Come si vive nelle Rems di Giuliana Vitali* The Post Internazionale, 3 novembre 2023 Prima c’erano i manicomi criminali. Poi sono venuti gli Opg. Oggi chi commette un reato e soffre di disturbi mentali finisce nelle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza. Siamo stati nella struttura di Rieti. Ecco cosa abbiamo visto. Mentre percorro le vie tortuose di Rieti diretta verso la nuova Rems, le cime innevate del Monte Terminillo appaiono come sospese sopra uno spesso muro di nebbia. Avevo letto che da qualche parte, tra le sue rocce calcaree, è conficcata la leggendaria spada medioevale che i cinque templari perseguitati e perciò in fuga lasciarono lì, proprio al termine del Regno delle due Sicilie, prima di abbandonare le loro vesti metalliche, per salvarsi e confondersi tra la gente degli altri quattro regni vicini. Arrivo nella parte alta di Rieti, nel piazzale circondato dalla vegetazione disordinata, e dove campeggia la struttura di cemento rosa della Rems illuminata dal forte sole, attorniata da sbarre e lastre scure. Si sviluppa su due piani e solo quello più alto ha le sbarre alle finestre. Appena oltrepassato l’ingresso mi accoglie un uomo seduto alla guardianìa. Avevo già letto il regolamento della struttura e poso nella cassetta di sicurezza solo la borsa; non ho anelli, bracciali, orecchini pendenti, collane oppure oggetti taglienti. L’uomo, dal fare amichevole, mi fa apporre una firma su un foglio per le entrate giornaliere e indossare un bracciale elettronico antiaggressione. Ecco che mi raggiungono la direttrice Daniela Gioia e Giulia Listanti, entrambe psichiatre operative dell’istituto. Ci eravamo già conosciute telefonicamente in un colloquio preliminare. All’ingresso Mentre oltrepassiamo il metal detector domando se altri giornalisti, scrittori hanno già raccontato della nuova Rems. “Purtroppo no. Una sola volta hanno parlato a Radio Radicale di quelle della Asl di Roma 5”, risponde la dottoressa Gioia. “So che questa è la tua prima volta in uno spazio di detenzione e oltretutto in ambito psichiatrico... È una realtà ancora più complessa. Come mai hai scelto proprio noi?”, continua. Intanto ci accomodiamo al tavolo di una spaziosa sala riunioni con una finestra mezza aperta e che affaccia sul campo da sport dove giocano i pazienti. “Mi piacerebbe capire quali passi avanti sono stati fatti dopo la chiusura degli Opg (Ospedali Psichiatrici Giudiziari, ndr) e la vostra struttura è stata aperta appena nel 2021”, faccio, guardando i volti delle giovani operatrici, gli occhi che mi accolgono in modo dolce. Ci raggiunge adesso il direttore del Dipartimento Tutela e Promozione Salute Mentale Simone De Persis, psichiatra anche lui e primario inoltre del Serd (Dipendenze e Alcool), con le dottoresse, con un lungo camice bianco, Ursula Gennaioli, tecnico della riabilitazione psichiatrica, Stefania Reali, assistente sociale e Marco, infermiere. “Dottoressa Listanti, credo che sia bello iniziare questo nostro dialogo con te che sei di ritorno dal Congresso dell’Epa (associazione psichiatrica europea, ndr) a Parigi...”, propone De Persis mentre un pallone rosso colpisce di striscio il vetro antisfondamento della finestra, per un attimo intravedo gli occhi scuri di un ragazzo che ci osserva curioso prima di raccogliere la palla. “Ho pensato che portare lì il progetto italiano Rems sarebbe stato forse interessante. In altri Paesi non esistono modelli detentivi come il nostro...”, ci racconta. “E come hanno reagito?”, le domando. “Molti psichiatri di varie nazionalità, come gli stessi francesi o tedeschi per esempio, si avvicinavano per saperne di più, erano incuriositi e ci siamo confrontati anche su alcune criticità del sistema stesso. Pensiamo alle lunghe liste d’attesa per poter entrare nella struttura. I posti sono limitati, qui ne abbiamo 15... Dove vanno intanto i pazienti? Restano nelle carceri? Come sono assistiti?”. Il direttore interviene: “Oppure l’accettazione nella struttura di un paziente che abbia determinate patologie psichiatriche. Non possiamo mettere sullo stesso livello chi per esempio fa uso di sostanze stupefacenti. Non sono adatti ai percorsi di reinserimento che attuiamo qui”. “Ecco, in cosa consistono le terapie per i pazienti?”, chiedo. “Ognuno ha un percorso diverso, individuale. Non tutti di certo sono uguali. Il nostro scopo non è il contenimento della persona giudicata socialmente pericolosa ma la loro conquista a essere autonomi, responsabili, attivi sia fisicamente che psicologicamente...”. “E cosa rende un individuo con disagi psichiatrici socialmente pericoloso?”, chiedo. “Il confine è così labile... Nemmeno noi psichiatri possiamo dare una risposta. E tutto ciò che possiamo sapere di un paziente è conseguenza di un lavoro sul campo e nel tempo. Le Rems inoltre hanno il carattere di transitorietà ed è necessario stabilire un percorso per i pazienti anche dopo, attraverso servizi territoriali che funzionino”. Domando poi quali attività sono state pensate per i ragazzi, hanno tra i venti e i quarant’anni, dal punto di vista formativo, culturale, creativo. Le dottoresse, a turno, mi parlano di laboratori teatrali, corsi di italiano per stranieri, di inglese e c’è anche chi ha deciso di diplomarsi o laurearsi. Uno di loro per esempio vorrebbe terminare gli studi per laurearsi in Geologia. Gli manca un solo esame e la tesi. “Anche lo sport è fondamentale. Abbiamo iniziato con loro il progetto terapeutico- riabilitativo di rugby integrato, con regole particolari, s’intende. Per esempio non è permesso lo scontro fisico”, interviene la dottoressa Gioia. “Per noi un loro piccolo progresso, anche fumare una sigaretta in meno al giorno, è una grande conquista. Può sembrare banale ma è un duro lavoro”. Chiedo ancora se le famiglie o gli affetti in genere dei ragazzi sono presenti nelle loro vite all’interno della Rems. La dottoressa Reali mi dice che spesso vengono a trovarli e che sono preparati anche dagli stessi operatori sanitari affinché possano avere cura del ragazzo una volta tornato a casa. Vorrei dare parola a Mario, l’infermiere. Mi dicono subito che la sua figura è quella più importante perché segue i ragazzi tutto il giorno e ha perciò la possibilità di raccontare molti particolari sulla loro individualità e carattere che sarebbero stati più difficili osservare dai medici in tempi più ridotti. Hanno anche una capacità da mediatori poiché potrebbero capitare discussioni o litigi nei momenti di aggregazione. Gli chiedo come si svolge la giornata. “Noi siamo operativi dalle 7 del mattino. C’è una prima sveglia per i pazienti alle 8.00 e al massimo l’ultima alle 9.30. Dopo c’è la somministrazione della terapia e poi la colazione. Alle 10.30 c’è il secondo caffè, l’unico caffeinato e perciò atteso tanto dai ragazzi! Poi ci sono le attività delle terapiste, che variano ogni giorno. Poi andiamo nella sala ricreativa e anche noi giochiamo con loro a biliardino, a ping pong. Poi ci avviamo al pranzo con la seconda somministrazione della terapia e subito dopo ci aiutano a sistemare la sala mensa, sono molto collaborativi egli piace rendersi utili. Poi c’è un po’ di riposo e li svegliamo intorno alle 16.15 per la merenda. Vediamo insieme un film, guardiamo una partita in tv”. “Una figura quasi amichevole la tua, sempre con dei limiti s’intende”, gli faccio. De Persis interviene: “A differenza di altri ambiti della medicina noi siamo tirati in ballo anche dal punto di vista umano e personale. Bisogna saper gestire la propria emotività e fare i conti con la rabbia, l’aggressività, l’imprevedibilità o la paura. È importante avere dimestichezza con la propria sensibilità e questo non si acquisisce durante una formazione professionale. Le relazioni con i pazienti ti mettono ogni giorno davanti alla conoscenza di te stesso, nel profondo”. “Forse potrebbe anche mettere in discussione se stessi, sulle scelte prese con i pazienti in una particolare situazione”, dico. “Infatti molti tendono a scappare, proprio per la complessità che porta questo lavoro al di là di protocolli o tecnicismi”. Decidiamo di muoverci, di vedere gli spazi dell’istituto. Le dottoresse Gennaioli e Listanti mi fanno strada negli spazi del piano terra dell’edificio, dove ci sono le sale per i colloqui con i familiari, le stanze per la riabilitazione, per gli incontri con gli avvocati, la cucina, gli spogliatoi. Gli infissi delle finestre non hanno maniglie, possono essere aperte solo tramite una chiave a disposizione degli operatori sanitari; le scrivanie, gli arredi sono saldati al pavimento. Nella sala ricreativa c’è una pila di giochi di società coperti da un telo bianco, una televisione fissata alla parte alta della parete, un foglio attaccato al muro, scritto a mano, con la richiesta di alcuni film; un paio di zone per fumatori, un divano dove un ragazzo pare che dorma. Listanti si avvicina e sedendosi accanto a lui gli parla a voce bassa accarezzandogli la schiena. Nella stanza adiacente al campo sportivo, incontro altri detenuti che giocano a ping pong: “Dottore! Venti a tre per me!”, esclama un ragazzo alto, muscoloso, con i tatuaggi che gli riempiono il collo. Gennaioli gli sorride, ha gli occhi grandi e luminosi sul viso magro. Sull’uscio che porta al campo fuori, ci sono due vigilantes che mi lasciano passare. Un uomo, forse il più anziano del gruppo, con sguardo serio, cammina a passo svelto, fa sempre su e giù per il campo con la testa a uncino. Altri mi salutano, sembra esserci il vuoto nei loro occhi oppure pensieri che corrono veloci, indossano pantofole di gomma, e i movimenti dei loro corpi sono lenti. “Avete in mente nuovi progetti?”, mi rivolgo a Listanti. “Vorremmo cercare di portare i ragazzi fuori più spesso con l’escursionismo per esempio...”, risponde. Intanto Gennaioli viene presa in disparte da uno dei ragazzi che ha iniziato a raccontarle qualcosa. Adesso ci spostiamo al piano di sopra della struttura dove ci sono le camere da letto. Mi dicono che questi ambienti, a differenza degli altri, non sono videosorvegliati per privacy. Enormi stanze, la luce che viene da fuori è accecante e risalta l’essenzialità dell’arredamento. Qui le finestre hanno anche le sbarre, nessuna anta agli armadi, i letti fissati al pavimento, le docce non hanno il vetro intorno e il soffione senza tubo è attaccato al soffitto, il gabinetto non ha la tavoletta. Mi dicono che è per la loro sicurezza. Stanno ridipingendo le pareti. Gennaioli mi dice che prima era un istituto femminile e avevano dipinto tutto di rosa e adesso invece di azzurro. Domando se hanno pensato a rendere la Rems mista. Mi dicono che sono quasi certe che non esistano luoghi di detenzione misti e che forse la gestione potrebbe essere complicata. “Come affrontate il tema della sessualità con i detenuti?”, faccio, mentre siamo nel corridoio, le porte delle camere sono spalancate, mi informano che non vengono mai chiuse. “Eh, come in un carcere...”, risponde Gennaioli con voce incerta. “Anche se qui è più facile ottenere permessi per uscire e magari incontrare i propri affetti”, interviene Listanti. Ritorniamo al piano di sotto raggiungendo De Persis e Gioia, che intanto hanno accolto la dottoressa Anna Petti, direttrice della Asl di Rieti. Lei ci teneva a capire il motivo della mia curiosità, la volontà di conoscere la realtà della Rems. I loro volti sembrano come sorpresi davanti all’interesse verso il loro lavoro, i tanti progetti e attività riabilitative. Mi chiedono se da questa mattinata insieme mi fossi aspettato qualcosa di diverso, se immaginavo un’altra realtà. Dico, appena prima di ritornare al metal detector d’uscita, che era quello che avrei voluto mi raccontassero. Certo, mi porterò nella testa ancora alcune perplessità, contraddizioni delle quali non so se sarò mai in grado di venirne a capo. Forse perché rifiuto l’idea dei confini, dei muri, di libertà negate, di qualsiasi sistema coercitivo. Abbiamo abolito i manicomi, gli Opg e ci sarà un tempo prossimo anche per il superamento delle Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza. Caccio la borsa dalla cassetta, restituisco il bracciale e riparto verso Roma scendendo dalla piccola altura. Adesso le cime, i fianchi del monte Terminillo, sembrano più imponenti contrastando il cielo azzurro, l’aria tersa. E chissà se davvero esiste quella spada - adesso sarebbe nascosta nella neve - e se i cinque cavalieri erranti si siano incontrati ancora. La loro promessa era di ritrovarsi in quel luogo, davanti alla stessa roccia, una volta riconquistata la loro innata condizione di uomini liberi. *Questo articolo è tratto dal prossimo volume della rivista letteraria “Achab”, dal titolo “Gli occhi di Argo sul carcere”, in uscita a novembre con la casa editrice “Ad Est dell’Equatore” 41 bis, sì alla videochiamata tra padre e figlio detenuti al carcere duro di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 3 novembre 2023 Il magistrato di Sorveglianza ha autorizzato Sandro Lo Piccolo, detenuto al 41 bis, a effettuare un colloquio di un’ora con suo padre, Salvatore, anche lui detenuto nel regime differenziato. Bilanciato il diritto all’affettività con la sicurezza. Concessa la possibilità a Sandro Lo Piccolo, recluso al 41 bis, di poter effettuare un colloquio con suo padre Salvatore, sempre recluso nel carcere duro, colui che è stato uno degli esponenti di primissimo piano di Cosa nostra e conosciuto soprattutto per essere stato l’autista del boss Rosario Riccobono, ucciso nel 1982. Grazie al ricorso presentato dal detenuto, tramite l’avvocata Fabiana Gubitoso del Foro de L’Aquila, il magistrato di Sorveglianza ha accolto la richiesta in merito al diniego da parte dell’amministrazione penitenziaria. Il 31 ottobre 2023, il magistrato di Sorveglianza ha emesso l’ordinanza numero 2023/1693 relativa al detenuto Sandro Lo Piccolo, classe 1975, attualmente recluso al carcere duro presso la Casa circondariale di L’Aquila. L’ordinanza, come detto, riguarda il reclamo presentato da Lo Piccolo figlio ai sensi degli articoli 35 bis e 69 comma 6 lettera b) dell’Ordinamento penitenziario, volto a contestare il diniego del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria relativo alla richiesta di svolgere un colloquio visivo con suo padre, anch’esso detenuto e sottoposto al regime differenziato del 41 bis presso la Casa di reclusione di Parma. Dopo aver esaminato attentamente tutti gli atti del caso, il magistrato ha rilevato che il detenuto aveva presentato il reclamo il 22 febbraio 2023, lamentando che le condizioni detentive dei suoi familiari gli impedivano di effettuare regolari colloqui visivi mensili con gli stessi. Tuttavia, il Dap aveva respinto la richiesta del detenuto in seguito al parere contrario trasmesso dalla competente Direzione Distrettuale Antimafia di Palermo. Quest’ultima aveva evidenziato che sia il detenuto che suo padre erano esponenti di massimo livello di Cosa nostra, sottolineando il rischio di scambiare informazioni sensibili durante i colloqui visivi, influenzando così le decisioni dell’organizzazione criminale. Il magistrato di Sorveglianza ha sottolineato che, nonostante il detenuto fosse sottoposto al regime del 41 bis che impone restrizioni significative, il