavaliere del Lavoro Giovanni Laviosa, saranno molteplici le iniziative rivolte ai detenuti, sottoscrivendo il carattere rieducativo della pena, sancito dalla nostra costituzione e sensibilizzando i cittadini, soprattutto i più giovani, all’abbattimento dei pregiudizi. Il primo progetto, in partenza il 13 novembre, riguarda la creatività e si rivolge ai detenuti del Carcere di Gorgona e delle Sughere, che parteciperanno ai laboratori dell’artista Giulia Bernini, in arte Oblo Creature, sul tema “Il lavoro della vita” interrogandosi sul proprio futuro al termine della pena. Il secondo progetto, in partenza l’11 Novembre, riguarda un corso di canto con il Professore e Maestro Cristiano Grasso; il maestro terrà due corsi, uno al carcere di Gorgona con i detenuti e l’altro rivolto gratuitamente a chiunque voglia partecipare, per un massimo di 20 persone. Le lezioni del coro a Livorno si terranno ogni due settimane il martedì pomeriggio dalle 18.30 alle 20.00. I due cori correranno così in parallelo, per andare a riunirsi in Gorgona in occasione di un concerto pubblico. Per prenotarsi alle lezioni di coro è necessario inviare una mail all’indirizzo segreteria@fondazionelaviosa.com, mettendo in oggetto: Iscrizione Coro Fondazione Laviosa Il terzo progetto, “Libri Liberi”, riguarda un concorso di scrittura creativa, partendo dal libro “La sindrome di Raebenson” (Blu Atlantide - Atlantide Edizioni), dell’autore medico psichiatra Dottor Giuseppe Quaranta. Il libro, finalista al Premio Calvino e in libreria dall’8 di Novembre, affascinante e inclassificabile quanto lo strano morbo inventato che illustra, porta il lettore a chiedersi che cosa sia possibile conoscere veramente della mente altrui, e quale sia il significato ultimo del nostro passaggio sulla terra. Sarà donato ai detenuti del carcere di Rimini, di Fermo e di Livorno. Infine per questa estate, coinvolgendo 15 studenti della scuola superiore, dopo il successo del Gorgona Camp 2023, in cui studenti e detenuti hanno riqualificato alcuni spazi comuni, torna l’edizione del 2024 finalizzata alla ripartenza della biblioteca dell’isola, cui saranno donati dei libri. Vi diamo appuntamento il 7 novembre alle ore 17 al Centro Donna di Livorno, per una conversazione sul carcere, partendo dal libro “Ne vale la pena”, in cui per la Fondazione Laviosa sarà presente la Professoressa Flavia Bertolli, dialogando con Carlo Mazzerbo ex direttore del penitenziario di Livorno insieme a Barbara Radice, funzionario giuridico pedagogico del carcere di Gorgona, Pierangelo Campolattano, assistente e capo coordinatore della polizia penitenziaria di Gorgona e Marco Solimano, garante dei diritti dei detenuti del Comune di Livorno. Avellino. Giustizia riparativa: perché tanti ritardi? È l'ora di parlarne ottopagine.it, 5 novembre 2023 Domani pomeriggio alla Provincia l'incontro con tutti i protagonisti. Il grado di diffusione dei servizi e delle politiche di Giustizia riparativa e mediazione dei conflitti in Campania, fin dal primo impulso dato a questo approccio dalle norme inerenti la Giustizia Minorile, testimonia una particolare affinità e disponibilità socio-antropologica locale al modello di riferimento. In tutte le province della nostra regione si sono istituiti Centri per la Mediazione dei Conflitti e di G.R., direttamente gestiti dagli Enti istituzionali preposti, o affidati, attraverso progetti finanziati dal Ministero della Giustizia e i suoi partner, a soggetti ed Enti esperti nel settore. I risultati annoverati in questi anni confermano la validità e le ulteriori potenzialità di sviluppo del modello ristorativo, sia nei settori operativi connessi alle diverse tipologie di interventi riparativi e mediativi, sia per ciò che attiene alle politiche di informazione e sensibilizzazione sul territorio, sia, infine, ai programmi di aggiornamento e formazione nei contesti istituzionali con funzioni educativo-riabilitative. L’attuale fase di empasse organizzativa, fatta registrare dal prolungamento dei tempi di realizzazione di tutti gli step previsti per l’attivazione definitiva del nuovo sistema di Servizi di G.R. previsto dalla c.d. riforma Cartabia, dai suoi Decreti Attuativi e dalle ulteriori indicazioni sui processi di definizione delle Conferenze Regionali e Locali, oltre che per la costituzione dell’Albo Nazionale dei Mediatori Esperti, sta creando una situazione di incertezza e disorientamento nei sopracitati Servizi e nella rete di connessioni che il modello riparativo aveva, di fatto, attivato. Al fine di fare il punto sullo stato dell’arte e sulle possibili modalità operative che, nelle more della formalizzazione di tutta la catena di organi e accreditamenti previsti per il funzionamento a regime dell’intero sistema nazionale dei servizi di G.R., possono essere concretamente attivate o riattivate dagli operatori e Servizi della G.R. in Campania, i componenti della Cabina di Regia del Centro di G.R. di Avellino hanno organizzato un incontro nel corso del quale il Prof. Giovanni Angelo Lodigiani, professore a contratto di giustizia riparativa e mediazione penale presso l’Università dell’Insubria, esperto della Conferenza Nazionale per la giustizia riparativa, con funzioni di consulenza tecnico-scientifica, DM 27/07/2023, darà un importante contributo. Allo stesso incontro sarà presente il prof. Andrea R. Castaldo, Ordinario di diritto penale, rappresentante della Regione Campania al Tavolo tecnico della Conferenza Nazionale per la giustizia riparativa. L'iniziativa si terrà il giorno 6 novembre 2023, alle ore 15.30 presso la Sala Grasso sita nel Palazzo della Provincia di Avellino in P.zza Libertà. Arrigo Cavallina: il nuovo libro, il carcere e la giustizia riparativa di Angiola Petronio Corriere di Verona, 5 novembre 2023 La parabola Arrigo Cavallina ha 78 anni. Dodici ne ha trascorsi in carcere. Un nuovo libro. Che non è un “altro” libro, ma una raccolta di quanto, negli anni, non è stato pubblicato. È questo “Di sasso in sasso” del fondatore dei Pac Arrigo Cavallina. “Il carcere tradizionale restava un luogo di profonda contraddizione: una storia dì brutalità quotidiane fatta di pestaggi selvaggi nelle celle sotterranee, di claustrofobia di gente ammassata in celle senza spazio e senza un minimo vitale di comodità; di bocche di lupo, di freddo senza riscaldamento, di caldo senza ventilazione, di buglioli usati davanti a tutti. E questo non è solo il passato: è il presente di molte carceri “normali”“. Scrive così, in un passaggio di quello che non è “un altro libro” su di sé, o sugli anni del terrorismo. “Nel corso degli anni - spiega - ho sparpagliato una quantità di altri interventi che sono articoli di giornali, lettere, interviste. Ho pensato, arrivato a una certa età, che mi piacerebbe che non fossero dispersi e ho voluto metterli assieme. Ho gettato le reti indietro negli anni. Mi sembrava che ci fossero considerazioni e fatti ancora di qualche interesse, quindi ancora una volta un’esperienza con tutti i suoi risvolti sofferti, che poteva però anche trasformarsi in una riflessione utile”. È nato così “Di sasso in sasso”, edito da Echos. Lui è Arrigo Cavallina. Dei suoi 78 anni una dozzina li ha trascorsi in carcere. Condannato per concorso nell’omicidio del maresciallo Antonio Santoro, avvenuto a Udine il 6 giugno 1978, e per altri reati legati alle attività dei Pac. Lui, che da ragazzino frequentava gli ambiti parrocchiali, è saltato su quel sasso scagliato negli anni Settanta che è stato il terrorismo. È stato uno dei fondatori del gruppo eversivo dei Proletari Armati per il Comunismo. E fu colui che al terrorismo reclutò nel carcere di Udine, dove lo conobbe, un detenuto “comune” alla lotta armata. Si chiama Cesare Battisti, quel detenuto. E Cavallina ne viene sempre indicato come il “cattivo maestro”. Ma lui, quel veronese di buona famiglia, di “sasso in sasso” è andato per tutta la vita. Ed è diventato un riferimento di quel movimento dissociativo - ben lontano dal pentitismo - che contribuì a sgretolare la dottrina terroristica, Arrigo Cavallina. Due lauree, un lavoro nelle comunità Exodus di don Mazzi, la riscoperta della fede e il volontariato con La Fraternità in carcere. Quello di cui lui ha conosciuto ogni anfratto, fisico e mentale. Ha il titolo di una frase che sentì dire da un anziano durante una passeggiata in montagna, “Di sasso in sasso”. “È una frase che mi piaceva - racconta -. Il significato è nella pluralità delle cose fatte, nelle esperienze. Quanto rimane di dritto ovviamente non è la vita, non è il percorso, ma come dice il titolo tra un sasso e l’altro ci sono antri, spazi che non emergono, che non appaiono. E quindi è un po’ un saltare da uno all’altro nel tempo. Con l’attenzione, la fatica, il fatto che non è mai lineare e che hai sempre dei ripensamenti”. E tra i sassi di Cavallina, anche quelli che sono i suoi cippi. La giustizia riparativa in primis. Quella che è anche nella retrocopertina del libro. “... Il fare giustizia - scrive non può rivolgersi solo alla persona condannata, perché sconti la pena seguendo, nel migliore dei casi, un trattamento rieducativo. C’è una ferita da sanare, una vittima da una comunità da coinvolgere e vanno cercate forme di comunicazione e se possibile di accordo perché nella pena si inseriscano o si affianchino gesti riparativi, accettati e graditi. Gesti che portino al superamento dei rispettivi pregiudizi e alla convinta affermazione che l’offesa non doveva essere fatta. Dov’era la lacerazione, va ricostruito l’incontro tra vittima, autore di reato e comunità”. Ripercorre, “di sasso in sasso” tutto se stesso, Cavallina. “Per me - spiega in un’intervista del 2004 di Brunella Giovara - rinnegare il passato ha significato un lavoro molto duro: rivedere all’indietro i miei sbagli e nello stesso tempo ritrovare una continuità con me stesso”. Racconta, in quella intervista di Cesare Battisti. “Nei Pac è entrato per colpa mia, direi. Ne sento la responsabilità, anche se vai a sapere quale strada avrebbe fatto se non mi avesse conosciuto...”