Il panpenalismo che riduce al minimo lo Stato sociale di Alberto Scerbo* e Orlando Sapia** Il Dubbio, 30 novembre 2023 In nome della sicurezza sono aumentate le categorie dei “nemici” da punire. Negli ultimi decenni si è realizzato un’accentuazione delle istanze repressive all’insegna di una legislazione “emergenziale” senza fine. Si sono andate sviluppando le dinamiche tipiche del “populismo penale” che hanno prodotto un aumento delle fattispecie delittuose e degli edittali di pena, la creazione di tecniche legislative di normazione che comportano l’anticipazione della soglia punitiva e di circuiti di esecuzione penale differenziata. Uno sguardo rapido, a titolo di esempio, ai più recenti interventi può essere utile. Nel 2017 la riforma c. d. Orlando, L. n. 103/ 2017, ha aumentato le pene per il furto in abitazione e con strappo, per la rapina e per l’estorsione. In seguito, il decreto c. d. Salvini, D. L. n. 113 del 2018, ha disposto un importante aumento delle pene previste per il reato di cui all’art. 633 c. p. “Invasioni di terreni ed edifici” e ha reintrodotto i reati di mendicità e blocco stradale. Sempre nel medesimo solco, sono le previsioni relative alla misura di prevenzione del Daspo Urbano, introdotto dal decreto c. d. Minniti D. L. n. 14/ 2017 e poi ampliato dal decreto Salvini, ovverosia esecutivi di differente colore realizzano la medesima politica. Nel 2022, sempre con decretazione d’urgenza, è stato introdotto l’art. 633 bis c. p. che punisce l’invasione di terreni o edifici in occasione dei rave party. Successivamente, a seguito della tragedia di Cutro, si è avuta l’emanazione del D. L. n. 20/ 2023, c. d. decreto Cutro, che ha inasprito le pene per il reato di immigrazione clandestina e introdotto il delitto di “Morte o lesioni come conseguenza di delitti in materia di immigrazione clandestina”, punito con la reclusione da venti a trenta anni. È del mese di settembre l’emanazione del D. L. n. 123/ 2023, c. d. Decreto Caivano, che contiene norme finalizzate ad ampliare l’applicazione delle misure cautelari nei confronti dei minori. Infine, recentissimo è un comunicato stampa, n. 59, del consiglio dei Ministri, nel quale si dà notizia dell’approvazione di tre disegni di legge che introdurranno, qualora diverranno legge, nuove norme in materia di sicurezza. Spicca la modifica della normativa relativa al differimento della pena per donne incinte e madri di bambini fino a un anno di età, così da rendere tale rinvio facoltativo anziché obbligatorio, come è attualmente. Tale norma, pensata nei riguardi di alcune decine di donne di etnia Rom e dei bambini al seguito, rischia di confinare all’interno del mondo penitenziario le madri ed i loro neonati. Tra le altre novità, oltre ad aumenti di pena per varie fattispecie di reato, si segnala la creazione del reato di “rivolta in istituto penitenziario”, art. 415 bis c. p., che probabilmente realizzerà un’anticipazione della soglia punitiva, così da colpire anche condotte non concretamente offensive. La previsione normativa dimostra come il Legislatore non tenga in alcuna considerazione il fatto che, laddove vi sono state rivolte nelle carceri ciò è avvenuto per le condizioni di estrema sofferenza subite dalla popolazione detenuta e causate dal cronico problema del sovraffollamento carcerario valso allo Stato italiano alcune condanne dinanzi alla Cedu. In sostanza, la parola d’ordine della sicurezza pubblica ha soppiantato il modello penalistico di matrice illuministica costituzionalmente orientato. Ha prodotto la frantumazione del principio di proporzionalità della pena, ha rinforzato gli istituti, più fluidi, della prevenzione a detrimento della tipicità legale. Le categorie di “nemici” non sono più solamente i mafiosi e i terroristi, ma, a seconda delle circostanze, i rom, i rumeni, i migranti, i sex offenders, i giovani frequentatori di rave party, in generale tutti coloro che appartengono al mondo degli “esclusi, cioè dei non meritevoli, dei marginali, dei nuovi barbari”. Compare lo spettro del novecentesco diritto penale d’autore (Täterstrafrecht), in cui la colpevolizzazione, il giudizio e la pena non riguardano più ciò che si è fatto, ma solamente ciò che si è. La continua implementazione del sistema penale a garanzia della presunta sicurezza della comunità evidenzia una crisi di legittimazione dello Stato, che ha rinunciato alle sue funzioni sociali ed economiche. Lo Stato minimo nei contenuti sociali, diviene massimo nell’esercizio del potere punitivo. *Ordinario Filosofia del diritto presso Università degli studi “Magna Graecia” di Catanzaro **Avvocato, segretario Camera Penale “Alfredo Cantàfora” di Catanzaro Muri e persone: restare umani nei contesti carcerari di Ezio Farinetti universitadellastrada.com, 30 novembre 2023 Le pagine dei giornali dei mesi passati, insieme ai grandi e tragici eventi che stanno segnando questo doloroso autunno, hanno spesso riportato notizie di indagini e provvedimenti relativi ad accuse di botte, abusi e torture perpetrate da agenti penitenziari nei confronti di soggetti detenuti, nelle carceri di Cuneo, Torino, Ivrea, Biella e - almeno per uscire dal contesto regionale - dell’Isola d’Elba. Si tratta di situazioni diverse, ma tutte accomunate da un’ipotesi accusatoria di violenze pesanti e collettive. Questi eventi ci fanno pensare, sentiamo il bisogno di una chiave di lettura che possa permetterci di guardare a quanto succede senza ridurci ad un’esclusiva considerazione caso per caso. Ovviamente la responsabilità individuale è evidente, e l’auspicio è che gli autori di questi crimini vengano sanzionati dalla Giustizia. Sento però l’esigenza di non derubricare quanto successo ad una pura variabile individuale e nemmeno ad un semplice contagio negativo nel comportamento tra colleghi: abbiamo bisogno di superare la riduttiva retorica delle “poche mele marce” e ragionare sulla potenzialità generatrice di violenza di un contesto istituzionale e restrittivo come il carcere. Senza alcuna ambizione di assoluzione personale, resta però utile cercare di comprendere come iniziative di violenza, prevaricazione e umiliazione sembrano emergere “naturalmente” dallo sfondo dell’esperienza penitenziaria, in Italia e nel resto del mondo: non normalizzare questo sopruso, continuare a chiedersi perché avvenga è un segno di rispetto verso le vittime e una ricerca precaria di spazi di cambiamento. Le pagine di “Sorvegliare e punire. La nascita della prigione” di Michel Foucault ci aiutano almeno parzialmente a inquadrare queste dinamiche, così come altre importanti letture sul tema. Gli episodi citati mi hanno però immediatamente portato alla memoria il percorso di ricerca di Philip Zimbardo, psicologo statunitense eterodosso che negli anni Settanta del secolo scorso ha approfondito le variabili situazionali e ambientali che contribuiscono a generare la violenza. È celebre per l’esperimento del carcere di Stanford, in cui coinvolse una ventina di studenti volontari nella simulazione di due settimane di esperienza carceraria verosimile, riprodotta nello scantinato dell’Università californiana; egli dovette concludere prematuramente la prova per una drammatica escalation di comportamenti sadici e violenti delle finte guardie nei confronti dei finti detenuti (il racconto dettagliato giorno per giorno e le riflessioni dell’autore