In Italia si continua a morire di carcere di David Allegranti linkiesta.it, 4 novembre 2023 L’ennesimo suicidio dietro le sbarre, a Caltanissetta, si aggiunge alle altre cinquantatré persone del 2023. Lo stigma legato alla detenzione sembrerebbe essere l’elemento cruciale dietro questo trend costante negli ultimi cinque anni, a esclusione del picco del 2022. Un altro suicidio in carcere. Stavolta è un ventottenne che sarebbe uscito fra sei mesi e che si è tolto la vita, il 29 ottobre scorso, nella Casa circondariale di Caltanissetta, dove era detenuto dal luglio del 2021. Con la sua morte salgono a cinquantaquattro le persone detenute che si sono tolte la vita dall’inizio del 2023. “Una media di un suicidio quasi ogni cinque giorni, talvolta con successioni molto rapide, come è accaduto per gli ultimi due casi, avvenuti nell’arco di ventiquattro ore”, calcola l’ufficio del Garante delle persone private della libertà personale. “È una linea di tendenza che soltanto un ottimismo ingenuo può far pensare abbia segnato, con quello di ieri, l’ultimo caso dell’anno”, argomenta il Garante: “È una linea di tendenza che si è manifestata costante, nei numeri, negli ultimi cinque anni: a esclusione del 2022 con il picco tragico di ottantacinque i dati dal 2018 indicano una costante di suicidi in carcere intorno ai sessanta. Una costante che, considerato il numero odierno, alla fine di ottobre, rischia pericolosamente di essere di nuovo superata”. A questo conto, “in cui ogni caso ha un nome e un vissuto di drammaticità e di fragilità rimasto sostanzialmente inascoltato, devono aggiungersi i “morti per causa da accertare”, giacché spesso gli accertamenti riconoscono nel suicidio la causa della morte: sono 21 dall’inizio dell’anno”. Nell’aprile di quest’anno, il Garante nazionale ha pubblicato un interessante e tragico studio sui suicidi in carcere. Nel 2022, si sono tolte la vita ottantacinque persone, di cui ottanta erano uomini e cinque donne. “Se si prende in considerazione non solo lo stesso numero di mesi ma tutti i dodici mesi per ogni anno, si tratta del più alto di suicidi mai registrato negli ultimi dieci anni”, scrive il Garante nazionale nella sua analisi: “Tale dato risulta ancora più allarmante se lo si rapporta al totale della popolazione detenuta nei diversi anni: infatti, nel 2022 si registra una popolazione detenuta media visibilmente inferiore a quella del 2012 - ben undicimila seicento ottantasette persone detenute in meno - ma con ventinove suicidi in più rispetto a quelli verificatisi in quell’anno. Negli ultimi dieci anni, negli Istituti penitenziari nazionali, si sono verificati cinquecento ottantanove suicidi, di persone di età compresa tra i diciotto anni e gli ottantatré anni, quasi la metà delle persone era in attesa di una sentenza definitiva (tasso simile alle persone che si sono suicidate nel 2022)”, scrive ancora il Garante nella sua analisi. Alcuni dei detenuti che si sono suicidati nel 2022 stavano per uscire dal carcere, come nell’ultimo caso del ventottenne a Caltanissetta. “Troppo breve è stata in molti casi la permanenza all’interno del carcere, troppo frequenti sono anche i casi di persone che presto sarebbero uscite. In questi casi sembra piuttosto che lo stigma percepito dell’essere approdati in carcere costituisca l’elemento cruciale che spinga al gesto estremo. Cinquanta persone, pari al sessantadue per cento del totale, si sono suicidate nei primi sei mesi di detenzione; di queste, ventuno nei primi tre mesi dall’ingresso in Istituto e quindici entro i primi dieci giorni, nove delle quali addirittura entro le prime ventiquattro ore dall’ingresso. Questo vuol dire che circa un suicidio su cinque si verifica nei primi dieci giorni dall’ingresso nel carcere”. Inoltre, fra le ottantacinque persone suicidatesi nel 2022, cinque avrebbero completato la pena entro l’anno in corso quarantadue avevano una pena residua inferiore a tre anni; solo quattro avevano una pena residua superiore ai tre anni e di cui una aveva una pena residua superiore ai dieci anni. “Un picco si è registrato nel mese di agosto, quando in carcere gran parte delle attività si fermano, con ben diciassette casi”. Già in questo dossier di aprile il Garante aveva ricordato che il tasso di suicidi in carcere è stato superiore di diciotto volte a quello dei suicidi nella società libera: “Le risposte e la ricerca di soluzioni non sono certamente semplici e investono l’intera collettività e i suoi fondamenti culturali se, come abbiamo segnalato in più occasioni, sono numerosi i casi di suicidio che si verificano nelle prime settimane di detenzione e anche numerosi quelli a poco tempo dall’uscita dal carcere, magari dopo una lunga detenzione: delle cinquantaquattro persone che si sono tolte la vita in carcere quest’anno fino a oggi, tre sarebbero uscite entro la fine dell’anno, cinque nel 2024, tre entro i primi mesi e due alla fine”. È assai difficile, per non dire improprio, “connettere questi atti di disperazione alle condizioni della vita detentiva, soprattutto se sperimentate per molto tempo e se si è prossimi a lasciarle. Più serio è ricondurle a quella mancanza di prospettive e a quello stigma sociale che attende spesso chi esce dal carcere, di cui tutta la società esterna è responsabile. Per questo interrogano tutti noi”, ribadisce oggi il Garante nazionale. Di carcere insomma si continua a morire. Perché il carcere non è solo l’università del crimine, come diceva già Tocqueville. È anche il posto in cui i ristretti, posti sotto tutela dello Stato, non possono vivere ma devono sopravvivere. Perché, magari, non hanno l’assistenza sanitaria adeguata, come spiegano i detenuti di Rebibbia in una lettera resa pubblica da Antigone, nella quale si appellano ai medici alla ricerca di aiuto: “Il carcere, come anche il mondo esterno, risente molto dai tagli e dalle difficoltà che il Servizio Sanitario Nazionale subisce”, sottolinea Antigone, associazione presieduta da Patrizio Gonnella: “Con l’unica differenza che, per chi è recluso, non c’è la possibilità - anche laddove ci siano le risorse economiche - di affidarsi a visite specialistiche private. Questo comporta tempi di attesa a volte anche di alcuni mesi. Inoltre, non in tutte le carceri, l’assistenza medica o infermieristica è fornita per tutte e ventiquattro le ore della giornata. Spesso, al fianco dei medici di medicina generale, mancano gli specialisti o la loro presenza è prevista solamente per poche ore”. Drammatiche le parole dei detenuti contenute nella lettera: “La realtà del carcere è dura, difficile e impegnativa per medici e personale sanitario almeno quanto quella in un Pronto Soccorso, ma senza le relative indennità e le possibilità di carriera. Fate bene a richiederli alle autorità sanitarie regionali e nazionali, noi e i nostri familiari vi sosteniamo…. ma non ci abbandonate! Abbiamo bisogno della vostra professionalità e competenze! Siate umanamente solidali con noi come noi lo siamo con voi, con le vostre richieste. Venite in carcere, curateci, fate in modo che i giovani medici vi affianchino a fare tirocinio. Che esperienza straordinaria farebbero affermando sul campo il diritto alla cura e che occasione avrebbero per superare paure e pregiudizi e scoprire quanta umanità c’è dietro le sbarre”. Una umanità che chiede di poter vivere. Viaggio negli istituti italiani: ecco “Il libro bianco sulle carceri” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 4 novembre 2023 L’associazione Italiana Giovani Avvocati (AIGA) ha presentato il suo ambizioso progetto: il “Libro Bianco sulle Carceri”, redatto con cura dall’Osservatorio Nazionale AIGA sulle Carceri (ONAC). Questo straordinario documento, che sarà ufficialmente presentato oggi, sabato 4 novembre, presso la Casa Circondariale di Genova- Pontedecimo, è molto più di un semplice resoconto. È il risultato tangibile dell’impegno degli avvocati giovani e determinati, che hanno svolto approfondite indagini nelle carceri italiane per identificare le esigenze di riforma del sistema penitenziario. Il contesto in cui è emerso il “Libro Bianco sulle Carceri” è di grande rilevanza. Questo straordinario documento è stato stampato e rilegato dai detenuti presso l’Istituto Ligure, un gesto simbolico che sottolinea l’importanza di coinvolgere chi vive direttamente l’esperienza carceraria nel processo di riforma. La dedica del libro a Papa Francesco, che ha benedetto il progetto, aggiunge un significato spirituale profondo all’iniziativa. Il progetto è il risultato di due anni di lavoro intenso, che ha coinvolto le delegazioni delle 140 sezioni dell’AIGA sparse in tutta Italia. Esso offre una panoramica dettagliata dei sopralluoghi effettuati nelle varie carceri italiane, accompagnata da proposte concrete per modifiche all’Ordinamento Penitenziario e agli istituti carcerari. Questo documento non è solo una semplice analisi, ma anche un piano d’azione che si propone di superare le sfide e abbattere le barriere tra i detenuti e la società. Il presidente dei giovani avvocati, Francesco Paolo Perchinunno, ha sottolineato l’impegno sociale e tecnico dell’AIGA nel suo discorso. Ha enfatizzato l’importanza di considerare non solo i detenuti, ma anche gli operatori penitenziari, che affrontano quotidiane difficoltà strutturali e stress emotivo. L’AIGA si è posta l’obiettivo di superare queste sfide per realizzare l’obiettivo fondamentale della pena: la rieducazione. L’evento di presentazione del documento sarà un’opportunità unica per promuovere il dialogo costruttivo. Personalità di spicco, come Sua Eccellenza Monsignor Marco Tasca, Arcivescovo metropolita di Genova, e rappresentanti del governo, tra cui il Ministro della Giustizia Carlo Nordio e il Sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove, offriranno i loro contributi. Sarà un’occasione per creare spazi di dialogo e individuare soluzioni concrete per garantire la dignità dei detenuti e delle forze dell’ordine coinvolte nel processo di rieducazione. Il “Libro Bianco sulle Carceri” di AIGA rappresenta un passo significativo verso una giustizia più umana e rieducativa. Attraverso il coinvolgimento attivo dei detenuti e il supporto delle autorità religiose e governative, l’AIGA dimostra l’importanza di un approccio collettivo per superare le sfide del sistema penitenziario italiano. Ora, più che mai, è fondamentale tradurre le proposte formulate nel libro in azioni concrete per costruire un futuro più giusto e compassionevole per tutti i cittadini italiani. Il comunicato stampa dell’AIGA Stampato e rilegato dai detenuti dell’Istituto Ligure, arriva il “Libro Bianco sulle Carceri”, redatto a cura dell’Associazione Italiana Giovani Avvocati mediante l’Osservatorio Nazionale AIGA sulle Carceri (ONAC). La sua presentazione ufficiale si terrà sabato 4 novembre dalle 15 presso la Casa Circondariale di Genova Pontedecimo, al cui interno si trova la tipografia legatoria in cui è stato confezionato il libro. Anche la dedica a Sua Santità Papa Francesco non è casuale. I giovani avvocati sono stati ricevuti dal Papa a margine dell’udienza generale del 6 settembre scorso. “Papa Francesco - racconta il Presidente dei giovani avvocati Francesco Paolo Perchinunno - ci ha ricevuto e ha dato la propria benedizione ad un progetto che proprio dalle sue parole prende ispirazione: “la verità è una compagna inseparabile della giustizia e della misericordia. Tutt’e tre unite, sono essenziali per costruire la pace e, d’altra parte, ciascuna di esse impedisce che le altre siano alterate. […] La verità non deve, di fatto, condurre alla vendetta, ma piuttosto alla riconciliazione e al perdono” (dall’Enciclica “Fratelli Tutti”). Il Libro Bianco è infatti la testimonianza più tangibile dell’impegno dei giovani avvocati. Un’analisi fedele dei sopralluoghi svolti nel corso del biennio presso i diversi istituti penitenziari italiani, annotati dalle diverse delegazioni delle 140 sezioni dell’AIGA distribuite sul territorio nazionale. Contiene anche le proposte di modifica dell’Ordinamento Penitenziario e degli istituti carcerari formulate da AIGA insieme a numerosi esperti della materia penitenziaria. “Il primo Libro Bianco sulle Carceri - afferma il Presidente Perchinunno - è la sintesi di un impegno straordinario dell’AIGA, nato dalla consapevolezza della responsabilità tecnica e sociale che la Costituzione attribuisce all’Avvocatura. È il punto di arrivo di un lavoro biennale che ci ha portato a visitare quasi cento istituti di pena e, sulla base di quanto constatato, ad individuare le prioritarie esigenze di riforma dell’ordinamento penitenziario, raccolte proprio nel Libro Bianco. Ma è soprattutto il punto di partenza del vero lavoro che ci impegnerà nel prossimo futuro, quello di mettere in pratica e tradurre in realtà le proposte che con il Libro Bianco abbiamo formulato. La situazione carceraria in Italia ci obbliga a riflettere profondamente su tali proposte, volte a scavalcare quel muro che divide il detenuto dalla società nella quale dovrà ritornare. Al di là di quel muro, ricordiamocelo, ci sono anche gli operatori penitenziari, che continuano a svolgere il proprio lavoro nonostante le gravose carenze strutturali e di organico e lo stress emotivo al quale sono