diritto di avere colloqui con i familiari è garantito. Ha precisato che la protezione dei rapporti familiari è sancita al livello costituzionale e della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, e qualsiasi limitazione a questo diritto deve essere giustificata da leggi esplicite e deve essere proporzionata agli interessi superiori dell’ordinamento. Inoltre, il magistrato - come d’altronde ha sottolineato l’avvocata Gubitoso nel ricorso - ha rilevato che il regolamento penitenziario agevola i contatti dei detenuti con il mondo esterno, compresi i familiari, e sottolinea l’importanza di mantenere, migliorare o ristabilire le relazioni dei detenuti con le loro famiglie. Ha anche osservato che, secondo la giurisprudenza consolidata, un detenuto sottoposto al regime differenziato può essere autorizzato a effettuare colloqui con altri detenuti mediante forme di comunicazione audiovisiva controllabili a distanza, garantendo così la sicurezza interna degli istituti e la sicurezza pubblica. Alla luce di queste considerazioni, il magistrato di Sorveglianza ha deciso di accogliere il reclamo presentato da Sandro Lo Piccolo, ordinando all’Amministrazione penitenziaria di assicurare al detenuto un colloquio visivo della durata di un’ora con suo padre, Salvatore Lo Piccolo, ristretto nella Casa di reclusione di Parma. Il colloquio avverrà in videocollegamento attraverso le piattaforme informatiche a disposizione dell’Amministrazione, con le prescrizioni proprie dei colloqui dei detenuti sottoposti al regime 41 bis, inclusi il controllo auditivo e l’audio-videoregistrazione. Con questa decisione, il magistrato di sorveglianza ha bilanciato il diritto del detenuto di mantenere i legami familiari con le esigenze di sicurezza dettate dal regime differenziato, garantendo al contempo che il detenuto abbia l’opportunità di mantenere un legame minimo con suo padre attraverso il colloquio visivo. Pochi e abbandonati: la cruda realtà degli infermieri dietro le sbarre di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 3 novembre 2023 Turni notturni, uno solo può essere responsabile di 600 detenuti, affrontando casi di tossicodipendenza e gravi disagi psichiatrici. Nel nostro Paese ci sono tante carceri sovraffollate, dove gli infermieri operano in condizioni estreme, spesso dimenticati e abbandonati a sé stessi. Il grido d’allarme dei professionisti della salute, lanciato nel recente report del sindacato Nursing Up, mette in luce una realtà altamente critica che si sta trasformando in un pericoloso contesto di abusi e violenze. Le testimonianze evidenziate nel report sono sconvolgenti: in turni di notte, un singolo infermiere può essere responsabile di ben 600 detenuti. In questa situazione estremamente precaria, gli infermieri devono fare i conti con casi di tossicodipendenza, gravi disagi psichiatrici e individui aggressivi e autolesionisti. La loro missione, quella di fornire assistenza medica e supporto a coloro che sono dietro le sbarre, si è trasformata in un vero e proprio incubo, un inferno quotidiano. I numeri parlano chiaro: dall’estate scorsa, sono stati registrati otto gravi casi di aggressione fisica ai danni degli infermieri, di cui ben tre contro donne indifese. Questi professionisti dedicati rischiano non solo la loro sicurezza fisica, ma anche l’integrità personale, come dimostrano i tragici episodi di violenza sessuale e tentativi di strangolamento denunciati da Antonio De Palma, presidente Nazionale del Nursing Up. La carenza drammatica di personale di polizia penitenziaria peggiora ulteriormente la situazione. In molte carceri, mancano reparti di infermeria adeguati, farmaci e attrezzature sanitarie. Le celle stesse sono state adattate come luoghi di cura, rivelando una disorganizzazione e una mancanza di risorse che mettono a rischio la vita e la sicurezza degli infermieri e dei detenuti. Il presidente De Palma, spiega che negli anni passati erano principalmente gli infermieri appena laureati a intraprendere il compito arduo di lavorare nelle carceri. Oggi, nonostante l’alta richiesta di giovani professionisti nelle strutture sanitarie pubbliche e private a causa della carenza di personale, sono davvero pochi coloro che hanno il coraggio di abbracciare questo ruolo delicato. La mancanza di strumenti e protezioni lascia le donne, prima ancora che professioniste, vulnerabili e a mercé di individui fuori controllo. L’infermiere che opera nelle carceri si trova quindi a gestire la sicurezza degli ambienti e, al contempo, a garantire il diritto alla salute dei detenuti. Questo avviene in contesti caratterizzati da una complessità assistenziale elevata, dove la presa in carico del paziente è fondamentale, indipendentemente dal tipo di reato commesso. “Al contrario di quanto spesso si pensa - osserva De Palma - il ruolo dell’infermiere all’interno delle carceri non si limita alla mera esecuzione di procedure e interventi standard. Le competenze richieste sono di natura sia tecnica che intellettuale, e comprendono aspetti avanzati, relazionali ed educativi”. Ciò è confermato dal profilo professionale secondo il Decreto Ministeriale 739/94, che sottolinea l’importanza dell’assistenza di natura tecnica, relazionale ed educativa. La presenza di infermieri con tali competenze è cruciale per garantire una cura adeguata e umana anche all’interno degli ambienti carcerari, dimostrando la rilevanza di una professione spesso sottovalutata e misconosciuta. Numeri, come detto, allarmanti. Basti pensare che in Campania, per una popolazione carceraria di 6471 detenuti, ci sono meno di 200 infermieri che devono lavorare tra tossicodipendente, casi di profondi disagi psichiatrici e soggetti aggressivi e autolesionisti (in costante aumento sono i tentativi di suicidio). La situazione non è certa più rosea in Lombardia, dove solo nelle quattro carceri dell’area metropolitana di Milano si contano 3.726 detenuti, a fronte di un solo operatore sanitario, di notte, ogni 600 reclusi. In pratica 1 ogni 200 negli orari diurni. Luciana delle Donne, la supermanager bancaria che fece del carcere un atelier di Ilaria Dioguardi vita.it, 3 novembre 2023 Made in Carcere, attivo nei penitenziari di Lecce, Trani, Taranto, Matera e nel carcere minorile di Bari, permette di avviare un percorso di riabilitazione e reinserimento sociale. Lo si deve a una manager che, dopo un’esperienza bancaria ventennale, ha deciso di dedicarsi a diffondere la filosofia della seconda opportunità (per le persone) e della doppia vita (per i tessuti). Ha da poco ricevuto il Premio Madre Maria Teresa Fasce, istituito dalle religiose agostiniane del Monastero Santa Rita da Cascia. Questo riconoscimento, alla prima edizione, “rappresenta per me un momento importante perché la figura di Santa Rita, santa degli impossibili, legittima il nostro operato, che è stato sempre difficile, in un contesto scomodo, dimostrando che invece si può fare, grazie alla cura e alla passione”, ha detto Luciana delle Donne, ceo e fondatrice Made in Carcere e cooperativa sociale Officina Creativa. Delle Donne, dopo tanti successi e grandi soddisfazioni professionali, lei ha fatto un’inversione di rotta. Perché ha deciso di passare da una vita nel pezzo di mondo comodo ad occuparsi del mondo scomodo? Una donna, nel mondo della finanza, che decide di fare la prima banca online (la Banca 121, ndr), a 38 anni diventa dirigente in un mondo tutto maschile, non era un risultato scontato, provavo tantissima soddisfazione per i risultati ottenuti. Ma questi risultati, la notorietà, i premi non mi esaltano. Mi fa più felice quando una persona raggiunge un obiettivo che si mette in testa di raggiungere. Volevo creare degli strumenti di lavoro utili per le persone che vanno in banca perché quella era la mia esperienza: 22 anni in banca mi hanno portato a cercare soluzioni innovative, la tecnologia era limitata a quei tempi. Nel 2000 ho dato vita alla prima banca online, ho avuto tanti successi, soprattutto economici e di visibilità: la prima banca totalmente automatizzata era un caso di studio. Io vivevo in un pezzo di mondo comodo, di quello scomodo non se ne occupava nessuno. Ho pensato di occuparmi delle persone dimenticate, di dare la mia forza, la mia energia ad altri settori, quelli del disagio e dell’emarginazione. Sempre con uno sguardo proattivo, costruttivo. Mi è sempre piaciuto vedere la gioia delle persone che incontravano le mie soluzioni tecniche e professionali. Perché ha scelto di dare vita a un progetto per (e con) le donne detenute? Prima ho pensato di dedicarmi agli ultimi, poi ho pensato di dedicarmi agli ultimi degli ultimi. All’inizio ho pensato ai bambini, a mettere in piedi un asilo, ma era complicato e ho lasciato perdere. Poi mi sono dedicata alle mamme di ragazzi che non avevano uno o entrambi i genitori ed erano affidati ai loro parenti. Ho sempre pensato che, aiutando le mamme poi, indirettamente, si aiutano i figli: grazie allo stipendio che percepiscono riescono a portare avanti i progetti anche per i figli. Una vita senza lavoro è impensabile, una vita in carcere senza potersi muovere, da una cella tre passi per due, è altrettanto impensabile. Vedevo anomala questa situazione, mi sono sempre chiesta perché le persone in carcere non debbano vivere nella bellezza, perché non possano essere trattate come persone normali invece di stare in gabbia. Ho creato il primo laboratorio in carcere che amiamo chiamare maison perché gli abbiamo dato un arredo insolito: mobili antichi, tappeti, divani, biblioteca, sala lettura, sala palestra, sala riunioni (dove si siedono attorno a un tavolo ovale, che era la mia scrivania). Le donne sono libere in quelle ore di lavoro. La cosa interessante è che, oltre ad un lavoro classico, con un orario, ruoli, responsabilità, date di consegna, le donne che lavorano con Made in carcere hanno la libertà di essere creative. Quando tornano in cella sono stanche e felici di aver lavorato. Vogliamo diffondere la filosofia della seconda opportunità per le persone, ricostruendo le loro vite, e della doppia vita per i tessuti. Il mio desiderio è sempre stato, con consapevolezza crescente, di essere al servizio degli altri, in un’ottica imprenditoriale ma sempre soccorrevole e con un approccio altruista e creativo. Dare e darsi è la nuova frontiera della ricchezza. Volevamo far risalire un gradino di benessere alle persone, con un modello di impresa con cui ci si prendesse cura degli altri, con i malati psichiatrici o con le persone dipendenti ci vuole un expertise particolare, competenze che non avevo e non ho. Allora mi sono dedicata ai detenuti. Quando abbiamo iniziato nel 2006 le fasi migratorie erano più deboli, altrimenti mi sarei occupata anche delle persone che vengono in Italia, trovo assurdo come l’individualismo delle persone non tenga conto di chi sta meno bene. Ricorda il momento preciso in cui ha deciso di cambiare vita e licenziarsi? Ogni giorno mi chiedo perché l’ho fatto. La mia prima vita era piena di agevolazioni. Quando ho scelto di rinunciare alla ricchezza è perché avevo chiaro il desiderio di fare qualcosa per chi ha bisogno. Non sapevo ancora per chi, cosa avrei fatto e come. Ma sentivo di voler fare qualcosa per le persone che avevano bisogno di me, della mia tenacia che mi permette di trascinare altre persone: da sola non potrei fare nulla. A me non interessa fatturare, fare budget, a me interessa che paghiamo gli stipendi a tutti, che cresciamo e ci facciamo copiare, che si replica il nostro modello. Vorrei che tutti usassero buonsenso nei confronti delle persone dimenticate e che si usasse quello che il pianeta già ha, per produrre. Questa è la nostra missione. Siamo costretti a vendere gadget perché se no non paghiamo gli stipendi, ma se potessi regalare tutto lo farei. Come create i vostri prodotti? Utilizziamo soprattutto materiali di scarto e di recupero, avendo sempre pezzi piccoli: il nostro progetto si concentra sul patchwork, sul recupero dei tessuti scartati dagli altri. Dal punto di vista cromatico, bisogna accostarli, scegliere come cromaticamente sono gradevoli. Quindi si ha una responsabilità importante: il successo di un oggetto, che può essere una borsa o un bikini, dipende dagli accostamenti dei vari pezzetti di questi cosiddetti “stracci”. Nella catena di negozi del gruppo Ovs quest’estate è stato venduto un nostro prodotto, un bikini che può essere indossato in 24 modi diversi, che ha un brevetto: i pezzi di sopra e sotto sono intercambiabili. La bellezza di questo risultato è data dalla creatività di queste persone, che si mettono alla prova e costruiscono insieme una soluzione. Era molto bello vedere cinque ragazze intorno a un tavolo che prendevano un tessuto tagliato e dovevano decidere vicino a quale potesse essere cucito. Ogni pezzo di questo bikini parla della loro scelta creativa, non è un’attività da trascurare. Il passaggio importante, in più rispetto al semplice lavoro di sartoria, è il fatto che chi lavora con Made in Carcere decide come realizzare un prodotto, questo potere decisionale è affascinante: è un’attitudine alla scelta. Questo le aiuta a capire che la vita è fatta sempre di scelte, di decisioni, non di occasioni. Noi abbiamo sempre le soluzioni, i problemi li lasciamo agli incapaci. È una palestra di vita fantastica, io sono affascinata dalla capacità di questo progetto nel cambiare l’identità delle persone, renderle libere in carcere. Una delle detenute una volta ha detto: “Io qua sono finalmente felice, mi sento libera”. Sono considerazioni anche un po’ da pelle d’oca, riuscire a generare tanta bellezza e tanta dignità tra le persone non è affatto facile e scontato. Mi piace molto parlare di questa parte dell’attività perché sono tutti valori intangibili, sotto traccia. Io sono felicissima che tanti replichino il nostro modello, abbiamo supportato la creazione di tante sartorie sociali di periferia di tutta Italia, da Verona a Catanzaro. La cosa importante è che nell’approccio lavorativo la persona sia messa al centro, e che sia messa al centro la capacità di cambiamento, sistemico sia dentro che fuori, delle persone. Ha visto tante persone cambiare grazie a questo progetto? Sì, non solo un cambiamento di status perché le persone prendono uno stipendio e quindi riescono a mantenere i figli fuori e ad avere una vita più decorosa, ma anche perché non sono un peso per le persone che sono fuori dal carcere. La capacità creativa cresce attraverso l’apprendimento sia della bellezza cromatica sia della scelta. Si sceglie nella libertà concessa. Quante persone sono ingabbiate fuori dal carcere, da tante sovrastrutture, da tanti modelli da replicare, che sono legati, al consumismo, all’ignoranza, all’individualismo? Noi siamo totalmente al servizio delle persone che hanno bisogno, cerchiamo sempre di trovare un progetto o una soluzione ad hoc per venire incontro ad ogni situazione. Lavoriamo solo all’interno del carcere, non possiamo pensare di assumere persone fuori dal carcere, ne sono passate centinaia e centinaia. Complessivamente, nelle carceri facciamo lavorare 40-50 persone. È nelle carceri la difficoltà, fuori è una passeggiata, c’è tanta autonomia. In carcere vige il principio e il linguaggio della