le possiamo trovare nel volume L’Effetto Lucifero. Cattivi si diventa?). Perché persone che in contesti come quelli famigliari e amicali si muovono con un sufficiente livello di sensibilità, se si ritrovano in certi ruoli, in certi ambienti e con un potere a disposizione, si permettono gesti che mortificano altri soggetti e li rendono meri oggetti di abuso, prevaricazione e degradazione? Quanto l’ambiente, le dinamiche gruppali, l’esercizio del potere innescano derive disumanizzanti altrove impensabili? Si tratta di una riflessione importante perché generativa e potenzialmente trasformativa. Non possiamo ovviamente generalizzare, negli anni in cui con diversi progetti l’Università della Strada ha lavorato nei contesti penitenziari ha incontrato operatori - di trattamento così come di sicurezza - di grande competenza e umanità, capaci di mantenere una dimensione empatica e relazionale in un ambiente duro come quello carcerario. Abbiamo però anche respirato un’aria più pesante, abbiamo colto i segnali di quel processo di disumanizzazione e di slatentizzazione della violenza che Zimbardo racconta nelle sue pagine. L’abbiamo ritrovato sia in manifestazioni aperte di prevaricazione che nella patina di gregarietà e omertà che talvolta circonda questi spazi: forse una strategia di cambiamento può consistere nel continuare a formare e sensibilizzare il gruppo degli agenti affinché possano dissolversi spazi di collusione e implicita copertura. Insieme a queste dinamiche violente, più o meno esplicite, abbiamo anche incontrato la sofferenza degli operatori penitenziari, che lavorano ore e giorni in un contesto di restrizione e ne assorbono inevitabilmente il malessere e la tensione circolanti. Diventa necessario non lasciare soli i singoli agenti, condividere e prendersi cura da un punto di vista operativo, motivazionale ed emotivo, per non scivolare nelle pericolose derive del burnout o di una modalità reattiva di gestione di ogni evento stressante. Interrogarsi sulla potenzialità generativa di violenza dell’ambiente carcerario non significa semplificare né assolvere nessuno, è chiedersi se azioni concrete di revisione dei contesti, delle pratiche, degli strumenti operativi a disposizione e percorsi di condivisione, formazione e supporto agli operatori di sicurezza possano permettere di arginare derive di abuso e bonificare questi ambienti, in sé segnati dalla fatica e dalla reclusione, da dinamiche disumanizzanti. Carcere, lutto e sofferenza. Come l’istituzione abbandona i detenuti a loro stessi di Luna Casarotti* monitor-italia.it, 30 novembre 2023 La storia di Stefania Calabria è la storia di una singola persona, ma rappresenta un dramma che coinvolge tanti detenuti. Non poter essere accanto a un familiare malato o partecipare a un funerale a causa delle restrizioni dettate dalla legge può avere un impatto pesantissimo sulla salute mentale delle persone recluse. Durante il ricovero del padre in ospedale, mentre l’uomo lottava per la sua vita, a Stefania è stata revocata la misura alternativa e non le sono state concesse tempestivamente le chiamate con il padre, nonostante avesse presentato dettagliata documentazione medica per dimostrare la gravità della situazione. Tra le varie richieste, l’istituto in cui Stefania è detenuta pretendeva il deposito del contratto della SIM che sarebbe stata utilizzata per le chiamate. Appena ha saputo dell’aggravamento di suo padre, Stefania ha chiesto un permesso di necessità per andare a trovarlo, ma non ha ricevuto risposta. A oggi non si sa neppure se la richiesta sia stata inviata al magistrato competente dal carcere o sia rimasta in un cassetto. Fatto sta che Stefania non ha potuto vedere suo padre, né addirittura scambiarci qualche parola al telefono prima che morisse. Ben diciotto giorni dopo il decesso, a Stefania è stato concesso un breve permesso “per poter partecipare al funerale” di suo padre, un segnale di quanta poca considerazione venga data alla sofferenza e al bisogno di supporto emotivo dei detenuti. È estremamente complesso, tra l’altro, affrontare il momento dell’addio a una persona cara sapendo che presto bisognerà tornare in carcere, in isolamento dal proprio mondo affettivo, lontano dai propri cari e dalla possibilità di vivere con loro il lutto. Permessi in circostanze simili sono da considerarsi di fatto un privilegio concesso solo a pochi detenuti, spesso in casi specifici legati a condanne non troppo severe o alla non pericolosità del detenuto, ostacolati in ogni caso da lunghe e complesse procedure burocratiche. Un iter che si trasforma in una vera corsa contro il tempo, con il risultato che la maggior parte dei detenuti non può beneficiare di questa opportunità e dare un ultimo saluto al proprio caro. Altra pratica inaccettabile è quella di portare i detenuti scortati dagli agenti penitenziari in manette ai funerali, umiliazione che aggrava la condizione psicologica in un momento già estremamente difficile come quello dell’ultimo addio. Per tutti i detenuti che hanno vissuto esperienze del genere, le conseguenze psicologiche sono enormi. La privazione delle relazioni familiari, soprattutto in momenti di grande fragilità come lutto o malattie gravi, provoca ansia, stati depressivi, frustrazione, rabbia e senso di abbandono. Stati che talvolta finiscono per inibire o addirittura compromettere il percorso di riabilitazione dell’individuo, creando nuove aree di vulnerabilità nella sua personalità. Se, come sentiamo dire di continuo, obiettivo della pena sono la riabilitazione e il reinserimento del reo, è necessario garantire ai detenuti il diritto di essere umani, e da ciò non può prescindere la possibilità di stare accanto alle persone care nei momenti di bisogno o la presenza di un adeguato supporto psicologico in queste delicate fasi. I detenuti si trovano invece ad affrontare traumi e difficoltà emotive senza alcun aiuto professionale, spazi sicuri di ascolto e possibilità di elaborare le proprie emozioni. Il 6 novembre scorso Stefania aveva intrapreso uno sciopero della fame per ottenere i colloqui interni con il suo fidanzato. Anche a lui era stata revocata la misura alternativa (obbligo di firma) ed era stato tra le ultime persone a stare vicino al padre della sua compagna. Con questa protesta Stefania voleva dimostrare la sua determinazione e l’importanza che attribuiva a questa richiesta. I colloqui interni con il fidanzato sono fondamentali per il suo benessere emotivo e psicologico. In settimana gli sono stati concessi e ha terminato la protesta. *Associazione Yairahia Ets *** Il Gruppo di supporto psicologico per i familiari dei detenuti che si sono tolti la vita o che sono deceduti per altre cause in carcere nasce nel mese di luglio, dopo un contatto tra alcuni attivisti e attiviste e i familiari di un ragazzo che si sarebbe suicidato inalando il gas del suo fornelletto, nel carcere di Modena. È possibile seguire le riunioni del gruppo ogni venerdì, dalle 17:45 alle 20:00. Le riunioni avvengono tramite una piattaforma on-line, con il supporto del dottor Vito Totire, psichiatra, attivista e portavoce del circolo “Chico Mendez” di Bologna. Durante gli incontri ognuno può raccontare la propria storia, parlare del proprio dolore e confrontarsi con altre persone che hanno vissuto la tragica esperienza di familiari morti all’interno delle