. La sua storia, il terrorismo, il carcere, le dissociazioni, le vicende personali, la nonviolenza, gli spunti dalle Scritture, il perdono, la giustizia, il carcere il volontariato, la droga, l’educazione, sono tutti i “sassi” su cui si snoda quest’ultimo libro di Arrigo Cavallina. “L’intenzione finale - dice - è educativa. Sono le riflessioni che ho fatto su quanto ho vissuto. Mi piacerebbe che non servissero solo a me ma che diventassero utili anche ad altri. Questo mi darebbe una grande soddisfazione. Vorrei solo che più persone arrivassero a fare una riflessione sul senso della pena, sulla non violenza e su come affrontare certe difficoltà”. “Pietracci”, una storia di donne sullo sfondo di un carcere La Sicilia, 5 novembre 2023 Il nuovo romanzo dell'agrigentina Cristina Granchelli. “Il carcere di Pietracci è sempre lì, sulla collina fra Agrigento e Favara”. Eva Rinaldi, 19 anni, ci arriva una mattina di agosto con l’accusa di rapina. È innocente, una persona perbene e si ritrova in un mondo che le è subito ostile. Donna Anna Tedesco rivuole la “roba sua”. Il romanzo segue due filoni che si alternano. La storia di Eva all’interno del carcere e la vita di Anna che diventa il capo di una famiglia mafiosa. Due donne costrette a combattere battaglie estenuanti e fra quelle, la peggiore e quotidiana lotta tra ciò che vogliono e ciò che sono costrette a fare. Un desiderio di rivalsa, il sogno di una vita normale e tutte le lacrime “che gli altri non devono vedere” legano Eva e Anna a tutte le altre. Una famiglia in cui i legami di sangue contano poco. O troppo. Il romanzo - uscito ieri dal titolo Pietracci che è un mix tra il nome del carcere di Agrigento Petrusa e quello di Termini Imerese Cavallacci - è di Cristina Granchelli, agrigentina di 52 anni, una laurea in giurisprudenza ed al suo secondo romanzo (nel 2015 era uscito “La nostra verità” in formato ebook edito da Robin Edizioni). Ha collaborato alla collana “Intifada” pubblicata su Amazon a partire dal 2018. Oggi lavora come chef presso il ristorante “Perbacco” nel centro storico di Agrigento. "Dolore e furore", antropologia delle Br a Genova recensione di Riccardo Gasperina Geroni Il Manifesto, 5 novembre 2023 La biografia di Riccardo Dura in una città-palestra della lotta armata: da genovese, Sergio Luzzatto illumina un versante trascurato della storia delle Br. Le nostre librerie strabordano di libri sulle Brigate rosse. La stagione del terrorismo è, insieme con il Ventennio e la Resistenza, il periodo storico più studiato del Novecento italiano. Dando una rapida scorsa al catalogo delle ultime uscite, non si lesina certo sui titoli: Il “lodo Moro” di Valentine Lomellini (Laterza), L’affaire 7 aprile di Roberto Colozza (Einaudi), La strage di Bologna di Paolo Morando (Feltrinelli), Segreti e lacune di Benedetta Tobagi (Einaudi). E questo solo considerando i libri di taglio storiografico di alcune delle principali case editrici del Paese, come se non si potessero poi aggiungere i romanzi, le memorie, le autobiografie, le testimonianze di chi è stato protagonista, dei sopravvissuti e dei figli di chi invece è stato vittima degli anni di Piombo. Eppure, "Dolore e furore. Una storia delle Brigate rosse" (Einaudi “Storia”, pp. LI-704, euro 38,00), è un libro quantomeno singolare. Il suo autore Sergio Luzzatto, professore di Storia moderna europea alla University of Connecticut, ha abituato i suoi lettori a narrazioni storiche dettagliate e ricche di documenti inediti, frutto di lunghe ricerche d’archivio. A questo proposito, non posso non ricordare L’autunno della Rivoluzione (1994), Il corpo del Duce (’98) o il più recente Partigia (2013), dedicato alla storia partigiana di Primo Levi, prima della deportazione ad Auschwitz. Si tratta di lavori che hanno suscitato quasi sempre un ampio dibattito critico, talora anche internazionale, fuori e dentro il mondo accademico. Non credo che questo libro sarà destinato a una sorte diversa, ancor più per la prospettiva inedita con cui è raccontata la storia italiana delle Brigate rosse. Dolore e furore è forse innanzitutto uno dei pochi libri che investe la dimensione biografica del suo autore, non solo perché Luzzatto è “genovese di nascita”, come tiene a precisare nella scarna quarta di copertina, ma perché suo padre fu coinvolto dagli avvocati difensori di Lotta continua, in qualità di testimone, in un processo che si svolse a Roma nel 1973, contro il sostituto procuratore della Repubblica di Genova, Mario Sossi (sequestrato dalle Br un anno dopo): “Giunio Luzzatto - si legge - (mio padre), (…) professore all’Istituto di Fisica”. Il legame familiare, nonché quello di nascita con la città di Genova, sono un buon terreno di coltura su cui far germogliare l’interesse per la storia delle Br, radicate nei diversi territori regionali del centro Nord e strutturate in colonne. Genova è “città-palestra di lotta armata” e “città-laboratorio” di violenza politica sin dagli esordi del gruppo XXII Ottobre, che si macchiò di quello che Luzzatto considera il primo omicidio del terrorismo rosso: l’assassinio di Alessandro Floris (1971) nel corso di una rapina finita in tragedia. Ma per tutti gli anni settanta la città rimase un punto di riferimento dell’universo brigatista. Non tanto per la presenza di un vivace mondo operaio il quale fu in buona sostanza impermeabile alla logica terroristica, quanto per quel sottobosco cittadino fatto di personaggi ai margini a cui si rivolsero con profitto il sociologo Giovanni Senzani e lo studioso di Petrarca Riccardo Fenzi, i cosiddetti “cognati rossi”, che fecero da collante tra il mondo universitario e quello dell’emarginazione, e furono gli unici veri intellettuali brigatisti. In questa storia si insegue però il filo rosso di un’unica esistenza, se ne studia l’infanzia e la prima giovinezza, perché l’autore è convinto della necessità di affrontare, in sede storica, il terrorismo sin dentro le sue origini storiche, cioè dal boom economico, e di seguirlo per tutti gli anni settanta e oltre il processo di frammentazione indotto dal sequestro Moro. Non è dunque un arbitrio che la biografia di Riccardo Dura - è lui il protagonista del libro - possa essere accostata al racconto di Sartre, Infanzia di un capo: “Così, se ritrovata fin dall’infanzia, la vicenda di Dura - spiega Luzzatto - può illuminare un versante dell’antropologia brigatista che è stato trascurato, finora, nel lavoro degli storici: il versante dello sradicamento originario, dello spaesamento, forse anche della discriminazione culturale, e comunque dello svantaggio materiale conosciuto da ragazzini “terroni” nel Nord-Ovest del miracolo economico”. La vicenda della sua infanzia “può definire il contesto genetico del percorso adulto [di altri capi brigatisti], dapprima verso un’acculturazione politica, poi verso una vocazione rivoluzionaria”. Della vita di Dura si sa poco. I documenti sono lacunosi, negli stessi fascicoli delle procure italiane coinvolte il suo nome non compare. Nondimeno, egli ebbe un ruolo di spicco nella colonna genovese delle Br: fu l’assassino dell’operaio comunista Guido Rossa (a cui Luzzatto ha già dedicato una biografia, Giù in mezzo agli uomini, Einaudi 2019), e fu poi a sua volta ucciso dai carabinieri, diretti dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa che su più fronti aveva messo in atto una durissima repressione contro i terroristi. Nella notte del 28 marzo 1980, Dura e i compagni, che dormivano in un appartamento di via Fracchia a Genova, furono circondati e uccisi. Dura morì in circostanze non del tutto chiare, raggiunto da un colpo ravvicinato di pistola al cranio. Lo sguardo dello storico indugia sulla Genova della speculazione edilizia, delle fabbriche di Stato, dei palazzi universitari della facoltà di Lettere in via Balbi, e del porto. E lì anima la vita del giovane capo, la muove dentro la Garaventa, una nave-scuola adibita a riformatorio minorile, e poi per diversi porti italiani, e infine la rintraccia di nuovo a Genova, una città schiacciata tra le morse di due grandi chiese, il Pci e l’arcivescovado del cardinale Siri. Luzzatto cala la vicenda brigatista in un brulichio di micro-eventi, talora anche insignificanti come la lunga lettera, colma di risentimento, che Dura rivolse alla madre, e che hanno spesso poco valore in sé, ma che assumono massa e vigore nel contesto generale. Anche i fatti di cronaca più noti, come ad esempio la strage di