sicurezza che supera quello dell’impresa. Fare impresa sociale in carcere è un ossimoro, o fai impresa o fai sociale, ci sono tanti momenti di interruzione, tra avvocati, telefonate, infermieri. E soprattutto, se un lavoro non è finito, comunque alle ore 16,30 suona la campana e tutti devono rientrare. Con Made in Carcere lavoriamo a Lecce, Trani, Taranto, Matera e Bari. La Maison di Made in Carcere, laboratorio in carcere con un arredo insolito: mobili antichi, tappeti, divani, biblioteca, sala lettura, sala palestra, sala riunioni E quando le persone finiscono la pena detentiva? Sono così organizzate mentalmente e così orgogliose di aver acquisito dignità, di aver cambiato la loro identità con una visione diversa dello stile di vita che non le distrugge nessuno. Molte donne trovano subito lavoro perché hanno imparato a conoscere il ritmo del lavoro vero. La maggior parte delle persone coinvolte sono donne, rimango in contatto con loro per amicizia ma, una volta uscite, vanno per la loro strada. Cosa producete? A Lecce, Trani e Taranto produciamo vari oggetti con tessuti: braccialetti, borsette, grembiuli da cucina, portaoggetti e tanto altro. Il laboratorio di Matera lavora la pelle donata da varie attività di divani e tessuti di tappezzeria che sono nel materano. A Bari il carcere minorile produce biscotti vegani certificati biologici, lì lavorano tutti maschi. Noi facciamo gadgettistica per convegni ed eventi, il costo di ogni prodotto è molto basso. Abbiamo sempre lavorato con i nostri mezzi, senza sostegni, tranne che con il Covid perché i detenuti non sono voluti stare in cassa integrazione e perché non abbiamo creato mascherine per venderle, ma ne abbiamo donate 10mila. Siamo entrati in difficoltà, a quel punto alcune fondazioni ci hanno aiutato a superare il momento. Con Made in Carcere promuovete un modello di economia rigenerativa, riparativa e trasformativa che fa bene a tutti: individuo, comunità e ambiente... A noi piace che qualcuno replichi il nostro progetto, se lo replicano avviene un cambiamento sistemico in cui tutti pensano con buonsenso al mantenimento del rispetto sia in termini di inclusione sociale sia di impatto ambientale. Abbiamo sempre lavorato perché gli altri ci copiassero, non ci dispiace se questo avviene. Nel 2021 abbiamo cominciato un progetto legato al BIL, Benessere Interno Lordo, abbiamo stimolato lo sviluppo di altre 20 sartorie sociali di periferia, e abbiamo sostenuto altri otto partner. Con questo progetto, sostenuto da Fondazione Con il Sud, siamo riusciti a sviluppare una bella rete di cooperative dove spaziamo dal cibo al tessile all’agricoltura, abbiamo coinvolto in totale circa 65 persone tra formazione e assunzione. La nostra è una missione dei casi impossibili, per questo mi hanno dato il premio. La missione vera è quella di generare un cambiamento tra le persone che stanno dentro ma anche tra quelle che stanno fuori e quelle che vogliono fare le cose come le facciamo noi. Coinvolgiamo studenti, imprenditori, università. Molti studenti universitari vengono a fare volontariato e imparano a conoscere un altro pezzo di mondo, quello scomodo. Piangono tutti i ragazzi volontari perché, quando entrano in carcere, si rendono conto che non hanno capito niente della vita. Lei ha pianto e piange ancora? Io piango sempre per il dolore e per la gioia che riusciamo a donare a queste persone e per i risultati ottenuti, che erano veramente impensabili. È un’emozione troppo forte vedere che le persone che lavorano grazie a Made in carcere sono felici, che i loro figli vanno all’università; è una grande felicità vedere il reinserimento delle ex detenute, che spesso sono dei numeri e non sono assolutamente considerate come persone. Io ci litigo, ci discuto, le tratto alla pari: discutere con loro significa dare rispetto al pensiero degli altri. Quando c’è un momento di debolezza e di sconforto mi tuffo nel lavoro, perso di poter essere di aiuto: la mia è una vocazione. Ogni tanto mi chiedo se sono strana io o se sono mancanti gli altri. Ricevere il premio Madre Maria Teresa Fasce è stato una soddisfazione? Assolutamente sì, il premio insieme al riconoscimento di Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica sono due secchi d’acqua in faccia che mi sono arrivati. Io ho sempre lavorato senza pensare a quello che stessimo facendo, quindi vedevo sensato il mio sacrificio, faccio volontariato da 17 anni per questo progetto per una scelta di vita. Questi secchi d’acqua molto profumata e piacevole mi hanno fatto capire che sono sulla strada giusta. Ne ho avuti tanti di riconoscimenti, ma questi sono i più importanti e più significativi: uno da parte dello Stato e uno da parte della Chiesa, che riconosce l’umiltà, la misericordia e il lavoro al servizio degli altri, cose su cui io non mi sono mai soffermata perché ritenevo giusto e divertente fare quello che facciamo e non mi sono neanche resa conto che erano volati 17 anni. Il premio mi tocca il cuore perché mi hanno letta dentro, ripaga di tutta la fatica. Avere lo sguardo felice delle persone è una grande soddisfazione, che siano studenti, imprenditori, manager. Luciana Delle Donne con il premio Madre Maria Teresa Fasce, istituito dalle religiose agostiniane del Monastero Santa Rita da Cascia Fate anche formazione nelle aziende? Sì, il nostro lavoro si occupa anche di fare formazione nelle aziende, che si occupano di Csr ma spesso non sanno neanche cosa significa, nel vero senso della parola. Di greenwashing ce n’è molto… Come comunicate ai vostri potenziali clienti? Noi non abbiamo bisogno di una rete commerciale di venditori, ci chiamano le migliori aziende. Non abbiamo volutamente un bel sito internet. Abbiamo la bellezza della semplicità. Ci siamo inventati il video personal shopper: una persona paga due euro e si sceglie il prodotto, ognuno è diverso per colori e combinazioni. Nell’e-commerce abbiamo questa possibilità, che abbiamo solo noi (se qualcuno non ci ha già copiato). Esistono delle realtà che si chiamano come noi, che abbiamo un marchio depositato. Ma io penso che per fare il bene non serva l’esclusiva, non è possibile. Diventa sempre tutto più faticoso, ma a noi piace l’impossibile. Sospensione della prescrizione condizionata di Dario Ferrara Italia Oggi, 3 novembre 2023 Sospensione della prescrizione “condizionata” alla definizione rapida dei procedimenti penali, specie dei reati che stanno per estinguersi. Lunedì 6 novembre inizia alla Camera la discussione generale in aula sulla proposta di legge che introduce l’articolo 159 bis Cp, dopo che la commissione giustizia ha approvato l’emendamento proposto dai relatori, frutto di un nuovo accordo nella maggioranza. La prescrizione è sospesa per ventiquattro mesi dopo la condanna in primo grado e per dodici mesi dopo la conferma della condanna in appello, in linea con la ragionevole durata dei processi della legge Pinto niente stop se l’appello modifica l’assoluzione decisa in primo grado. Si torna alla “prescrizione sostanziale”, per cui ogni reato ha i suoi tempi (tipo la riforma Orlando), superando le riforme Bonafede e Cartabia: l’una ha bloccato la prescrizione dopo la sentenza di primo grado e l’altra ha introdotto un secondo binario di natura processuale, concordato però con l’Europa per il Pnrr, con l’improcedibilità dell’azione penale per il decorso dei termini di durata massima dei giudizi d’impugnazione, che dunque non prevede limiti in primo grado ma solo in appello (due anni) e Cassazione (un anno). Ma attenzione: ora se la sentenza d’impugnazione non interviene nei tempi previsti, la prescrizione riprende il suo corso e si calcola pure il precedente periodo di stop. Anche in caso di successivo proscioglimento o di annullamento della condanna in appello o in Cassazione, il periodo di sospensione si computa ai fini dell’estinzione del reato. Nessuno spreco - La pdl, insomma, ricalca la proposta della commissione Lattanzi insediata per la riforma Cartabia del processo penale. Se la sentenza d’appello è pubblicata dopo più di due anni dalla scadenza del termine per il deposito delle motivazioni della pronuncia di primo grado, la prescrizione riprende a correre e il periodo di sospensione si calcola per determinare il tempo necessario a estinguere il reato. Idem se la sentenza di Cassazione è pubblicata dopo più di un anno dalla scadenza del termine per il deposito delle motivazioni della pronuncia d’appello. Il ricalcolo ai fini del termine di prescrizione è previsto anche quando, nel grado in cui ha operato la sospensione o nel grado successivo, l’imputato è prosciolto, la sentenza di condanna è annullata rispetto all’accertamento della responsabilità e in caso di dichiarazione di nullità della decisione con restituzione degli atti al giudice. La sentenza di condanna torna a interrompere il corso della prescrizione. Reati come lo stalking, la violenza di genere e lo sfregio al volto rientrano invece fra i delitti per i quali il periodo necessario a prescrivere, in seguito all’interruzione del corso, non può superare la metà del tempo ordinario. “Fine processo mai”. I tempi della giustizia incompatibili con la vita di Francesco Petrelli* L’Unità, 3 novembre 2023 Che si dovesse provvedere ad un superamento della legge Bonafede che prevedeva l’interruzione della prescrizione dopo la sentenza di primo grado, frutto del giustizialismo pentastellato, risultava piuttosto evidente. Che, tuttavia, l’istituto della improcedibilità, risultato di un compromesso con la parte populista residua della nuova compagine di maggioranza del nuovo governo tecnico, fosse la soluzione corretta ne hanno dubitato in molti. Che i due diversi “orologi”, uno impostato sui tempi del reato (fino alla sentenza di primo grado) ed uno impostato sui tempi del processo (nelle fasi di impugnazione successive), fossero razionalmente e tecnicamente incompatibili era stato infatti da subito denunciato. Ma se la riforma voluta dalla Ministra Cartabia aveva un pregio, che la faceva comunque accettare come un “male necessario”, era il fatto che aveva comunque voltato pagina sullo scempio giustizialista del “fine processo mai”. Tornati sui binari di un governo politico, si trattava oramai di mettere mano a una riforma organica della prescrizione che rispondesse ad alcuni fondamentali parametri costituzionali, che vanno dal diritto alla vita a quello della ragionevole durata del processo, dalla presunzione di innocenza alla finalità rieducativa della pena. Tuttavia, la proposta di riforma definita “garantista” sulla quale la maggioranza avrebbe raggiunto un accordo, in base a qualche provvidenziale emendamento, ci sembra che non risponda a quella vera esigenza di razionalizzazione e di riequilibrio dei tempi della prescrizione. Sarebbe infatti necessaria una complessiva operazione riformatrice da compiere al riparo dagli estremismi ideologici e dagli slogan che da tempo inquinano la discussione su questo ineliminabile istituto, muovendo dalla indiscutibile constatazione che si tratta di tempi che per la maggior parte dei reati risultano incongruamente ed irragionevolmente lunghi. Si tratta infatti di termini, compresi quelli previsti dalla attuale riforma, che non tengono in alcun modo conto né dei tempi in concreto dei singoli processi, né della effettiva complessità dell’accertamento del reato. Si tratta di termini (che vanno mediamente dai 15 ai 40 anni) che in alcun modo tengono conto della compatibilità con la durata della vita stessa delle persone che avrebbero diritto di sapere in meno di quattro lustri se dovranno scontare una pena. Termini altrettanto incompatibili con le esigenze minime di una società civile, che non può a sua volta attendere decenni per sapere se un suo amministratore sia stato corrotto e se un impianto produttivo debba essere confiscato. Da più parti si evidenziano le statistiche che attestano una sostanziale decompressione del sistema processuale e la sussistenza di condizioni che consentirebbero di ricondurre la durata della prescrizione nei parametri accettabili corrispondenti a medie europee di durata dei processi di dieci anni. Non si comprende, ad esempio, per quale ragione un processo per fatti di bancarotta di non complesso accertamento debba durare oltre venti anni, un periodo di tempo corrispondente a circa la metà della vita media attiva di un imprenditore. Per la maggior parte di questi reati la prescrizione ha termini così lunghi che spesso è solo la pendenza del processo a mantenere una qualche flebile memoria del fatto, mentre in una visione sostanzialistica della prescrizione dovrebbe essere il contrario. Ma quello che emerge ad un’analisi finale non è altro che l’evidenza di un sistema profondamente illiberale che continua a scaricare i costi dell’inefficienza della macchina processuale sull’imputato, consegnato dalla legge alla pena di un processo sottratto alla garanzia costituzionale della ragionevole durata. *Presidente dell’Unione camere penali italiane La Lega e l’arresto per gli ambientalisti che bloccano il traffico. Loro: “Una repressione” Corriere della Sera, 3 novembre 2023 Multe trasformate in reclusione da sei mesi a tre anni, carcere in flagranza di reato, Daspo per gli attivisti. “Salvini si occupi di emergenze più serie”, la risposta di Ultima generazione. Giro di vite contro chi manifesta per il clima, bloccando il traffico stradale. È quanto chiede la Lega in una proposta di legge presentata alla Camera, a firma del deputato Gianangelo Bof. “Da tempo assistiamo alle intemperanze di gruppi di sedicenti attivisti ambientalisti ed ecologisti che impediscono, con il proprio corpo, la ordinata circolazione stradale, specie nelle “ore di punta” provocando grande disagio fra gli automobilisti”, ha detto il leader leghista Matteo Salvini, ministro dei Trasporti e delle infrastrutture. Suddiviso in tre articoli, al primo punto il testo prevede inasprimenti delle sanzioni, con il carcere che sostituisce la multa. “La pena della sanzione amministrativa da mille euro a 4 mila euro, a oggi prevista in caso di impedimento della libera circolazione su strada con il proprio corpo” viene rimpiazzata con “la reclusione da sei mesi a tre anni, sia che l’ostruzione sia effettuata su strada ordinaria che ferrata”. Il secondo articolo prevede invece di estendere il Daspo nei confronti dei manifestanti che bloccano le strade. Infine, al terzo punto, si chiede di introdurre una nuova fattispecie di delitto all’articolo 380 del Codice di procedura penale, prevedendo per chi attua i blocchi “l’arresto obbligatorio in flagranza”. La proposta di legge entusiasma il fronte leghista. “Estendere la fattispecie di illecito penale, già individuata dal codice, anche a chi ostacola i trasporti senza l’uso di strumenti, ma semplicemente con il proprio corpo, va nella giusta direzione. Si contrastano i fanatici green”, ha dichiarato il senatore Andrea Ostellari, sottosegretario alla Giustizia, “esattamente come fanno alcuni prepotenti, che credono di cambiare il mondo, impedendo alle persone di raggiungere scuole, luoghi di lavori e ospedali. L’ambiente e la salute si difendono con buonsenso e responsabilità, non bloccando il Paese”. Alla Lega ha ribattuto Ultima