carceri. Il link per accedere alla riunione settimanale viene pubblicato qualche giorno prima dell’incontro sul gruppo Telegram “Morti in carcere” e su quello Whatsapp “Sportello di supporto psicologico per i familiari dei morti in carcere”. È possibile ricevere informazioni, ma anche raccontare in forma scritta la storia propria e del proprio familiare, anche scrivendo all’indirizzo e-mail dell’associazione Yairahia Ets (yairaiha@gmail.com). Avvocati, volontari, membri di associazioni, garanti delle persone private della libertà sono invitati a unirsi e a condividere il proprio punto di vista. “Per Aspera ad Astra”. Nelle carceri italiane detenuti a teatro per l’educazione affettiva kisskiss.it, 30 novembre 2023 L’educazione ai sentimenti, alla gestione dell’emotività è il tema del momento dopo i noti fatti di cronaca nera che hanno sconvolto l’opinione pubblica italiana nell’ultimo mese. È un tema importante che andrebbe affrontato a scuola, in casa, in generale all’interno della società civile. E per chi è “sospeso” dalla società civile perché detenuto? Negli ultimi anni, il panorama carcerario italiano ha assistito a iniziative significative volte a promuovere l’inclusività e il recupero culturale dei detenuti. Progetti innovativi che, oltre a favorire la crescita individuale di chi è stato condannato alla reclusione, generano impatti positivi su tutta la società. È davvero notevole e pioneristica l’iniziativa di Unict (università di Catania) nel garantire il diritto agli studi universitari dei detenuti. Attraverso la Conferenza Nazionale Universitaria dei Poli Penitenziari (Cnupp), sono decine gli studenti attualmente reclusi, che hanno ripreso a studiare; anche perché l’iscrizione agevolata e il supporto didattico offerto contribuiscono a trasformare la detenzione in un periodo di formazione feconda. Altre iniziative mettono a confronto i detenuti non solo con le loro conoscenze culturali ma con il proprio io, con la propria intelligenza emotiva e sociale, sperimentando ruoli e personaggi diversi, come solo a teatro si può fare. Già negli anni Ottanta, il teatro in carcere ha assunto nuovi significati, diventando un’attività laboratoriale e creativa che mira alla riscoperta delle capacità individuali. Il progetto “Per Aspera ad Astra” promosso da Acri e sostenuto da dieci fondazioni, coinvolge 250 detenuti in percorsi formativi artistici e professionali nel campo teatrale. La Compagnia della Fortezza, con trent’anni di esperienza, guida questa iniziativa che trasforma detenuti in attori, scenografi, e tecnici teatrali (fonici, scenografi, sarti, etc.). Un cambiamento che non è solo sperimentale ma contribuisce in modo tangibile alla crescita emotiva, culturale e sociale dell’intera comunità e non solo dei detenuti coinvolti. Non tutti riescono a trovare lavoro nel teatro ma tutti acquisiscono una nuova cassetta degli attrezzi da utilizzare nel “mare fuori”. Una cassetta degli attrezzi che ha a che fare anche con il proprio stile di vita come nel caso de “La Canoa della Salute” a Rebibbia, che non è il titolo di uno spettacolo ma di un Progetto dell’associazione Atena Donna. Con questa iniziativa si coinvolgono le detenute in attività di prevenzione e formazione sulla cura di sé. L’iniziativa, fortemente sostenuta dal Ministro della Giustizia Marta Cartabia, mostra come l’attenzione alla salute delle detenute possa essere un passo significativo verso il loro recupero emotivo. Il progetto FID (Fare Impresa in Dozza) è un altro esempio concreto di come il carcere possa diventare un luogo di formazione e reinserimento professionale. Un’azienda meccanica operante nella Dozza, il carcere di Bologna, offre formazione continua ai detenuti - affiancati da pensionati in veste di tutor - dimostrando che dare una seconda possibilità non solo è un atto di civiltà ma anche un’azione economicamente “positiva”. Il successo del progetto, tuttavia, si riflette soprattutto nei tassi di recidiva drasticamente ridotti nelle persone coinvolte nell’iniziativa. Il recupero culturale dei detenuti dà nuova luce al concetto di carcere, che può e deve diventare un luogo di cambiamento e di crescita. Se vuoi saperne di più, Luca Iovine e Raoul parleranno di questi temi sabato mattina alle 8.25 nella rubrica “Economia per tutti”. Il recupero culturale dei detenuti dà nuova luce al concetto di carcere, che può e deve diventare un luogo di cambiamento e di crescita. Se vuoi saperne di più, Luca Iovine e Raoul parleranno di questi temi sabato mattina alle 8.25 nella rubrica “Economia per tutti”. Carriere separate, Nordio prende tempo. Ma Forza Italia non ci sta di Simona Musco Il Dubbio, 30 novembre 2023 Il ministro prova “salvare” Crosetto dopo le sue dichiarazioni sulle toghe: “Si riferiva al caso Palamara”. Carlo Nordio rimanda la riforma della separazione delle carriere. Proprio mentre conferma la volontà di andare fino in fondo, con un’intervista al Corriere della Sera nella quale stempera la polemica che ha investito il ministro Crosetto e tenta di tranquillizzare le toghe, il guardasigilli sposta in avanti la timeline della proposta più odiata dalla magistratura, perché la priorità, dice, è il premierato. Impossibile proporre un referendum su entrambi i temi, dunque di separare le carriere se ne parlerà più tardi. “Questa riforma passa attraverso una revisione costituzionale e un referendum - ha poi ribadito a Caivano -, ed oggi non possiamo inserire un argomento spurio che va collegato alla riforma del Csm e all’obbligatorietà dell’azione penale. Si farà in primavera”. In mezzo c’è tutto il tempo per trovare un nuovo ostacolo, se non fosse che a vigilare c’è Forza Italia, che sul punto non è disposta a concedere nulla. “L’agenda parlamentare, comunque la veda il ministro, va avanti”, spiega un esponente di primo piano di FI. Insomma, i lavori in Commissione Affari costituzionali non subiranno alcuno stop, non finché i forzisti avranno voce in capitolo. Anche perché altrimenti, continua la fonte, “sarebbe un problema politico”. Tant’è che il relatore della proposta, il presidente della Commissione Nazario Pagano, precisa: “Premierato e separazione delle carriere hanno eguale importanza, pensiamo che la separazione delle carriere abbia la necessità di essere affrontata subito”, dice a RaiNews24. Che non ci sia intenzione di attendere lo conferma anche Alessandro Cattaneo, deputato azzurro e responsabile dei dipartimenti del partito, intervenuto ieri a Omnibus. “Le riforme devono andare di pari passo. Per noi di Forza Italia la riforma della giustizia rappresenta la priorità. Gli altri avanzeranno le loro, c’è il premierato, c’è l’autonomia. Bisogna essere conseguenti in Parlamento e Forza Italia sarà motore di questo”, conclude. Le opposizioni, intanto, accusano Nordio proprio di immobilismo. “Che fine ha fatto la riforma della giustizia?”, si chiede Raffaella Paita, coordinatrice nazionale di Italia Viva. “Noi apprezziamo il ministro Nordio e lo sosteniamo ma, nella sua intervista di oggi (ieri, ndr), egli non chiarisce se la porterà avanti, e anzi la sottopone a una serie di variabili, come la riforma costituzionale. Noi di Italia Viva - conclude Paita - pensiamo invece che la giustizia debba essere riformata in senso garantista. Le componenti garantiste del governo, che pure ci sono accanto alle tante giustizialiste, devono