quotidianamente sottoposti, in uno sforzo costante di adempimento del proprio dovere, in funzione della finalità rieducativa della pena”. L’evento sarà un’occasione per creare spazi di dialogo verso soluzioni che possano garantire la dignità dei detenuti, l’effettività del principio di rieducazione della pena e condizioni di lavoro ugualmente dignitose alla Polizia Penitenziaria ed a tutti gli operatori coinvolti nel processo di rieducazione. Interverrà Sua Eccellenza Monsignor Marco Tasca, Arcivescovo metropolita di Genova e Presidente della Conferenza episcopale ligure. Sono stati invitati a porgere i saluti Carlo Nordio, Ministro della Giustizia e Andrea Delmastro Delle Vedove, Sottosegretario alla Giustizia. Diritto alla salute in carcere, il grido da Rebibbia che scuote i medici di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 4 novembre 2023 Dal carcere di Rebibbia, si è levata un’invocazione urgente e appassionata. Nella forma di una lettera aperta rivolta a tutte le autorità dalla Asl fino al ministero della giustizia, i detenuti hanno rivolto il loro sguardo fiducioso e speranzoso verso i medici e il personale sanitario, chiedendo aiuto, assistenza e umanità. Questo appello, proveniente direttamente dalla redazione di “Non Tutti Sanno”, il notiziario della Casa di Reclusione di Rebibbia, si è levato come un grido di speranza nel buio, richiamando l’attenzione sulla loro condizione, sulla loro dignità umana e sul diritto fondamentale alla salute. In una società spesso veloce nel giudicare e nell’isolare coloro che hanno commesso errori, questa lettera ha lanciato un appello carico di umanità. I detenuti, nel riconoscere i loro errori, non hanno rinunciato al diritto alla dignità e alla cura. Con coraggio e determinazione, hanno sfidato le criticità del sistema sanitario penitenziario italiano, evidenziando le difficoltà che devono affrontare quotidianamente. La lettera ha ribadito l’importanza cruciale del personale medico e sanitario nel contesto carcerario. Sottolineando le numerose patologie fisiche e mentali che affliggono la popolazione carceraria, gli autori dell’appello hanno evidenziato la necessità di una maggiore prevenzione e cura. Hanno sottolineato il fatto che, senza l’impegno costante dei medici e degli operatori sanitari, il diritto costituzionale alla cura rimane un concetto vuoto all’interno delle mura delle prigioni italiane. Un tema particolarmente toccante è stato il ruolo cruciale che la presenza dei medici svolge nel contrastare il disagio psicologico derivante dalla detenzione. La carcerazione può abbattere le difese immunitarie e aggravare problemi psichiatrici preesistenti, rendendo la presenza di professionisti della salute mentale ancora più essenziale. La lettera ha sottolineato la necessità di risorse aggiuntive e di una maggiore presenza di specialisti per affrontare le patologie psichiatriche, insieme alla richiesta di luoghi adeguati fuori dalle prigioni per coloro che necessitano di cure psichiatriche o di disintossicazione. L’appello ha anche posto l’accento sul bisogno di continuità nell’assistenza medica. I detenuti hanno condiviso le loro preoccupazioni riguardo alla sostituzione insufficiente dei medici in pensione e alla difficoltà nel reclutare nuovi professionisti. Questo ha creato un vuoto nell’assistenza sanitaria all’interno delle carceri, causando ulteriori disagi per coloro che sono già afflitti dagli effetti del sovraffollamento e delle condizioni carcerarie difficili. Nonostante le sfide, l’appello si è concluso con una nota di speranza. I detenuti hanno chiesto ai medici di non abbandonarli, di condividere la loro competenza e il loro impegno, di entrare nelle prigioni e di accettare giovani medici in formazione, offrendo loro un’opportunità unica di apprendimento e crescita. Hanno chiesto anche ai medici in pensione di prolungare la loro attività nel carcere, se possibile, per garantire continuità e stabilità nell’assistenza sanitaria. Questo appello appassionato ha sottolineato l’importanza vitale di un sistema sanitario penitenziario compassionevole, competente e umano. Ha richiamato l’attenzione sulla necessità di affrontare le sfide del sistema carcerario italiano e di garantire che ogni individuo, anche dietro le sbarre, abbia accesso a cure adeguate, rispetto e dignità. Ora, spetta a tutte le autorità competenti, politica in primis, a rispondere a questo appello, riconoscendo l’umanità dietro le sbarre e lavorando insieme per far fronte a questo gravoso problema che rende, di fatto, illegale il sistema penitenziario stesso. Le critiche pretestuose contro il nuovo Garante dei detenuti di Ermes Antonucci Il Foglio, 4 novembre 2023 Dopo i pareri positivi delle commissioni Giustizia di Camera e Senato, spetta ora al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nominare formalmente i nuovi componenti del collegio nazionale del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale. I nomi proposti dal governo sono quelli di Felice Maurizio D’Ettore (che rivestirà il ruolo di presidente), Irma Conti e Mario Serio. La nomina è frutto di un accordo raggiunto tra i gruppi di maggioranza e il Movimento 5 stelle, che ha indicato il nome di Serio. La designazione dei nuovi componenti è stata accompagnata da una lunga scia di polemiche da parte dei partiti di opposizione e di diversi organi di stampa. “E’ inaccettabile e intollerabile il metodo che la maggioranza e il governo hanno adottato per la designazione dei candidati al ruolo di Garante dei detenuti”, ha attaccato il Partito democratico, ricordando che “la legge istitutiva chiede che i candidati al ruolo siano indipendenti ed esperti nel campo dei diritti umani”: “I candidati scelti della maggioranza, per quanto degne persone, non hanno alcuna esperienza nel campo, e per quanto riguarda il candidato presidente non hanno neppure le caratteristiche di indipendenza necessarie”. In altre parole, come sostenuto anche da diversi giornali, il governo avrebbe scelto persone non competenti sulla materia, in primis quella carceraria. In verità, per quanto il monitoraggio della situazione delle carceri costituisca una delle aree principali - probabilmente la più importante - di competenza del Garante, l’attività di quest’ultimo si estende anche ad altre aree come quella delle forze di polizia (camere di sicurezza e qualsiasi locale adibito alle esigenze restrittive), l’area delle persone migranti (centri di permanenza per i rimpatri, hotspot, locali di frontiera per il trattenimento delle persone migranti), l’area sanitaria (servizi psichiatrici di diagnosi e cura, residenze sanitarie assistenziali per persone anziane o con disabilità). A queste aree se ne è aggiunta recentemente una quinta, relativa ai luoghi formali di quarantena (tra cui i cosiddetti “hotel Covid 19” e navi quarantena). Materie, quest’ultime (migranti, anziani, disabili, servizi psichiatrici, luoghi di quarantena), tutte di competenza del giudice civile o amministrativo. E’ per queste ragioni che la legge istitutiva del garante richiede che a essere scelti per il collegio del Garante siano persone che “assicurano indipendenza e competenza nelle discipline afferenti la tutela dei diritti umani”. Un riferimento, dunque, ben più ampio rispetto al settore della mera esecuzione della pena. D’altronde, la tutela dei diritti delle persone private della libertà personale chiama in causa competenze che vanno al di là della materia penale, includendo appunto anche quella civile, amministrativa, costituzionale e del diritto internazionale. Appare, quindi, quantomeno ardita l’accusa di incompetenza rivolta ai componenti scelti dal governo: un docente di diritto civile e avvocato con esperienza trentennale (D’Ettore), un avvocato con oltre venti anni di esperienza nel settore del diritto penale (Irma Conti), un professore di diritto privato comparato dal 1994 ed ex membro laico del Csm (Mario Serio). L’accusa risulta ancora più paradossale se si considera che dal 2016 a oggi il collegio del Garante è stato costituito da Mauro Palma (presidente), laureato in matematica e fondatore dell’associazione Antigone, molto attiva nella realtà carceraria, l’avvocata penalista Emilia Rossi e la giornalista (laureata in filosofia) Daniela De Robert. Allo stesso tempo appare fuori luogo l’accusa di mancanza di indipendenza lanciata nei confronti di D’Ettore, per il semplice fatto di essere dipendente della pubblica amministrazione (esiste l’aspettativa) e di essere stato deputato di Fratelli d’Italia nella scorsa legislatura. Con questa logica, infatti, a tutti i parlamentari andrebbe bandita la partecipazione a organismi o autorità dopo la fine del loro incarico. A dir la verità, per giunta, proprio l’esperienza maturata come parlamentare e membro della commissione Affari costituzionali sembra fornire ancora più autorevolezza al curriculum di D’Ettore. Altre polemiche, poi, sono emerse attorno alla mancata audizione in commissione dei tre componenti proposti dal governo. “Un atto di arroganza”, è stato definito. Eppure, la legge stabilisce che a nominare il collegio sia il presidente della Repubblica, “sentite le competenti commissioni parlamentari”, dunque non fa alcuna menzione di audizioni. L’impressione è che, in fondo, la nomina del nuovo Garante non vada giù al Pd e al centrosinistra soltanto perché proveniente da un governo di centrodestra. Presunzione d’innocenza, le richieste di Costa a Nordio: vietato dare alla stampa le ordinanze di custodia cautelare di Liana Milella La Repubblica, 4 novembre 2023 La legge Orlando lo aveva previsto. Adesso la marcia indietro. Il 14 dicembre scade la possibilità di modificare ancora il decreto Cartabia. Bisogna partire dal vocabolario dei cosiddetti garantisti per rendersi conto di come i giornalisti siano ormai destinati a finire in futuro sempre come “i presunti colpevoli”. Alla faccia proprio della presunzione d’innocenza, sbandierata di continuo dai garantisti, che però non deve valere per la libera stampa. E guardiamo allora le espressioni che vengono usate, alla vigilia di una data, il 14 dicembre, in cui scade la possibilità di inasprire ulteriormente la già terribile legge sulla presunzione di innocenza, approvata a dicembre di due anni fa e che già tratta i giornalisti come presunti colpevoli. La norma della legge Orlando che consente ai cronisti di pubblicare liberamente le ordinanze di custodia cautelare, viene definita, dal giornale che si proclama garantista per eccellenza come quello del Consiglio nazionale forense che si chiama Il Dubbio, un “clamoroso vulnus”. E ancora “il cavallo di Troia della presunzione d’innocenza”. Perché “in questi atti giudiziari fatalmente confluisce tutta la massa di informazioni sulle quali pm e polizia giudiziaria sono tenuti a mantenere il segreto durante le indagini” come ha scritto il collega Enrico Novi il 31 ottobre. Stiamo dicendo che quando un pubblico ministero chiede un arresto, che viene autorizzato dal giudice per le indagini preliminari, non dovrebbe squadernare nella richiesta tutti gli elementi che giustificano un passo così carico di responsabilità come chiedere le manette per una persona. Forse dovrebbe nascondere questi atti, per la paura che vengano poi pubblicati dalla stampa. E anche la stampa, a sua volta, dovrebbe avvolgere in una coltre di silenzio tutti i documenti che giustificano un’indagine penale, che portano, ovviamente non sempre, a un arresto, negando all’opinione pubblica la possibilità di conoscere le pezze d’appoggio di un’inchiesta. Questo perché la parola che definisce la libertà di raccontare un fatto diventa una parola offensiva, e cioè “la gogna”. Una tesi che ne nasconde un’altra, i pm paragonati a dei vampiri che sopravvivono solo se succhiano il sangue degli arrestati. Altrimenti, proprio come i vampiri, rischiano di morire. Ovviamente una teoria che non ha alcun fondamento, se non il punto di vista degli avvocati, che ovviamente fanno il loro mestiere, e vedono innocenti dappertutto (anche perché sono pagati per guardare il mondo da questo angolo visuale). Il paladino della legge sulla presunzione d’innocenza è il responsabile Giustizia di Azione Enrico Costa. Fu proprio lui, nella scorsa legislatura, che la sottopose come un passo inderogabile all’allora Guardasigilli Marta Cartabia. Purtroppo non vi fu grande interesse mediatico su una legge come questa. Repubblica ha scritto numerosi articoli, anche critici, e tra questi mi piace ricordare un’intervista con l’ex procuratore aggiunto di Roma Nello Rossi, nonché avvocato generale in Cassazione, in cui proprio scorrendo le domande emergono i dubbi su una legge obiettivamente pericolosissima per la libertà di fare cronaca giudiziaria. Rossi non la pensava e non la pensa così, e per questo ripropongo qui quel confronto. Ma dubbi, perplessità, timori e preoccupazioni, non hanno prodotto un più ampio interesse mediatico. Forse la nostra categoria non si è resa conto delle conseguenze che una legge come questa potrà avere. I magistrati hanno cercato di protestare, perché anche il loro potere dal punto di vista del racconto di un’indagine è stato fortemente limitato: no alle conferenze stampa, sì soltanto quando c’è un “interesse pubblico”. Ma qual è quell’arresto, di