Piazza Fontana (1969), con la quale si fa iniziare la stagione del terrorismo italiano, non sono descritti o ripercorsi nel dettaglio, ma dati per noti, e letti solo alla luce della loro ricezione sul territorio genovese, del modo in cui cioè il campo degli attori in gioco si plasma e prende forma. Forse è questa una delle chiavi del libro: seguire le piccole molecole che si diramano in modo caotico e centrifugo, e solo dopo cogliere il composto unitario, l’insieme. Verrebbe da dire la ferita, perché Dolore e furore fa luce su questo: su un gruppo di emarginati della modernizzazione, spaesati e figli di un’epoca in cui aleggiava lo spettro di un paventato golpe fascista che spinse a radicalizzare lo scontro, a rinfocolare la strategia della tensione: “Perché insistere tanto - scrive Luzzatto parafrasando le parole che gli rivolse in una lettera Rossana Rossanda, nel giugno del 2010 - (senza “alcuna prova”) sulle responsabilità dei professori, di Toni Negri o di chi per lui, nel “formare e dirigere i gruppi armati”? Certo, le parole pronunciate in quegli anni da Negri e compagnia erano state “enfatiche e deliranti”. “Ma il passaggio dalle dichiarazioni agli atti non è cosa da poco: le parole non sono pietre”. Piuttosto, “un vero problema di storia sarebbe indagare a fondo perché in Italia, come in nessun altro paese d’Europa, l’effervescenza durò dal 1968 almeno fino al 1980, ed ebbe dopo il 1969 delle frange armate che divisero il movimento e contribuirono al suo spegnersi”. “Sono anni pieni di dolore e furore e varrebbero la pena di una analisi”“. Ecco, l’opera di Luzzatto vuole essere una risposta esaustiva alle parole di Rossanda, che sollecitavano uno studio sull’animo umano e sulle cause del perdurare in Italia di un regime di terrore e violenza. L’America è una lotta tra carcerati di Marco Bruna La Lettura - Corriere della Sera, 5 novembre 2023 “Non dobbiamo mai perdere di vista la compassione”. Al cuore di questo romanzo d’esordio, finalista al National Book Award, c’è un’idea nobile: la vita di ogni essere umano è preziosa, anche di chi ha sbagliato, soprattutto di chi conduce la propria esistenza ai margini del mondo. "Catene di Gloria" di Nana Kwame AdjeiBrenyah, una delle voci più interessanti della narrativa americana contemporanea, in uscita in Italia per Sur, parte da qui, dall’idea di compassione. Quello che leggeremo è ambientato in un’America distopica. Lo stile e la trama si possono racchiudere sotto l’ombrello immenso della fiction speculativa. "Catene di Gloria" ha una trama sconnessa, fluida, sottoposta a numerosi punti di vista. I protagonisti sono dei carcerati, in maggioranza neri, che combattono tra di loro durante duelli cruenti, in un programma chiamato Intrattenimento Penale per Atti Criminali. Il fiore all’occhiello del programma si chiama appunto Catene di Gloria e viene trasmesso in prima serata a un pubblico televisivo assetato di sangue. Come gladiatori romani, i carcerati combattono fino alla morte con prigionieri di altri istituti, per guadagnarsi la libertà. Se sopravvivono a tre anni di battaglie, sono liberi. Un miraggio, perché molti di loro non ce la fanno. I combattenti migliori assurgono al ruolo di sex symbol, come gli influencer di oggi. "Catene di Gloria" è un circo distopico, che ricorda molto da vicino l’America contemporanea. Il giovanissimo Nana Kwame AdjeiBrenyah (1991) si era già misurato con l’incubo della distopia nella raccolta di dodici racconti Friday Black (sempre Sur), nella quale i protagonisti si muovono in un mondo surreale e angosciante. Allievo di George Saunders all’Università di Syracuse, New York, l’ateneo dove Carver insegnò Letteratura inglese, AdjeiBrenyah è stato scelto nel 2018 da Colson Whitehead come uno dei “5 Under 35”, il riconoscimento della National Book Foundation dedicato ai migliori esordienti sotto i 35 anni. “La Lettura” lo ha intervistato su Zoom. Questo romanzo doveva essere in origine una delle storie di “Friday Black”. Che cosa l’ha convinta a trasformare il racconto in un libro? “Il racconto breve è la forma di scrittura che preferisco. Ma questa volta sapevo che la storia di Loretta Thurwar avrebbe meritato più spazio. Loretta è in prigione, ha subito gli abusi del sistema carcerario. Dovevo focalizzarmi su un concetto più ampio. Mi servivano molto più di venti o trenta pagine”. La trama nasce da un’esperienza personale: ha conosciuto il mondo carcerario americano, le ineguaglianze di un sistema dominato dal razzismo... “Mio padre era un avvocato, ha difeso persone accusate di crimini violenti, atroci. Mi sono sempre chiesto che cosa significasse fare del male, che cosa portasse un essere umano a fare del male. Sin da ragazzo ho riflettuto sul concetto di giustizia e sul funzionamento del sistema carcerario. Io stesso ho lavorato con persone che sono state in carcere”. E qui arriviamo all’idea di compassione, al centro del romanzo... “È una visione umanistica. Ogni essere umano ha bisogno di sentirsi compreso. Bisogna provare compassione, a prescindere da quello che un uomo o una donna hanno fatto. Nel nostro sistema giudiziario non c’è spazio per la compassione. È difficile ma necessario capire che molte persone vengono spinte ad agire in certe circostanze. La povertà è un fattore cruciale nella miriade di crimini commessi in America. Non è una scusante. Ma nulla impedisce di continuare a provare amore. Si può provare a diventare migliori anche dopo avere raschiato l’abisso”. I duelli tra carcerati vengono trasmessi in tv, come una partita di calcio qualsiasi. Siamo dominati dal consumismo? “Viviamo in un perpetuo stato di consumismo, aspettiamo sempre il prossimo programma da guardare. È una sensazione paurosa, significa considerare gli esseri umani una merce”. Loretta Thurwar è una donna sola che combatte in un’arena. Lo stesso destino accomuna migliaia di donne, costrette a combattere per i loro diritti, alcuni spazzati via come è successo nel caso del ribaltamento della sentenza Roe vs. Wade, che garantiva la possibilità di abortire legalmente negli Stati Uniti... “Tante donne chiuse nelle prigioni americane sono vittime di abusi sessuali. Avere messo una donna al centro di questo libro non è casuale: sono a rischio, c’è un sistema che vuole controllarle a tutti i costi, che vuole limitare la loro umanità. Nel romanzo seguo molteplici punti di vista, i quali riflettono le numerose teste del sistema carcerario: è come un’Idra. Siamo tutti complici, in misura diversa, di come funziona il mondo. Ogni punto di vista è cruciale per capirlo”. L’America è una distopia? “È un Paese relativamente giovane, con un potere illimitato. È la ricetta perfetta per la distruzione. È come dare a un bambino di quattro anni un arsenale nucleare e tutta la ricchezza presente sulla Terra. Consideriamo l’America da sempre come “la terra delle persone libere” e siamo i leader dell’incarcerazione di massa. La differenza tra ciò che pensiamo di essere e ciò che siamo è il punto di partenza perfetto per costruire una distopia”. Al cuore del libro c’è anche una storia sentimentale, quella tra Loretta Thurwar e Hurricane Staxxx. È un’idea romantica: l’amore in mezzo al sangue e alle rovine... “Di solito sono contrario all’idea che in ogni romanzo debba esserci una storia d’amore. Ma quando ho cominciato ad abbozzarla sulla pagina non ho resistito, il contesto l’ha poi resa necessaria. Ho fatto innamorare due persone che si capiscono, che condividono profondamente e intimamente il loro destino. La domanda di fondo è: che cosa sei disposto a fare per le persone che ami?”. La fiction speculativa sarà un genere a cui gli scrittori faranno sempre più ricorso in futuro per rivolgersi in modo più immediato ai lettori? “Diventerà sempre più popolare, ti permette di essere molto specifico e, al tempo stesso, di generalizzare. Ti permette di esporti al male del mondo senza farti inghiottire, senza dover essere troppo realistico nella narrazione”. Non a caso il suo mentore è stato George Saunders. Qual è stato il suo più grande insegnamento? “Mi disse: “Sii semplice, sii preciso”. Questa, tra le tante, è stata la sua più grande lezione. Sulla pagina dovevo essere come un meccanico, attento a fare funzionare tutti i dettagli. Sarebbe diventata “un’esperienza spirituale”“. Tre libri per capire l’America? “Il saggio sulla giustizia We Do This ‘Til We Free Us di Mariame Kaba; Solitary di Albert Woodfox, storia di uomo che è sopravvissuto al carcere duro per un crimine che non ha commesso; capolavoro di Richard Wright”. I maestri di strada in pericolo: il ministero ha congelato i fondi di Vanessa Ricciardi Il Domani, 5 novembre 2023 L’associazione opera nei quartieri difficili di Napoli: è in credito di 140mila euro, ma il pagamento non arriva da due anni. Il finanziamento era stato deciso da Boda oggi imputata. Il dicastero di Valditara: “Verifiche su quegli anni”. Mentre a Caivano il governo sfila a ministri alterni, pieno di buone intenzioni, a Napoli Cesare Moreno si infervora: “Lo scriva che sono ladri, e spero che mi querelino, è il termine tecnico di chi non ti dà per 28 mesi i soldi che ti spettano perché li hai già spesi per un progetto che loro ti hanno chiesto”. È la mente e l’anima dell’associazione