farsi sentire”. L’idea di fondo è che il governo stia tentando di evitare ancora una volta la guerra con la magistratura. Una guerra che rimane in potenza e che le dichiarazioni del ministro della Difesa Guido Crosetto - a cui avrebbero riferito di “riunioni di una corrente della magistratura in cui si parla di come fare a “fermare la deriva antidemocratica a cui ci porta la Meloni” - stava per trasformare in atto. L’esecutivo è dunque corso ai ripari. Prima con lo stesso Crosetto, che ha telefonato al presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia - secondo cui il ministro avrebbe accusato la magistratura di un tentativo di “golpe giudiziario” - per concordare un incontro chiarificatore, poi con Nordio, che ha provato a mettere una pezza riconducendo le parole del collega al passato. Un tentativo complicato, dato il riferimento esplicito del ministro della Difesa all’attuale esecutivo. Il guardasigilli ha riferito le parole del collega al caso Palamara, caso rispetto al quale “c’è ancora disagio da parte dei cittadini - ha sottolineato -. Sappiamo che ci sono dei magistrati che parlando tra di loro dicevano che bisognava attaccare Salvini anche se era innocente. Una frase blasfema e sacrilega. Disonora la toga che un magistrato, conoscendo la sua innocenza, attacca una persona. Questa è una ferita ancora aperta. Perché quello non era l’unico episodio, ma evidentemente molte conversazioni non sono mai state trascritte, una chiara disparità di trattamento per alcuni magistrati. Sì dovevano conoscere tutte le conversazioni di Palamara. Ci sono tante cose su cui bisogna ancora fare chiarezza”. Insomma, un modo per buttare la palla in tribuna, nonostante il riferimento chiaro di Crosetto a Meloni. La questione verrà chiarita in Parlamento, come chiesto dalle opposizioni. Ma secondo il deputato di Azione Enrico Costa, “più che Crosetto, sarebbe interessante se a riferire in Parlamento venisse il ministro Nordio, spiegando che cosa ci sia di mezzo tra il suo “dire” ed il suo “fare” - ha sottolineato -. Il suo “dire”, nelle dichiarazioni programmatiche, era tutto un fiorire di buone intenzioni che abbiamo sostenuto. Il suo “fare” va in direzione opposta”. E ad attaccare è anche Riccardo Magi, segretario di +Europa. “Il governo sta facendo il contrario rispetto ai principi che Nordio enunciava prima di diventare ministro. Ma di quale riforma della giustizia parliamo? - ha detto a RaiNews24 - A me sembra che questo governo faccia caciara, ma in realtà, al suo interno non c’è un accordo sulla riforma della giustizia che questa maggioranza vuole portare avanti”. Compresa la separazione delle carriere, che anche con questo governo “non ha fatto un passo avanti”. La politica italiana è sottomessa ai pm, così la riforma della giustizia è impossibile di Piero Sansonetti L’Unità, 30 novembre 2023 La destra cavalca un giustizialismo che produce moltissimi voti. La sinistra vede nell’alleanza con la magistratura l’unica possibilità di resistere e di sferrare dei colpi. Occorrerebbero degli statisti: ne avete visto qualcuno in giro? Il ministro Crosetto ha sollevato un problema serio. Quello dell’uso della giustizia a fini politici da parte di settori molto potenti della magistratura. Si è aperta una polemica, naturalmente, per la semplice ragione che la magistratura - e specialmente la magistratura associata - gode di un forte sostegno di settori importanti della stampa, e con facilità stronca qualunque attacco mediatico. Mi pare che Crosetto sia stato messo all’angolo anche dai suoi, che si sono fatti impaurire dai giornali. Quasi nessuno, però, immagina che Crosetto abbia “inventato”. È molto, molto probabile che Crosetto abbia detto esattamente la verità. Qual è il problema? La politica italiana è bloccata da due opposti giustizialismi, che si combattono tra loro, ma alla fine entrambi operano a difesa dalla magistratura e determinano in questo modo la sottomissione della politica all’Anm (cioè all’associazione dei magistrati) e il dominio della magistratura sulla società e sulle classi dirigenti. Torno tra qualche riga sull’Anm, prima vorrei spiegare cosa sono i due giustizialismi. C’è quello cosiddetto di sinistra, che è vicino alle correnti di sinistra delle Procure - sostenuto dai tre giornali con un maggior grado di dipendenza dalle Procure: Il Fatto, Repubblica e Il Domani - e che di solito usa l’arma giudiziaria per indebolire lo schieramento politico di destra e le classi dirigenti dell’economia e della finanza. Poi c’è il giustizialismo di destra, non meno esteso, che chiede manette e ferocia verso le classi più deboli, soprattutto verso il sottoproletariato e il popolo degli immigrati. Ma anche verso i giovani, soprattutto se politicamente impegnati. Tra questi due giustizialismi c’è una differenza. Il giustizialismo di destra è sempre molto attivo nella difesa delle classi dirigenti. Cioè è attivo nel campo garantista quando la magistratura picchia in alto. E si esprime in forme giustizialiste solo quando picchia in basso. Il giustizialismo di sinistra invece è molto attivo nel sostenere l’attacco della magistratura (delle Procure) verso la politica, soprattutto di destra, ma non si scalda a difesa dei più deboli. Cioè difetta molto nella fase garantista. Specie quando è al governo. Per spiegarci basta fare due esempi: il comportamento repressivo dei governi di sinistra verso i migranti (nel gergo politico si chiama “minnitismo” e non è molto meno duro del “salvinismo”), e la sostanziale indifferenza verso altre operazioni giustizialiste dei governi di destra. Non c’è stata una rivolta di sinistra, negli ultimi mesi, per le norme incostituzionali contro i migranti, o contro le Ong. E nemmeno, recentemente (escluse poche eccezioni tra le quali quella dell’ex parlamentare Paolo Siani), quando il governo ha approvato un decreto che obbliga i magistrati a mandare in cella i neonati, insieme alle loro madri, in caso di recidiva (cioè: di sospetto di recidiva). C’è stata la rivolta invece - a difesa della magistratura - quando Crosetto ha accusato una corrente di sinistra della magistratura. La fotografia che ne esce è questa: spallucce per un neonato in carcere, scandalo per Crosetto. La ragione per la quale la destra passa per garantista e la sinistra no, sta esattamente nelle cose che ho scritto. La destra ha un suo “angolo” garantista, e si infiamma quando viene colpita. La sinistra non si infiamma mai. I due giustizialismi sembrano contrapposti e nemici. In realtà sono affiancati e oggettivamente alleati. La forza della magistratura associata sta tutta lì. La magistratura associata sa giocare benissimo con questi due giustizialismi, li sa far funzionare, rendere complementari e li sa mettere in sinergia. In questo modo ha costruito un muro invalicabile che perpetua il suo potere e le sue capacità di interdizione che annulla qualunque tentativo vero di riforma della giustizia. Protagonista assoluto di questo continuo manovrare dei rappresentanti delle Procure, che assicurano l’immobilità dei governi - e l’immediata caduta dei ministri della Giustizia che provano ad avviare delle riforme - è l’Anm, l’associazione dei magistrati. Organismo potentissimo, poco conosciuto nell’opinione pubblica (lavora benissimo nell’ombra, adoperando a suo favore l’esposizione mediatica solo di alcuni dei