un cittadino presunto innocente ovviamente, che non deve essere raccontato all’opinione pubblica? Da parte di magistrati che si assumono la responsabilità di aver emesso un ordine di cattura, con tutto quello che può comportare non solo per la vita dell’arrestato, ma anche per la sua famiglia e per il suo contesto sociale. È del tutto sbagliata l’immagine che volutamente si vuole dare della stampa italiana, come cinicamente “manettara”, ossessionata solo dalla voglia alla Dracula di sangue e di arresti. La voglia di “sputtanare” qualcuno. Ebbene, non è così. I giornalisti hanno la testa sulle spalle. E quando scrivono - ovviamente qualche caso anomalo ci può stare - avvertono la responsabilità di quello che raccontano. E invece adesso cosa propone il responsabile Giustizia di Azione Costa sollecitando il Guardasigilli Carlo Nordio, che naturalmente può spendere in questo modo la parola garantismo, di cui fa un costante abuso? Vuole stringere ancora di più i cordoni dell’informazione, vuole fare un passo indietro rispetto alla legge dell’ex Guardasigilli Andrea Orlando che nel 2017 dette il via libera alla pubblicazione dell’ordinanza di custodia cautelare, l’atto che viene consegnato all’arrestato e al suo avvocato, la base stessa di un processo, destinata a diventare invece un foglio clandestino. Non so se Costa, e chi la pensa come lui, si rende conto del danno che questo può provocare in primo luogo proprio all’imputato o all’arrestato, perché la stampa non può ignorare un fatto di cronaca, e quindi non disponendo di documenti ufficiali sarà costretta a pubblicare le poche notizie che riuscirà a racimolare clandestinamente. Vietato pubblicare l’ordinanza di custodia. Vietata la conferenza stampa dei magistrati. Che cosa resta a questo punto? Trovare una gola profonda che fornisca delle informazioni. Cioè la via peggiore che può esistere. Ma Costa invece non la pensa così e definisce le ordinanze di custodia “un’arma formidabile nelle mani di chiunque voglia allestire la solita gogna”. E per questo chiede che Nordio, entro il 14 dicembre, vieti la pubblicazione delle ordinanze di custodia cautelare. Purtroppo questo è un autunno molto caldo per la stampa. A rischio c’è la sua stessa ragione di vita, la libertà di raccontare le notizie. Perché, guarda caso, il Senato si occuperà anche delle norme sulla diffamazione che prevedono già decisioni draconiane, come hanno denunciato il presidente dell’Ordine dei giornalisti Carlo Bartoli e il presidente della Federazione nazionale della stampa Vittorio Di Trapani con la segretaria Alessandra Costante. Multe pesantissime, fino a 50mila euro; obbligo di inseguire il processo nei tribunali d’Italia laddove risiede l’autore della denuncia; rettifica immediata senza possibilità di replica. Inutile dire che in tempi come questi, in cui i cordoni della borsa degli editori sono strettissimi, norme simili sono letteralmente liberticide. Nessun editore, di fronte a multe così pesanti, sarà più di manica larga. Per la semplice ragione che non se lo potrà permettere. E allora poiché abbiamo un presidente della Repubblica che ha a cuore la libertà di stampa garantita dall’articolo 21 della Costituzione, è necessario accendere un faro, il più potente possibile, per tutelare la libera informazione contro i tentativi reiterati di tappare la bocca ai giornalisti. Musolino: “Le Procure non sono depositarie della verità, serve responsabilità” di Valentina Stella Il Dubbio, 4 novembre 2023 Il gip Tommaso Perna, che non ha accolto la richiesta di 143 arresti da parte della procura antimafia milanese, ha attirato su di sé pesanti critiche da parte dei media ma anche dalla stessa Dda. Ne parliamo col segretario di Magistratura democratica Stefano Musolino. Mentre parliamo è in corso una giunta dell’Anm. E almeno fino al tardo pomeriggio non c’è stato alcun comunicato in difesa del collega Perna. Condivide questo silenzio? Partiamo dal dato positivo. Ho apprezzato molto, per densità dei contenuti e tempestività, l’intervento del Presidente del Tribunale di Milano. Essendo ormai trascorso del tempo, mi piacerebbe che l’Anm, piuttosto che prendere posizione sul singolo episodio, avviasse una riflessione nella magistratura per riannodare le fila di una trama comune sulle dinamiche ortodosse nei rapporti interni alla giurisdizione. Il mio timore è che taluni recenti pessimi esempi di aggressione mediatica dall’esterno ai provvedimenti e alla persona del giudice possano trovare forme di emulazione all’interno della magistratura, specie nei rapporti tra organi inquirenti e giudicanti. Come si spiega la reazione per molti scomposta della Procura? Il modo in cui la Procura di Milano ha illustrato l’esito della richiesta cautelare alla stampa e poi come quest’ultima lo ha presentato all’opinione pubblica è preoccupante. È stata persa un’occasione per dimostrare rispetto per l’esito giurisdizionale, nonostante l’importante investimento investigativo profuso. La Procura ha il dovere di rappresentare la sua ricostruzione dei fatti, dando conto della precarietà delle conclusioni dimostrative raggiunte, senza contraddittorio con la difesa. A maggior ragione quando quella ricostruzione è stata smentita dal primo esito giurisdizionale. Quando, invece, l’unica fonte delle informazioni propone una pubblica critica sia al provvedimento, sia al giudice che lo ha emesso, trasmette all’opinione pubblica l’idea che soltanto la Procura sia depositaria della verità e questo nuoce alla comprensione della complessità della giurisdizione. Quindi la Procura ha una responsabilità nell’aver alimentato la gogna contro Perna? Non credo che, per quanto bravi, i giornalisti possano avere avuto il tempo di vagliare tutto il materiale investigativo e farsi opinioni già così nette sulla vicenda, senza che ci fosse qualcuno - Procura o polizia giudiziaria - a orientare una certa lettura di un provvedimento così corposo. Ora, a prescindere da chi abbia “istruito” la stampa, la Procura ha la responsabilità di garantire che questo momento informativo si sviluppi secondo regole di sobrietà e rispetto dell’operato della giurisdizione, mentre il messaggio trasmesso è stato quello per cui il giudice non fosse stato capace di intendere le magnifiche intuizioni investigative proposte dalla ricostruzione accusatoria. Il sospetto è che l’Anm usi due pesi e due misure: se ad attaccare un giudice è la politica, scatta immediatamente la difesa, quando le diatribe sono interne si preferisce tacere... Lei coglie un profilo che avevo già evidenziato in un recente intervento pubblico. È un dato obiettivo che la magistratura fatichi ad intuire quanto sia pericolosa la molestia interna all’esercizio libero e sereno - in scienza e coscienza - della giurisdizione. Questa molestia, infatti, è ancora più insidiosa per l’imparzialità del giudice, di un’aggressione esterna a cui siamo ormai abituati e preparati. Perché siete più impreparati a gestire gli attacchi interni? Esiste un riflesso corporativo, fondato sul presupposto che il collega sia sempre corretto e leale, perché condivide la tua stessa fatica giurisdizionale. Si tratta di un pregiudizio positivo, se vogliamo. Tuttavia, l’imparzialità del giudice non è un dato statico, ma va quotidianamente sottoposta a verifica sia nei rapporti esterni, sia in quelli interni, a tutela della qualità della giurisdizione. Credo che quello a cui abbiamo assistito sia un primo riflesso culturale della programmata riforma sulla separazione delle carriere. Ci spieghi meglio... Una delle disfunzioni di un’eventuale riforma costituzionale sarà un pubblico ministero molto legato al risultato, secondo una logica “vinco/ perdo il processo”, piuttosto che un pm lealmente indifferente all’esito delle sue indagini, perché proiettato sul risultato giurisdizionale che è qualcosa che va oltre la sua parziale rappresentazione del fatto. Se si arriverà alla separazione delle carriere quello che oggi stiamo giudicando come un dato patologico nei rapporti pm/ giudice diverrà fisiologico. “Conflitti e diritti in un mondo in movimento” è il titolo del vostro congresso. Che messaggio volete lanciare? Ci piacerebbe dare il nostro contributo ad una magistratura sempre più consapevole che nel mondo dei diritti sono in corso una serie di conflitti in cerca di una soluzione bcapace di contemperare esigenze contrapposte. Il conflitto è un fattore di crescita e sviluppo dei diritti se gestito secondo una logica di progressivo affinamento e miglioramento degli equilibri tra interessi contrapposti. Più la magistratura sarà consapevole di questo suo ruolo, sempre meglio farà il suo lavoro. Ma non spetta alla politica risolvere questi conflitti? Non siete stanchi di colmare il vuoto legislativo? Non so se siamo stanchi, certamente non lo sono le persone che bussano alle nostre porte per chiedere tutela dei propri diritti. È un tema complesso in cui si innestano: prevedibilità del diritto; capacità di interpretazione costituzionalmente orientata, nei limiti consentiti dal testo normativo; rispetto dei principi sovranazionali vincolanti, anche se non recepiti dal legislatore nazionale. Come vi difendete dall’accusa di politicizzazione? Credo che il magistrato più politicizzato sia proprio quello che fa professione di impolitica. Un magistrato afasico, amorfo, che galleggia sul fiume delle maggioranze contingenti, per raggiungere gli scranni più alti della corporazione, schivando - senza farci caso - principi costituzionali e norme sovranazionali. Un magistrato che fa dell’imparzialità un alibi per giustificare un’interpretazione asettica del diritto, senza alcuna consapevolezza del suo ruolo costituzionale. Non è un caso che l’elogio di questo tipo di giudice sia stato fatto dal movimento politico più ingenuo ma forse anche più genuino: la Lega che ha osannato le recenti scelte di Magistratura indipendente sulla vicenda Apostolico. Questo endorsement, per paradosso, manifesta, nella sua solare ed inscalfibile concretezza, quale sia la parte della magistratura più autenticamente prossima alla politica parlamentare. E infatti, non credo sia un caso che alcune recenti dichiarazioni del Segretario Piraino e della Consigliere Nicotra, entrambi di MI, abbiano trovato subito eco nelle dichiarazioni del Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano. Ci sono sinergie culturali sempre più manifeste che dicono molto di chi, in questo momento, sia culturalmente collaterale a fazioni politiche. Non lo è certamente la magistratura progressista, meno che mai quando invoca il rispetto dei principi ed equilibri costituzionali, nel contesto di plurali fonti sovranazionali. E la Cedu chiese all’Italia: ma voi punite sulla base di indizi? di Fabrizio Costarella e Cosimo Palumbo* Il Dubbio, 4 novembre 2023 Caso Cavallotti, Strasburgo stupita dalla confusione tra prove e sospetti. L’ultimo quesito che la Corte Europea per i Diritti dell’uomo pone al Governo Italiano, nel noto caso Cavallotti/Italia, attiene allo statuto della prova e alla ripartizione del suo onere nel procedimento di prevenzione nazionale. I Giudici convenzionali chiedono di sapere se la giurisprudenza domestica abbia fondato le proprie pronunce su “valutazioni oggettive” e “prove fattuali” e non, piuttosto, su “mero sospetto”. E chiedono anche che venga loro spiegato se l’onere della prova incomba alla autorità pubblica, ovvero al privato e se, in tale ultimo caso, l’inversione di tale onere, specie riguardo ad acquisti assai risalenti nel tempo, comporti un peso eccessivo per la parte che si difende, se tale peso sia compatibile con i principi europei (e, a dire il vero, anche nazionali) in punto di misure sanzionatorie, tutti ispirati a canoni di accusatorietà. Immaginiamo già l’imbarazzo di chi dovrà rispondere a simili quesiti, se partiamo dal presupposto che il Codice Antimafia non chiarisce quale sia lo standard probatorio che debba sorreggere l’adozione di misure votate a sconvolgere le vite dei loro destinatari. I possibili candidati a una misura di prevenzione (personale o patrimoniale), infatti, possono essere tanto i soggetti “indiziati” della commissione di taluni reati - contenuti in un catalogo che diventa sempre più pletorico e sempre meno destinato a contrastare la criminalità organizzata - quanto coloro i quali “risultino” vivere con i proventi dei traffici delittuosi. Il verbo “risultare” richiama un fenomeno di conoscenza euristica, all’esito di un procedimento dimostrativo/ accertativo e, quindi, evoca il concetto di “prova”. Ma quale sia la natura di questa prova, non viene chiarito. Di questa specificazione, si è incaricata la giurisprudenza interna che, ponendo tradizionalmente la prevenzione fuori dalla materia penale, la ha progressivamente sottratta a quasi tutte le garanzie di tipo “impeditivo” che assistono l’irrogazione di una pena, anche a quelle che determinano lo standard probatorio minimo del trial penale. Così, nel procedimento di prevenzione non solo non vige il principio dell’”al di là di ogni ragionevole dubbio”, ma, al contrario, la valutazione della consistenza dimostrativa della prova avviene secondo la massima del “più probabile che non”, di chiara matrice civilistica. Altro è la prova della colpevolezza, ricorda la Cassazione (Cass. n. 31549/ 2019), altro la prova della pericolosità sociale. Anche se dalla pericolosità, come dalla colpevolezza, deriva la compressione della libertà personale e della proprietà privata. E anche la prova indiziaria ha le sue - distorsive e distoniche - peculiarità, dal momento che il concetto di indizio di prevenzione, secondo la giurisprudenza nazionale, non ricalca né quello di gravità previsto per le misure cautelari (art. 273 cpp) né quello, ulteriore, di precisione e concordanza previsto per la condanna (art. 192 cpp). Tanto che la Cassazione, pacificamente, ritiene che al procedimento di prevenzione non si applichino i criteri ermeneutici propri della valutazione penale indiziaria, relegando l’indizio di prevenzione ad un minus rispetto a quello di colpevolezza. E così, il solo status di indagato o di imputato - specie se cautelato - in un procedimento penale diviene spesso indizio prevenzionale di commissione di quei reati, ad onta della predicata autonomia dei procedimenti. La prova cede il passo all’indizio, l’indizio (né grave, né preciso, né concordante) diventa sospetto. Quel sospetto che innerva il nostro sistema di prevenzione e che la Corte Europea, neanche troppo larvatamente, censura nel proprio provvedimento. La Corte Edu sembra poi censurare anche le regole che sovrintendono all’accertamento patrimoniale. Se, infatti, la “prova” della pericolosità (con i limiti cognitivi segnalati) sembra incombere alla parte pubblica, quella della provenienza lecita dei beni di cui si chiede la confisca è gravante invece sulla parte privata. Un’inversione dell’ordinaria ripartizione dell’onere probatorio, che la giurisprudenza nazionale ha avallato, con una particolare abilità semantica e lessicale, definendola “onere di allegazione” (la prevenzione vive da sempre di “truffe delle etichette”…). Ma questo onere diventa eccessivamente gravoso, se non impossibile (non a caso si parla di “prova diabolica”), quando i beni da giustificare sono stati acquisiti molti anni prima rispetto all’azione di prevenzione e senza che esistano più testimoni o documenti in grado di dimostrare l’origine di quel patrimonio. Su questo aspetto, in particolare, si concentra l’ordinanza “Cavallotti”, chiedendo al Governo se l’inversione dell’onere della prova, per gli acquisti più risalenti, non si risolva in un peso eccessivo per la parte privata in violazione dei principi convenzionali e, in particolare, del primo protocollo addizionale alla Carta Edu. In definitiva, tutti i quesiti che la Corte Europea pone all’Italia mettono finalmente a nudo i sofismi e i distinguo con i quali si pretende ancora di legittimare un sistema sanzionatorio parallelo a quello penale e a questo ormai complementare, se non addirittura alternativo. Un sistema che non trova legittimazione nella Costituzione (che riconosce solo le pene e le misure di sicurezza) ma nell’opportunità - terribile - che il potere pubblico disponga di uno strumento di repressione non regolato dal sistema delle garanzie proprie del diritto penale di matrice liberale. *Avvocati penalisti Diffamazione, per il giornalismo d’inchiesta vale un criterio di “verità attenuata” di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 4 novembre 2023 Per la Cassazione, ordinanza n. 30522 depositata oggi, per il suo alto valore civile, più che la veridicità della notizia va valutato il rispetto dei doveri deontologici di lealtà e buona fede da parte del giornalista. Giudicando un caso di supposta diffamazione a mezzo stampa, la Cassazione (ordinanza n. 30522 depositata oggi) traccia un vero e proprio “statuto” del giornalismo d’inchiesta. E lo fa agganciandolo direttamente all’articolo 21 della Costituzione che tutela la libertà di espressione. Il collegamento non è di immediata evidenza ma trova la sua ragione nel “ruolo civile e utile alla vita democratica” del giornalismo investigativo che dunque deve esistere ed essere tutelato anche se non approda ad una verità. Il suo valore, infatti, spiega la Corte, risiede proprio nella capacità di stimolo nei confronti della collettività, al punto che se ne devono valutare gli esiti “non tanto alla luce dell’attendibilità e della veridicità della notizia, quanto piuttosto dell’avvenuto rispetto da parte del suo autore dei doveri deontologici di lealtà e buona fede”. È la deontologia dunque il vero argine posto dalla Suprema corte ad iniziative diffamatorie o comunque campate in aria che vengono spacciate per inchieste giornalistiche. Alle quali invece, purché ispirate dalla buona fede, viene dato un ampio via libera. Nel caso specifico la Cassazione ha così ribaltato il giudizio della Corte di appello che aveva condannato il gruppo editoriale Gedi, ed alcuni suoi giornalisti, al risarcimento del danno nei confronti di un comandante dell’aeronautica - qualificato in una serie di articoli come “boiardo dei voli di Stato”, “dinosauro della prima Repubblica” , “funzionario dalla tripla vita e dai tripli privilegi” - perchè avrebbe assicurato volo di Stato facili ai politici, con grande spreco di risorse, utilizzando velivoli della Cai riservati ai Servizi segreti (sulla vicenda vi sono state anche delle indagine della Corte dei conti poi finite nel nulla ed una richiesta di autorizzazione a procedere nei confronti di un ministro mai accordata dal Parlamento). “L’attenuazione del canone di verità - si legge nella decisione - si giustifica alla luce del principio costituzionale in materia di diritto alla libera manifestazione del pensiero, quando detto giornalismo indichi motivatamente un “sospetto di illeciti” con il suggerimento di una direzione di indagine agli organi inquirenti o una denuncia di situazioni oscure che richiedono interventi amministrativi o normativi per potere essere chiarite, sempre che riguardino temi sociali di interesse generale, alla condizione che “il sospetto e la denuncia” siano esternati sulla base di elementi obiettivi e rilevanti; infatti, nel giornalismo d’inchiesta il sospetto deve mantenere il proprio carattere “propulsivo e induttivo di approfondimento”, essendo autonomo e, di per sé, ontologicamente distinto dalla nozione di attribuzione di un fatto non vero”. Vengono così parzialmente superati anche i tre caposaldi fissati dalla Cassazione nel lontano 1984 (con la sentenza n. 5259) in materia di libertà di stampa. In essa venivano individuati i tre presupposti in presenza dei quali si può parlare di legittimo esercizio del diritto di cronaca: la verità delle notizie pubblicate, la pertinenza delle stesse e la continenza espressiva. Il giornalismo di inchiesta, spiega la Corte, soggiace per le sue peculiarità, ad una disciplina in parte diversa e meno rigorosa rispetto a quella dettata per la cronaca o la critica giornalistica che sia priva dell’elemento investigativo. “Invero - prosegue l’ordinanza -, opera una meno rigorosa e, comunque, diversa applicazione del requisito dell’attendibilità della fonte, fermi restando i limiti dell’interesse pubblico alla notizia e del linguaggio continente, ispirato ad una correttezza formale dell’esposizione, occorrendo valutare non tanto l’attendibilità e la veridicità della notizia, che il giornalista investigativo ha direttamente acquisito, quanto piuttosto il rispetto dei doveri deontologici di lealtà e buona fede oltre che la maggiore accuratezza possibile posta dal giornalista nella ricerca delle fonti e della loro attendibilità”. Non passa dunque una lettura restrittiva della inchiesta giornalistica, affermata dalla Corte d’appello, e limitata alle sole ipotesi in cui il giornalista ricerchi ed utilizzi documenti inediti e/o testimonianze di persone o assista di persona a conversazioni o corrispondenza: soltanto in tali casi potendo dirsi che egli abbia svolto un ruolo attivo nell’indagine “a monte” degli articoli. Si deve, invece, affermare, argomenta il Collegio, che si resta nell’ambito del giornalismo d’inchiesta quando il giornalista operi una valutazione complessiva ed autonoma anche di circostanze note e di pubblico dominio, sottoposte a sua autonoma valutazione critica (quali, nella specie, i bilanci della CAI, la dotazione dei velivoli della CAI, pubblicata sul sito dell’Aeronautica militare, gli incarichi del capitano), nell’ottica dell’indagine o dell’inchiesta giornalistica su fatti di rilievo pubblico. In definitiva per la Suprema corte va afferma il seguente principio di diritto: “In tema di diffamazione a mezzo stampa, il c.d. giornalismo d’inchiesta ricorre anche quando il giornalista non si limiti alla divulgazione della notizia, come nel giornalismo ordinario di informazione, ma provveda egli stesso alla raccolta autonoma e diretta della notizia, tratta da fonti riservate e non, anche documentali e ufficiali, con un lavoro personale di organizzazione, collegamento e valutazione critica, al fine di informare i cittadini su tematiche di interesse pubblico. Esso, proprio per il suo ruolo civile e utile alla vita democratica di una collettività, implica la necessità di valutarne gli esiti, non tanto alla luce dell’attendibilità e della veridicità della notizia, quanto piuttosto dell’avvenuto rispetto da parte del suo autore dei doveri deontologici di lealtà e buona fede”. Sulmona (Aq). Detenuto muore in cella a 55 anni ilgerme.it, 4 novembre 2023 Un detenuto di 55 anni del carcere di Sulmona è morto ieri pomeriggio in cella, a quanto pare per un malore improvviso. L’uomo, che soffriva di patologie pregresse, avrebbe accusato il malore in tarda mattinata: subito soccorso dal personale medico del carcere e poi dall’ambulanza del 118, il detenuto, originario di Roma, non è riuscito a varcare da vivo i cancelli di via Lamaccio. La ricognizione cadaverica fatta dai sanitari ha accertato che si è trattato di una morte naturale, nelle prossime ore, tuttavia, il magistrato ha deciso di procedere all’esame autoptico per chiarire meglio i motivi del decesso ed eventuali responsabilità nella tempestività dei soccorsi. Il detenuto era un ergastolano, arrivato a Sulmona a giugno scorso: ospite che non aveva dato mai particolari problemi, né con il personale penitenziario, né con gli altri detenuti. Torino. Caso Antonio Raddi, il tribunale archivia di Ludovica Lopetti Il Fatto Quotidiano, 4 novembre 2023 Il detenuto morì per un’infezione, per il giudice nessun reato dei medici. Il giudice delle indagini preliminari di Torino ha archiviato l’inchiesta nata per fare luce sulla morte di Antonio Raddi, il 28enne che a fine 2019 morì per un’infezione dopo aver perso quasi trenta chili mentre era detenuto nel carcere delle Vallette. Il fascicolo aperto dalla Procura ipotizzava l’omicidio colposo e le lesioni colpose a carico di quattro medici penitenziari, che avrebbero sottovalutato lo stato di malnutrizione e “grave deperimento” del giovane. Raddi rifiutò un ricovero programmato e per questo, secondo il giudice, non si può contestare nulla ai sanitari del carcere. Il procuratore aggiunto Vincenzo Pacileo aveva chiesto l’archiviazione già una prima volta, ma era stata respinta dal gip che aveva disposto nuovi accertamenti. Anche dopo questa seconda richiesta dei pm i legali dei genitori si erano opposti aggrappandosi a poche righe messe nero su bianco dai consulenti della Procura: “Risulta il difetto di approfondite verifiche che, in corso di dimagrimento del detenuto, dovevano essere attuate quantomeno dal mese di settembre-ottobre 2019. Se messi in atto, avrebbero potuto arginare lo stato di malnutrizione”. Se con il decreto del gip sfuma la possibilità di individuare delle responsabilità penali, ora i familiari hanno intenzione di portare la perizia al giudice civile per chiedere un risarcimento all’amministrazione penitenziaria e, parallelamente, portare il caso davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo. “Nemmeno il giudice ha contestato le conclusioni dei periti, perciò ci baseremo su quelle. È un caso che è stato chiuso troppo precipitosamente e mi rammarico che non si sia potuto accertare la verità in un processo”, ha dichiarato l’avvocato Federico Milano, che insieme a Gianluca Vitale assiste la famiglia. “Stiamo ragionando su altre strade per ottenere giustizia, perché le consulenze ci dicono che c’è una deficienza di sistema. Sono gli stessi medici a dirci che la mancata presa in carico è stata deterministica”, il commento del collega. Per investire la Cedu ci sono tre mesi di tempo, mentre la causa civile resta percorribile senza vincoli. Ad aprile 2019 Antonio Raddi, che sin dall’adolescenza soffriva di ansia e depressione ed era seguito da un Serd per via della tossicodipendenza, era tornato in carcere dopo essere evaso dalla comunità terapeutica. Dopo aver già perso oltre 30 chili dal primo ingresso in carcere, a Ivrea, aveva continuato a perdere peso anche nel penitenziario di Torino, pur essendo monitorato periodicamente da medici, addetti del Serd, educatori e psichiatri. Al personale aveva raccontato a più riprese di grosse difficoltà a mangiare, nausea continua e dolori alle gambe. Tutto documentato dai referti medici, che avevano segnalato anche una resistenza alle cure, secondo i periti spiegabile con il “quadro psicoemotivo” di una persona con disturbi mentali e trattata con il metadone. In un primo momento il personale