generazione, organizzazione che da tempo attua forme di protesta fisica impedendo la circolazione dei mezzi sulle strade - suscitando molte proteste dei cittadini - oppure imbratta opere d’arte e strutture storiche con l’obiettivo di sensibilizzare l’opinione pubblica sull’urgenza di modificare, da una parte gli stili di vita, e dall’altra la politica a intervenire per affrontare l’emergenza climatica. “La proposta della Lega è paradossale e non si può non definirla una repressione, l’ennesima, messa in moto contro di noi”, ha detto l’attivista Laura Paracini, contattata da Adnkronos, “invitiamo Salvini a occuparsi di emergenze più serie, come quella climatica, una delle crisi più gravi che l’umanità dovrà affrontare e che ci travolgerà in modo trasversale”. “Non posso che mettere in dubbio la buona fede dei nostri politici che scelgono di reprimere in modo così duro alcuni atti, quando invece c’è un silenzio assordante su altre crisi”, ha poi aggiunto Paracini, “è chiaro che certe problematiche vengano ignorate per motivi specifici. Abbiamo bloccato il traffico esibendo dei cartelli con scritti i nomi di alcune delle vittime dell’alluvione in Emilia-Romagna di pochi mesi fa. Speravamo di mandare un messaggio e invece... se a Salvini interessa così tanto la sicurezza dell’ordine pubblico perché non denuncia le inadempienze che ci sono state in Emilia-Romagna in merito ai fondi? Soldi che non sono arrivati o, al massimo, sono arrivati in minima parte. Invece, si prendono come capri espiatori dei ragazzi che stanno esercitando il loro diritto alla protesta. Non possiamo che condannare questa classe politica e quella che l’ha preceduta, perché non hanno fatto nulla per rispondere al collasso climatico”. Il panpenalismo di Meloni e Nordio arriva ai rifiuti di Claudio Cerasa Il Foglio, 3 novembre 2023 Dal 10 ottobre l’abbandono dei rifiuti è diventato reato. La nuova legge del governo Meloni stabilisce l’applicazione di una sanzione penale (e non più solo amministrativa) anche nel caso di abbandono rifiuti compiuto da soggetti che non sono titolari di imprese o responsabili di Enti, cioè comuni cittadini. Il fatto di rischiare di finire in galera, anziché pagare una multa salata, disincentiverà gli zozzoni? Difficilmente. Ad esempio dall’introduzione dell’omicidio stradale non sono diminuiti gli incidenti. Come pure il reato di femminicidio non ha ridotto la violenza sulle donne che, invece, nonostante la cronaca, diminuisce ogni anno nelle statistiche pur in assenza di applicazione del codice rosso. Mai nella storia il panpenalismo ha prodotto la diminuzione di un fenomeno. Nonostante sia, negli ultimi anni, la soluzione pavloviana che la politica offre come risposta ai fenomeni sociali o anche solo di cronaca. Il governo Meloni era stato chiamato dall’Europa, attraverso il Pnrr, a velocizzare i processi. Il Consiglio europeo, nelle sue annuali Raccomandazioni, ha costantemente sollecitato l’Italia a “ridurre la durata dei processi in tutti i gradi di giudizio”. “La velocizzazione della giustizia transita attraverso una forte depenalizzazione, quindi una riduzione dei reati”, disse il ministro della Giustizia Carlo Nordio un anno fa, al suo esordio. Passarono pochi giorni e il governo Meloni introdusse il reato di rave party, poi l’omicidio nautico, e poi sempre più aggravanti per immigrazione, minori, femminicidi e reati ambientali. Nessuna di queste nuove fattispecie di reato diminuirà i casi, ma ingolferà i processi e le galere. Con buona pace per la giustizia. Campania. Luciano suicida a Santa Maria Capua Vetere, Salvatore morto a Secondigliano di Andrea Aversa L’Unità, 3 novembre 2023 Due morti nelle carceri campane. Il primo aveva 55 anni, il secondo 51. Entrambi avevano una moglie e tre figli. Luciano aveva già tentato il suicidio in carcere, salvato dagli agenti della Penitenziaria, si è impiccato in ospedale a Sessa Aurunca. Salvatore sarebbe stato ucciso da un improvviso arresto cardiaco. Dall’inizio dell’anno sono quattro i suicidi accertati nelle carceri campane, altrettanto quattro sono invece i casi di ‘morte misteriosa’ sui quali vi sono accertamenti. In Italia, nel 2023, i suicidi in cella sono stati fino ad ora 54. Due persone decedute in pochi giorni, entrambi in custodia dello Stato. Luciano, 55 anni, si è tolto la vita nel reparto psichiatrico di diagnosi e cura dell’ospedale di Sessa Aurunca (in provincia di Caserta). L’uomo ci aveva già provato la sera precedente, mentre era recluso nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Per fortuna il tempestivo intervento degli agenti della Polizia Penitenziaria ha evitato il peggio. Ma il tragico epilogo è stato solo rimandato: il 55enne è stato trovato impiccato nella struttura sanitaria del Casertano. “Si continua a morire di carcere e in carcere - ha dichiarato il Garante per i diritti dei detenuti della Regione Campania Samuele Ciambriello - Luciano è morto di solitudine, uno dei tanti detenuti con la paura del futuro e di cosa possa aspettarli fuori da una cella”. Chi era Luciano - Il prossimo mese di luglio Luciano avrebbe scontato la sua pena e sarebbe stato libero. Nato a Caserta, padre di tre figli, era detenuto per reati minori e aveva un problema di tossicodipendenza. Eppure, il Tribunale di Sorveglianza aveva espresso parere negativo per una possibile misura alternativa della pena. C’è però una domanda ancora senza risposta: perché il 55enne, pur non avendo problemi psichiatrici, era stato confinato in quel reparto ospedaliero? “Conosco bene quella sezione del nosocomio di Sessa - ha spiegato Ciambriello - È un luogo vuoto, che non ha nulla. Tempo fa ho regalato un bigliardino alla struttura da mettere a disposizione dei pazienti”. L’autorità giudiziaria ha intanto sequestrato la salma e disposto su di essa l’autopsia. Chi era Salvatore - Un altro dramma è accaduto nel carcere di Secondigliano a Napoli. Salvatore A., 51 anni anche lui padre di tre figli, è stato trovato senza vita nella sua cella. L’uomo era recluso presso l’articolazione psichiatrica del penitenziario napoletano. In totale i posti sono 18, dislocati in celle singole. Anche Salvatore, detenuto per maltrattamenti, si è visto rigettare una richiesta per accedere alle pene alternative. “All’interno della nostra Costituzione - ha affermato Ciambriello - il diritto alla salute è sancito dall’articolo 32, unico articolo in cui compare l’aggettivo fondamentale per tale diritto! Posso testimoniare che nelle carceri italiane e campane per diverse ragioni, per diverse motivazioni, tale diritto a volte non è rispettato, supportato, promosso e questo non solo dalle autorità sanitarie”. Il ricordo e i numeri - Il Garante ha poi ricordato un aneddoto relativo agli incontri avuti in passato con Salvatore: “Un caro ricordo che conservo di Salvatore è che quando lo frequentavo da solo o settimanalmente con le volontarie dell’Associazione “la Mansarda” faceva sempre richiesta di francobolli e buste per le lettere, era quindi un detenuto che scriveva molto. Utilizzava la scrittura come un ponte per comunicare con il mondo esterno, non solo lettere ai propri tre figli”. Dall’inizio dell’anno sono 4 i suicidi avvenuti nelle carceri campane. Altrettanti sono i casi di ‘morte misteriosa’, sui quali gli inquirenti stanno cercando di fare chiarezza. In Italia, invece, nel 2023 - fino ad oggi - ci sono stati 54 suicidi. La mattanza di Stato continua. Latina. Carte d’identità in carcere: il servizio in trasferta ogni primo mercoledì del mese comune.latina.it, 3 novembre 2023 I servizi di Anagrafe e Stato Civile in trasferta al carcere di Latina, per permettere ai detenuti di ottenere con più facilità i documenti di cui hanno bisogno. La novità diventa operativa grazie ad una delibera di giunta su indirizzo dell’assessore Francesca Tesone, che fa seguito al lavoro della commissione consiliare dedicata ai Servizi demografici presieduta dal consigliere Giuseppe Coriddi. “Nei primi giorni successivi al mio insediamento - ha dichiarato il Sindaco Matilde Celentano - sono stata in visita al carcere di Latina ed ho incontrato la direttrice Pia Paola Palmeri, il dirigente aggiunto di Polizia Penitenziaria Giacomo Santucci e il Sovrintendente Privato Angelo in rappresentanza del corpo della Polizia Penitenziaria. In quell’occasione mi è stata rappresentata la necessità di istituire il servizio Anagrafe e Stato Civile a richiesta, per permettere ai detenuti di effettuare le pratiche di cui hanno bisogno. Con il protocollo d’intesa approvato, che dovrà avere il nulla osta del Ministero della Giustizia per divenire operativo, si dà una risposta in termini di sostegno e inclusione perché tutti possano avere gli stessi diritti”. “Ogni primo mercoledì del mese - spiega l’assessore Francesca Tesone - previa comunicazione da parte degli addetti alla struttura che dovrà pervenire entro i cinque giorni precedenti, un ufficiale di anagrafe/stato civile accederà nel carcere di via Aspromonte, munito di autorizzazione, per il rilascio di certificazione anagrafica e di stato civile, autentica di firme su dichiarazioni sostitutive di atti di notorietà, rilascio carte d’identità elettroniche, rilascio consenso carte d’identità elettroniche valide per l’espatrio del figlio minore e riconoscimento di nascita e paternità. Per le ultime due richieste gli uffici comunali dovranno richiedere autorizzazione alla Prefettura per trasportare fuori dalla sede del servizio demografico il registro pubblico di nascita. Il protocollo, condiviso con la casa circondariale, non comporta alcun onere per il Comune di Latina, ma permette di risolvere una delle problematiche che da tempo sottolineano dalla direzione del carcere, in rappresentanza dei detenuti”. Rimini. Bando del Comune per la gestione del progetto di reinserimento sociale dei detenuti comune.rimini.it, 3 novembre 2023 L’Assessore comunale Gianfreda: “Chi esce dal carcere non deve costituire un pericolo per sé e per la comunità: combattiamo la recidiva con l’inclusione”. Migliorare la qualità della vita dei detenuti, così da arginare i casi di recidiva e facilitare l’attività di chi vi lavora a diretto contatto. Con una recente determina, l’amministrazione comunale ha pubblicato un avviso di istruttoria pubblica per affidare la realizzazione di un progetto di carattere educativo e preventivo finalizzato a favorire il reinserimento sociale degli ex carcerati, in modo da evitare che, una volta liberi, possano ricadere nello stesso tunnel, recando un danno a loro stessi e a tutta la collettività. Le finalità del percorso è quello di aumentare le attività a favore dei detenuti organizzate dentro la Casa Circondariale di Rimini (in particolar modo per quanto riguarda le iniziative legate ai temi dell’intercultura e della genitorialità), attivare interventi volti a dare continuità allo sportello informativo all’interno del carcere con funzioni di ascolto, accoglienza, orientamento e accompagnamento, nonché di mediazione linguistica. Chi gestirà il progetto dovrà anche occuparsi del potenziamento del raccordo tra i servizi esterni e interni e, allo stesso tempo, sostenere nuove opportunità di formazione, educazione e riflessione a favore dei detenuti, con un focus particolare sulla valorizzazione dei lavori di pubblica attività. Nel progetto, inoltre, viene confermata la figura dell’operatore di rete, un supporto all’equipe della Casa Circondariale. Il costo dell’intervento ammonta a 57 mila euro, di cui 40 mila euro finanziati dal progetto triennale ‘Territori per il reinserimento Emilia-Romagna’ proveniente dalla Cassa delle Ammende con il co-finanziamento della Regione, e 17 mila euro finanziati dal Comune di Rimini all’interno del Progetto dei Piani di Zona per la salute e il benessere sociale 2023. “Come ho già detto, chi sbaglia paga, ma deve anche avere la possibilità di rinascere. Il carcere assolve veramente la sua funzione se aiuta i detenuti a far sì che possano ricominciare, senza cadere negli stessi errori e ‘giri’ del passato - spiega l’Assessore comunale alla Protezione sociale, Kristian Gianfreda - Per questo è importante che la vita all’interno della Casa Circondariale sia caratterizzata da attività di carattere formativo, educativo, relazionale. Imparare una professione, studiare, perfezionare la propria conoscenza linguistica, imparare a confrontarsi con gli altri in maniera armonica, riallacciare i rapporti con i figli: sono solo alcuni esempi di percorsi promossi all’interno del carcere, fondamentali per porre le basi per un reinserimento vero ed efficace nella società da parte del detenuto. Una volta terminata la pena, infatti, l’obiettivo, la persona deve avere gli strumenti per poter ricoprire un ruolo attivo nella società: l’integrazione è infatti uno step fondamentale per scongiurare a monte eventuali episodi di delinquenza, criminalità o mancanza di rispetto verso la legge. Con questo progetto, come amministrazione, agiamo in maniera preventiva, mettendo in pratica veramente i principi della rieducazione e inclusione, affinché chi esce dal carcere non costituisca un pericolo per se stesso e per la comunità”. La procedura di Istruttoria pubblica per l’attuazione del progetto prevede due incontri: il primo si è tenuto venerdì 27 ottobre, mentre il secondo è in calendario venerdì 10 novembre alle ore 10.30 presso la sede comunale dell’U.O. Sostegno all’Abitare e Inclusione Sociale, in via Massimo D’Azeglio, n. 13. Mantova. I volti del riscatto dei detenuti: mostra di foto all’Arci Virgilio di Gloria De Vincenzi Gazzetta di Mantova, 3 novembre 2023 Dal 9 al 18 novembre le immagini di carcerati operatori, cappellani e personale sanitario. Gran finale: le testimonianze. Inclusione sociale e giustizia riparativa sono due facce della stessa medaglia e c’è chi vuole mostrarle in uno degli eventi della settimana del Festival dei diritti. Dal 9 novembre e al sabato successivo all’Arci Virgilio sarà allestita una mostra aperta al pubblico. È una carrellata di cinquanta fotografie scattate in alcune carceri lombarde, incluso quello di via Poma. Immagini a doppia firma: i ritratti - di carcerati, operatori, cappellani, personale sanitario - sono eseguiti da fotografi professionisti; la seconda firma è quella dei protagonisti, che hanno rielaborato l’immagine che li ritrae, reimmaginandosi, nel corso di un laboratorio. Tagli, scritte, colori modificano e completano i volti mandando ciascuna il proprio personale messaggio. Mostra-mi. Un volto e una voce alle storie di giustizia è il titolo dell’originale esposizione, evento presentato ieri nella sala consiliare di via Roma dall’assessore alla legalità Alessandra Riccadonna con gli altri promotori: il funzionario giuridico pedagogico della casa circondariale di via Poma Giuseppe Novelli, l’educatore professionale dell’Ufficio servizio sociale minori di Brescia Cleopatra Giazzoli e il referente del Csv Mantova Francesco Molesini. L’evento è organizzato come laboratorio Nexus, con la collaborazione della casa circondariale di Mantova. “Il Comune crede fortemente a questi progetti - spiega l’assessora Riccadonna - frutto di percorsi di riscatto per i giovani che hanno commesso un reato e hanno bisogno di fiducia nel futuro e necessità di