suoi membri) e probabilmente assolutamente illegale. La Costituzione sostiene che il giudice deve essere indipendente, autonomo e deve rispondere solo alla legge. Non si sa se la Costituzione si riferisse solo al giudice o anche al ben più potente Pm. I magistrati però hanno sempre sostenuto che l’autonomia riguarda anche il Pm, e che è sacra. Può un giudice essere autonomo e rispondere solo alla legge, se fa parte di una corrente politica della magistratura, e di un’associazione, assolutamente politica, come è l’Anm? E così facendo, che garanzie offre ai cittadini, agli indiziati, agli imputati? Naturalmente nessuna, anche perché è proprio il magistrato a tradire sistematicamente, in questo modo, lo spirito costituzionale. L’unica speranza per l’imputato è che il giudice non sia della stessa corrente del Pm. E quindi? Quindi non è possibile nessun ottimismo. La magistratura ha ancora largamente in mano il timone. Comanda. Decide. Condiziona la politica ed esercita un potere spropositato di sopraffazione nei confronti dei media e dei singoli cittadini. Anche per noi giornalisti, mettersi contro la magistratura, anche solo criticare, è una cosa spericolata: ci espone a un rischio enorme. Anche perché, di solito, le nostre organizzazioni di categoria ci difendono sempre se siamo attaccati dai politici, mai e poi mai se siamo attaccati, con vere e proprie intimidazioni, da parte dei magistrati. C’è la speranza che i due giustizialismi si sciolgano? No. Perché la destra cavalca un giustizialismo che produce moltissimi voti. Che le permette di impadronirsi della pancia del paese. La sinistra, che oggi è molto debole, vede nell’alleanza con la magistratura l’unica possibilità di resistere e di sferrare dei colpi. Occorrerebbero degli statisti per rompere questo circolo vizioso. Appunto: degli statisti. Ne avete visto qualcuno in giro? Giustizia, la linea di Palazzo Chigi: Delmastro non si tocca. L’affondo Pd per la sfiducia di Monica Guerzoni Corriere della Sera, 30 novembre 2023 L’ipotesi della mozione di sfiducia. Ma per FdI è un processo nato morto. A Palazzo Chigi la (brutta) notizia era ritenuta da giorni inevitabile. Giorgia Meloni aveva messo nel conto il processo per il sottosegretario alla giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove, che dieci mesi fa aveva difeso con forza a costo di innescare un durissimo scontro con la magistratura. E ieri pomeriggio, quando la botta è arrivata, la reazione nel governo e nei gruppi parlamentari è stata di cautela e di attesa: “Aspettiamo, vediamo che posizione prende il presidente del Consiglio...”. La leader della destra era attesa alle sei negli studi Rai di Porta a Porta e prima di ascoltare il “verbo” nessuno si azzardava a commentare. Ma in tv Giorgia Meloni si è tenuta alla larga dal rinvio a giudizio di Delmastro ed è toccato al sottosegretario Giovanbattista Fazzolari dare la linea, blindando il dirigente di Fratelli d’Italia. “Le accuse sono infondate” e Delmastro non si tocca, è il diktat di Palazzo Chigi. Al sottosegretario, al quale è legatissima, la premier non chiederà alcun passo indietro. E non solo perché, come assicurano i colleghi di partito, “ha stima e affetto per Andrea”. Se le opposizioni andranno avanti con la mozione di sfiducia, lei sa di avere i numeri per stravincere, respingere l’assalto del Pd e dei 5 Stelle e ripristinare la piena fiducia per Delmastro. Nelle chat in cui c’è la premier quasi non se n’è parlato, se non per dirsi che il giudizio finirà in una bolla di sapone, perché “se la Procura ha chiesto l’assoluzione il processo nasce morto”. Lecito però chiedersi se sia opportuno affrontare un processo per rivelazione del segreto d’ufficio da sottosegretario alla Giustizia e in una fase di forte tensione tra il governo e le toghe. Fermato in un corridoio di Montecitorio, il ministro Luca Ciriani abbassa il tono della voce e spezza una lancia per il compagno di partito: “Per noi non cambia nulla, non siamo di fronte a una sentenza di condanna. Perché mai dovrebbe fare un passo indietro?”. Nei giorni delle polemiche su Daniela Santanché, la maggioranza sembrava aver tracciato il confine tra dimissioni sì, dimissioni no, proprio sulla linea del rinvio a giudizio. Ma adesso dentro FdI nessuno conferma e anzi molti ricordano due casi, la “sorella” d’Italia Augusta Montaruli e il “fratello” Carlo Fidanza. La prima entrò al governo nonostante una condanna in secondo grado e con la condanna definitiva è ancora capogruppo in Vigilanza Rai. Quanto a Fidanza, ha patteggiato un anno e 4 mesi per corruzione eppure sarà capolista di Fdi alle Europee. Meloni insomma non mollerà Delmastro, nel cui nome accusò una parte della magistratura di essere scesa nell’agone elettorale. La richiesta di imputazione coatta a febbraio e ora un rinvio a giudizio che a Palazzo Chigi giudicano “inconsueto” hanno rinsaldato la convinzione della premier e dei suoi che le “toghe rosse” esistono e lottano contro il governo. “È raro che un giudice imponga l’imputazione coatta dopo che il pm ha chiesto l’archiviazione - osserva un big meloniano. Non ci sentiamo accerchiati, ma abbiamo motivo di vederci qualcosa di poco trasparente”. Se il timore che un pezzetto di magistratura col cuore a sinistra punti a macchiare l’immagine del governo non si dissolve è anche per le mosse delle opposizioni, che minacciano battaglia in Parlamento. Il M5S invoca le dimissioni del sottosegretario. Ma è il Pd, che dal gup si è visto respingere la richiesta di costituirsi come parte lesa, il partito più agguerrito. Tra Camera e Senato si studia una strategia in più mosse. Mozione di sfiducia, richiesta al ministro Nordio di riferire in Aula (“ha coperto Delmastro”) e forse anche una querela per diffamazione contro il coinquilino Donzelli: fu lui, che guida Fdi da via della Scrofa, ad accusare in Aula quattro dirigenti del Pd di essere andati in carcere dall’anarchico Cospito per “inchinarsi ai mafiosi”. Delmastro a processo per il caso Cospito. Governo in imbarazzo di Mario Di Vito Il Manifesto, 30 novembre 2023 Il sottosegretario aveva diffuso conversazioni di detenuti al 41 bis, la procura voleva proscioglierlo. Le opposizioni: “Deve dimettersi”. Non è bastata l’imbarazzata difesa del ministro Nordio in parlamento. Non è bastata la procura di Roma che prima ne aveva chiesto l’archiviazione e poi il proscioglimento. Non sono bastati i fiumi di parole spesi per giustificarlo sulle colonne dei giornali di destra e nei talk show. Il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro andrà a processo per rivelazione di segreto d’ufficio. Così ha deciso ieri mattina la gup di Roma Maddalena Cipriani. La storia riguarda uno degli spin off più assurdi del caso Cospito: era gennaio quando alla Camera il deputato di FdI Giovanni Donzelli accusò quattro esponenti del Pd di vicinanza alla mafia perché erano andati in carcere a visitare Alfredo Cospito, detenuto al 41 bis. Per sostenere questa tesi - di per sé priva di senso perché tra i doveri dei parlamentari c’è anche quello di verificare le condizioni di vita dei detenuti -, Donzelli aveva dato pubblica lettura di alcune conversazioni tra l’anarchico e alcuni boss detenuti con lui a Sassari, cioè con le uniche persone, guardie escluse, con cui ha la facoltà di scambiare due chiacchiere. Nello specifico si trattava di una