pensava che il suo fosse uno sciopero della fame mirato a ottenere l’incompatibilità col carcere, tesi sposata anche dal magistrato di sorveglianza. Quando però la situazione aveva iniziato a precipitare, i sanitari del carcere avevano programmato il ricovero nel “repartino” dell’ospedale Molinette, poi slittato al 10 dicembre e rifiutato dal diretto interessato, benché fosse ormai gravemente denutrito e debilitato. Quando era stato ricoverato d’urgenza, il 14 dicembre, il 28enne aveva difese immunitarie ormai ridotte al minimo, tanto che un comune batterio presente nello stomaco era stato libero di aggredire i polmoni causandogli uno shock settico e la morte. “È un doppio fallimento, enorme: per la morte di Antonio e per la nostra voce che è rimasta inascoltata”, ha dichiarato la Garante dei detenuti del Comune di Torino, Monica Gallo, che aveva incontrato più volte Raddi durante la detenzione e aveva inviato diverse segnalazioni allarmate alla direzione del carcere. Un muro di gomma che l’aveva convinta a far venire a Torino il Garante nazionale, che si presentò dal responsabile sanitario quindici giorni prima dell’ultimo ricovero. “È difficile constatare che anche il nostro intervento non è stato in grado di cambiare le sorti di questa persona”. Reggio Calabria. Torture in carcere, ricorso del pm su agenti assolti di Lucio Musolino Il Fatto Quotidiano, 4 novembre 2023 La Procura di Reggio Calabria ha fatto appello contro i sei proscioglimenti degli agenti penitenziari coinvolti nel pestaggio dei un detenuto napoletano. Le udienze preliminari si erano concluse a settembre con otto rinvii a giudizio (tra cui sei agenti compreso il comandante della penitenziaria) e sei proscioglimenti. In sostanza il gup Vincenzo Quaranta aveva sostenuto che dai video era emerso che i sei prosciolti erano presenti alle fasi operative solo con una “presenza passiva, non partecipativa alle azioni violente”. Nella sentenza, il giudice, infatti, chiarisce che gli agenti prosciolti non avevano “in nessun momento compiuto atti di violenza in danno del detenuto”. Contro il proscioglimento, il pm ha presentato ricorso alla Corte d’appello chiedendo il rinvio a giudizio degli agenti e che la sentenza venga dichiarata nulla perché “difetta l’indicazione della formula di proscioglimento”. Sassari. Il Garante dei detenuti rinuncia alle dimissioni La Nuova Sardegna, 4 novembre 2023 Gianfranco Favini resta in carica dopo gli incontri il presidente del tribunale di Sorveglianza, il sindaco e l’assessore ai Servizi Sociali. Una “speranza costruttiva”. Arrivata per Gianfranco Favini dopo una serie di incontri con il presidente del tribunale di Sorveglianza Giommaria Cuccuru, il sindaco Nanni Campus, l’assessore ai Servizi Sociali Gianfranco Meazza e il presidente del consiglio comunale Maurilio Murru. Rappresentanti istituzionali che lo hanno rassicurato e hanno preso impegni per risolvere alcune delle criticità più drammatiche del carcere di Bancali, che da mesi segnalava e che alla fine lo avevano convinto ad annunciare le sue dimissioni da garante dei diritti delle persone private dalle libertà personali entro il 31 ottobre. Dimissioni ritirate oggi venerdì 3, con Favini che sottolinea: “Gli Incontri Istituzionali sono stati importanti per poter affermare che la vita di una persona vale quanto tutto il mondo. Questa è la speranza costruttiva che mi ha convinto a voler continuare ad essere garante”. Roma. A Casal del Marmo nasce il “Pastificio Futuro” romasette.it, 4 novembre 2023 Nell’azienda artigianale, al lavoro alcuni giovani detenuti. Inaugurazione il 10 novembre con De Donatis, il sindaco Gualtieri, il governatore del Lazio Rocca, il segretario Cei Baturi e don Pagniello (Caritas Italiana). Ambarus: “Non è più il tempo delle punizioni”. Una superficie di 500 metri quadri, una pressa che può produrre fino a 220 kg all’ora di pasta e 4 essiccatori. All’interno del complesso del carcere minorile di Casal del Marmo nasce “Pastificio Futuro”: un laboratorio artigianale con entrata autonoma, in via Giuseppe Barellai 140, all’interno del quale lavorano alcuni giovani detenuti. La premessa risale al 2013, quando Papa Francesco scelse di recarsi nella struttura per lavare i piedi, nel Giovedì Santo, ai minori reclusi. “Non lasciatevi rubare la speranza”, aveva detto loro. Parole che non sono cadute nel vuoto e che hanno portato alla costruzione del pastificio nei locali di un edificio da anni in disuso. A realizzarlo la Gustolibero Società Cooperativa Sociale onlus, con il sostegno della Conferenza episcopale italiana e di Caritas Italiana e in sinergia con la Direzione dell’Istituto penale minorile Casal del Marmo, il Centro della Giustizia minorile Lazio-Abruzzo-Molise, il Dipartimento per la Giustizia minorile e di comunità, le diocesi di Roma e di Porto - Santa Rufina. L’inaugurazione ufficiale è in programma per venerdì 10 novembre alle 16, alla presenza del cardinale vicario Angelo De Donatis, del segretario generale Cei Giuseppe Baturi, del sindaco di Roma Roberto Gualtieri e del presidente della Regione Lazio Francesco Rocca. Ancora, saranno presenti anche il direttore di Caritas italiana don Marco Pagniello e Anna Maria Santoli, dirigente del Centro Giustizia minorile Roma. Per l’occasione Luigi Cremona, giornalista enogastronomico, ha invitato tre chef romani per eseguire al momento tre ricette iconiche della cucina romana: la “gricia”, che verrà realizzata da Andrea Pasqualucci, chef del Moma; la “carbonara” di Luciano Monosilio, del ristorante Da Luciano; la “finta matriciana” di Arcangelo Dandini, titolare e chef del ristorante Arcangelo. Ad accompagnare questi assaggi, l’acqua minerale Egeria e i vini del Consorzio di tutela di Vini Roma doc. Hanno dato il loro sostegno all’iniziativa anche Union Food, che collabora per la produzione alimentare; Confagricoltura, che sostiene per la scelta del miglior grano; La Cascina Cooperativa; INC Istituto Nazionale per la Comunicazione; Confcooperative Lazio. L’iniziativa parte con tre addetti: una detenuta presente al pastificio grazie all’articolo 21, un ventenne affidato ai servizi sociali e un altro che vive in comunità. A regime, però, potrebbe occupare fino a venti ragazzi. “La pasta - spiega don Nicolò Ceccolini, cappellano di Casal del Marmo - verrà venduta in alcune catene di supermercati con cui abbiamo preso contatti, nonché servita in alcuni ristoranti di livello, perché è una pasta di elevata qualità”. Per il cappellano, “dare delle prospettive future a questi ragazzi è molto importante, può incentivare anche altri loro coetanei che si trovano in carcere a fare un percorso, dare loro un obiettivo. È una bella opportunità perché devono comunque uscire dal carcere, in quanto il laboratorio è esterno alla zona detentiva, seppure all’interno della cinta muraria”. Quando sarà a regime, “il laboratorio potrebbe produrre 2 tonnellate di pasta al giorno, circa 4mila pacchetti da 500 grammi ogni giorno”, sottolinea Alberto Mochi Onori, responsabile di Gustolibero. Non ha dubbi il vescovo Benoni Ambarus, delegato per la Pastorale carceraria della diocesi di Roma: “Non è più il tempo delle punizioni. Quello che ci interessa - afferma - è cosa succede alla persona “dopo”, quando ha terminato di scontare la sua pena. Nel mondo carcerario bisogna lavorare molto su questo aspetto. La promozione del lavoro e del reinserimento nella società è una spinta notevole in questo percorso di rieducazione e risurrezione”. Crotone. Mattarella ringrazia detenuti per opera su naufragio Cutro ansa.it, 4 novembre 2023 Lettera del presidente alla popolazione carceraria di Crotone. “Vi ringrazio molto per avermi cortesemente inviato la bella tela sul tragico naufragio di Cutro. Complimenti è davvero artisticamente pregevole. Con tanta cordialità, Sergio Mattarella”. È questo il messaggio che il presidente della Repubblica ha inviato ai detenuti del carcere di Crotone per ringraziarli del dono che gli avevano fatto recapitare lo scorso 13 settembre a ricordo della tragedia di Cutro nella quale, il 26 febbraio, sono morte 96 persone che si trovavano a bordo del caicco ‘Summer Love’. Mattarella, che nell’immediatezza della tragedia era stato a Crotone per rendere omaggio alle vittime del naufragio, ha voluto ringraziare con una lettera scritta di proprio pugno i detenuti del carcere di Crotone. L’opera - una tela quadro in arte materica fatta con sabbia, das, legno e racchiusa in una teca in plexiglas - raffigura la spiaggia di Steccato di Cutro e rappresenta il sentimento di condivisione da parte dei detenuti del dolore provato per le vittime e di vicinanza ai sopravvissuti ed alle loro famiglie. La tela è stata creata nell’ambito di un progetto di valorizzazione delle abilità artigianali dei detenuti promosso dal Garante comunale dei detenuti Federico Ferraro, insieme alla direzione della casa circondariale ed al cappellano don Oreste Mangiacapra. Il garante dei detenuti ha espresso “un sentito ringraziamento al Capo dello Stato per questo atto di apprezzamento per l’iniziativa ed anche di vicinanza verso la popolazione detenuta tutta. Tali gesti invogliano a perseguire la propria missione istituzionale con maggio zelo e dedizione, per la tutela dei diritti umani fondamentali, all’interno dei luoghi di reclusione e per il miglioramento del sistema carcere e giustizia”. Milano. “La fine della pena”, Decimo Congresso dell’Associazione Nessuno Tocchi Caino Comunicato stampa, 4 novembre 2023 Nessuno tocchi Caino invita a partecipare al suo X Congresso che, come i precedenti, è convocato nel carcere di Opera a Milano, e si svolgerà nei giorni 14 (a partire dalle ore 13:00), 15 e 16 dicembre 2023. Il X Congresso ha per noi un valore speciale, perché si celebra nel Trentennale della fondazione di Nessuno tocchi Caino, una creatura concepita da Marco Pannella e Mariateresa Di Lascia per temperare la giustizia con la grazia e affrontare il potere con la nonviolenza. In questi trent’anni, con la nostra opera laica di misericordia corporale “visitare i carcerati”, abbiamo cercato di far vivere la speranza soprattutto nei luoghi dove albergano vite spesso disperate, le vittime di regimi giudiziari, penali e penitenziari che sono divenuti ormai dei reperti archeologici della storia, rovine dell’umanità, testimonianze dell’odio, della violenza e del dolore che hanno segnato il nostro passato e di cui è giunta l’ora di liberarsi. Moltissimo deve essere fatto nell’opera di prevenzione del reato, così come in quella di riparazione, ricucitura, riconciliazione. Proprio nel carcere di Opera, con il Congresso del 2015, sono nati i nostri “Laboratori Spes contra spem” grazie ai quali i condannati al “fine pena mai” hanno potuto maturare un cambiamento interiore che li ha portati ad acquisire la consapevolezza del male arrecato e a elevare e orientare la propria coscienza verso i valori umani. Il X Congresso di Nessuno tocchi Caino vedrà protagonisti gli attori della comunità penitenziaria, che nella nostra visione del carcere è, non una somma, ma un insieme di parti diverse da rispettare e conciliare. Inizieremo i lavori nel primo pomeriggio del 14, continueranno per tutto il 15 e li chiuderemo nella tarda mattinata del 16 dicembre. Saranno suddivisi in tre sessioni dal titolo (provvisorio): pena di morte e pena fino alla morte; il viaggio della speranza: visitare i carcerati; la fine della pena. Se vuoi esserci, comunicaci la tua partecipazione al Congresso entro e non oltre il 25 novembre e, per le necessarie autorizzazioni e comunicazioni, anche i tuoi dati anagrafici (nome e cognome, luogo e data di nascita), la tua email e un numero di telefono, scrivendo a info@nessunotocchicaino.it oppure telefonando o inviando un messaggio via WhatsApp al 335 8000577. Almeno 15 giorni prima del Congresso forniremo ai partecipanti l’ordine dei lavori, le informazioni logistiche per raggiungere la Casa di Reclusione di Opera, le istruzioni più importanti per l’ingresso in carcere e una proposta per il pernottamento. Se non lo hai ancora fatto, ti chiediamo di iscriverti per partecipare al Congresso anche con la tessera di Nessuno tocchi Caino - Spes contra spem. Ti aspettiamo! Un caro saluto. Rita Bernardini, Presidente Sergio d’Elia, Segretario Elisabetta Zamparutti, Tesoriere Roma. “Qui non finisce tutto: più diritti nelle carceri!”, convegno in Campidoglio di Carol Gabriella Maritato paeseroma.it, 4 novembre 2023 Lunedì 6 novembre, a partire dalle ore 18.00, si svolgerà presso la Sala della Protomoteca in Campidoglio l’incontro dal titolo “Qui non finisce tutto: più diritti nelle carceri”, il terzo appuntamento di un ciclo di conferenze che si ripropone di ascoltare la comunità transgender romana per comprenderne meglio bisogni e necessità. Nel corso dell’incontro, organizzato da Azione, sarà affrontata la spinosa questione dei diritti delle persone lgbtqi+ detenute nelle carceri, con particolare riferimento alle persone transgender. Ai lavori prenderanno parte, tra gli altri, accanto a Flavia De Gregorio, capogruppo capitolino di Azione e membro della Commissione Politiche Sociali di Roma Capitale; Valentina Calderone, Garante comunale delle persone private della libertà personale, Maria Brucale, avvocato penalista e