Maestri di Strada, venticinque anni di impegno sul campo per il contrasto alla dispersione scolastica tra i quartieri a rischio di Napoli. Obiettivo dei suoi strali e della sua ira sarebbe il ministero dell’Istruzione, perché dal 2021 non ha più saldato l’associazione: un ammanco di 140 mila euro. E adesso, mentre nessuno risponde, Moreno ha un sospetto: che il processo per corruzione contro l’ex dirigente Giovanna Boda abbia congelato il pagamento. Loro non sono mai stati né imputati, né testimoni: “Ma la decisione di finanziarci, è stata presa dalla signora che adesso è rea confessa. Nessuno mi ha detto niente, ma oso pensare che le vicende siano collegate, per alcuni riferimenti assolutamente criptici”. Il ministero dell’Istruzione, contattato da Domani ha risposto: “Stiamo facendo verifiche sul complesso dei progetti presentati in quelle annualità”. A fine 2022 il ministero ha pubblicato un nuovo bando. Maestri di Strada, invitata a partecipare, è arrivata tra i primi posti. Il decreto che avrebbe dato inizio alle attività nelle scuole, è stato rinviato “per valutazioni” mai specificate. Così sono stati abbandonati: “Ma Ponticelli, dove abbiamo la nostra sede, è come composizione sociale un’edizione rivista e peggiorata di Caivano”, racconta Moreno. A luglio l’ultimo agguato di camorra con un morto, l’11 settembre la “stesa” più recente, una sparatoria che per fortuna non ha portato vittime. I CoroNauti - Nel 2020 il lockdown partiva per le scuole prima ancora che per il resto della penisola. Il governo decideva di chiamare i Maestri di Strada, che si erano già mossi creando il progetto CoroNauti, con i “Pacchi viveri per la mente”: quaderni, colori, album, cancelleria, pasta modellabile, tablet con sim, libri e uova di Pasqua. Il 30 marzo, in un webinar in cui l’ex ministra Lucia Azzolina incontrava un gruppo di associazioni, Maestri di Strada presentava il progetto con l’intenzione di estenderlo. A tempo di record, il 4 aprile la comunicazione che sarebbe partito il finanziamento: il 16 è partita la distribuzione. La dirigente del dipartimento risorse umane e finanziarie del Miur, artefice di questa operazione “emergenziale”, è Giovanna Boda. Un grande successo, e il ministero, tramite le scuole, ha versato il 30 per cento della cifra stanziata, 60mila euro su 200 mila, così l’associazione è andata avanti fiduciosa fino alla conclusione, nell’aprile del 2021. Ma il 13 aprile Boda viene perquisita e inquisita per presunta corruzione. Il giorno dopo tenta il suicidio. Maestri di Strada non ha avuto più notizie: “Per noi è una somma importante che abbiamo dovuto anticipare - spiega Moreno - dopo due anni rischiamo di dover ridurre gli educatori e i progetti”. Progetto Chance - L’associazione opera da molto prima dell’ingresso di Boda in ministero. Nel 1998 era nato il progetto Chance, per dare l’opportunità di prepararsi per la licenza media ai ragazzi drop-out, quelli che si erano ritirati. Un’esperienza, come si legge sul sito, “chiusa per ignoti motivi” nel 2009. Promossa da tre docenti in servizio, Marco Rossi-Doria, Angela Villani, Cesare Moreno e un provveditore di origine siciliana, Salvatore Cinà, aveva riunito docenti esperti e sensibili per insegnare ai ragazzi di Ponticelli, San Giovanni a Teduccio e Barra. Tra loro anche Carla Melazzini, studentessa della Normale di Pisa che aveva deciso di mollare in protesta con i metodi educativi e andare a insegnare a Napoli. Ha raccolto in più scritti la sua esperienza, riuniti nel volume postumo, appena tornato in libreria, Insegnare al principe di Danimarca (Sellerio). “Qual è la condizione dei ragazzi a cui ci rivolgiamo ancora oggi si legge perfettamente lì”, dice Moreno, che è stato anche suo marito. Il principe di Danimarca è l’Amleto di Shakespeare, che Melazzini identifica con la prima storia, quella del 15enne Mimmo, che non è riuscito a completare gli studi e dichiara di voler uccidere il compagno di sua madre e poi anche lei. “Un insegnante di media cultura e umanità è presumibilmente disponibile a commuoversi sul dramma del giovane principe di Danimarca, e a riconoscere le ragioni dei suoi atti, anche i più estremi. Ma quanti insegnanti sarebbero disposti a riconoscere la stessa legittimità ai sentimenti di un adolescente di periferia che vive il tradimento della propria madre con l’intensità e la consequenzialità del principe Amleto?”. La teatralità da “dramma elisabettiano”, come scrive Melazzini, c’è nella morte di un ragazzo per mano della camorra che conoscono tutti, ma anche nel difficile rapporto con la sessualità delle ragazze che accusano di essere “pitofile” le esperte chiamate dalla scuola che gliene vogliono parlare. Non è solo un problema economico, o, come si è detto dopo le violenze di Palermo e Caivano, di siti porno da bloccare. La “rendita camorristica” compra molte cose ma “non è sufficiente invece a convincere due genitori rimasti sostanzialmente poveri a trovare la voglia il tempo e il piacere di accompagnare i propri figli a scuola o ad una lezione di nuoto”. Melazzini non si è mai fatta illusioni, ma basta la cronaca. Dopo aver letto a una classe l’incipit de La metamorfosi di Kafka, racconta che Gianni, il più piccolo e brutto della classe, le ha chiesto timidamente: “Professorè, lo tenete qui il libro dello scarrafone?”. Il debito - Nel 2003 si costituisce l'Associazione Maestri di Strada Onlus da una donazione dell’allora presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. I loro progetti sono sempre stati apprezzati e omaggiati, tra gli ultimi esempi, Samantha Cristoforetti: “AstroSamantha sull’International Space Station sfoggia la nostra t-shirt”, si legge in un comunicato di dicembre 2022. Pochi mesi prima avevano organizzato il primo percorso di formazione sull’astrofisica insieme all’ASI: gratuito per docenti, educatori e appassionati, per puntare sulle materie Stem. L’attenzione all’orientamento e al tutoring sembra trovare eco negli stessi piani del ministro Giuseppe Valditara: “Ho sentito più volte Roberto Ricci - il presidente dell’Istituto Invalsi, racconta Moreno -. Non dico che si sono ispirati a noi, ma hanno preso dei discorsi che noi mettiamo in pratica”. Peggio di Caivano - A Ponticelli, l’associazione paga di tasca sua 2mila euro al mese di affitto per una scuola in disuso. La mattina affianca 18 scuole nelle classi, e il pomeriggio organizza laboratori, come quello che ha dato vita allo spettacolo tornato in scena a ottobre al Teatro Bellini, “Passaggi”, dove i ragazzi hanno portato le loro storie sul palco. Il centro polifunzionale che hanno tirato su ha il nome di un ragazzo 19enne morto ammazzato in un agguato nel lotto O, Ciro Colonna. Eppure il presidente per i suoi ragazzi non si preoccupa solo della criminalità: “Illegalità significa anche lasciare che finiscano a lavorare in nero, oppure si diano alla vendita senza licenza”. A Napoli, come nel resto d’Italia, i ragazzi stanno attraversando le stesse difficoltà emotive: “Una ragazza è brevissima a suonare la batteria, credevo che avrebbe deciso di andare al liceo musicale. Invece ha paura di prendere i mezzi pubblici e ha scelto l’alberghiero che è più vicino. In città vengono vissuti ancora come un corpo estraneo, ma l’anno prossimo vediamo cosa possiamo fare”. Il 31 ottobre la procura di Roma ha chiesto con rito abbreviato 2 anni e 2 mesi per Boda: “Stiamo valutando con l’avvocato se procedere con i pignoramenti nei confronti nel ministero. Sappiamo che si tratterebbe solo di un segnale, ma dobbiamo fare qualcosa”. Economia dell’attenzione: il bene più prezioso non si può risparmiare di Letizia Pezzali Il Domani, 5 novembre 2023 In italiano diciamo “prestare attenzione”, come se l’attenzione fosse un bene che diamo in prestito e che ci verrà poi restituito. Naturalmente non è così: l’attenzione, come il tempo, è un bene che ci attraversa e non torna più. Non è un prestito - L’attenzione non può essere prestata anzitutto perché non può essere messa da parte, e cioè in qualche modo immagazzinata. L’attenzione è peggio dei beni deperibili, degli esplosivi, dei materiali radioattivi, di tutte quelle sostanze che per essere immagazzinate necessitano che si presti attenzione (presti attenzione!). Beni che danno grossi grattacapi, ma mai quanto l’attenzione, che semplicemente a essere immagazzinata non ci sta. Vola via. L’attenzione non può dunque essere neppure risparmiata, messa via per il futuro, in banca o sotto il materasso. Non possiamo decidere di non usare la nostra attenzione oggi allo scopo di ritrovarci, domani, con il doppio dell’attenzione, così come non possiamo mettere da parte il tempo che abbiamo oggi sperando di ritrovarci, domani, con una giornata di quarantott’ore. L’attenzione è presente in noi, questo sì, con intensità diverse a seconda dei momenti, e dunque, se siamo stanchi, possiamo sperare di riposarci e di avere più attenzione quando saremo riposati. Ma è poca cosa: l’attenzione si distribuisce in maniera disomogenea, in certi momenti è di più, in altri è meno, tutto lì. Non si moltiplica. E persone diverse hanno capacità di attenzione diversa, sappiamo bene che alcuni fortunati riescono a concentrarsi molto a lungo e altri fanno più fatica. Però esclusi i casi