relazione della polizia penitenziaria, materiale se non segreto quantomeno riservato. Del resto il 41 bis serve proprio a impedire comunicazioni dalle prigioni verso l’esterno: la divulgazione di quei dialoghi, dunque, è più o meno tutto quello che bisognerebbe evitare di fare se si ritiene sensato quel tipo di regime detentivo. Ma come aveva ottenuto Donzelli quelle informazioni? Gliele aveva passate il sottosegretario alla Giustizia con delega alle carceri, suo compagno di partito, nonché allora coinquilino, Delmastro, che poi è stato denunciato dal leader dei Verdi Angelo Bonelli. Così è cominciato l’iter giudiziario con le indagini di rito, terminate poi a luglio con la procura di Roma che aveva chiesto l’archiviazione del fascicolo e la gip Emanuela Attura che dispose l’imputazione coatta del sottosegretario. All’udienza di ieri, infine, l’aggiunto Paolo Ielo è tornato a chiedere il non luogo a procedere per Delmastro, perché, nonostante l’innegabile “esistenza oggettiva della violazione del segreto amministrativo”, ci sarebbe “l’assenza dell’elemento soggettivo del reato, determinata da errore su legge extrapenale”. Una tesi che non ha convinto la giudice Cipriani, che ha rinviato a giudizio il sottosegretario e ha fissato l’inizio del processo al prossimo 12 marzo. Il colpo è forte e si riverbera sul governo. Nordio, infatti, tre settimane dopo l’imprudente uscita di Donzelli e l’immediato coinvolgimento di Delmastro nel pastrocchio, era andato alla Camera per dire che, a suo giudizio, quegli atti non erano segreti. La spiegazione è che sarebbe direttamente lui a decidere cosa si possa dire in pubblico e cosa no: “La classificazione della natura segreta, riservata, per legge appartiene all’autorità che forma il documento. Spetta al ministero definire la qualifica degli atti. E su questi abbiamo già risposto”. Il fatto è che poi, quando alcuni parlamentari dell’opposizione domandarono l’accesso agli stessi atti, si videro rispondere di no da via Arenula, che consegnò solo tre pagine su un totale di cinquantaquattro: le stesse lette da Donzelli in aula. Una ricostruzione che non è stata presa per buona nemmeno dalla procura, che pure non ha mai ravvisato gli estremi per andare a processo. Ad ogni modo, Nordio sembrava essere molto convinto della sua tesi, paventando anche l’apertura di una problematica “che potrebbe e dovrebbe essere risolta in un’altra sede”, ovvero aprendo un conflitto di attribuzione davanti alla Corte costituzionale. Fatto sta che, in attesa di capire quale sarà la reazione del governo, le opposizioni - con la scontata eccezione dei renziani e di Enrico Costa di Azione - stanno chiedendo in coro le dimissioni di Delmastro, mentre dalla maggioranza arrivano solo i soliti mugugni sulla “deriva giustizialista” dei non pochi perplessi. Il Pd, intanto, alla Camera chiede la calendarizzazione della mozione di sfiducia di Delmastro per bocca di Chiara Braga e al Senato invoca un’apparizione di Nordio a spiegare perché “volle coprire il sottosegretario”, come dice Walter Verini. Il vicepremier Tajani, interrogato dai cronisti sul tema, prova a buttare la palla in tribuna: “Non devo commentare le decisioni dei magistrati. La procura ha fatto una richiesta e credevo fosse stata chiarita la vicenda. Preferisco parlare della riforma della giustizia”. Peccato che questa vicenda sia, tra le altre cose, una prova dell’inutilità della separazione delle carriere: la procura e i giudici, infatti, hanno sostenuto due tesi opposte sul caso Delmastro, dimostrando che negli uffici giudiziari si può convivere anche valutando in maniera diversa la stessa vicenda. Delmastro: “Non lascerò il mio posto e resto orgoglioso di quanto ho fatto. I pm dalla mia parte” di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 30 novembre 2023 Il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove: “Io non ho passato alcuna carta”. E aggiunge: “Non mi dimetto” E adesso, sottosegretario alla giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove, che fa? Si dimette? “Assolutamente no”. Perché? Non è stato rinviato a giudizio per quelle relazioni del Gom sui colloqui anti 41 bis dell’anarchico Alfredo Cospito con i boss, nei giorni dello sciopero e della visita della delegazione dem, usate in aula dal suo collega e coinquilino Donzelli? “Sì. Ma intendo continuare ad esercitare il mio ruolo, al meglio, all’interno del ministero della Giustizia. Così come mi è stato chiesto dai tanti che in questo momento mi stanno testimoniando solidarietà per questo inconsueto rinvio a giudizio”. Inconsueto perché? “Anche questa seconda volta il pubblico ministero Paolo Ielo e altri tre pm hanno ribadito la richiesta di archiviazione della procura nei miei confronti”. E quindi? “Quindi sarò uno dei pochi sotto il profilo giuridico che in dibattimento sarà dalla stessa parte della barricata del pm. Ai posteri l’ardua sentenza...”. Però la giudice delle indagini preliminari Emanuela Attura ha ritenuto il contrario e formulato un’imputazione coatta. E la gip Maddalena Cipriani, ha concordato sul segreto, visto che l’ha rinviata a giudizio. “Da cattolico non dispero mai. Ci sarà prima o poi un giudice a Berlino che riconoscerà che non c’è segreto e quindi non c’è reato”. Per la giudice la dicitura a “limitata divulgazione” rendeva coperti dal segreto quei verbali usati da Donzelli per difendere il 41 bis e attaccare la sinistra (“Siete con noi o con i terroristi e i mafiosi?)”. “La limitata divulgazione nulla c’entra col segreto di Stato. I segreti li decide la legge. Sono tassativi e tipizzati per questo”. Il verde Angelo Bonelli, che l’ha denunciata, sostiene che gli hanno negato quegli atti. Lei, da Maurizio Porro a Quarta Repubblica, ha detto che non è vero. Chi mente? “Bonelli ha sbagliato. Ha fatto un accesso generalizzato agli atti. Gli è stata riqualificata la richiesta come sindacato ispettivo. E ha avuto quello che chiedeva perché sono atti ostensibili”. Il ministro Carlo Nordio l’ha difesa in Parlamento. E ora, per questo, viene attaccato dalle opposizioni. “Il ministro avrà diritto ad esporre le sue ragioni e la sua lettura dei fatti e del diritto? O adesso c’è anche il reato di pensiero e il reato di argomentazione giuridica? Attendo risposte dai preclari giuristi di sinistra”. Dica la verità, si aspettava questo rinvio a giudizio? “No. Ma resto orgoglioso di quello che ho fatto”. Cosa? Aver passato quelle carte? “Non ho passato alcuna carta. Ho risposto alla domanda di Donzelli cosa che è mio dovere fare e faccio con qualsiasi parlamentare. Sono orgoglioso di aver fronteggiato l’attacco frontale al 41bis di terroristi e anarchici in combutta con la criminalità organizzata e della mafia”. Il suo rinvio a giudizio arriva dopo giornate in cui si è riacceso lo scontro politica-magistratura. Pensa che questo clima abbia influito? “Credo e mi auguro di no. Il mio alto senso di giustizia mi fa pensare che un giudice non percepisca il clima e valuti solo gli atti giudiziari”. Il suo alto senso di giustizia non pone ostacoli al suo rimanere a ricoprire lo stesso incarico di sottosegretario con delega alle carceri? “Al contrario. Aspetto con serenità il dibattimento che inizia il 12 marzo per poter dimostrare che non ho compiuto alcun reato. E terminerò il mio mandato svolgendo al meglio il mio compito, rimanendo orgoglioso del