raccontarsi”. Ecco allora che sabato 18 novembre dalle ore 16, il gran finale della mostra (aperta tutti i pomeriggi e al mattino per le scuole, prenotazioni con mail a laboratorionexus. mantova@gmail.com o telefonata al 331.6656076) sarà dedicato proprio all’ascolto. “Si rifletterà sulle esperienze e le attività artistiche avute con i giovani e, in particolare, ascoltare ciò che i ragazzi avranno da dire ascoltando alcune loro canzoni rap, esito di un laboratorio” spiegano i promotori. Canzoni e lavori artistici sono stati prodotti da minorenni nell’ambito delle esperienze di giustizia riparativa svolti da una decina di ragazzi con cooperativa Alce Nero, cooperativa Hike, CngeI, Uepe di Mantova e Ussm di Brescia. Bergamo. “Lo Spaventapasseri”: lo spettacolo dei detenuti esce dalle mura del carcere di Marta Federico bergamonews.it, 3 novembre 2023 Sabato 25 novembre all’Auditorium di Piazza della Libertà di Bergamo andrà in scena lo spettacolo “Lo Spaventapasseri”, con la partecipazione di 11 attori, detenuti della Casa Circondariale ‘F. Resmini’ di Bergamo, da CSV, Centro di Servizio per il Volontariato di Bergamo ETS e dall’Associazione Carcere e Territorio, in collaborazione con l’Assessorato alla Cultura del Comune di Bergamo. Alla regia Walter Tiraboschi e Gianluca Belotti dell’associazione ‘Teatro Piroscafo’ di Sarnico. Perché uno spettacolo teatrale? Perché il teatro è un luogo privilegiato per giocare sulla comunicazione, sulle relazioni, è un’occasione preziosa per potersi raccontare ed avere qualcuno con il desiderio di ascoltarci. Il teatro come pretesto per favorire l’incontro e il dibattito tra il mondo ‘dentro’ ovvero quello dei detenuti, e il mondo “fuori” ovvero quello degli spettatori, che fino ad oggi sono stati studenti delle scuole superiori. Con questa rappresentazione i detenuti escono per la prima volta dalla casa Circondariale per incontrare il pubblico, in occasione di Bergamo Brescia Capitala italiana della Cultura 2023. “Lo Spaventapasseri” è una storia che narra di un “non luogo”, un mondo a parte, un rapporto con la presenza/assenza dato “dal tempo che passa inesorabilmente e troppo lentamente”, come affermato da Tiraboschi, quindi da tematiche che evocano la realtà della detenzione carceraria. Durante lo spettacolo pezzi autobiografici scritti dai partecipanti si alternano a parti del capolavoro di Samuel Beckett “Aspettando Godot”, con l’aggiunta di canzoni, dai Sulutumana a Lorenzo Monguzzi, unite ai testi di Giorgio Gaber. “L’Associazione Piroscafo già da 15 anni entra nel carcere con proposte di laboratorio teatrale dei detenuti - spiega Nadia Ghisalberti, assessora alla Cultura del Comune di Bergamo -. A giugno ho assistito a un loro spettacolo e alla fine, uno dei detenuti chiese se era possibile portare quello spettacolo al di fuori delle mura del carcere, in un luogo pubblico. Non è facile, non tutti i detenuti possono essere accompagnati all’esterno del carcere, però abbiamo pensato che quella poteva essere un’esperienza, in quanto crediamo molto nell’abbattimento di confini, quei confini che possono essere attraversati, e soprattutto siamo convinti che l’essere detenuto comporta una perdita di libertà, che non deve compromettere la partecipazione alla vita culturale, dal momento che deve essere garantita a tutti i cittadini, indipendentemente dalla loro funzione o situazione. È in questa convinzione che l’amministrazione, attraverso il suo sistema bibliotecario, ha aperto delle collaborazioni con il carcere nella creazione delle biblioteche, sia della sezione maschile che femminile, curando le competenze di tutti coloro che, pur privati della libertà, si ingaggiano nella gestione di questi spazi, fondamentali per favorire il diritto alla lettura anche all’interno delle mura carcerarie. Lo spettacolo mi aveva commossa, perché sentir il racconto dalle loro parole, il biografico e il vissuto che traspariva dai detenuti, ha fatto percepire come la detenzione significa l’interruzione delle relazioni con il mondo esterno, dalla famiglia, dai loro effetti e la lontananza vissuta come un peso. Credo che questi momenti di cultura, di lettura e di teatro significhino molto per le persone detenute, per la loro crescita, sia dal punto di vista culturale che personale. I detenuti si trovano su un palco, dunque in un luogo aperto a tutti, frequentato da persone libere. Lo spettacolo si terrà il 25 novembre, ed è una data di riflessione: è il giorno dedicato alla violenza sulle donne. Queste sono persone che hanno avuto a che fare con la violenza, sinonimo di guasto in un rapporto e questo guasto deve essere ricostruito”. Teresa Mazzotta, Direttrice Casa Circondariale ‘F. Resmini’ di Bergamo, ha aggiunto: “Costruire assieme al carcere il ponte che consente alle persone di uscire fuori. È stato più semplice far entrare i ragazzi delle scuole superiori, circa 1200 studenti sono entrati per assistere allo spettacolo e poi nell’ambito del concetto di educazione alla legalità attivare un dibattito formativo di prevenzione per i detenuti, quindi in noi e in loro che si fonde e vede il detenuto mettersi in gioco nei confronti di persone che potrebbero essere i propri figli e dire perché non bisogna sbagliare e dall’altra parte i ragazzi che chiedono e che si ritrovano costretti a rispondere, ad ammettere come nonostante avessero potuto intraprendere tante altre scelte, loro hanno deciso di percorrere quella strada. Ce l’abbiamo fatta grazie al lavoro della magistratura di sorveglianza, che ha autorizzato l’uscita di quelle persone per andare sul palcoscenico, per mettersi a nudo rispetto alla cittadinanza, alla propria famiglia e tutta una serie di persone e attori esterni, perché vi saranno anche degli attori esterni che assisteranno alla rappresentazione. Questi attori detenuti hanno avuto il coraggio di uscire e di esprimersi, portando fuori le loro sensazioni e le loro emozioni. Si terrà anche in una giornata particolare, 25 novembre, non perché è un reato commesso da loro stessi, ma perché porteranno all’esterno quello che stanno provando autori di reati che rientrano nel codice rosso. Queste persone attualmente lavorano su loro stesse anche con l’aiuto di psicologi che fanno capire loro il dolore che hanno causato alle vittime e alle persone a loro vicine. Per noi è un grande risultato, perché il teatro rappresenta uno dei modi che ci aiuta nel reinserimento concreto delle persone. Il teatro è qualcosa che serve, che insegna a rispettare le regole, aiuta a lavorare con l’altro, insegna il lavoro in gruppo e il mettere a nudo i propri sentimenti”. Fausto Gritti, Presidente Associazione Carcere e Territorio: “È stata un’impresa titanica: la proposta è nata nel febbraio 2022. È stato un lavoro impegnativo portare queste persone ad essere viste come attori, come cittadini e non come persone che hanno compiuto un reato. Le persone sottoposte a pena alternativa hanno bisogno di un progetto di vita, hanno bisogno di integrarsi con il territorio, non è sufficiente pensare solo a casa e lavoro, seppur siano una questione importante. Ci auguriamo che questo progetto, anche se complesso, abbia negli anni a venire una continuità. È il primo degli eventi che porta alla rappresentazione esterna e soprattutto il contatto con la cittadinanza, dando questo giusto protagonismo a coloro che sono all’interno del carcere”. Valentina Lanfranchi, Garante dei diritti delle persone private della libertà personale: “43 anni che opero in un carcere. Il carcere è spesso considerato un quartiere negletto, emarginato. Questa iniziativa non nasce dal nulla, perché vuol dire fare cultura. Abbiamo lavorato moltissimo e siamo stati uno dei pochi carceri ad avere le biblioteche. Il problema della cultura è il problema che ci rende liberi e chi deve cercare la libertà se non un detenuto? La cultura è una meta, la cultura è la base, se è importante per noi che siamo esterni è altrettanto importante per loro interni. In carcere vi è un enorme sforzo per applicare l’articolo 27 della costituzione; la pena non deve essere castigo, ma deve essere recupero se veramente vogliamo essere dei democratici”. Oscar Bianchi, Presidente CSV Bergamo: “Contribuire a organizzare e realizzare questa opportunità ci rende orgogliosi, perché siamo convinti che portare lo spettacolo dei detenuti nella città sia un modo concreto di costruire quel ponte fra il dentro e fuori il carcere come fanno ogni giorno i nostri volontari attivi nella Casa Circondariale. I volontari, infatti, quotidianamente operano a fianco della popolazione ristretta e portano la città dentro le mura; oggi rappresentano una comunità che accoglie la narrazione che i detenuti metteranno a disposizione di tanti cittadini. Chiediamo a tutti di partecipare numerosi, perché essere Capitale della Cultura vuol dire prendere parte ai processi di solidarietà che ogni giorno il volontariato bergamasco innesca nei luoghi e negli spazi che abita”. Per partecipare - Lo spettacolo si terrà sabato 25 novembre alle 10.30 nell’Auditorium di piazza della Libertà a Bergamo. Iscrizione obbligatoria entro lunedì 13 novembre 2023 alle 13, al link: https://rb.gy/wwklr. Al momento della compilazione del form di iscrizione, per ragioni di sicurezza, è necessario fornire un documento d’identità che verrà sottoposto al controllo delle autorità giudiziarie. Prima della data dell’evento, la conferma di partecipazione verrà inviata tramite e-mail, all’indirizzo indicato nel form di registrazione. Lo stesso documento di identità dovrà essere esibito anche all’ingresso dell’Auditoium. “A 10 anni ero già un piccolo camorrista. Leggere mi ha salvato” di Valentina Baldisserri Corriere della Sera, 3 novembre 2023 La scrittura come valvola di sfogo. Il 16 marzo 2009 Davide Cerullo ha pubblicato il suo primo libro, “Ali bruciate. I bambini di Scampia”, scritto a quattro mani con don Alessandro Pronzato (Paoline). Un libro di denuncia sul degrado di Napoli dove inevitabilmente Cerullo ha srotolato tutto il suo passato e il suo presente. Ma è la fotografia lo strumento attraverso il quale Cerullo si esprime meglio, come lui stesso confessa. A settembre è uscita l’ultima pubblicazione, “I volti di Scampia” (edizioni Anima Mundi) un libro fotografico che si avvale dei testi di Christian Bobin, Erri De Luca, Ernest Pignon, Patrick Zachmann. Foto bellissime, un libro che impressiona per il realismo. Ci sono Rosetta, Diego, Gennaro. Ci sono i loro occhi spauriti oppure rabbiosi o semplicemente felici. Impugnano armi con l’espressione dura. Indossano collane dorate con crocifissi enormi e occhiali da sole a goccia, come nelle serie tv. Fuggire da Scampia sarebbe stato facile, Cerullo non lo ha fatto. Ha voluto assumersi una responsabilità grande, occuparsi dei bambini di quel quartiere di Napoli oscuro e violento. Prendersi cura dei giovani più vulnerabili, quelli il cui destino sembra già segnato. Ha fondato l’associazione L’albero delle storie, un laboratorio all’aria aperta in un fazzoletto di terra tra i palazzacci delle Vele che gestisce insieme a altri collaboratori. Ogni pomeriggio lo spazio si riempie di vita e di storie. Di libri e di letture. “La cultura è in certi casi l’unica possibilità di salvezza. Quello che mi interessa è spezzare la catena della violenza, della solitudine, del silenzio. Dietro un adulto aggressivo si nasconde un bambino impaurito che nessuno ha abbracciato. Pensare che per chi nasce a Scampia non ci sia alternativa, che a Scampia non ci possano essere famiglie oneste, ragazzi per bene che non spacciano, ragazze che studiano, padri che proteggono, madri che amano, non è realistico. Le mamme portano qui i loro bambini per farli sorridere, perché qui trovano uno spazio per loro”. Davide Cerullo è entrato in carcere la prima volta a 16 anni, spacciava e guadagnava 900 mila lire al giorno. “Mi sentivo un dio, il male mi piaceva. Poi ho scoperto la poesia e ho cambiato vita. Ho fotografato i volti dei bambini di Scampia, che sono come ero io: rabbiosi o spauriti, senza sogni e senza infanzia”. La prima volta sono finito in carcere a 16 anni. Vennero a prendermi a casa a Scampia, ma non mi misero le manette ai polsi. Chiesi al carabiniere perché. Avevo visto in tv l’arresto dei boss della camorra, li avevo visti mandare baci con le manette ai polsi. Volevo sentirmi come loro, volevo anch’io quelle manette. Perché questa è la camorra per un ragazzino di Scampia: ti identifichi col crimine, ne vai fiero, ti piace il male”. Ogni frase di Davide Cerullo quando parla del suo passato è un sussurro. C’è una certa reticenza nel raccontare, un senso di vergogna per quello che è stato. Certe cose non si cancellano, anche se oggi l’ex camorrista ha quasi 50 anni e da almeno 20 ha cambiato vita. La sua è una storia di riscatto, di quelle che uno sceneggiatore penserebbe come trama di un film romantico, con tanto di lieto fine. Anche se di romantico c’è davvero poco nella prima vita di Davide. Come è cominciato tutto? “A 10 anni ero già un piccolo camorrista. Abitavo a Scampia, tutta la mia famiglia prendeva ordini dalla camorra. A 14 anni già gestivo una delle prime piazze di spaccio, in una delle Vele. Maneggiavo armi, minacciavo chi non ubbidiva agli ordini, ero spavaldo, mi sentivo importante. Guadagnavo 900 mila lire al giorno, tantissimi. Mi sentivo un grande. La polizia mi cercava e per me era un vanto, impazzivo per questo. Il primo bravo l’ho ricevuto dal boss con una pacca sulla spalla, e quel giorno ho capito che quello che dovevo fare era il camorrista, lo spacciatore. Lo zio, così chiamavo il boss, era Dio. Valeva più di mia madre, di mio padre, dei miei fratelli. Piu di ogni altra cosa. Avevo una vera e propria adorazione nei suoi confronti”. È vero che a 14 anni lei si allenava a uccidere? “Andavamo su una spiaggia di Licola, sul lago, a provare le armi. Maneggiavo di tutto, kalashnikov, fucili a pompa, fucili di precisione, quello che serviva. Salivamo sul terrazzo di un palazzo di 15 piani e da lì ci allenavamo a colpire l’obiettivo”. Ha mai ucciso? “No, mai, ed è stata la mia fortuna per tante ragioni. Solo grazie a questo sono riuscito a sganciarmi dalla malavita organizzata. Se avessi ucciso oggi non sarei qui a raccontare la mia storia di riscatto”. Davide Cerullo, oggi lei si definisce un redivivo, un sopravvissuto alla Camorra. Nelle scuole dove la invitano per parlare di come si è ribellato alla malavita organizzata, racconta a tutti che a salvarla è stata la lettura, la poesia. Quando c’è stata la svolta e come? “È stata la seconda volta che sono finito in carcere, a 18 anni. Nel padiglione Avellino del carcere di Poggioreale a Napoli. Nella stanza 31 eravamo in 25, 25 uomini ammassati che grondano rabbia. Lì ho vissuto davvero l’inferno fatto di violenza, ignoranza, sopraffazione, brutalità. Ma in quella cella c’era un libro che mi ha salvato: il Vangelo. Leggevo a stento perché a scuola ci avevo messo piede poche volte, ma quelle pagine erano il mio unico rifugio e trovai scritto per tre volte Davide. Si narrava del re in Gerusalemme nato pastore, diventato poi re. La sua storia fu una illuminazione. C’era un modo per salvarsi dal mondo orrendo che avevo conosciuto fino a quel momento. Fuori