componente del Direttivo di Nessuno Tocchi Caino, Francesca Tricarico, direttrice di Le Donne dal Muro Alto e regista dell’associazione culturale Per Ananke, Asia Cione, Coordinatrice Transgender Day of Visibility Roma, Leila Pereira, Presidente Libellula APS. A introdurre questo momento di incontro sarà Carlotta Desario, autrice di Ortica e membro del gruppo D&I dello US Youth Council a Roma, mentre a moderare sarà Valerio D’Angeli, coordinatore del gruppo Politiche Sociali di Roma in Azione. Parteciperà Marilena Grassadonia, coordinatrice dell’Ufficio Diritti Lgbt+ di Roma Capitale. Ivrea (To). “Serve davvero più carcere?”, incontro con Don Ettore Cannavera rossetorri.it, 4 novembre 2023 Incontro ad Ivrea venerdì 10 novembre con Don Ettore Cannavera per parlare di recupero e speranza anche per i detenuti, A Ivrea ha sede una Casa Circondariale (nome che allude gentilmente a una vera casa per non nominare quella cosa malvista che è un carcere) che vive una vita propria separata completamente dal resto della città. Ogni tanto filtrano notizie su fatti accaduti all’interno, spesso riferite a episodi terribili come pestaggi, suicidi, inchieste, oppure per rilanciare le rare occasioni di condivisione pubbliche di iniziative legate al mondo del carcere, come spettacoli teatrali, dibattiti, incontri. Con il recente cambio di amministrazione comunale, si è creato un gruppo operativo che dovrebbe coordinare le varie iniziative e favorire il collegamento tra i diversi organismi di volontariato e associazioni operanti in città. Proprio da due di queste, l’Associazione Tino Beiletti che cura il giornale L’alba e l’Associazione Rosse Torri che cura la redazione La Fenice (in entrambi i casi i redattori sono detenuti del carcere di Ivrea), è nata la iniziativa di approfondire pubblicamente la possibilità di trovare un’alternativa alla detenzione, invitando a Ivrea don Ettore Cannavera, che in Sardegna da molti anni ha creato una Comunità a questo scopo. Questo il messaggio lanciato dagli organizzatori, unitamente alle altre realtà operanti ad Ivrea nel mondo carcerario: “Noi crediamo che non serva più carcere, ma serva più educazione, formazione, lavoro. Accogliamo con gioia, speranza e interesse don Ettore Cannavera, fondatore della Comunità La Collina. Il nostro sistema penale è sostanzialmente fallimentare: a fronte di un alto costo economico non produce il risultato atteso, cioè una comunità più sicura e più coesa. I risultati sono noti e consolidati da tempo: una recidiva attorno al 70% e condizioni di vita per i detenuti e anche per chi vi lavora, fra i più nocivi come segnalato da diversi indicatori di malessere anche fra il personale. In questa condizione, la richiesta di “più carcere” o di “certezza della pena senza sconti” appare desolatamente ignorante la realtà e non consapevole della forza costruttiva che possiedono i processi educativi purtroppo così poco presenti in carcere. Eppure esistono esperienze che, traendo ispirazione dalla saggezza e dalla utilità della Costituzione, o da valori evangelici e religiosi, forniscono alle persone private dalla libertà forti occasioni di scoprire un modo di vita nuovo, e attraverso il lavoro e la condivisione aiutano le persone condannate a conquistare consapevolezza di sé e capacità di stare con gli altri nel rispetto reciproco e delle leggi.” Una di queste è la Comunità La Collina Cooperativa Sociale Onlus di Serdiana (Sud Sardegna), fondata oltre venti anni fa e tuttora animata da don Ettore Cannavera, che ha accolto centinaia di giovani in volontaria limitazione della libertà personale occupati in lavoro e condivisione in alternativa alle vuote giornate del carcere a cui erano condannati. Nel carcere la persona non perde solo la libertà, ma molto di più. Vive assistito, perché è costretto a dipendere dagli altri per ogni cosa: mangiare, governarsi, vivere. Gli è impedito di mettere a frutto le proprie potenzialità, non può rendersi utile né a sé né agli altri. Non può avere un lavoro che gli permetta di progettarsi una vita. Il carcere così come lo conosciamo noi riesce nel paradosso di trasformare il colpevole in vittima allontanando anche la necessaria revisione critica dei propri errori. Torino. Le “Finestre” dietro le sbarre. Quattro serate di teatro nel carcere Lorusso e Cutugno di Pietro Caccavo La Voce e il Tempo, 4 novembre 2023 Una sera, a teatro, arrivi nel salone del carcere della tua città. Per scoprire che oltre quelle mura c’è un mondo che merita di essere conosciuto meglio. È successo a Torino, a fine ottobre, alle Vallette, nel teatro della Casa circondariale Lorusso e Cutugno per lo spettacolo “Finestre” che in quattro serate di repliche ha registrato il tutto esaurito: trecento presenze (con una richiesta di più di 400 altre persone, in lista d’attesa, per ora non accontentate). Una performance nata dal laboratorio teatrale annuale condotto dalla compagnia Teatro e Società, con la scuola sui Mestieri del Teatro, nell’ambito del progetto “Per aspera ad astra - come riconfigurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza” coordinato da Acri (associazione di fondazioni e casse di risparmio) e sostenuto a Torino e a Genova dalla fondazione Compagnia di San Paolo. Una iniziativa naturalmente realizzata grazie all’importante collaborazione della Direzione e degli operatori della casa circondariale torinese, mirata a mantenere attivo il dialogo tra il carcere e la città attraverso il linguaggio espressivo del teatro. Diretti dal regista Claudio Montagna, in scena per “Finestre” si sono alternati gruppi di circa venti persone a recitare. Una cinquantina, nel complesso, i detenuti-attori coinvolti nei laboratori che hanno portato a questa produzione: perché anche le scenografie sono state realizzate al Lorusso e Cutugno. “Frasi e battute dell’opera teatrale sono state scritte dai detenuti nell’ambito dei laboratori - ha spiegato Claudio Montagna - testi molto belli e significativi nati dal desiderio di comunicare per mezzo dell’arte e della poesia. “Finestre” ci parla della speranza e del buio, della sua assenza: è avere il nulla come prospettiva dopo l’uscita, che in carcere genera disperazione. Eppure, la Speranza, seppure nascosta, è una virtù vivente e lo spettacolo ci suggerisce con umiltà che essa si alimenta e cresce se diventa oggetto di scambio: una finestra che si apre è un’occasione d’incontro tra parti di una stessa umanità. È un inizio, un varco nel buio, il contrario della disperazione”. Uomini, personaggi di varia età, dunque, sulla scena. Rapide pennellate, davanti ad essenziali ed eleganti periacti, che, a seconda dei casi, girano e vengono aperti: sono ora muri, ora finestre su cieli azzurri, poi fondali neri, neutri. Una scenografia che è stata realizzata dagli studenti del Padiglione B (Ipia Plana) e dipinta da quelli del Padiglione C (Primo Liceo artistico) con la collaborazione del laboratorio di scenotecnica del Teatro Stabile di Torino. Il tutto a fare da sfondo al racconto di vite prima vissute a mille, quando tutto poteva essere ritenuto possibile: rapinare, drogarsi, illudere parenti, fidanzate - perché, tanto, “nulla mi può succedere…”. Ad un tratto l’apparizione della donna - come in un sogno - in abito da sposa. Oppure l’anziano detenuto che distilla la sua storia, la sua essenza, il suo spirito, scrivendo, arrivando a sfiorare la poesia più sublime. Nella quarta replica, a cui abbiamo assistito, l’accompagnamento musicale era suonato dal vivo dall’Orchestra Mandolinistica Città di Torino, diretta dal Pier Carlo Aimone. Nell’ensemble, anche il primo violino di Nadia Bertuglia; anche questo contribuiva a creare quella perfetta, magica sospensione del tempo - il tempo del teatro - che raggiungeva il suo vertice nel finale, con le note dell’Intermezzo della “Cavalleria rusticana” di Mascagni. Le note degli strumenti, le parole degli attori in scena, così inevitabilmente piene di verità. E allora ci si ritrova a constatare di come, in carcere, nonostante la certezza della pena, un filo di speranza possa esistere. Spesso, però, la disperazione assale i detenuti, pensando al “dopo”. E allora è giusto aprire “Finestre” e nelle due parti di una umanità si possono scoprire pezzi di una stessa proverbiale mela. Leggerezza e poesia, nella densità e nel dolore della vita. Ora si progetta di replicare “Finestre” anche all’esterno, nel torinese, ma non è una faccenda amministrativamente semplice. Una replica, fuori, in un teatro “normale”, anche per accontentare i tanti che sono rimasti fuori in queste sere di fine ottobre. Un’altra recita, proprio come succede nel recente film “Grazie ragazzi”, con Antonio Albanese. Ce lo auguriamo davvero. Grazie ragazzi. Il ruolo scomodo del Quirinale di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 4 novembre 2023 L’intenzione dichiarata della proposta di riforma è quella di riconoscere forza alla volontà del popolo elettore e di aumentare la cosiddetta governabilità in mano al presidente del Consiglio. Il risultato si otterrebbe con la elezione diretta del presidente del Consiglio, non più scelto in esito alle trattative tra i partiti che compongono la maggioranza in Parlamento. Le difficoltà dei governi recenti e di questo in particolare derivano però dal livello politico dei conflitti e dalla concorrenza tra i partiti alleati: più in generale dalla crisi dei partiti. Non pare che siano conseguenza di una debolezza del governo nell’elaborare iniziative di legge e ottenerne la approvazione in Parlamento. Da anni e con questo governo in maniera parossistica, la prassi dei rapporti tra governo e Parlamento si è allontanata dal testo e dal carattere proprio della Costituzione vigente. Il luogo e la responsabilità della funzione legislativa, che la Costituzione stabilisce essere il Parlamento, sono ora nelle mani del governo. È divenuto normale il ricorso da parte governativa al decreto-legge, che entra immediatamente in vigore, per essere poi convertito in legge entro sessanta giorni. E se il Parlamento tarda o rilutta, il governo, se è il caso, presenta un suo maxi-emendamento in un articolo unico su cui pone la questione di fiducia. Il requisito della “straordinaria necessità e urgenza” richiesto dalla Costituzione per ammettere l’eccezionale spostamento di competenza legislativa dal Parlamento al governo è da tempo ignorato. Il Parlamento e persino la maggioranza che sostiene il governo sono messi alle corde, obbligati ad approvare ciò che vuole il governo. Ed è di questi giorni la notizia che i partiti della maggioranza, nei loro incontri a Palazzo Chigi, avrebbero deciso che i loro gruppi parlamentari non presenteranno emendamenti al disegno di legge di bilancio, che è ora in (forse inutile) discussione. Legislatore è dunque nella sostanza il governo e non il Parlamento. Il quale Parlamento, d’altra parte, ha dimostrato da lungo tempo di essere incapace di condurre in porto una qualunque riforma legislativa, tra le tante che la Corte costituzionale ha indicato come indispensabili in tema di diritti civili. Cosicché il Parlamento si è visto mangiar terreno anche dalla Corte. Non si tratta, dicendo ciò, di protestare per lo stravolgimento nei fatti del disegno costituzionale dei rapporti tra governo e Parlamento, ma piuttosto di segnalare che la “governabilità”, in qualche modo abusiva, è più che assicurata. Con una considerazione aggiuntiva, che mette in luce come la crescita in potenza del governo, mentre ha indebolito il Parlamento, non ha lasciato indenni i presidenti della Repubblica, che si sono succeduti. Da molti anni ormai, di fronte al ricorso dei governi a decreti-legge né necessari, né urgenti essi hanno debolmente reagito, continuando ad autorizzarne l’emanazione, talora accompagnata da inefficaci lettere dirette al governo per dire che così non si dovrebbe fare. Non è questo il frutto di una sottovalutazione del dato costituzionale, ma è il risultato di una valutazione, di una prudenza della presidenza della Repubblica nei confronti dell’organo governativo, politicamente più forte. Ora, con la riforma che si propone, si dice che i poteri del presidente della Repubblica non verranno toccati. Ma non è così. Ovviamente la elezione diretta del presidente del Consiglio priva o seriamente restringe per il presidente della Repubblica il cruciale potere di sciogliere il Parlamento. E poi è evidente che la legittimazione forte del presidente del Consiglio direttamente eletto, confrontata da quella di un presidente della Repubblica “non eletto”, produce un presidente della Repubblica messo in ombra e impegnato in inaugurazioni e discorsi; oppure crea le premesse di deleteri scontri tra due diverse e confliggenti legittimazioni. In ogni caso la riforma proposta apparentemente lascia al presidente della Repubblica lo scioglimento delle Camere e il conferimento dell’incarico al presidente del Consiglio eletto; in realtà si tratta di un ruolo puramente notarile. Nel progetto la elezione dovrebbe avvenire con una legge elettorale maggioritaria, iscritta nella Costituzione con previsione di un premio del 55% assicurato al partito o alla coalizione che abbia ottenuto il maggior numero di voti (la maggior minoranza dei votanti), senza che ne sia richiesta una soglia minima (che potrebbe forse essere introdotta dalla legge elettorale ordinaria e alla maggioranza che l’approverebbe). Un simile sistema era previsto nella legge Calderoli (dal nome del suo ideatore), o porcellum (per il suo contenuto), e venne dichiarato incostituzionale perché incompatibile con la necessità di corretta rappresentanza del Parlamento rispetto agli orientamenti presenti nell’elettorato. Ora, per evitare l’incostituzionalità, la si iscrive nella Costituzione! Ma il problema resta ed è grave. La riforma proposta prevede che il presidente del Consiglio eletto resti in carica per cinque anni: un lungo periodo, se confrontato alle normali dinamiche politiche. Si vuole assicurare al presidente eletto un lungo periodo di potere, ritenendo che sia eccezionale il verificarsi della necessità di sostituirlo. Invece di prevedere che in tal caso si vada a nuove elezioni, si immagina che un altro esponente nella stessa maggioranza, con lo stesso programma politico, possa sostituire il presidente eletto, evitando lo scioglimento delle Camere. Ma così si pensa che la situazione politica e le necessità di governo restino congelate. Il favore che una tale soluzione trova nei due partiti minori della attuale coalizione fa pensare che vogliano tenere aperta la via a manovre interne alla maggioranza, contro il presidente eletto e contro la soluzione di nuove elezioni. Ma si entra in collisione con la logica della elezione diretta del presidente, che ha una forte componente di fiducia nella persona dell’eletto. Quella persona trascina anche la composizione delle Camere con il sistema della scheda elettorale unica e così se ne assicura la fedeltà. La “governabilità” che si cerca da parte del governo, nei rapporti con il Parlamento, è già ora nelle sue mani. E le difficoltà politiche tra i partiti della maggioranza non si curano con questo stravolgimento del sistema costituzionale. Soddisfatto, sul piano delle emozioni e della immagine, resterebbe il partito della presidente del Consiglio. Ora vede possibile una “nuova Repubblica”, perché “nulla sia più come prima”. Non dimentichiamo che i suoi antecedenti rimasero estranei alla preparazione della Costituzione repubblicana, che adottò la formula della democrazia parlamentare. Cheli: “La Costituzione voleva evitare il potere nelle mani di uno solo. Così si va verso il bonapartismo” di Francesco Grignetti La Stampa, 4 novembre 2023 Il giurista boccia la riforma: “Salta l’equilibrio tra esecutivo e legislativo. Temo che ci si avvicini pericolosamente a sovvertire l’articolo 1 della Carta”. Al professor Enzo Cheli, che fu vicepresidente della Corte costituzionale e poi presidente dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni dal 1998 al 2005, accademico dei Lincei, la riforma costituzionale non garba neanche un po’. Il suo pensiero è facilmente sintetizzabile: “In un colpo solo, senza dichiararlo, questo premierato rovescia il rapporto tra potere esecutivo e potere legislativo. Si incide pesantemente sull’equilibrio tra i poteri dello Stato. Ai miei occhi ci si avvicina pericolosamente a sovvertire l’articolo 1 della Costituzione”. Ci spieghi, professore... “L’articolo 1 dice che la sovranità è del popolo, ma nelle forme e nei limiti della Costituzione. E queste forme sono indicate esplicitamente: l’Esecutivo deve dipendere dal Legislativo. Se si rovescia questo rapporto, si intacca un principio fondamentale, che definirei addirittura supremo. Viene in gioco un principio di costituzionalità della riforma costituzionale. Giovanni Sartori diceva della riforma del 2016 che era “una riforma costituzionale incostituzionale”. Anche in questo caso, si viene a toccare un punto chiave, un principio supremo, uno di quelli che la Corte costituzionale definisce intangibile”. Tecnicamente parlando, che impressione ne ricava? “Mi pare che sia sconcertante sul piano tecnico e rischiosa sul piano politico. La si definisce “chirurgica” e si dice che si lascia inalterato il sistema parlamentare. In realtà si tocca il cuore del sistema. Per rafforzare la stabilità del governo, si incide pesantemente sia sul potere di controllo e di indirizzo del Parlamento, sia su quello del Capo dello Stato. Oggi il Capo dello Stato ha dei poteri di scelta tra vari ipotesi, che invece si bloccheranno su ipotesi fisse”. Torniamo ai fondamentali... “L’ispirazione originaria della Costituzione era garantista e anti-autoritaria. Mi sconcerta che si mantenga la parola “fiducia” del Parlamento quando ne viene rovesciata la sostanza. Fiducia è una libera scelta, qui diventa una scelta obbligata”. Altri aspetti tecnici che non la convincono? “La contraddizione tra una elezione diretta e poi una seconda scelta che non è più diretta, ma rinvia al Parlamento. La rigidità dell’indirizzo politico nell’arco di 5 anni; ma le situazioni si evolvono, tanto più ai tempi d’oggi. Se le situazioni cambiano, anche le soluzioni devono cambiare. E poi è sconcertante porre in Costituzione il riferimento alla legge elettorale; al massimo si può indicare qualche richiamo generico, mai un parametro fisso”. A forza di irrigidire il sistema, lo si ingessa. È questo che intende? “Certo, dopo alcuni anni l’indirizzo politico iniziale può essere superato”. È pur vero che si sono visti nelle due ultime legislature si sono visti troppi ribaltoni. “Esatto. Si cerca giustamente di rafforzare la stabilità del governo. È un obiettivo giusto alla luce di 75 anni di Carta repubblicana...Ma qui lo si fa intervenendo su un meccanismo di governo che non è la vera causa di instabilità, che viene piuttosto dalla fragilità del sistema politico sottostante, dalla sua frammentazione. Questa fragilità si può superare con altri strumenti, cioè con tutto ciò che può riavvicinare il corpo sociale alle istituzioni. C’è una contraddizione tra governabilità forzosa e stabilità della democrazia. Ci vedo un rischio di fondo. Si usano parole tranquillizzanti, che siamo sempre in un sistema di governo parlamentare, ma qui di parlamentare non c’è più nulla. La sostanza è che il rapporto di dipendenza tra potere esecutivo e potere legislativo si ribalta”. Il governo sostiene che la stabilità e soprattutto la coerenza di legislatura tra voto e governo riavvicinerà gli elettori alle istituzioni. La convince questa lettura? “Neanche un po’. L’astensionismo nasce da una crisi del sistema politico, dai comportamenti anomali, antidemocratici, autoreferenziali e corporativi dei partiti”. C’è poi la fobia dei governi tecnici... “Che non sono mai stati una bizzarria dei Capi dello Stato. Di fronte a situazioni emergenziali, vedi la crisi finanziaria o la crisi sanitaria, e di fronte alla frammentazione dei partiti, i Capi dello Stato hanno esercitato dei poteri forti, che ora gli verranno sottratti. Erano soluzioni tecniche transitorie che hanno salvato l’Italia”. Il senso ultimo è che la stabilità vince su tutto... “Così però si rischia di sacrificare l’equilibrio dei poteri per salvaguardare la stabilità di una persona sola. La nostra Costituzione nasce all’opposto per evitare che il potere sia prevalentemente nelle mani di una persona o di una fazione. Si forza oltre il giusto. Questo è il punto di fondo che non funziona nella riforma. Si imbocca una strada che storicamente avremmo definito bonapartista, oggi diremmo ungherese”. Ucraina e Medio Oriente: due conflitti e un labirinto di Paolo Giordano Corriere della Sera, 4 novembre 2023 “Ciascun attore di entrambi gli scontri sembra ancora alla ricerca di riconoscimento da parte del mondo fuori”. L’editoriale di Paolo Giordano Ucraina e Medio Oriente: due conflitti e un labirinto. In alcune città dell’Est Ucraina capita di vedere, accanto alle fermate degli autobus, dei lunghi blocchi di cemento, austeri, senza ingressi né uscite evidenti, simili ad asteroidi precipitati. Sono i bunker urbani che gli israeliani hanno ispirato alla popolazione ucraina per difendersi dai bombardamenti russi. In città come Nikopol, dove a lungo è mancata l’acqua, i bunker sono ormai diventati degli orinatoi, ma a volte servono ancora. La primavera scorsa, durante una visita di stato in Israele, la vicepresidente del Parlamento ucraino ha dichiarato: “Il bisogno costante di adattarsi a vivere e lavorare in condizioni di pericolo è quel che unisce l’Ucraina e Israele”. Era vero prima del 7 ottobre: oggi li unisce anche l’essere, entrambe, nazioni in guerra. Accostare le due crisi in corso offre probabilmente più rischi che benefici. Può risultare pretestuoso, se non addirittura indecente. Ma è pur vero che i conflitti si sono sovrapposti e competono fra loro per la nostra attenzione, nonché per il nostro sempre più limitato cordoglio. Nel momento in cui scrivo, la Russia ha appena rilanciato l’allarme di un’imminente catastrofe nucleare, dopo l’abbattimento di alcuni droni ucraini nel cielo sopra Zaporizhzhia. Un mese fa una notizia del genere si sarebbe guadagnata la prima posizione sulle homepage internazionali, mentre adesso - se c’è - compare in quarta o quinta posizione, dopo gli aggiornamenti (pochi) in arrivo da Gaza e più specificamente dal campo profughi di Jabalia. Le guerre sono, almeno per noi qui, soprattutto la percezione di prossimità o di lontananza che ne abbiamo in ogni istante. Nei nostri cuori, e nei nostri feed, sembra esserci spazio solo per una alla volta. Almeno fino a quando i legami geopolitici fra i due conflitti resteranno nell’ambito delle congetture, può quindi risultate utile tracciare dei collegamenti anche imperfetti fra l’Ucraina e il Medio Oriente. È quello che ha cercato di fare Biden, insistendo affinché gli aiuti economici statunitensi per Israele e l’Ucraina venissero stanziati in un unico pacchetto, cosciente del fatto che “scorporare” l’Ucraina significa, in questo momento, mollare un po’ la presa sulla sua causa, lasciarla scivolare nell’oblio. Cercare in noi una continuità fra i conflitti ha dunque un valore politico esplicito. La guerra in Medio Oriente prosegue d’altra parte alcuni percorsi inaugurati dall’invasione dell’Ucraina. Uno fra i più inquietanti è la marginalizzazione sistematica degli arbitri internazionali. Se l’Ucraina ha mostrato l’inefficacia delle Nazioni Unite, inchiodate al diritto di veto dell’aggressore, la guerra in Medio Oriente sta portando questa consapevolezza un passo oltre, verso una squalifica vera e propria. Il rappresentante di Israele ha commentato così la risoluzione votata dall’Assemblea Generale, che non conteneva una condanna esplicita di Hamas e dell’attacco del 7 ottobre: “Le Nazioni Unite non hanno più un briciolo di legittimità o di rilevanza”. Dopo aver accusato gli altri rappresentanti di continuare a diffondere notizie false sul bombardamento dell’ospedale, ha concluso con parole lapidarie: “Shame on you”, vergognatevi (in un capolavoro di parossismo e sfacciataggine, il delegato della Federazione Russa ha in seguito condannato “fermamente” sia l’attentato terroristico sia “il bombardamento indiscriminato di Gaza”). A ogni modo, la risoluzione non ha portato, a una settimana di distanza, ad alcuna interruzione dei bombardamenti né all’apertura di corridoi umanitari né all’ingresso massiccio di aiuti a Gaza. È rimasta simbolica, mentre Israele ha proseguito la sua azione pianificata come se non. E tuttavia, pur in questo indebolimento degli organi di mediazione, ciascun attore di entrambi i conflitti sembra ancora alla ricerca di riconoscimento da parte del mondo fuori. L’Ucraina ha insistito fin dall’inizio sulla necessità di definire l’aggressione russa un atto terroristico. L’hashtag #RussiaIsATerroristState circola in rete fin dalle prime settimane e a Kiev è stampato sulle magliette. Similmente, il riconoscimento della strage del 7 ottobre come attentato terroristico (e non azione di resistenza, non guerriglia, non fiotto di esasperazione storica) è uno dei nodi principali del dibattito in corso. Un mese più tardi, i sostenitori della causa palestinese chiedono invece che l’azione militare di Israele nella Striscia venga classificata come “genocidio”. Nel nuovo ordine mondiale sovranista, dove i governi rispondono per lo più alla rabbia dei propri cittadini e derogano facilmente alle richieste della comunità internazionale, tutti sono ancora alla ricerca di approvazione. Non è per noi facile capire se si tratti di un residuo del secolo scorso, di un gesto abitudinario destinato a scomparire, o se lo sguardo della comunità globale conti ancora qualcosa. Ma è indubbio che la sequenza Ucraina-Israele è quanto di più simile abbiamo visto finora alla conclusione - al fallimento - del progetto di pace del secondo dopoguerra. La discontinuità principale fra i due conflitti riguarda le morti. E la possibilità o meno, come loro conseguenza, di arrivare a una visione di sintesi. Il carattere delle morti, per quanto sia odioso dirlo, ha una rilevanza enorme in guerra. Siamo autorizzati, per esempio, a non occuparci dei morti russi (o dei miliziani di Hamas), a non contarli nemmeno, perfino a disumanizzarli. Le offensive brutali e continue sulla popolazione ucraina hanno reso la verità sull’aggressione russa univoca, semplicissima fin dal principio, a prescindere dalle capziosità di alcuni. Il caso di Israele-Palestina è diverso. Se non lo era il 