mio lavoro e fedele alla lezione di centro destra”. Cosa intende? “Intendo continuare a garantire strumenti di indagine efficaci ai magistrati per accertare i reati più odiosi, ma a confermare e addirittura aumentare le garanzie per i cittadini”. L’ex ministra Cartabia: “La giustizia riparativa dà sollievo alle vittime” di Mariateresa Mastromarino Il Resto del Carlino, 30 novembre 2023 “Rendere giustizia non è giustiziare il colpevole, ma fare giustizia alle vittime”. Marta Cartabia, ex ministra della Giustizia nel governo Draghi, riempie la Sala Bolognini della Basilica di San Domenico a Bologna, illustrando a giuristi, studenti e cittadini l’essenza della giustizia riparativa, che non è “un addolcimento del diritto penale o una grazia - spiega Cartabia - ma il bisogno di guardare negli occhi la persona verso la quale si è commesso un fatto grave, prendersi la responsabilità di fronte all’altro”. Colonna su cui verte il convegno, introdotto dall’avvocato Stefano Bruno, fondatore dell’associazione diritto penale, economia e impresa, è lo strumento di giustizia riparativa, progetto libero e volontario, parallelo al processo penale, che dà la possibilità all’autore di reato, alla vittima o alla comunità coinvolta di intraprendere un percorso di “riparazione, ricucitura e ristabilimento delle relazioni, perché il reato, prima ancora di essere una violazione della legge, è una rottura di una relazione tra l’autore, le vittime e la comunità”, sottolinea la presidente emerita della Corte costituzionale. Introdotta da Cartabia e in vigore dal 30 giugno di quest’anno, la giustizia riparativa è una novità giuridica e sociale, che intende “ offrire una strada dove la giustizia penale tradizionale non può arrivare - aggiunge l’ex ministra -. Anche nei processi finiti con sentenze giuste e pene eseguite, la sentenza non finisce di appagare quel bisogno di giustizia che c’è tra le vittime e la società. Ed è questo che vuole fare la giustizia riparativa: un tentativo di provare a colmare quello scarto che sempre c’è tra un esito giudiziario, anche il più corretto, e il bisogno con cui il cittadino si rivolge alla giustizia, aspettando di ricevere sollievo”. Appagamento che spesso non si raggiunge, implicando la richiesta di maggiore severità, “come se l’aggravamento della pena risolvesse il problema - tuona Cartabia -. La giustizia riparativa, di fronte a questa insoddisfazione, trova una strada diversa rispetto alle pene più severe”. La giustizia degli incontri, che vede faccia a faccia vittima e carnefice, con l’intento di chiudere il capitolo del dolore, iniziando una nuova vita. Sembra utopia, invece sono incontri possibili. Ne sono l’esempio la figlia di Aldo Moro, Agnese, e Franco Bonisoli, ex brigatista del commando che rapì il presidente. Lo è Gemma Calabresi, vedova del commissario Luigi Calabresi ucciso nel 1972, che sul perdono degli assassini del marito ha scritto anche un libro. E lo sono le donne vittime di stupro, che guardano negli occhi chi le ha violentate. Storie che ci ricordano che siamo umani. “Siamo una società segnata drammaticamente da conflitti che non sappiamo gestire, che in un attimo possono diventare atti violenti - riflette Cartabia, sul palco insieme all’avvocato Michele Passione -. Non è un caso che nel nostro tempo siano scoppiate due guerre. Viviamo in una società ad alto tasso di conflittualità, nel privato, nelle relazioni delle nostre comunità e a livello pubblico. Proprio per questo non faremo mai a meno del diritto penale. Allora, forse, davvero abbiamo bisogno di altro. Ed è questo il tipo di giustizia che cercavo dal primo giorno di università: senza negare la capacità di male dentro l’essere umano, dice che un’altra storia può iniziare”. Intercettazioni, c’è la stretta: ?sarà vietato ascoltare le conversazioni tra indagato e legale di Francesco Bechis Il Messaggero, 30 novembre 2023 Proposta di legge in commissione al Senato: freno all’uso del trojan. È una delle grandi promesse del programma giudiziario del centrodestra entrato a Palazzo Chigi un anno fa. Ma anche un terreno scivoloso, dove può attecchire un nuovo scontro tra governo e magistratura. Lungo l’autostrada su cui correrà la riforma della Giustizia targata Carlo Nordio le intercettazioni sono il prossimo casello. Divieto di intercettare le conversazioni tra indagato e avvocato, “salvo che l’autorità giudiziaria abbia fondato motivo di ritenere che si tratti di corpo del reato”. Stop al sequestro indiscriminato dei dispositivi elettronici: tablet, smartphone, pc. E ancora, un freno all’uso del trojan, il “captatore” informatico che permette ai pm di conoscere vita e miracoli di chi è indagato. Anche quando non è strettamente necessario ai fini delle indagini. Per comporre la sagoma della nuova riforma a cui lavora il ministero della Giustizia bisogna unire i puntini. Da un lato l’indagine conoscitiva sulle intercettazioni della Commissione Giustizia al Senato, presieduta dalla leghista Giulia Bongiorno. Dall’altro il lavoro degli uffici tecnici a via Arenula. Sul decreto che “inciderà radicalmente sulle intercettazioni”, così ha detto ieri il Guardasigilli al Corriere, il governo si muoverà in tempi rapidi. L’obiettivo dichiarato è garantire la “parità tra accusa e difesa”. Come? Ad esempio assicurando “l’inviolabilità delle comunicazioni” tra difensore e assistito. Una tutela prevista dal Codice penale così come da diverse sentenze della Cassazione, dall’Ue e dalla Cedu, ma spesso scavalcata nella pratica. Di qui la stretta già messa nero su bianco in una proposta di legge a prima firma del senatore di Forza Italia Pierantonio Zanettin, su cui converge l’intera coalizione. Salvo i casi in cui il pm abbia “fondato motivo” di credere che le telefonate tra l’indagato e il suo avvocato costituiscano “il corpo del reato”, sarà vietato il loro sequestro e “ogni forma di controllo”. È un divieto già previsto dalla legge, ma di difficile attuazione in assenza di una sanzione per i pm che non si adeguano, sottolinea il rapporto conclusivo sulle intercettazioni firmato da Bongiorno. Ecco allora il ritocco normativo. Le telefonate con gli avvocati, se intercettate, spiega la proposta di legge di FI, “non possono in nessun caso essere trascritte nemmeno sommariamente, sono immediatamente distrutte”. E i giudici che non si adegueranno commetteranno un “illecito disciplinare”. Sarà una riforma “a tutela del diritto di difesa”. Non un atto di accusa contro i pm e le intercettazioni che non a caso quel documento, firmato da tutta la maggioranza, definiva un “irrinunciabile” strumento di ricerca della prova. Mentre la tensione fra toghe e governo torna a salire, l’ordine di scuderia del tandem Nordio-Meloni è di evitare uno scontro frontale con i giudici. Per questo il nuovo testo - potrebbe essere pronto entro la fine dell’anno - sarà tecnico, mirato. Fra le misure in cantiere c’è un intervento sulla durata delle intercettazioni con un limite alle “proroghe” richieste dal Pm. La nuova disciplina, anche questa anticipata in una proposta di legge a firma di FI, obbligherà il pm a fermarsi a una sola proroga delle captazioni telefoniche se “nel corso degli ultimi due periodi di intercettazione precedenti, comunque autorizzati, non siano emersi elementi investigativi utili alle indagini”. Nella riforma confluirà poi una norma che