dal carcere cercai altre letture, avevo fame di altro. Fondamentale fu l’incontro con il pittore Sergio Bardellino. Nella sua casa vidi per la prima volta tanti libri e incontrai la poesia, prima con Pasolini poi con il poeta francese Christian Bobin, lessi Più viva che mai e ne rimasi folgorato. C’era altro oltre quel mondo sporco che avevo conosciuto troppo presto. È stato come svegliarsi da un incubo: la poesia aveva distrutto il camorrista che era in me”. Lei racconta questa rinascita come fosse un percorso normale. Immaginiamo che invece non deve essere stato facile sganciarsi dalla camorra, nessuno lo fa facilmente o senza conseguenze. Come ci è riuscito? “Non ero depositario di segreti. Ho avuto armi tra le mani, ho commesso intimidazioni, ma non ho mai ucciso. Al tempo io ero il più promettente della famiglia, il boss puntava molto su di me, ero il suo guardaspalle. L’alleanza di Secondigliano, che voleva ucciderlo, non è mai riuscita a farlo fuori. Anche questo fatto mi ha aiutato. La mia famiglia è rimasta tutta dentro alla criminalità organizzata, mia madre spacciava, i miei fratelli pure. Io no, il boss mi lasciò andare quando ad un certo punto capì che ero cambiato, che quel mondo non mi apparteneva già più. Nei miei occhi leggeva i miei sensi di colpa, e il fatto che stessi rinnegando il camorrista che era in me”. Lei si porta dietro l’etichetta dell’ex camorrista. Chissà quanti pregiudizi, quanta diffidenza respirerà intorno... “Non è facile, non è mai stato facile per me rompere certi muri. Ci è voluto del tempo, le stesse madri che oggi sfoggiano sorrisi quando portano i loro figli all’Albero delle storie, all’inizio facevano fatica ad entrare. Di sicuro sono poco aiutato dalle istituzioni. Ho provato a incontrare sindaci e assessori per parlare del mio progetto, per avere un aiuto economico. Ma le risposte non sono mai arrivate. Tante parole ma niente fatti. In fin dei conti chi vive qui vive una storia di resistenza civile di fronte al deserto delle istituzioni”. Quando ha fotografato quegli occhi e quelle espressioni a volte tristi a volte dure, cosa ha visto? “Ho voluto catturare un’infanzia violata, senza giochi, senza scuola, senza sogni, senza neppure il diritto di avere paura, perché i bambini della camorra non devono avere paura. È la periferia dell’animo umano, da un lato queste foto scatenano l’emozione dello squallore, dall’altra subentra una condivisione affettiva con i protagonisti di questo scenario di abbandono. Martin Luther King diceva: “Può darsi che non siate responsabili per la situazione in cui vi trovate, ma lo diventerete se non fate nulla per cambiarla”. Ecco, io vorrei riscattare questa infanzia, è questo il mio sogno”. La vita che torna dopo le dipendenze: il racconto di Vincenzo Aliotta recensione di Laura Marzi Il Manifesto, 3 novembre 2023 “Un passo alla volta”, a cura di Barbara Bonomi Romagnoli, edito da Giunti. L’esperienza del Centro per il recupero san Nicola nelle Marche. “Un passo alla volta. La vita oltre le dipendenze”, a cura di Barbara Bonomi Romagnoli, edito da Giunti (pp. 120, euro 15), racconta l’esperienza di Vincenzo Aliotta che da sempre si occupa di alcologia e che nel 2010 ha fondato nelle Marche il centro san Nicola per il recupero dalle dipendenze. Si tratta di un testo importante, anche per i dati che fornisce: secondo l’Istituto Superiore di Sanità in Italia 48 persone al giorno muoiono per problemi di alcolismo. Nelle prime pagine, inoltre, scopriamo che il mondo delle droghe è in parte sconosciuto: i test per l’identificazione delle sostanze spesso non sono aggiornati con le nuove molecole reperibili online e questo impedisce la corretta diagnosi quando un paziente viene ricoverato, per esempio, in stato psicotico. Il volume è diviso in dodici capitoli che riprendono i dodici passi del sistema di disintossicazione degli alcolisti anonimi che al san Nicola viene applicato anche per gli altri tipi di dipendenza: da droghe, da gioco, dalla pornografia. Il metodo di disintossicazione praticato in quel centro si distingue anche per la brevità del tempo di recupero: due mesi. Aliotta spiega che saper di poter tornare sobri in società nel minor tempo possibile è molto importante per le persone che vi approdano, perché fonte di grande speranza. Aggiunge anche, però, che il sistema di recupero messo in atto nella comunità da lui fondata si basa sull’esistenza di una rete che sostiene le persone dipendenti sia all’interno che, naturalmente, quando escono. Il testo fornisce delle informazioni sia sociologiche che scientifiche relative alla dipendenza: “il sistema della ricompensa del cervello è dotato di meccanismi diversi per il desiderio e il piacere. Quando il circuito del desiderio arriva a sopraffare i centri del piacere, si verifica la dipendenza”. Si sviluppa poi attraverso alcune interviste alle figure professionali che lavorano al san Nicola, che si fregia di un approccio multidisciplinare: nel centro, si ricorre al teatro e più in generale all’arte terapia, ma anche alla mindfullness, tecnica di meditazione particolarmente indicata in questo contesto. Viene ribadito che il dio a cui fanno riferimento i dodici passi degli A.A. va interpretato come una ricerca della spiritualità che permetta di trascendere dal senso di profondo fallimento e paranoia in cui si trovano le persone dipendenti, per recuperare un senso dell’esistenza e di loro stessi. Ovviamente al san Nicola, come in qualsiasi centro di recupero, esistono delle regole, ma viene fortemente ribadito che il metodo degli A.A. non è mai coercitivo: le persone dipendenti devono scegliere di affrontare la disintossicazione e il recupero, non vengono costrette a farlo. Gli alcolisti anonimi nascono in effetti da una strategia che prevede la parità all’interno del gruppo e una totale autonomia: non sono dipendenti dallo stato né, si specifica, “da qualunque organizzazione politica, privata o religiosa”. Aliotta ripete più volte nel testo che quando una persona diventa dipendente non è solo lei a essere malata ma il contesto in cui ha sviluppato la sua patologia, quindi molto spesso la famiglia, per questo è necessario che anche gli affetti intorno al paziente partecipino al percorso di recupero. In un momento così delicato per la sanità pubblica in cui spesso a essere smantellati sono proprio i S.E.R.T., questo libro, oltre a raccontare un’esperienza virtuosa, serve a ricordare che anche l’alcolismo e le tossicodipendenze sono delle patologie e che per questo la società non dovrebbe rimuoverle, ma curarle. “Anatomia di una caduta” il film capolavoro che mette in scena la follia del processo recensione di Domenico Tomassetti Il Dubbio, 3 novembre 2023 È una stagione cinematografica fortunata. Dopo il meraviglioso “Oppenheimer” di Nolan, arriva in sala “Anatomia di una caduta” di Justine Triet, vincitore della palma d’oro all’ultimo Festival di Cannes. Un film che avvocati e magistrati dovrebbero vedere. La trama è semplice: due scrittori vivono in uno chalet sulle Alpi francesi insieme al figlio undicenne ipovedente che, di ritorno da una passeggiata con il cane, trova il padre morto, precipitato da una finestra. In casa c’è solo la madre che non si è accorta di nulla e viene risvegliata dalle urla del bambino. Suicidio o omicidio? Dopo un anno di indagini, la Procura decide il rinvio a giudizio della donna, imputata della morte dell’uomo. Il film segue il processo fino al suo esito, deciso da un sorprendente colpo di scena. “Anatomia di una caduta” è un bellissimo film europeo (francese) che ci costringe ad una riflessione profonda sul concetto di verità (non solo processuale) attraverso la mise en scene di un processo penale di cui sono tutti vittime: il padre, morto, la madre, imputata, il figlio, testimone, la cui vita viene vivisezionata ed esposta alla pubblica curiosità nel tentativo di trovare un movente che giustifichi il presunto omicidio. Così la ricerca della verità viene confusa con la disperata rincorsa all’affermazione di una tesi (colpevole per l’accusa o innocente per la difesa) che non tiene in alcun conto i sentimenti delle vittime, togliendo certezze alle loro già vulnerate esistenze e costringendoli a fare i conti con il racconto che altri (poliziotti, psicoterapeuti, etc) fanno della loro famiglia, non più disfunzionale di quella di ognuno di noi. Fin qui siamo dalle parti di Otto Preminger di Anatomia di un omicidio o di Kurosawa di Rashomon, ma Triet, che è anche sceneggiatrice insieme ad Arthur Harari, va oltre. I due protagonisti sono scrittori che attingono, soprattutto la donna, dalla loro vita per scrivere le storie che pubblicano. Il film improvvisamente si addentra in una riflessione sul rapporto tra la verità e il racconto che supera il già visto film processuale e giunge a conclusionali davvero universali. La verità non esiste. Esiste, piuttosto, il racconto che noi facciamo a noi stessi (cioè, più semplicemente, l’interpretazione del ricordo) di uno o più episodi della vita. Questo racconto costruisce la nostra singola verità, l’unica che siamo capaci di afferrare. E questo procedimento mentale, che tutti abbiamo (più o meno consapevolmente) sperimentato, diventa evidente nell’aula di giustizia di Grenoble dove addirittura le pagine dei romanzi dell’imputata sono utilizzate dall’accusa come presunzione della prova di una premeditata volontà criminale. Questa zona del film, che è anche la più attuale e originale, spinge lo spettatore a chiedersi se lo scopo di ogni processo sia davvero l’accertamento della verità (quasi sempre irraggiungibile) o piuttosto si esaurisca nella sua funzione sociale (sempre imprescindibile): la tensione verso un’utopia (dare/ amministrare Giustizia), necessaria alla sopravvivenza di una società che si crede fondata sul Diritto, pur nella consapevolezza che il processo è uno strumento umano e, perciò, fallibile che genera comunque ferite non rimarginabili. Per spiegarci questo concetto, in un abile gioco di specchi, Triet mette in scena la vita di una famiglia - già vittima di un lutto non ancora superato - che viene, nel processo e sui giornali, definitivamente devastata, dando rilievo a singoli momenti del loro quotidiano esistere che non fanno il tutto, ma vengono utilizzati dalla accusa e dalla difesa per ottenere la vittoria processuale. Finché il figlio, cieco (eccezionale invenzione narrativa), non deciderà di superare le sue paure e dare un senso a quella dolorosissima esperienza, vissuta in prima persona senza che nessuno tenga davvero conto della sua giovane età, “scegliendo” la sua verità e così mettendo sostanzialmente fine al processo. Non sapremo, nessuno lo sa mai, se la madre sia colpevole o innocente: se si sia trattato di omicidio o di suicidio. La Corte decreterà il suo verdetto. Ma rimangono scolpite la frase finale della protagonista: “Se vinci ti aspetti un premio, ma è solo tutto finito”; e la risposta del suo avvocato: “Forse è solo che noi ci aspettiamo troppo”. Dalla vita? Probabilmente. Dalla Giustizia? Sicuramente. La Riforma del Terzo settore: per il “fisco amico” l’Europa batta un colpo di Giulio Sensi Corriere della Sera, 3 novembre 2023 Ancora in attesa di una svolta la trattativa con l’Europa. Bobba: “Non privilegi ma norme più eque”. Finora oltre 116mila enti nel Registro unico. I ritardi e 321 milioni di fondi inutilizzati La Riforma del Terzo settore: per il “fisco amico” l’Europa batta un colpo. Nei prossimi mesi la Commissione europea dovrebbe dare l’atteso pronunciamento sull’impianto fiscale della Riforma che dal 2017 ha rivoluzionato la vita di più di 350mila enti che in Italia danno lavoro ad oltre 850mila persone. È la partita più rilevante nel quadro dell’attuazione della nuova normativa per dare certezze alle tante realtà non profit investite dalle novità come associazioni, organizzazioni di volontariato, fondazioni e imprese sociali. Il confronto fra il governo italiano e la Commissione europea sta proseguendo e fondazione Terzjus ha diffuso un rapporto che fa il punto sullo stato di avanzamento. I compiti dell’Ue - “Il completamento della riforma - spiega Luigi Bobba, presidente di Terzjus ed ex sottosegretario al Ministero del lavoro che durante il governo Renzi avviò il processo - ha due direzioni: la prima riguarda proprio la regolazione. L’Ue deve esaminare le norme enucleate per giustificare un trattamento più favorevole a quelle attività che hanno carattere economico, ma non una finalità di profitto. In secondo luogo ha il compito di verificare che la soggettività degli Enti di terzo settore definita dal Codice sia talmente distintiva da giustificare una norma di maggior favore e quindi non fare concorrenza ad altri attori che stanno sul mercato. Stiamo parlando di un fisco amico che non vuole distribuire privilegi, ma giustificare un trattamento meritevole”. La partita normativa non si gioca solo sul piano europeo. “Il ministero - spiega Bobba - sta mettendo insieme un pacchetto di proposte volte a fare manutenzione e correzione delle norme, con l’obiettivo di semplificare le procedure e alleggerire i carichi burocratici, specialmente per gli enti più piccoli che ne sono appesantiti”. “Ci auguriamo - aggiunge - che tutto questo possa confluire in un prossimo decreto semplificazioni che aiuterebbe il Terzo settore a sviluppare un sentimento di minore fastidio nei confronti della normativa”. Una certezza sulle norme fiscali permetterebbe al governo anche di attivare una serie di strumenti, contenuti nella Riforma approvata, per promuovere e sostenere il ruolo del Terzo settore nell’economia e nella società. “Avere un fisco più amico - spiega Bobba - favorirebbe l’utilizzo di risorse ancora bloccate. Abbiamo stimato in più di 321 milioni di euro i fondi che con la Riforma erano disponibili, ma che senza la piena attuazione non sono stati distribuiti: 126,8 milioni è il valore dei nuovi regimi fiscali, 153,2 quello del social bonus (un credito d’imposta pari al 65 per cento delle erogazioni liberali in denaro effettuate da persone fisiche e del 50 per cento se effettuate da enti o società in favore degli Enti del terzo settore, ndr), 26,3 a vantaggio delle imprese sociali e 15,1 in titoli di solidarietà”. Tutte, tranne il social bonus che è partito nello scorso settembre, forme di finanziamento strutturali legate all’autorizzazione europea. E a confermare le potenzialità di espansione del Terzo settore e la necessità di completare il processo di riforma ci sono altri due dati che il rapporto di Terzjus ha diffuso: il primo è il numero di oltre 116mila (per la precisione 116.354 fino al 15 ottobre scorso) Enti del terzo settore che fanno ormai parte del nuovo registro nazionale con le nuove iscrizioni ad un ritmo di circa mille al mese. Il secondo è il tasso di costituzione di nuove imprese sociali che nell’ultimo quinquennio ha sfiorato il 5 per cento annuo a fronte di una piccola decrescita (- 0,1 per cento) di tutte quelle non sociali. “Si conferma - spiega il vice segretario generale di Unioncamere, Claudio Gagliardi - una tendenza già registrata dal 2017 con circa 4.300 nuove unità nate. Oltre alla crescita, le imprese sociali mostrano anche una grande vitalità: si occupano di