degli eccezionalmente dotati o degli sfortunati, possiamo dire che le differenze di attenzione fra le persone non sono così marcate da creare le disuguaglianze che osserviamo nel campo, per esempio, della ricchezza. Anche perché la ricchezza si accumula, si moltiplica, si autoalimenta, si trasmette alle generazioni… L’attenzione, come abbiamo ben capito, non fa nulla di tutto questo. Non posso lasciare in eredità ai miei figli l’attenzione che non ho usato mentre guardavo il soffitto. Altri beni simili - Ci sono altri beni, oltre all’attenzione (e al tempo), che non possono essere messi da parte per un uso futuro, che non sono adatti al risparmio? Naturalmente sì, ed è bello citarli, perché questa loro caratteristica in fondo li rende nobili. La salute, per esempio, non si può mettere in banca, oggi c’è e domani chissà, anche se possiamo fare del nostro meglio per non rovinarla. Ma non possiamo rinunciare a un po’ di salute da giovani per avere più salute in vecchiaia. (Se fosse possibile distribuire l’intensità dei malanni nel corso della vita vivremmo volentieri con un piccolo raffreddore costante fino al compimento dei cento anni: pensate che strategia gestionale interessante sarebbe.) Anche le opportunità non possono essere usate in futuro: o le cogliamo adesso, mentre si presentano, o le perderemo. Alcune si ripresenteranno, alcune saranno più prevedibili di altre nel loro presentarsi e ripresentarsi. Alcune avranno una finestra di durata più lunga, ci daranno più tempo. Ma in linea di massima, prima o poi, si dissolveranno. Soprattutto le opportunità che contano veramente. E le relazioni affettive? Bè quelle richiedono il famoso lavoro continuo, sono come le piante e i giardini, bisogna starci molto dietro, se non ci stai dietro muoiono oppure fanno come vogliono loro, chissà. Non possiamo cristallizzare la nostra storia d’amore perfetta di oggi e metterla da parte per continuare a viverla fra cinque o sei anni, prendendoci una pausa. Non possiamo ritrovarla intatta quando avremo voglia di riprendere ad amare. (Pensate che cosa singolare e inquietante sarebbe: togliere dall’armadio una storia d’amore conservata perfettamente e ricominciare a indossarla). Altre cose che non si possono mettere da parte per il futuro? L’ispirazione, la creatività… Potrei andare avanti. Tornando all’attenzione, l’altro giorno riflettevo sull’uso inglese, là dove “prestare attenzione” lo traduciamo con “pay attention”: che non è prestare, ma pagare. Pagare con l’attenzione. L’attenzione in inglese è un dazio che paghiamo per ricevere in cambio conoscenza e informazioni: è sicuramente un’immagine molto precisa e attuale. Oggi le informazioni sono tantissime, e gli stimoli sono continui. Paghiamo moltissimo, in termini di attenzione, per ricevere quella che ci sembra perlopiù confusione, violenza e insignificanza. È come se qualcuno avesse finalmente capito qual è il bene più prezioso (la nostra attenzione, appunto) e avesse deciso di svenarci per darci in cambio della paccottiglia. Di sicuro non abbiamo una strategia gestionale al riguardo. Svizzera. La vita dopo il carcere di Andrea Bertagni La Domenica, 5 novembre 2023 Sbarca in Ticino un nuovo strumento di assistenza riabilitativa per gli ex detenuti che abbassa il tasso di recidiva. “Tutti cambiano”: ad accomunarli è la pena. Sospesa, in esecuzione o già scontata e in periodo di prova in attesa della liberazione definitiva. Ma non solo. Perché chi è stato condannato per droga, truffa, reati contro la proprietà o per violazione della legge sulla circolazione stradale o ancora perché è stato un marito o un padre manesco o violento può improvvisamente trovarsi da solo, senza più un lavoro, un alloggio, degli amici o anche solo un amore. Allo scotto da pagare con la giustizia si aggiunge anche lo spettro di non riuscire più a trovare posto nella società. Di rimanerne fuori. Con il rischio di ricadere nel tunnel, di essere recidivo. Colpevoli per sempre ed etichettati come spacciatori, drogati, ladri, truffatori, pirati della strada, mariti violenti. “Ma non è sempre così, anzi quasi mai è così. Tutti possono cambiare, basta crederci. Gli atti non fanno una persona. Le persone sono altro e soprattutto piene di sfaccettature. Porre un'etichetta ci facilita, è semplice e anche rassicurante. Purtroppo, l'effetto che otteniamo è che la persona finisce di crederci, ne assume la postura e i comportamenti conseguenti”. Luisella Demartini ha lavorato per una vita nella Giustizia, prima come operatrice sociale al carcere La Stampa, poi come direttrice dell'Ufficio dell'assistenza riabilitativa. Oggi è coordinatrice del Progetto Obiettivo Desistenza (www.desistenza.ch), un progetto che dopo 4 anni di sperimentazione nel 2019 è stato promosso dai cantoni romandi e dal Ticino, riuniti nella Commissione latina di probazione, con il sostegno dell'Ufficio federale di giustizia - è diventato a tutti gli effetti un nuovo strumento nella presa in carico dei mandati di assistenza riabilitativa in Ticino e forse prossimamente in tutta la Svizzera. Un percorso insieme agli altri - Un metodo sicuramente innovativo. Che in Svizzera mancava. E che sta dando i suoi frutti, secondo Demartini, ma anche secondo l'Università di Losanna che ne ha valutato gli effetti durante la fase sperimentale. Anche perché le persone che hanno partecipato alla fase pilota - oltre un migliaio - hanno ripreso in mano le proprie vite. “Nei giovani al primo reato, il cambiamento è risultato più evidente, negli adulti recidivi gli effetti sono visibili a 18 mesi dall'inizio del percorso”, precisa Demartini. Una storia ha particolarmente colpito la responsabile del progetto. Ed è quella “di un uomo (vedi articolo in basso, ndr.) che nella sua vita ha cumulato 17 anni di carcere. Non vedeva alcun futuro possibile salvo riprodurre i medesimi comportamenti, imbroccare le medesime strade. Nessuno credeva più in lui, ma ancor meno lo faceva lui”. Tutti possono cambiare, basta crederci. È sulla base di questo assunto, che deve essere prima di tutto interiorizzato dalla persona, che si snoda l'accompagnamento riabilitativo degli operatori sociali che fanno parte del progetto. Un percorso che non si fa da soli. Ma insieme agli altri e nella comunità di origine. Per ricreare quelle relazioni sociali che il reato e la condanna hanno troncato. Non un'impresa facile. Che può però essere affrontata “mettendo al centro le risorse di ogni individuo e le sue capacità di rendersi responsabile delle proprie scelte e del proprio futuro e soprattutto autonomo”, precisa Demartini. Di fatto l'operatore sociale non ha di fronte solo un “mandato giudiziario”, ma una persona con un passato fatto di decisioni socialmente sbagliate e un futuro possibile se fondato sul suo potenziale e sulle capacità reali. “Si tratta di coinvolgere la persona attorno a un progetto che abbia senso e favorire e sviluppare il capitale sociale: la creazione di una rete di contatti prosociali”, annota Demartini. Banale solo in apparenza - A volte basta “riscoprire un hobby” che, a fronte dell'obbligo di un riorientamento lavorativo, apre la strada ad una nuova professione. Così fare il volontario nella “mensa per i poveri”, in attesa dell'agognato impiego, diventa esperienza e quindi mestiere. Per altre persone, “da sempre rinchiuse in un isolamento sociale impensabile per noi tutti”, che non lasciano il quartiere dove risiedono o i luoghi del margine, “fare una gita in montagna, visitare un museo, o andare a un concerto è la scoperta di un mondo e quindi di opportunità”. Cose all'apparenza semplici. Banali. Scontate. Per chi non è mai stato condannato, forse. Non per chi ha subito il carcere e sente su di sé gli sguardi e il peso del passato. E quindi preferisce isolarsi, sfuggire, “con il rischio di cercare nel solo ambiente dei “simili” quello che non fa domande, ma anche quello che l'ha portato davanti al Procuratore e al Giudice”. Il compito dello Stato - Reinserirsi nella società insieme a chi ne ha fatto parte anche se a un certo punto ha deviato dalle norme e dai comportamenti sociali e legali ammessi. Tutto questo con l'accompagnamento di una nuova figura introdotta dal progetto pilota: il coordinatore-animatore. Un animatore socioculturale che affianca la persona condannata e costruisce ponti con la società civile e la comunità di origine di quest'ultima. Forse è riduttivo riassumere così il progetto Obiettivo Desistenza. O forse no. Perché in fondo si tratta di riallacciare legami che si sono persi. Ma che ci sono ancora. Basta riannodarli. “Allo Stato la società confida un compito di protezione e sicurezza dei suoi cittadini - riprende Demartini -. Così per chi infrange le leggi, i codici prevedono il perseguimento del reato e la sanzione. Ma la pena non è “vendetta”. La pena ha come scopo la rieducazione prima ed il reinserimento poi. Così lo Stato, in materia di sanzioni penali utilizza pro tempore anche il carcere e la privazione di libertà. Lo fa però testando il comportamento e l'adeguatezza della persona condannata da reintegrare nella società civile con aperture progressive, dal congedo, al lavoro esterno fino alla liberazione condizionale. Sarebbe impensabile e anche incosciente “aprire il cancello” alla