7 ottobre, lo è adesso, per il semplice fatto che i civili muoiono da entrambe le parti. Una strage di giovani a una festa, di persone prelevate nelle loro case - tra cui bambini - trucidate, violentate e rapite, ha un peso specifico altissimo, non riscattabile. Ma da un certo punto in avanti inizia a pesare anche la quantità di morti. Le circa novemila vittime dichiarate dalle autorità palestinesi - non verificabili e che per noi non hanno volto né individualità perché l’informazione internazionale a Gaza è accecata -, quei novemila tra cui una miriade di bambini sono un numero che supera ogni nozione plausibile di “collateralità”. Come la superano le condizioni nelle quali sono precipitati a Gaza i sopravviventi. Su questo non possiamo autoingannarci. Non a caso da diversi giorni c’è stato uno slittamento naturale del linguaggio: se subito dopo il 7 ottobre si parlava della situazione “in Israele”, ora è molto più comune sentir dire “a Gaza”. Con un certo imbarazzo, per tenere la storia unita, io preferisco usare “in Medio Oriente”, ma so che l’epicentro morale si sta spostando inesorabilmente là dove si ammassano le morti civili. Se la narrazione ufficiale della risposta legittima regge ancora, è solo per mancanza di testimonianze che ci risultino famigliari e quindi attendibili. Il blackout mediatico sulla Russia è a malapena accettabile, ma quello su Gaza davvero non lo è. Com’è accaduto per l’Ucraina, ogni evidenza di crimine di guerra rappresenta un vincolo ineludibile alla nostra comprensione del conflitto in Medio Oriente. Ma i cortocircuiti da risolvere in questo caso sono molti, probabilmente troppi. Perché è dal popolo più debole, da quello più oppresso, che è stato dato il via alla guerra, nel modo più raccapricciante possibile, mentre la nazione più forte, che ora risponde secondo una logica al contempo lucida e sfrenata, è a sua volta isolata, minacciata, nonché vittima di una violenza storica il cui lascito non potrà mai avere fine. Nella moltitudine di vincoli, almeno per chi vuole provare a tenerli insieme, non è detto che rimanga un percorso che conduce a una via d’uscita. A una risposta finale soddisfacente. Per l’Ucraina una risposta c’è, c’è sempre stata, fin dal primo giorno di invasione su larga scala. Entrando a Gaza, è possibile che la nostra ragione si sia smarrita dentro un labirinto chiuso. Due popoli, due Stati, una vecchia strada attraverso le macerie di Barbara Stefanelli Corriere della Sera, 4 novembre 2023 Per difendere Israele, Macron rilancia il modello anti Isis. E, senza Hamas, torna sul tavolo un’ipotesi che era sparita. Dal 7 ottobre, giorno dell’assalto terrorista di Hamas oltre i confini dello Stato ebraico, siamo stati trascinati da una piena di immagini sconvolgenti che da una parte ci hanno scosso e dall’altra - a un certo punto, presto, forse proprio perché superavano ogni immaginazione - sembrano averci anestetizzati. L’empatia per le vittime, tutte, è scivolata sotto il tappeto di un ring internazionale che si è conquistato le platee televisive e social, le vecchie piazze delle città e quelle dei campus universitari dove si formano le nuove generazioni. Ha scritto Paolo Mieli: “L’atto originario dell’attuale conflitto, gli oltre mille abitanti di Israele sgozzati, bruciati vivi e in parte rapiti, quell’atto è pressoché scomparso dall’universo della comunicazione. Ha dovuto cedere il passo al ‘genocidio’ cui ha alluso il segretario dell’Onu”, Antonio Guterres, riconducendo la responsabilità dei massacri anche “a 56 anni di soffocante occupazione”. Forse per questo - per questa saturazione degli sguardi verso Gaza, per questo continuo superarsi di grida d’odio - uno dei filmati che sono invece “rimasti” è quello che l’esercito israeliano ha ricavato dall’abitacolo di un’auto e mostrato alla stampa estera. Non c’è audio, si vede la strada che corre, oltre il parabrezza. È mattina, quel 7 ottobre. Il vetro comincia a creparsi dal basso, proprio davanti a chi sta alla guida, non ne scorgeremo mai il volto. Sono visibili invece alcuni uomini armati di mitra, vestiti di nero, ai lati dell’asfalto: sono i loro proiettili ad aver raggiunto il veicolo. Il movimento della macchina al rallentatore, che sbanda e si schianta, restituisce la traiettoria della morte sopraggiunta in silenzio. Ammutolita e in pezzi, è finita la normalità di una giornata come tante altre, di vite che non erano la nostra ma potrebbero esserlo. È stato Emmanuel Macron a indicare un riflesso argenteo nell’oscurità: in questa tragedia, il “silver lining” potrebbe essere la risposta internazionale. Si tratta, ha detto il presidente francese, “di ispirarci all’esperienza della Coalizione contro lo Stato islamico”: di vedere “quali aspetti siano replicabili contro altre minacce terroristiche in Medio Oriente”. Significa tagliar fuori Hamas da ogni scenario futuro - in quello diplomatico, del resto, mai ha voluto entrare - lasciando il gruppo integralista nell’angolo dei fuorilegge, dei ricercati, che non possono avere voce né interlocutori. Significa nello stesso tempo ridare vigore “al diritto legittimo all’autodeterminazione del popolo palestinese” e “alla sua dignità”, come ha twittato poco dopo lo staff del presidente americano Biden, confidando in una leadership a Ramallah rimotivata dal dolore e nel dolore. Il percorso dei due Stati, quello ebraico e quello palestinese, sparito dalle strette mappe locali e dalle reti smagliate della diplomazia, torna - i mediatori ne sono convinti - a essere una chance concreta della Storia. L’unica in grado di tracciare una direzione che non punti soltanto a rimuovere le macerie dell’orrore in attesa di altre scosse, ma a chiudere il ciclo della violenza. L’unica che potrebbe custodire la memoria di centinaia, migliaia di bambini caduti in queste settimane. E magari inaugurare un incrocio inedito di accordi, se non di alleanze, votato a trattenere dalla stessa parte quei protagonisti regionali e internazionali che condividono l’interesse essenziale della pace. Di fronte all’asse dei tiranni e dei massacratori. Da Gaza al Sudan, i popoli mendicanti di Domenico Quirico La Stampa, 4 novembre 2023 I palestinesi di Gaza, ma anche somali, sudanesi, siriani, saharawi, afghani, haitiani, l’elenco è lungo. Vivono in attesa dei camion dell’Onu, non “producono”, aspettano: fino all’esplosione della violenza. Volete una definizione, semplice, svelta, per stringere in pugno subito tutto? Eccola: i popoli mendicanti sono quelli che vivono ai margini. Sono quelli che fanno storia come i malati fanno la malattia. Sì, sopravvivono davanti ai Muri, vecchi trucchi costruiti alla fine di ogni guerra, in strisce di sabbia e di roccia, luoghi forse un tempo ameni, dove c’erano alberi e acqua, chissà, forse ma chi ne ha memoria? E oggi c’è polvere o fango a seconda delle stagioni, o magari solo polvere e fango perché perfino le stagioni con i loro labili segni sono fuggite via. I popoli mendicanti sono quelli che sono stati ridotti nel confine più drastico che esista, quello della assoluta inutilità. In terre incognite ricavate a ridosso di frontiere che sfumano nel Nulla. Non basta? volete qualcosa di ancor più forte, per capire che parliamo di genti con cui fare della sociologia, usare concetti astratti ha un gusto un po’, come dire, feroce? I popoli mendicanti sono composti da coloro a cui è immorale porre la domanda: che cosa hai mangiato oggi? La domanda giusta è: hai mangiato oggi? Perché i popoli mendicati vivono della carità internazionale, per trovarli basta sfogliare i faldoni delle agenzie umanitarie delle Nazioni unite o delle fondazioni caritative laiche o jihadiste. Loro però sono fuori dallo spazio e dal tempo, non illudetevi di spendere utilmente la vostra buona volontà, appartengono solo a sé stessi e sono solo dentro di sé. Attenzione: addentratevi con prudenza in queste righe. Questo articolo non è che lo specchio di un fallimento. Sì, perché i popoli mendicanti sono l’istantanea della nostra Storia-disastro, affollata da milioni di uomini. Gli ultimi a irrompervi: i palestinesi rannicchiati nell’angolo meridionale della Striscia di Gaza, tra due Muri con diverse bandiere. Le loro baracche resteranno lì dove, forse, sfumerà la risacca della guerra; o semplicemente, come ipotizza qualcuno, scivoleranno dall’altra parte, nelle bibliche sabbie del Sinai. Chissà. Una volta tanto non voglio fare il ripasso: se nel 1948 avessero scritto meglio le risoluzioni per la nascita di Israele..., se i trionfi dei famosi Sei giorni nel 1967 fossero stati meno arroganti... se Arafat non fosse stato una “padre della patria” così discutibile e corrotto... se Hamas non fosse Hamas se... Voglio raccontare solo i popoli mendicanti, quelli di Gaza come sono ora, durante questa guerra, e come ahimè! temo saranno. Le città dei popoli mendicanti sono queste distese senza fine di baracche, di tende, di capanne, legno, plastica, cartone, latta; nascono in un attimo, sono abili con le mani i popoli mendicanti uomini donne bambini a tirar su questi luoghi dove incredibilmente gli uomini vivono e che hanno per me, anche se li incontro da anni, sempre un che di astratto e di assurdo. E di tremendo. Piatte, flessibili, di una materia un po’ molle, l’occhio vi affonda, crescono quando le guerre che restano infinite, inguaribili, diventano per un po’ guerre raffreddate da manuale di storia. Elenchiamo, volete? Somali, Karen, saheliani di molte inutili bandiere, i nigeriani del nord , sudanesi, siriani, Saharawi, afghani, haitiani… chiedo venia, so che dimentico. Qualcuno ne è uscito, pochi. Tanti vi entrano ed escono da decenni, come i palestinesi. La condanna dei popoli mendicanti è che non “producono”. Come farebbero confinati in questi luoghi eternamente provvisori? La guerra anche quando non c’è più, quando non alzeranno continuamente lo sguardo al cielo per paura di sentire il rumore degli aerei, sta sempre intorno, è appiccicata addosso. E poi non ci sono energia elettrica sicura, acqua strade… neppure il più spregiudicato dei capitalisti di rapina avrebbe vantaggi a venir qui a delocalizzare salari da fame per mettere insieme pezzi di plastica o cucire scarpe. Per quello ci sono i popoli poveri, la miseria è un dato certo. Dunque, si aspetta. Si aspetta che tutto anche qui diventi permanente solido definitivo, e potrà raccattare i suoi “operai” magari bambini. Il momento chiave della vita dei popoli mendicanti è la distribuzione: del cibo che altro! Il centro delle comunità umane è la piazza, la chiesa o la moschea, un monumento che ricapitola la storia del luogo e degli abitanti. Per i popoli mendicanti è lo spiazzo dove si fermano i camion con i sacchi di farina o le scatole con le razioni di cibo e di acqua potabile. Il cibo, come se fosse nella sporcizia di quella vita l’unica cosa pura sulla terra. I palestinesi di Gaza nei giorni scorsi, nell’infuriare dei bombardamenti, hanno assaltato i depositi dove erano immagazzinate le scorte alimentari dalle Nazioni unite. A poco a poco quando saranno raccolti nella parte della Striscia che la guerra concederà loro, questo non accadrà più. I popoli mendicanti imparano in fretta ad essere disciplinati. Dipendono. E questo obbliga ad essere miti. Ogni giorno, all’ora stabilita, si metteranno in fila per ricevere la razione prevista. I funzionari Onu o della mezzaluna rossa o delle sigle del Qatar e della Arabia saudita, spunteranno via via dagli elenchi i nomi di chi ha ritirato la sua parte giornaliera. Ai bambini resterà il compito, come a Dadab, in Mozambico, sulle rive del lago Ciad, ad Aleppo di raccogliere le briciole, sì le briciole, quello che è caduto a terra dai sacchi o dimenticato nei rimorchi dei camion. Giorno dopo giorno anno dopo anno quello sarà il momento chiave della vita. il resto sono le donne sedute sugli usci delle capanne, i bambini che fanno rotolare latte vuote o palloni bucati, nel fumo di fuochi accesi all’aperto tra due pietre dove cuoce il cibo della carità internazionale, mescolato alla polvere che il vento solleva come una nebbia mossa e biancastra da terra. A poco a poco, come sempre, la città dei mendicanti si organizzerà, acquisterà un ordine, una sua struttura, già: una forma. Compaiono nomi di strade e di incroci, qualcuno più ingegnoso monta piccoli negozi e traffici; spuntano le antenne paraboliche, sulle pareti delle baracche compaiono slogan minacce simboli bandiere. Arrivano le notizie dal mondo, ronzano come mosche sul tavolo. E con loro nuovi barlumi di rabbia rivoluzionaria. Mentre in remote sale congressi, luminose e accoglienti, signori in cravatta e segretarie in tailleur, i bottegai della luccicante Misericordia senza frontiere, montano bilanci, fatturati e richieste urgenti! Di fondi, i ribelli iniziano a rimpolpare i miti fondativi, a ricordare e a raccontare cosa è accaduto. E quelle storie diventeranno miti. Dapprima parleranno in tono sommesso nelle lunghe ore in attesa dell’arrivo dei camion, poi i vecchi capi spariranno con la loro rassegnazione e prudenza. Alla vita ideale, sognata, lontana dalla angustia del presente con cui i popoli mendicanti hanno riempito i primi tempi, si sostituiranno le sconfinate possibilità della vendetta: “Siete pronti? Andiamo ad abbattere quel muro”.