molteplici ambiti, non solo di quello socio-sanitario e assistenziale, ma anche di sport, cultura, accoglienza e promozione turistica. Hanno pluralità di forme, non solo cooperative sociali, ma anche società di capitali, società di persone, associazioni, fondazioni. Fra i loro amministratori - aggiunge Gagliardi - ci sono più giovani e una sostanziale parità di genere. Se nella generalità delle imprese iscritte ai registri camerali la presenza di donne nei cda è in Italia del 25,9 per cento, in quelle sociali si arriva praticamente alla metà (49,2 per cento)”. Rimane alto il tasso di crescita nel Meridione dove opera il 52 per cento delle imprese sociali e dove sono nate dopo la Riforma del 2017 il 47,8 per cento di esse. “Un dato - commenta Gagliardi - che può spiegarsi con i forti bisogni sociali che al sud necessitano di risposte diverse, in particolare nell’educazione e nella cultura. Stiamo parlando in tutta Italia di mezzo milione di addetti e di un mondo che offre opportunità sempre più importanti anche nelle regioni dove sono più alti i tassi di disoccupazione”. La coop “Felici da matti”: così olio e persone da scarto diventano risorsa di Carlo Macrì Corriere della Sera, 3 novembre 2023 La cooperativa calabrese che impegna emarginati e disabili. Modello di economia circolare ecosostenibile. E il grasso vegetale diventa sapone al bergamotto. Sei donne, un prete, un progetto. La storia della cooperativa “Felici da Matti” comincia nel 2003, a Roccella Jonica. L’idea di replicare in laboratorio la tradizione delle nonne che facevano il sapone in casa ha illuminato i soci fondatori: l’olio esausto vegetale viene raccolto e trasformato in sapone, tipo Marsiglia. Un prodotto eco friendly, “figlio” di un’economia circolare, che mantiene stretto rapporto tra ambiente e territorio. Per aromatizzarlo viene scelto il bergamotto, agrume tipico del territorio della provincia di Reggio Calabria: di qui il nome “BergOlio”, che sta per Bergamotto+Olio. Tra i soci, però, qualcuno teme che questo marchio possa essere accostato, sia pure per un sillogismo non voluto, a quello del Santo Padre. Da uomini di fede i soci di “Felici da Matti” scrivono al Pontefice chiedendogli se il logo possa in qualche maniera infastidirlo. A stretto giro di posta arriva la risposta della segreteria di Stato del Vaticano: “Nel porgere i saluti il Santo Padre esprime viva riconoscenza per il premuroso pensiero e Ne partecipa la Benedizione, pegno di abbondanti grazie celesti”. Risolto il possibile caso, i soci si sono concentrati sull’attività. “All’inizio - ammette Maria Teresa Nesci, presidente della cooperativa - è stata dura. Abbiamo voluto mettere in pratica ciò che la nostra religione cristiana dice: stare accanto ai bisogni della gente. E noi siamo nati proprio per dare sostegno a chi ha disabilità, soprattutto mentali. Per stare accanto a loro, dare un lavoro e non farli sentire esclusi è nato il progetto “Non buttarlo nel lavandino… o siamo fritti”“ . Don Giuseppe Raco, ex parroco di Roccella, insieme ad Anna, Silvana, alle sorelle Fila e Anna e alla presidente Nesci, hanno iniziato il loro percorso creando un piccolo luogo di raccolta dell’olio esausto e, poi, servendosi di un Fiat Doblò, hanno iniziato a bussare alle case dei cittadini. “A chi ci forniva cinque litri di olio esausto, in cambio davamo un sapone”, dice la presidente. Fu l’ex vescovo-operaio di Locri Giancarlo Bregantini, oggi arcivescovo metropolita di Campobasso, a spronare i soci a iniziare questo progetto. Itinerari di raccolta - “Il nome “Felici da Matti”, è nato proprio dalla iniziale follia nell’affrontare questo percorso. La nostra avventura s’intreccia con la sfida di dare una seconda vita a uno scarto trasformandolo in risorsa”, spiega Nesci. Con gli anni l’attività della cooperativa ha continuato a crescere: oggi il raggio d’azione è arrivato a coinvolgere quasi tutta la provincia di Reggio Calabria. In molti paesi i cittadini riversano l’olio esausto in appositi contenitori che la cooperativa recupera nei quotidiani giri per i Comuni. Da qualche anno “Felici da Matti” ha anche realizzato una linea di detergenti ecologici (detersivo a mano e per lavatrice, detergente per pavimenti e sgrassatore), sempre da riciclo dell’olio esausto, aromatizzati al bergamotto, limone eucalipto e citronella. “La linea di detergenti BergOlioEco3 ci consente - spiega Nesci - di unire tre grandi motivazioni ambientali e sociali. Si tratta di saponi naturali realizzati con metodo a caldo. Lo sgrassatore è costituito dal 50% di olio esausto, 40% per i pavimenti, 30% per il bucato. Il resto della formula è costituito da ingredienti ecologici approvati dai principali enti di certificazione della Green Economy europei”. Ma c’è di più: la coop dà anche l’opportunità a detenuti, una volta espiata la pena, di reinserirsi nella società. “Stiamo portando avanti il progetto “Prome: Mendicanti di riconciliazione e profeti di speranza”. Quattro detenuti del carcere di Locri (2 italiani accusati di reati di droga e due ex scafisti) - dice la presidente - lavorano infatti nella falegnameria del carcere e realizzano per noi porta sapone in legno d’ulivo. Il 3 novembre uno di loro tornerà in libertà e verrà a lavorare con noi”. La cooperativa si finanzia da sola con le proprie vendite, online e in sede. Da qualche anno esporta i propri prodotti anche in Austria. L’ultima idea, dei soci della cooperativa, ancora in cantiere, è quella di realizzare un prodotto per la persona dal nome “Naturali terre di Calabria”, fatti con olio extravergine d’oliva e burro di karitè. Quell’antisemitismo che contagia le scuole di Lucetta Scaraffia La Stampa, 3 novembre 2023 Una nuova ondata di antisemitismo scuote l’Europa ed è arrivata anche in Italia. Non si tratta solo di specifici atti antisemiti come il danneggiamento delle pietre d’inciampo. Sembra, ad esempio, che moltissimi studenti delle scuole superiori del nostro Paese, o almeno una buona maggioranza, si siano scoperti pro Gaza e contro Israele, godendo spesso anche dell’appoggio dei loro insegnanti. È inutile dire che dai loro slogan e dalle loro parole emerge una grande ignoranza della storia di quella parte del mondo, delle reali condizioni di vita degli arabi che vivono in Israele come cittadini di quel Paese (il termine più adoperato è apartheid), ma ciò che soprattutto colpisce è la totale incapacità di capire come il terrorismo di Hamas abbia poco a vedere con la costruzione di uno Stato palestinese, ma piuttosto come invece esso rappresenti un caso da manuale del più feroce antisemitismo. Proprio questo apre per noi un grave problema sul quale abbiamo il dovere di riflettere. Si tratta di studenti - ma purtroppo spesso anche di insegnanti - che da anni a scuola parlano della Shoah, celebrano la giornata della memoria con film, incontri - fino a che è stato possibile - con sopravvissuti dai campi di sterminio. A Roma visitano il ghetto con guide che fanno della retata nazista del 16 ottobre il cuore delle loro spiegazioni. Si tratta insomma di giovani che sono stati allevati nella dimensione del ricordo, invitati a ricordare nella convinzione fiduciosa che bastasse il ricordo del genocidio ebraico a evitare qualunque suggestione antisemita. Si tratta di giovani a cui è stato martellato “mai più” in occasione di ognuna di queste celebrazioni, giovani e - ripeto - insegnanti che hanno ascoltato e applaudito presidenti e leader politici proclamare con foga “mai più” in ognuna delle suddette occasioni. Studenti e - ripeto - insegnanti che abitualmente parlano di nazisti e fascisti quasi con ribrezzo, che rinfacciano ancora agli attuali esponenti della destra le leggi razziali: ma sono gli stessi che oggi guardano con diffidenza i compagni o studenti ebrei presenti nelle loro classi. Che cosa è successo dunque, non possiamo non domandarci. In che cosa abbiamo sbagliato? In che cosa questa cultura della memoria si è inceppata, dove era nascosto il baco distruttivo? Io penso che in primo luogo l’errore è consistito, consiste, nel leggere la Shoah come un evento in qualche modo avulso dalla storia vera del periodo storico in cui avvenne. Ad esempio non collegandola alla fortissima diffusione dei principi dell’eugenetica che precedette e accompagnò lo sterminio degli ebrei e insieme ad essi degli omosessuali e degli zingari; non collegando la Shoah all’antisemitismo diffuso da secoli in tutto l’Occidente, sicché diviene possibile l’operazione di addossare tutta la colpa ai cattivi nazisti, che sono stati sconfitti e sono definitivamente scomparsi. Hanno contribuito non poco anche la retorica che accompagna fatalmente le commemorazioni, le stesse parole, sempre fatalmente le stesse, ripetute da uomini e donne rappresentanti del potere costituito che sollecitano la normale tentazione giovanile di contestare ciò che da essi viene detto considerandolo per ciò solamente falso e manipolato. Senza contare che spesso, lo sappiamo, cerimonie di questo tipo offrono l’occasione ad alcuni - forse a troppi - di schierarsi dalla parte del bene senza tanta fatica. C’è un solo libro, a mia conoscenza, che ha osato affrontare il tema della “gita ad Auschwitz” senza retorica, con occhio ironicamente spietato: “Serge”, della scrittrice ebrea Yasmina Reza. Fra ristoranti tipici, grandi magazzini in cui fare shopping, la visita al campo, almeno ai più giovani, sembra più un viaggio in un film dell’orrore che l’esperienza di una realtà spaventosa. Non per gli anziani, naturalmente, i quali riconoscono una propria zia nella foto di un gruppo di vittime esposta nel padiglione ungherese. Nelle riunioni che periodicamente si svolgono fra comunità ebraica e ministero dell’Istruzione per discutere come trasmettere la memoria, non sarebbe forse il caso, insomma, di esaminare con maggiore attenzione quello che finora si è fatto e soprattutto come lo si è fatto? Valditara: “C’è un ritorno dell’antisemitismo. La scuola deve fornire gli antidoti” di Marco Cremonesi Corriere della Sera, 3 novembre 2023 Il ministro dell’Istruzione: “In aula non si mettano in discussione l’Olocausto, i pogrom, le foibe. Sarò al corteo della Lega per i valori occidentali”. “La scuola costituzionale deve fornire gli antidoti contro qualsiasi rigurgito di discriminazione e di antisemitismo”. Giuseppe Valditara, leghista, è il ministro dell’Istruzione e ne è assolutamente convinto: “La scuola costituzionale è quella che insegna il giudizio. Quella del pregiudizio è la scuola fascista, comunista e di tutti i totalitarismi”. Si parla del professore dell’istituto Righi di Roma che avrebbe assegnato un tema prendendo spunto dalle posizioni di uno studente italo israeliano. Prenderà provvedimenti? “Di questo caso specifico non posso parlare, dato che sono in corso gli accertamenti. Posso dire che la direzione scolastica regionale del ministero si è subito attivata ed è stata svolta un’indagine interna alla scuola i cui contenuti sono ovviamente riservati. Le autorità competenti stanno valutando quali iniziative assumere”. È preoccupato per l’antisemitismo che sembra tornare anche nelle scuole italiane? “Io credo che dobbiamo denunciare questa recrudescenza, la comunità ebraica mi ha espresso una forte preoccupazione per il ritorno di un antisemitismo strisciante. Sono convinto che la scuola debba fornire gli antidoti contro tutto questo, contro ogni forma di discriminazione”. E come si contrasta questa tendenza che risorge? “L’Italia con il fascismo ha vissuto un modello di scuola che imponeva una verità di regime, falsificando i fatti storici e indottrinando gli studenti. Trasformando la scuola in uno strumento di propaganda del partito unico. Lo stesso è accaduto nei paesi comunisti. La scuola costituzionale è lontanissima da tutto questo”. La destra ha sempre contestato la scuola come sbilanciata a sinistra… “La scuola costituzionale si basa sulla verità dei fatti accertati. E quando non siano accertati educa al pluralismo delle fonti. Soprattutto, la scuola costituzionale educa al rispetto della persona a prescindere da nazionalità, razza, religione, orientamento sessuale. Il ruolo del docente è di far emergere un dibattito e una riflessione plurale. Nella condanna più totale delle aberrazioni del passato: di certo non mette in discussione l’Olocausto, i pogrom, lo sterminio staliniano dei liberi contadini, le foibe...”. Lei sabato andrà alla manifestazione leghista per “la difesa dei valori occidentali”? “Certo. È una manifestazione non contro qualcuno ma per qualcosa. Appunto per i nostri valori. Tra cui la tolleranza, che è un grande valore occidentale. Il che non significa non potersi difendere dagli intolleranti. Il pensiero liberale dice: nessuna tolleranza verso gli intolleranti”. In un momento di grandi divisioni è opportuna una manifestazione che potrebbe aumentare la polarizzazione? “Proprio in questo momento io credo sia importante affermare i valori occidentali di libertà, stato di diritto, laicità delle istituzioni, e ribadire che l’antisemitismo non tornerà, che non tornerà la discriminazione nei confronti di qualsiasi religione. Lo Stato laico è la garanzia di una società libera e tollerante. Se diciamo che questi valori non li possiamo affermare, significa che ci siamo arresi, che abbiamo perso e che la nostra civiltà è già morta”. Ministro, cambiamo argomento. È tra i delusi dalla manovra? Si aspettava di più per la scuola? “Niente affatto. La prima cosa che avevo chiesto al ministro Giorgetti erano le risorse per i contratti. E qui ci sono 5 miliardi per gli statali, di cui una parte importante andrà al milione e 200mila lavoratori della scuola. Abbiamo approvato in un mese il precedente contratto scaduto da anni, l’anno prossimo arriverà il nuovo contratto con ulteriori aumenti e a dicembre ci sarà già un anticipo”. Il presidente della Campania, il Pd De Luca, ricorre per l’autonomia regionale contro di lei, un ministro leghista. Non lo trova ironico? “Qui c’è un’evidente strumentalizzazione. La legge precedente, che a De Luca andava bene, prevedeva scuole a dimensioni fisse. Con la riforma del dimensionamento saranno le regioni a scegliere le dimensioni di una istituzione scolastica dove avere un preside e un direttore amministrativo titolari, anche alla luce delle esigenze di un territorio. Inoltre, contrariamente a quanto qualcuno va affermando, non verrà chiusa nessuna scuola che eroga servizi: sono 40 mila i plessi dove si studia e si insegna e resteranno 40 mila”. L’islamofobia, quella piaga razzista che ha conquistato il mondo occidentale di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 3 novembre 2023 No, i musulmani non sono tutti dei fanatici ma le prime vittime del fondamentalismo. Lo scorso 16 ottobre, nove giorni dopo i sanguinosi pogrom di Hamas, Wadea Al-Fayoume bambino palestinese di appena sei anni viene trucidato con 26 coltellate da uno squilibrato nella periferia di Chicago. Arrestato dalla polizia, l’uomo ha affermato di aver reperito le sue vittime per la fede musulmana e la provenienza palestinese in risposta agli attacchi dell’organizzazione islamista. Se la nuova guerra tra Israele e Hamas, come un enorme detonatore, sta provocando una ferale ondata di antisemitismo, questo