fine pena senza questa “messa alla prova”, afferma la responsabile del progetto. Che aggiunge ancora. “Ogni decisione di apertura corrisponde a una responsabilità gravosa, ma la sicurezza sociale passa anche dal sistema del regime progressivo. Obiettivo Desistenza è un tassello ulteriore che i cantoni romandi ed il Ticino hanno voluto aggiungere allo strumentario in ambito penale perché l'integrazione (o la reintegrazione sociale) delle persone “giudiziarizzate” diventi una realtà e sia accompagnata dall'abbandono durevole di comportamenti delinquenti”. Medio Oriente. Gaza e l’infanzia rubata di Francesca Mannocchi La Stampa, 5 novembre 2023 Nella quinta guerra in 15 anni, sono morti già 3.600 bimbi palestinesi. Chi resta, cresce tra il piangere i morti e il culto del martirio: ci vuole il permesso per uscire e andarsi a curare. La cattività è il terreno fertile per la radicalizzazione. Dal 2008 al 6 ottobre 2023, secondo quanto riferito, 1.434 bambini palestinesi sono stati uccisi, con altri 32.175 feriti, principalmente per mano delle forze di occupazione israeliane. Di questi, 1.025 bambini sono stati uccisi nella sola Gaza. Oggi, a quasi un mese dall’inizio della guerra, la quinta in quindici anni, ne sono già morti circa tremilaseicento. I numeri sulle conseguenze sui bambini palestinesi negli ultimi 15 anni sono riassunti dall’ultimo rapporto della Relatrice Speciale sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi, Francesca Albanese. Tra il 2019 e il 2022, 1.679 bambini palestinesi e 15 bambini israeliani hanno subito lesioni fisiche permanenti - si legge nella relazione -. Si stima che ogni anno una media di 500-700 bambini palestinesi siano detenuti dalle forze di occupazione israeliane, con una stima di 13.000 per lo più detenuti arbitrariamente, interrogati, processati in tribunali militari e imprigionati dal 2000. “L’inferno di oggi non può oscurare la violenza degli ultimi decenni -scrive Albanese -. Per affrontare la crisi, è imperativo comprendere cosa l’ha provocata. Ciò non significa giustificare o minimizzare gli atroci crimini contro i civili israeliani del 7 ottobre; piuttosto ci costringe ad affrontare quell’orrore nel contesto di ciò che lo ha preceduto”. Per capire il contesto, ci aiutano i numeri. Delle due milioni di persone che abitavano la Striscia prima della guerra, circa la metà è composta da minori, e avere tredici, quattordici, quindici anni, a Gaza, oggi, significa che tutto ciò che si conosce è il regime di Hamas, il blocco israeliano, e un ciclo di guerre, macerie e ricostruzioni. A Gaza, chi oggi è un adolescente, non ha mai sperimentato nient’altro. Tutto quello che conoscono è questa piccola striscia di terra in un ciclo infinito di violenza e morte. Cattività mista a sentimento di vendetta, gli ingredienti che rendono fertile il terreno della radicalizzazione. È questa una delle chiavi con cui leggere oggi il conflitto in corso. Immaginando, sperando, che la guerra finisca domani, da dove partire per spezzare il circolo vizioso della ferocia. Da dove partire per interrompere l’automatismo che ha reso la violenza l’unica risposta alla violenza? E prima ancora: cosa non è stato fatto nelle guerre precedenti, quando è cessato il fuoco e il conflitto sembrava finito ma evidentemente non lo era? Nel 2016, a meno di due anni dalla fine della guerra che nell’estate del 2014 aveva devastato la Striscia di Gaza, l’Ocha, l’Agenzia delle Nazioni Unite per il Coordinamento delle Azioni Umanitarie, aveva organizzato una conferenza sul rischio di radicalizzazione giovanile. Il combinato dell’insicurezza, la cattività e i bisogni umanitari non soddisfatti, dicevano i funzionari Onu, stavano creando le condizioni per l’estremizzazione delle giovani generazioni. I delegati partivano da un dato: nel 2016, dato che la libertà di movimento era praticamente inesistente, il 90% dei 260.000 studenti delle scuole gestite nella Striscia dall’Unrwa, l’agenzia delle Nazioni unite per i rifugiati palestinesi, non aveva mai lasciato la Striscia di Gaza in tutta la loro vita. “Quando guardo alla regione, avverto il rischio di radicalizzazione dei giovani disperati”, aveva detto Pierre Krähenbühl, Commissario Generale dell’Unrwa, “penso a Gaza, alla Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, dove il governo militare e l’occupazione definiscono ogni aspetto della vita pubblica e privata, dalle restrizioni di movimento alle demolizioni punitive di case e all’espansione illegale degli insediamenti. Non c’è modo di quantificare il costo umano cumulativo dell’occupazione”. Alle preoccupazioni si sposavano gli appelli alla comunità internazionale, l’Unrwa versava già in una profonda crisi economica, le risposte dei donatori e dei governi erano già fortemente lacunose e tradotto nella vita quotidiana dei cittadini e dei bambini significava meno accesso a beni di prima necessità, meno scuole, in una parola meno speranza nel futuro in un’area in cui il tasso di disoccupazione giovanile arrivava già al 60%. Gli appelli alle donazioni sono rimasti pressoché inascoltati, e i sottofinanziamenti hanno piegato sempre di più la popolazione, perché l’Unrwa, a Gaza in particolare, non è solo un’agenzia umanitaria, ma è un’arteria della vita dei palestinesi che, da quegli aiuti, dipendono quasi interamente. I dati e le statistiche sull’infanzia dei bambini palestinesi a Gaza e in Cisgiordania sono una preoccupante fotografia del presente e dovrebbero essere un allarmante richiamo per il futuro. L’ultimo report di Save the Children, di pochi giorni fa, tiene insieme i dati pre-guerra e quelli attuali. I Territori Palestinesi Occupati - scrivono i ricercatori - rientrano nella lista dei 10 Paesi peggiori in cui vivere per i bambini. Basti questo paragone: nel 2021 l’Afghanistan e i Territori Palestinesi Occupati hanno registrato il più alto numero di bambini uccisi o mutilati a causa di un conflitto. “La situazione economica, sociale e politica di oltre cinquant’anni di occupazione da parte di Israele, sommate ai conflitti in corso, hanno continuato ad avere gravi implicazioni per i minori”, si legge nel rapporto: complessivamente in tutti i Territori palestinesi occupati, due milioni e mezzo di persone hanno bisogno di assistenza umanitaria, un milione e duecentomila sono bambini. Nella Striscia di Gaza la situazione, anche prima della guerra, era allarmante, soprattutto dal punto di vista sanitario. I bambini che avevano bisogno di cure mediche dovevano richiedere un permesso speciale per lasciare la Striscia e, nei primi sei mesi del 2023, 400 bambini nella sola Gaza, non hanno potuto ricevere le cure di cui avevano bisogno in Cisgiordania. Due bambini al giorno impossibilitati a curarsi per malattie gravi, croniche. Nessuna visita specialistica, nessun intervento chirurgico, nessun accesso ai farmaci urgenti o salvavita. Non va meglio in Cisgiordania, dove più di un milione di bambini non ha libertà di movimento. Una mobilità ostacolata dai check-point israeliani, dalle restrizioni, dalle minacce regolari da parte dei coloni, dal timore di violenze ai posti di blocco. Dal terrore degli arresti. Secondo gli ultimi dati di Save the Children, nelle carceri israeliane sarebbero trattenuti dai 500 ai 1000 minori, quasi la metà ferita al momento dell’arresto. Non va meglio all’istruzione. Mezzo milione di bambini e bambine palestinesi non ha accesso a un’istruzione di qualità. Le scuole rischiano di essere demolite, le attrezzature confiscate, spesso le forze armate israeliane fanno irruzione nei pressi o all’interno degli istituti scolastici usando lacrimogeni. Più di 80 scuole in Cisgiordania devono affrontare la presenza quotidiana delle forze israeliane, e più di 58 scuole sono attualmente sottoposte a un ordine di demolizione o di interruzione delle attività. Tradotto nella vita quotidiana dei bambini palestinesi significa un aumento costante dell’abbandono scolastico. Per motivi diversi - l’assedio, le guerre, il regime di Hamas, a Gaza, la violenza dei coloni e le limitazioni alla mobilità in Cisgiordania - una generazione di giovani palestinesi sta crescendo, perdendo fiducia nel valore della politica, del compromesso e della diplomazia e degli aiuti internazionali. Una generazione che cresce in un’intermittenza di guerre. I conflitti irrisolti non solo non si sono dissipati con lo scorrere del tempo, ma si sono aggravati in assenza di soluzioni giuste. Probabilmente anche questa guerra, come le precedenti, dimostrerà che non esiste una soluzione militare al problema di Gaza, perché il problema di Gaza non è solo eradicare Hamas, il suo braccio armato, e l’organizzazione del potere, della burocrazia e del welfare che ha espresso nella Striscia per sedici anni. Trovare una soluzione per Gaza e per la sicurezza dello Stato di Israele significa trovare la formula per spezzare il circolo vizioso della violenza. Ogni scontro negli ultimi quindici anni, ogni nuovo ciclo di attacchi, ha spinto un numero crescente di giovani verso le frange radicali e gruppi estremisti. E, d’altro canto, una vita di privazioni e stenti, trascorsa tra il vivere la guerra e cercare di dimenticarla, tra il piangere i morti e il culto del martirio che ne deriva, ha storicamente portato a fomentare nuovi cicli di radicalizzazioni. Salvare i bambini palestinesi dall’esposizione al rischio di estremismi è la sfida della comunità internazionale ma anche la sfida interna allo stato di Israele che sta pensando oggi a combattere un nemico nel presente, senza chiedersi cosa sarà di Gaza domani, quale sarà il futuro della Striscia, come evitare che si sia un’altra generazione che associ la vita quotidiana alla guerra, alla morte e alla vendetta. Medio Oriente. Non c’è nessuna contraddizione nel condannare Hamas e Netanyahu di Lia Tagliacozzo Il Manifesto, 5 novembre 2023 Con il crescere delle tensioni in Medio Oriente i venti di guerra arrivano anche qui, in Italia, e le narrazioni tossiche inquinano la discussione pubblica. La riflessione che la distanza dalla guerra possa offrire uno sguardo terzo, necessario per restituire spazio alla politica, sembra non avere possibilità di parola o di ascolto. Le opinioni di Arturo Marzano, docente a Pisa, di Gadi Luzzatto Voghera, che dirige il Centro di documentazione ebraica contemporanea di Milano e il documento degli intellettuali israeliani. Ecco, ci risiamo, come una sorta di riflesso pavloviano con la guerra tra Israele e Hamas, ancora una volta, gli indicatori dell’antisemitismo salgono. Il Centro di documentazione ebraica contemporanea di Milano e il suo Osservatorio antisemitismo lo evidenziano: “L’incremento è enorme - spiega il direttore Gadi Luzzatto Voghera -. Solo in queste ultime tre settimane abbiamo ricevute oltre 70 segnalazioni anche off line”, dove off line sta per minacce dirette, malversazioni, scritte intimidatorie che travasano dal mondo virtuale per entrare nelle nostre strade, nelle nostre scuole, nelle nostre università. A darne conto è anche la stampa: le pietre di inciampo vandalizzate a Trastevere, in pieno centro capitolino, una casa segnata con la stella di Davide di una donna ebrea a Milano, insulti e minacce telefoniche che si concludono con ’Palestina libera’, abitazioni private segnate con la stella ebraica a Parigi, molotov contro una sinagoga di Berlino. “La provenienza è difficile da stabilire - prosegue Luzzatto Voghera - vengono utilizzati i simboli classici dell’ostilità antiebraica: svastiche, Hitler non ha finito il lavoro o, viceversa, siete peggio di Hitler”. Quando crescono le tensioni in Medio Oriente i venti di guerra arrivano anche qui, narrazioni tossiche inquinano la discussione pubblica. Nel frattempo, in Italia (e non solo), la percezione di solitudine si diffonde presso molti ebrei, soprattutto di sinistra, qualsiasi cosa “essere di sinistra” voglia dire. Molta destra è antisemita e razzista, la solidarietà ad Israele strumentale all’incitamento dell’islamofobia e del razzismo volti a criminalizzare l’immigrazione: di questo il manifesto si è spesso occupato con firme importanti e autorevoli. Ma c’è dell’altro, qualcosa che una parte del mondo della sinistra non vuole proprio sentirsi dire: che esistono al suo interno narrazioni che ricalcano stereotipi antisemiti della matrice più classica accompagnata da un uso ridondante di avversative. Una sorte di afasia impedisce di dire che l’attacco del 7 ottobre compiuto da Hamas nel sud di Israele è un atto di terrorismo compiuto “not in our names”, le affermazioni di condanna sono spesso seguite da un “ma” o un “però” che ne comprime, inevitabilmente, la portata. Arturo Marzano insegna all’Università di Pisa e si occupa di storia del sionismo, dello Stato di Israele e del conflitto israelo-palestinese: “Anche io - spiega - sono tra coloro che usano gli avversativi. Condanno l’attacco di Hamas inequivocabilmente ma dico pure che, se dobbiamo condannare quanto avvenuto in Israele il 7 ottobre, dobbiamo anche inserire quanto accaduto nel suo contesto, che è quello dell’occupazione dei territori palestinesi, che dura dal 1967. Eppure sono in difficoltà, perché non voglio contribuire alla sensazione di isolamento che molti ebrei italiani e molta sinistra israeliana provano in questo momento. Per questa ragione, propongo una narrazione che comprenda la condanna dell’attacco di Hamas e la solidarietà per le vittime israeliane, la condanna per quanto le forze armate israeliane stanno facendo a Gaza e la solidarietà per le vittime palestinesi, e sia capace di denunciare insieme l’antisemitismo e l’islamofobia dilaganti”. A dare voce all’isolamento nei giorni scorsi c’è stato anche un appello di intellettuali israeliani - promotori Eva Illouz, sociologa e scrittrice; Aviad Kleinberg, storico, presidente del Ruppin Academic Center e lo scrittore David Grossman. Seguono firme di attivisti progressisti “impegnati per la pace, l’uguaglianza, la giustizia e i diritti umani”. “In questo momento - riporta il documento - più che mai, abbiamo bisogno del sostegno e della solidarietà della sinistra globale, sotto forma di un appello inequivocabile contro la violenza indiscriminata contro i civili da entrambe le parti”. E concludono: “Insistiamo: non c’è contraddizione tra l’opporsi fermamente alla sottomissione dei palestinesi da parte di Israele e la condanna inequivocabile dei brutali atti di violenza contro civili innocenti. In effetti, qualsiasi uomo di sinistra coerente deve mantenere entrambe le posizioni contemporaneamente”. La riflessione che la distanza dalla guerra possa quindi offrire la possibilità di uno sguardo terzo, non per questo neutro, necessario per restituire spazio alla politica sembra non avere senso e facoltà di parola o di ascolto. Dove Marzano sottolinea la necessità di non perdere di vista il contesto dell’occupazione israeliana per comprendere quanto accaduto il 7 ottobre Luzzatto Voghera osserva invece un’incapacità di declinare la complessità di quel conflitto: “Se nella sinistra istituzionale osservo grande cautela, quello che mi colpisce in maniera negativa è la percezione di qualcosa che cova nella sinistra intorno alle università e ai luoghi di produzione culturale: circolano volantini in cui magari non si nomina Hamas ma si strilla o si scrive ’morte ai sionisti’, il ricorso frequente alla parola ’genocidio’ con riferimento al popolo palestinese che ha valore oltre il suo contesto specifico perché funziona da attivatore della memoria della Shoah, a farne richiamo o comparazione”. “Nel linguaggio della sinistra italiana - prosegue a distanza Marzano - esiste ed è radicata l’endiadi Resistenza-Palestina che dura ancora dagli anni 70: il rischio è che si finisca per giustificare qualsiasi cosa facciano i palestinesi mentre è necessario distinguere tra il diritto alla resistenza palestinese, che è legittima e va sostenuta, e gli atti di terrorismo come quello del 7 ottobre, che sono ingiustificabili e vanno condannati. “Ma - continua, aggiungendo una congiunzione avversativa dopo aver vissuto tre anni nei Territori dell’autonomia palestinese - bisogna sottolineare come l’ideologia di Hamas sia infarcita di antisemitismo, così come riconoscere che ne è pieno l’intero mondo arabo. La triade Stati Uniti, Israele, ebrei è molto spesso presentata facendo ricorso a retoriche cospirazioniste antisemite. Il che non vuol dire però che non si possano criticare le politiche del governo israeliano o essere antisionisti senza essere antisemiti. L’antisionismo non coincide tout court con l’antisemitismo”. Luzzatto Voghera controbatte a distanza: “Il problema serissimo che nasce dopo il 7 ottobre è che i terroristi di Hamas hanno ucciso i sionisti ebrei: lo si sente in tutti i filmati. Ci si deve rendere conto che esiste una moderna ideologia islamista, attenzione non islamica piuttosto una distorsione contemporanea della teologia islamica utilizzata con lo scopo di prendere il potere, per questo è incomprensibile l’appiattimento sulla retorica di Hamas. Abbiamo visto ragazzi e ragazze urlare slogan che sono chiaramente antisemiti, ’Palestine will be free from the river to the sea: significa che Israele non deve esistere e questo è antisemitismo. Lasciando il beneficio del dubbio sul fatto che non abbiano capito gli slogan in arabo che incitavano ad aprire case e confini per uccidere gli ebrei”. Luzzatto Voghera prosegue sottolineando come il 7 ottobre sia un punto di non ritorno: “La prima ragione è che i primi 1400 morti di questo conflitto - i ragazzi del rave e la gente dei kibbuzim - sono gli stessi che hanno marciato contro Benjamin Netanyahu eppure i terroristi sono andati a colpire proprio loro, non quelli che potrebbero essere i loro nemici politici, sono andati a colpire gli israeliani che lavoravano per la pace eppure questo non lo si è quasi letto. Il secondo elemento gigantesco è che Israele si è rivelato niente affatto invincibile, i grandi servizi segreti e il grande esercito di una certa retorica è stato nei fatti messo nel sacco e mostrato un’enorme vulnerabilità. Alla fine della guerra in Israele su questo dovranno fare i conti. Il terzo elemento di novità rispetto ad altri momenti di quel conflitto è che, con ogni evidenza, sia in Israele che tra i palestinesi ci sono leadership estremiste e inadeguate. Amos Oz diceva che, al termine di tutto, è con i nemici che bisogna fare la pace. Ma alla fine, con questi personaggi al potere, ci sarà qualcuno al quale interessi davvero fare la pace?”