vale anche per un pregiudizio speculare e di segno opposto: l’islamofobia. Assimilare tutti gli ebrei alle politiche nazionaliste del governo Netanyahu non è in effetti molto diverso dal credere che ogni palestinese, anzi, che ogni musulmano, sia in qualche modo contiguo al terrorismo jihadista o comunque al fondamentalismo religioso. A differenza dell’antisemitismo, pregiudizio millenario e pieno di stratificazioni storiche, l’islamofobia è un fenomeno relativamente moderno e in piena espansione. Il punto di svolta sono stati gli attentati dell’11 settembre 2001; prima d’allora il termine islamofobia era stato impiegato in modo saltuario e non sistematico da qualche pubblicazione accademica di studi coloniali e appare una sola volta in Orientalism, il monumentale saggio di Edward Said che racconta la storia delle civiltà orientali attraverso lo sguardo paternalista del mondo occidentale. Nel 1997 il termine è impiegato in un rapporto del think-tank britannico Runnymede Trust che segnalava la diffidenza crescente dei cittadini inglesi nei confronti della comunità musulmana. Ma è solo dopo l’attacco di al Qaeda a Torri gemelle e Pentagono, la successiva “guerra infinita” dell’amministrazione di George W. Bushe dei suoi rasputin neocon e la conseguente vague di attentati jihadisti dei primi anni duemila che l’islamofobia entra a titolo permanente nel corredo dei nostri pregiudizi nonché delle cronache quotidiane. Tra il 2000 e il 2001 negli Stati Uniti gli atti d’odio verso i musulmani sono aumentati del 1600% una tendenza che ha coinvolto in forme più o meno acute, più o meno discriminatorie, un po’ tutte le nazioni democratiche dove la paura o l’avversione dell’islam sono lievitate senza controllo. È la “globalizzazione dell’islamofobia” per impiegare le parole di Khaled Ali Beydun professore di diritto alla Wayne State School of Law del Michigan. Mettendo da parte la propaganda della destra identitaria e cristiana, che individua nell’immigrazione musulmana un pericolo per la nostra stessa civiltà, la deriva islamofoba dell’Occidente è avvenuta in forme subdole e mimetiche, per esempio attraverso le rappresentazioni dei media impastate con il peggior senso comune per cui ogni famiglia musulmana, sotto sotto, sarebbe un’incubatrice di integralismo violento e misogino. Prendiamo la Francia, il paese europeo in cui i conflitti comunitari sono più accesi: nel solo 2022 si sono registrati oltre 600 atti islamofobici tra discriminazioni, incitamento all’odio, insulti, sfregio dei luoghi di culto, minacce e aggressioni fisiche. In quell’anno peraltro si sono svolte le elezioni presidenziali con una campagna elettorale in buona parte incentrata sul pericolo islamico, e l’emergenza radicalizzazione tra i giovani delle banlieues. Non dimentichiamo che la Francia è stato anche l’obiettivo principe per la seconda ondata di terrorismo jihadista, quella legata all’insorgenza dello Stato islamico (Isis), basti pensare alle stragi dei vignettisti di Charlie Hebdo, del supermercato ebraico, del Bataclan e del lungomare di Nizza, e questo ha ingigantito le rappresentazioni distorte dell’Islam nonché la stessa risposta delle autorità. Come definire, se non attraverso l’islamofobia, il divieto di indossare il burquini sulle spiagge francesi o quello più recente di portare l’alabaya (che peraltro non è un simbolo religioso) nelle aule scolastiche? O come catalogare l’esclusione dei musulmani a dai principali centri di potere, politico, economico, culturale, pur essendo cittadini a pieno titolo. O l’uso spropositato della forza da parte della polizia verso i giovani di origine maghrebina delle periferie. L’ultimo episodio lo scorso luglio a Nanterre, sobborgo a nord di Parigi, quando il 17enne Nahel M viene freddato con un colpo alla nuca per non essersi fermato a un posto di blocco con il suo scooter. Un omicidio che ha scatenato settimane di guerriglia urbana nelle banlieues, con migliaia di arresti e centinaia di feriti, un film che nel corso degli anni si ripete sempre uguale a se stesso. E che rischia di arricchirsi di nuovi poco edificanti capitoli. L’incapacità di capire il dolore degli altri di Beppe Severgnini Corriere della Sera, 3 novembre 2023 I protagonisti dell’orrore sembrano interessati a causare sofferenza, più che a comprenderla. Sarebbe più onesto limitarsi a dire, come papa Francesco: la guerra è una sconfitta per tutti. Gli studenti palestinesi di una scuola di Nablus, in Cisgiordania, sono andati in visita al campo di sterminio di Auschwitz. Quando qualcuno ha chiesto perché lo avessero fatto, l’insegnante di filosofia ha risposto: “Restiamo nazionalisti, ma siamo tornati più umani”. Sembra di risentire Carlo Maria Martini, che amava quei luoghi: “Ci sarà la pace quando capiremo il dolore degli altri”. Questa storia risplende, come una piccola luce nel buio. L’orrore avvolge la Terra Santa - terra insanguinata, violata, oltraggiata - e tutto lascia pensare che non finirà presto: poveri figli di Abramo. Settimane, mesi, anni, che vanno ad aggiungersi a tanti altri anni, a qualche illusione e infinite delusioni. I protagonisti sembrano interessati a infliggere dolore, più che a comprenderlo. Finge di non capire Hamas, guidato da una cupola di miliardari fanatici in esilio, intrisi di odio per gli ebrei, decisi a usare due milioni di palestinesi come carne da macello. Non riesce a capire Israele: sconvolto da quanto è accaduto nel “sabato nero”, ha scelto una risposta spietata. Letteralmente: senza pietà. Uccidere i bambini in una guerra è un affronto al Dio di tutti. In Israele i cristiani sono 160mila. In Cisgiordania e a Gerusalemme, circa 80mila. Nella Striscia di Gaza, il Natale scorso, erano 1.017, di cui 135 cattolici. Il bombardamento che ha colpito la chiesa di San Porfirio, il 19 ottobre, ne ha uccisi 17: ne rimangono 1.000. Con la mattanza di Hamas, non c’entrano. Non hanno colpe, eppure soffrono. Capiscono il dolore degli altri. Ma sono pochi, spaventati, soli. È sembrato strano, e non ha aiutato, che i Patriarchi e i Capi delle Chiese in Gerusalemme nel comunicato del 7 ottobre non siano riusciti a nominare Hamas, responsabile di quell’azione demoniaca: la prudenza diplomatica non giustifica l’omissione. Ma, sul terreno, i cristiani si sono mossi. Gabriel Romanelli, il parroco di Gaza, ha aperto le porte a chi ha perso la casa nei bombardamenti, anche ai musulmani. “Da noi le famiglie possono trovare un po’ di energia elettrica garantita dai pannelli solari, dono prezioso della Chiesa italiana, e dell’acqua che attingiamo da un vecchio pozzo dentro la scuola”. Di nuovo, luci nel buio: ma il buio resta. La difficoltà di capire il dolore degli altri non riguarda solo chi si trova dentro il conflitto. Riguarda tutti noi, ed è perfino più grave perché non ha neppure l’attenuante della disperazione. Non parliamo solo dell’antisemitismo montante, che è sotto gli occhi di chiunque voglia vedere. Parliamo del livello sconfortante del dibattito pubblico in Italia. Faticano, alcuni amici di Israele, ad ammettere che in questa guerra stanno morendo molti innocenti: un silenzio moralmente inaccettabile. Faticano ancora di più coloro che, in Italia, hanno sempre sostenuto la causa palestinese. Non trovano il coraggio di condannare una dirigenza politica disastrosa in Cisgiordania, e terroristica a Gaza. Non capiscono che stanno offrendo una sponda agli antisemiti. Non trovano le parole per esprimere, al di là di qualche frase di rito, l’orrore per quanto è accaduto il 7 ottobre. Orrore indicibile, dirà qualcuno. Vero: ma bisogna provare a pronunciarlo. Certi silenzi - a sinistra, soprattutto - non sono dovuti soltanto a ragioni di schieramento, ai ricordi di un’antica militanza, a una conoscenza superficiale della storia, a un’ignoranza dei luoghi. Alla base, anche qui, c’è l’incapacità di capire il dolore degli altri. In giornate come queste, se il cuore non aiuta, la mente si perde. Diventa difficile pensare, faticoso comprendere, impossibile giudicare. A quel punto ci si muove con il vento, che soffia da ogni direzione: basta un’opinione televisiva, un’immagine in rete, una notizia sui social e ci si lancia in accuse sballate e difese grottesche. Sarebbe più onesto limitarsi a dire, come papa Francesco: la guerra è una sconfitta per tutti. Se ci abituiamo all’orrore, finiremo per non provarlo più. Il dolore non è dispiacere. È molto più serio, più grave, più istruttivo. Le leggi durante la guerra, la scelta tra forza e diritto nella reazione di Israele di Piero Ignazi* Il Domani, 3 novembre 2023 Iniziamo da una domanda scomoda, molto scomoda. Israele ha sempre ragione, qualunque cosa faccia? O anche questo paese, come tutti quelli che fanno parte dell’Onu, è vincolato al rispetto delle norme e delle convenzioni internazionali cui ha aderito, come la convenzione di Ginevra? Da molte parti si irride al richiamo al diritto internazionale nel conflitto in corso e lo stesso sentimento di sufficienza si applica anche ai lunghi decenni di occupazione israeliana del territorio palestinese (la Cisgiordania, Gerusalemme est e la Striscia di Gaza). La scienza politica insegna che nelle relazioni internazionali, così come a livello domestico, sono i rapporti di forza a contare, non certo le magne o piccole carte. Eppure, pezzi di carta come le costituzioni americane e francesi, e la dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, base per il testo delle Nazioni unite del 1948, sono pietre miliari nel processo di civilizzazione. La clava più nodosa vince sempre, ma la impugna il barbaro. E la società moderna ha cercato di disarmare i barbari, di controllare la violenza bruta, non solo contrapponendo una forza superiore, di cui Hiroshima e Nagasaki, ma anche Dresda e Amburgo sono i simboli più terribili, ma invocando il rispetto di regole, convenzioni, principi. Qui, il processo di Norimberga è il riferimento obbligato, così come quello ad Adolf Eichmann, contro il quale venne usata l’arma del diritto in quanto “Israele aveva recepito nel suo ordinamento quegli stessi principii derivanti dal diritto internazionale che col Processo di Norimberga si erano tradotti in giurisprudenza”, scrive Alberto Scigliano. Ora, sia dello jus ad bellum, cioè delle ragioni per cui si fa una guerra, che dello jus in bello, cioè come si devono comportare i combattenti, si è sempre fatto strame, a seconda delle convenienze. Ma da qui ad affermare che il diritto non ha alcuna importanza ne passa. Proprio perché il processo di de-barbarizzazione dell’umanità si basa sul riconoscimento di regole comuni di convivenza, comprese quelle che si adottano in guerra. Se invece vogliamo fare del diritto internazionale carta straccia, aboliamo l’Onu e tutte le organizzazioni internazionali, e torniamo alla legge della giungla. Meglio disporre di frame condivisi a livello globale e di strumenti cogenti per implementare le regole. Avere portato alla sbarra della Corte penale internazionale criminali come Milosevic, Karadzic e Mladic, quest’ultimo responsabile di aver trucidato ottomila civili bosniaci musulmani in cinque giorni (la strage del 7 ottobre, purtroppo, non è la più drammatica dei tempi recenti), costituisce un punto di merito del sistema Onu. Eppure, chi oggi ha invocato il rispetto del diritto e delle convenzioni internazionali, come il segretario delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, è stato ricoperto di insulti dalle destre intolleranti di ogni latitudine. Detto ciò, la soluzione del conflitto israelo-palestinese non può che rimandare alla politica. Un percorso impervio, anche se ci limitiamo a guardare alla parte israeliana. I lunghi governi Netanyahu, premier dal 2009 a oggi con una brevissima interruzione, hanno avuto l’obiettivo di cancellare ogni autonomia palestinese, stringendo d’assedio Gaza (che riceve, contingentati, acqua, cibo ed elettricità da Israele), e colonizzando a piè sospinto la Cisgiordania. Buona parte della società israeliana è cosciente dei danni incalcolabili di queste scelte scellerate, e le denuncia. Lo dimostra Hagar Shezaf quando ha scritto, il 23 ottobre, su Haaretz - non su al Jazeera - che i coloni e l’esercito hanno inflitto ad alcuni palestinesi arrestati un trattamento inumano, fatto di “cigarette burns, beatings, attempted sexual assault”. Questo esempio indica che l’opinione pubblica israeliana riconosce per prima che il suo paese non ha sempre e comunque ragione, e che i diritti vanno rispettati ovunque e con chiunque. L’Occidente, e in prima fila gli amici di Israele, devono allora decidere se sostenere chi, da decenni, invoca una soluzione della questione palestinese con il riconoscimento della piena e totale indipendenza di quel popolo, o piuttosto chi punta a una totale annessione e sottomissione attraverso la confisca illegale e l’occupazione di terre, adottando un sistema di simil-apartheid. Questa è la scelta, tra la forza e il diritto. *Politologo Diritti umani, il paradosso dell’Iran all’Onu di Greta Privitera Corriere della Sera, 3 novembre 2023 L’ambasciatore alle Nazioni Unite Ali Bahreini supervisiona la conferenza in cui si discute del ruolo di scienza e tecnologia nella promozione dei diritti umani. Nel suo Paese, intanto, si succedono esecuzioni, arresti e violenze. Sadeq Tajik e Yadollah Farokhi sono stati impiccati all’alba. Quando sorge il sole e le città ancora dormono è il momento prediletto dal regime per punire i cittadini che infrangono le sue leggi. Lo ha fatto anche ieri, nel giorno in cui ha assunto la presidenza del Forum sociale del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite. Una coincidenza sfortunata? Vediamo: se avesse assunto la presidenza due giorni prima, secondo la ong Hrana, l’avrebbe iniziata mentre giustiziava altri cinque detenuti; sei giorni prima, sarebbe coincisa con la data della morte di Armita Garavand, la sedicenne uccisa dalla polizia morale perché non aveva il velo. Non c’è ora in Iran in cui non ci sia un arresto ingiusto, un’aggressione per dei capelli al vento, una minaccia per un post sui social, un’impiccagione. Eppure, in uno scontro tra realtà e palazzi di vetro, il 2 e il 3 novembre il regime degli ayatollah, con l’ambasciatore alle Nazioni Unite Ali Bahreini, supervisiona la conferenza in cui si discute del ruolo di scienza e tecnologia nella promozione dei diritti umani. Quale contributo innovativo potrà portare l’ambasciatore del Paese che usa la tecnologia per il riconoscimento facciale delle donne senza velo? La nomina era arrivata a maggio, non senza critiche e richieste di revoca. Il Forum di Ginevra è un consesso sui diritti umani, una riunione più simbolica che decisiva, ma questo non placa la rabbia del popolo iraniano che si chiede come possa l’Onu lasciare nelle mani della Repubblica islamica - sostenitrice di Hamas, che uccide Mahsa Amini - un incontro come questo. A luglio, Josep Borrell ha difeso la nomina dell’Iran facendone una questione di rotazione regionale. Ma la ong UN Watch ha spiegato che il gruppo dei Paesi asiatici a cui appartiene la Repubblica islamica ha ricoperto la carica quattro volte negli ultimi sei anni. Da Teheran arriva un ultimo dato: a ottobre, sono stati impiccati 78 prigionieri.