. Scrive Yuval Noah Harari, storico e protagonista del movimento democratico israeliano: “Coloro che in Europa hanno il privilegio di non patire direttamente il dolore, di non vivere sotto i missili e le bombe, di non sentirsi fragili (…) hanno il dovere di tenere alta la bandiera della saggezza e della ragione”. Un privilegio trasformabile in responsabilità. Medio Oriente. “Ostaggi per ostaggi”. Le carceri scoppiano di Chiara Cruciati Il Manifesto, 5 novembre 2023 Giro di vite in Cisgiordania: dei 1.830 nuovi detenuti politici 52 sono donne, 17 reporter, 28 bambini e 30 universitari. Prigionieri anche nelle basi militari. E a chi sta in cella vietati libri, tv e cibo. Visite mediche sospese. I soldati israeliani sono arrivati di notte, verso le 1.30. La famiglia dormiva, madre, padre, tre figli piccoli. Hanno sondato la porta, sono entrati nelle stanze con i mitra in braccio. I bambini hanno fatto finta di dormire. Hanno preso Ayman, lo hanno ammanettato davanti alla moglie. Lei, Salma, è pittrice, i militari hanno distrutto un quadro che stava ancora appoggiato sulla tela e un altro appeso al muro. Era il 10 ottobre. Qualche giorno dopo Ayman è stato posto per sei mesi in detenzione amministrativa. Pare che l’accusa si fondi su un post pubblicato su Facebook: esprimeva solidarietà al popolo di Gaza. Ayman fa il falegname ed è un ex prigioniero politico, si è fatto quattro anni in un carcere israeliano, era stato liberato nel 2019. Quel giorno il suo villaggio, a nord di Betlemme, lo aveva accolto con la tradizionale tenda dei detenuti: qui la famiglia e gli amici hanno atteso il suo arrivo. “Non sappiamo dove sia detenuto - ci dice il fratello minore, Haitham - Di certo per un periodo si trovava nella base militare vicino alla colonia di Gush Etzion. Non è una prigione, ma una base, significa che i prigionieri stanno sotto delle tende, seduti sulla terra, non in vere celle”. La base militare di Gush Etzion non è l’unica usata come prigione. Si parla anche di una base vicino alla colonia di Ma’ale Adumim, a est di Ramallah. Luoghi isolati, circondati da torrette militari e filo spinato, i prigionieri sono lasciati negli spiazzi della base con temperature che a fine ottobre di giorno non sono scese mai sotto i 28-30 gradi. Di notte calano, l’aria fredda del deserto la porta un vento sferzante. La Mezzaluna rossa ha chiesto di poter verificare le loro condizioni, se hanno cibo a sufficienza, se hanno materassi. Negato. Il motivo dell’affollamento è il giro di vite che da un mese tormenta le notti insonni della Cisgiordania occupata: raid nelle città e nei campi profughi e un bilancio medio giornaliero di 30, 40, 50 arresti. “Israele ogni volta dice quanti sarebbero membri di Hamas, dieci, venti - continua Haitham - Gli altri? Chi sono gli altri? Sono ex prigionieri politici, o persone arrestate per un post. Israele cattura a ritmi folli per avere un numero di detenuti maggiore quando dovrà sedersi al tavolo con Hamas per lo scambio di ostaggi”. È opinione diffusa, giri di vite in vista del negoziato, ostaggi per ostaggi. I numeri crescono di giorno in giorno, al primo novembre il bilancio si assestava su 1.830 nuovi detenuti tra cui 52 donne, 17 giornalisti, 28 bambini, 30 studenti universitari e 14 membri del Consiglio legislativo palestinese. “Secondo la polizia israeliana, al 24 ottobre 110 arresti sono legali a post sui social - ci spiega Tala Nasir dell’ong palestinese per i prigionieri politici Addameer - Altri 270 sono sospettati di incitamento e sostegno a gruppo terroristico”. Lievitano anche i detenuti amministrativi (senza accuse né processo): 295 in più, che portano il totale a 1.614 su circa 7mila prigionieri. Di tutti gli altri si sa poco. Le organizzazioni per i diritti umani locali e internazionali, tentano di mappare le politiche strutturali dentro cui si realizza l’escalation, pratiche ormai note e riviste dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre. In particolare, aggiunge Addameer, il 13 ottobre le autorità israeliane hanno emendato l’Emergency Regulations Act per restringere ancora i diritti dei prigionieri palestinesi, già sottoposti a regime militare e non civile, a prescindere dall’accusa: estensione del potere di emettere mandati d’arresto anche a soldati di basso rango, allungamento dei tempi di pre-detenzione (da 14 a 30 giorni), ampliamento del divieto a vedere un avvocato (da 7 giorni a 21, che il giudice militare può estendere fino a 45). Con la dichiarazione dello stato d’emergenza, peggiorano le condizioni anche dentro le carceri: “Il parlamento israeliano - continua Addameer - ha emendato anche i regolamenti carcerari che prevedono tra l’altro la possibilità di far dormire per terra i detenuti nel caso di sovraffollamento. Dall’8 ottobre i prigionieri sono stati sottoposti a isolamento e a una serie di misure punitive: sezioni chiuse, confisca di libri e tv, divieto a incontrare avvocati e familiari, aumento delle perquisizioni nelle celle. Il caso più eclatante è quella della sezione femminile della prigione di Damoun: è stata tolta l’elettricità, sono stati usati i lacrimogeni e le detenute sono state private della loro rappresentante, Marah Bakir, trasferita nel carcere di Jalameh prison”. Le cantine - dove i detenuti possono acquistare cibo migliore di quello delle mense - sono state chiuse e i pasti ridotti da tre a due al giorno. “Ai malati sono state sospese le cure interne e le visite esterne, anche oncologiche”. Un’altra punizione collettiva, invisibile. Congo. Omicidio Attanasio, ci sono i primi indagati per il racket dei visti di Antonella Napoli L'Espresso, 5 novembre 2023 Prosegue la difficile ricerca della verità sulla morte dell'ambasciatore italiano, forse collegata a un traffico di visti come spiegato da una serie di inchieste de L'Espresso. Intanto gli imputati accusati di omicidio colposo si rifiutano di collaborare con la giustizia. Mentre nella Repubblica democratica del Congo si apre il processo di Appello per i cinque imputati accusati del rapimento e dell’uccisione dell’ambasciatore italiano Luca Attanasio, del carabiniere che gli faceva da scorta, Vittorio Iacovacci, e dell’autista del World food programme, Mustapha Milambo, a Roma i primi presunti responsabili del giro dei visti facili al Consolato di Kinshasa sono stati iscritti nel registro degli indagati. A sollecitare l’apertura del nuovo fascicolo alla Procura romana, il dossier inviato dal ministro degli Esteri Antonio Tajani che nelle scorse settimane ha predisposto un’ispezione nelle sedi diplomatiche nella RDC e a Brazzaville, capitale della vicina Repubblica del Congo. La clamorosa svolta segue l’inchiesta realizzata da L’Espresso e ripresa in un esposto dall’onorevole di Fdi, Andrea Di Giuseppe che ha chiesto un approfondimento di indagine sul triplice omicidio del 22 febbraio del 2021. Il deputato, insieme al collega Fabio Rampelli, ha anche presentato un’interrogazione parlamentare alla Camera dei Deputati alla quale ha prontamente risposto il numero uno della Farnesina confermando l’avvenuta rimozione dei due funzionari, fatti rientrare dal Congo e sui quali pende la denuncia di irregolarità sottoposta al vaglio della magistratura. Nel frattempo il giudice per l’udienza preliminare del tribunale di Roma ha convocato, per il prossimo 30 novembre, un funzionario della Farnesina che dovrà riferire nell’ambito del procedimento penale sull’uccisione dell’ambasciatore Attanasio e del carabiniere Iacovacci. In particolare il rappresentante del ministero degli Esteri dovrà illustrare la prassi e le procedure utilizzate per le comunicazioni relative ai funzionari del World food programme in merito all’immunità. Gli imputati accusati di omicidio colposo, Rocco Leone e Mansour Luguru Rwagaza, secondo l’accusa rappresentata dal procuratore aggiunto Sergio Colaiocco e dalla sostituta Gianfederica Dito, non avrebbero diritto alla copertura diplomatica perche non presenti nell’elenco dei dipendenti dell’organizzazione delle Nazioni Unite accreditati presso il ministero. Secondo i pm romani, Leone e Rwagaza - organizzatori della missione nel Kivu, regione congolese dove persero la vita le tre vittime dell’agguato sulla Route nationale 2 - avrebbero omesso le “cautele necessarie a garantire la sicurezza del convoglio con il quale viaggiava l’ambasciatore italiano”. Sono tanti gli aspetti da chiarire. Perché l’auto guidata da Milambo e su cui viaggiavano Attanasio e Iacovacci non era blindata? Perché venne scelto proprio quel giorno per recarsi in una delle zone più pericolose del Congo, visto che era stata diramata un’allerta di sicurezza per cui molti militari erano stati richiamati a Goma lasciando sguarnita la strada? Domande a cui solo gli imputati possono rispondere. Ma finora sia Leone che Rwagaza si sono sistematicamente rifiutati di collaborare con la giustizia italiana. Se il processo non dovesse partire, nel caso in cui la giudice dell’udienza preliminare Marida Mosetti dovesse accogliere l’eccezione di immunità presentata dai legali di Leone (ndr la posizione di Rwagaza è stata stralciata per un “difetto di notifica”), omissioni, responsabilità e misteri irrisolti del delitto Attanasio rimarranno senza risposte.