equipara alle intercettazioni il sequestro di dispositivi elettronici come smartphone, pc e tablet e prevede dunque le stesse garanzie per l’indagato: il pm potrà estrarre solo le informazioni essenziali alle indagini e prima dovrà procedere alla “duplicazione integrale” dei dispositivi su altri supporti informatici, per consentire all’indagato di verificare eventuali manomissioni. Più delicata - e per questo se ne occuperà direttamente Nordio - la revisione della normativa sul “trojan”, il captatore informatico utilizzato dai giudici nelle intercettazioni. Sempre a garanzia della difesa, un’idea sul tavolo prevede di introdurre un sistema di “tracciamento” del trojan - tramite la tecnologia blockchain - per poter ricostruire il percorso del “virus” nei dispositivi interessati, il tempo trascorso al loro interno, le informazioni effettivamente captate. Ma su questo terreno si procederà con cautela, cercando la massima convergenza con le procure. Bartoli: “No alla legge bavaglio, il ddl sulla diffamazione frena il giornalismo d’inchiesta” di Lorenzo De Cicco La Repubblica, 30 novembre 2023 Intervista al presidente dell’Ordine dei Giornalisti. Previste sanzioni super fino a 50 mila euro. E non vengono punite le querele temerarie. Per il presidente dell’Ordine dei giornalisti, Carlo Bartoli, “c’è una bomba a orologeria piazzata nelle redazioni”. La “bomba” è il disegno di legge sulla diffamazione incardinato in Commissione Giustizia al Senato. La prima firma è del meloniano Alberto Balboni. Presidente Bartoli, perché il testo allarma così l’Ordine dei giornalisti? “Perché per come è congegnato intimidisce il giornalismo d’inchiesta. Ci spaventa il fatto che non sia prevista alcuna misura seria per le querele bavaglio, quelle temerarie, una iattura per l’Italia e a detta dell’Ue la principale minaccia alla libertà di informazione”. Il testo, come anche le proposte di Pd e 5S, elimina il carcere... “Ma era una norma già disapplicata da anni, per la quale era stata richiesta l’abolizione da parte della Corte Costituzionale in due diverse sentenze. E contrasta coi principi della Corte europea dei diritti dell’uomo. Era un passaggio obbligato”. Se il ddl venisse approvato, scatterebbero maxi-sanzioni per la diffamazione: da 10mila a 50mila euro. Più il risarcimento del danno. Perché lo considerate, di fatto, un bavaglio? “Perché sono cifre assolutamente spropositate, che producono un effetto dissuasivo dirompente. Di norma oggi la sanzione è mille euro. Rendiamoci conto: 50mila euro un collaboratore o un freelance li guadagna in 5 anni. Significa piegare i colleghi al silenzio. Anche per un piccolo giornale sarebbe un problema insormontabile. Già oggi ricevere decine di querele è un serio ostacolo all’esercizio della professione, figuriamoci con lo spettro di sanzioni così salate, più i danni in sede civile”. FdI nel ddl sostiene di voler mettere riparo a “un rischioso sconfinamento del diritto di cronaca”. Ma già oggi, secondo il dossier sulla libertà di stampa di Reporter sans frontières, molti giornalisti italiani, soprattutto quelli meno tutelati, si autocensurano per “evitare un’azione legale”... “Per questo siamo preoccupati. L’effetto del ddl Balboni è dissuadere i giornalisti dal fare il proprio lavoro con scrupolo e senza riguardi nei confronti del potere, da chiunque sia incarnato. Nessuno deve sentirsi impunito, per carità: è giusto tutelare chi si sente offeso, ma dev’esserci equilibrio. Per dirla chiara: io giornalista rischio 50mila euro di sanzione, ma chi mi querela in modo temerario per un milione di euro corre il rischio di pagare da minimo 2mila a massimo 10mila euro, così dice l’articolo 6. Noi proponiamo che se il giudice accerta che la querela è temeraria, il giornalista querelato riceva almeno un terzo della richiesta del querelante. C’è un altro elemento allarmante, che può apparire secondario ma non lo è”. Quale? “L’indicazione del foro competente. Non è burocratese: in caso di querela, il giornalista non sarebbe più chiamato a rispondere nel tribunale della città in cui è registrata la testata, ma in quella di residenza della persona offesa. Quindi un collaboratore di Milano che viene citato in giudizio a Messina dovrebbe difendersi in Sicilia. Spostamenti molto costosi. Poi che succede nel caso in cui ci siano più querelanti, per lo stesso articolo, da diverse città? Il giornalista dovrebbe arruolare avvocati ovunque”. Il testo prevede anche rettifiche “senza commento, senza risposta e senza titolo”. Ma se si tratta di una replica palesemente infondata? “È un altro squilibrio tutto a vantaggio della presunta parte offesa, a danno del diritto di cronaca”. In maggioranza sono tutti compatti? “Forza Italia ha presentato emendamenti che migliorano il testo, anche se largamente insufficienti. Ma ringrazio per la sensibilità e l’attenzione il vice-ministro Paolo Sisto. C’è poi un altro aspetto che va rimarcato: il Parlamento continua a penalizzare il giornalismo regolamentato, ma resta silente sulle diffamazioni che avvengono sui social media. Colpisce i giornalisti e tace sui colossi del web”. Cento anni di Cassazione unica con lo sguardo rivolto al futuro di Massimiliano Di Pace Il Dubbio, 30 novembre 2023 L’organismo nacque con l’intento di superare e riparare gli errori dei Tribunali Centrale anche il rapporto con l’avvocatura, sancito dalla nostra Costituzione. “Gli avvocati italiani provano preoccupazione quando si rivolgono alla Corte di Cassazione, la quale negli ultimi anni ha indirizzato la sua attenzione verso un rigorosissimo formalismo, a volte eccessivo, con la conseguenza che l’aspettativa di giustizia che il cittadino rivolge alla Corte suprema risulta frustrata da una valutazione in cui l’aspetto formale prevarica quello sostanziale. Un esempio è il recente orientamento sulla validità del mandato ad litem in Cassazione, secondo cui la procura sarebbe valida solo se temporalmente e localmente contestuale all’atto”. E’ uno dei passaggi più significativi di Francesco Greco, Presidente del Consiglio Nazionale Forense, pronunciati in occasione del convegno I cento anni della Corte di cassazione “unica”, che si è svolto ieri presso l’aula magna della Corte di Cassazione, alla presenza di un parterre che più eccezionale non si poteva: il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, il Presidente della Camera dei Deputati, Lorenzo Fontana, il Ministro della Giustizia, Carlo Nordio, e il gotha della magistratura italiana. L’obiettivo del convegno, articolato in 2 sessioni, che si sono sviluppate per tutta la giornata, è stato quello di riflettere sugli attuali compiti della Suprema Corte, considerando la necessaria interazione con gli altri organi di giustizia nazionali e sovranazionali, e nella prospettiva di un rafforzamento della tutela dei diritti fondamentali. Non essendo possibile dare conto in un articolo di giornale di tutti gli spunti proposti dai circa 20 relatori, con questo articolo ci si limiterà a richiamare le principali considerazioni dei quattro relatori che hanno introdotto i lavori, ossia Margherita Cassano, Prima Presidente della Corte di cassazione, Luigi Salvato, Procuratore Generale della Corte di cassazione, Fabio Pinelli, Vice Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, e Francesco Greco, Presidente del Consiglio Nazionale Forense. Dopo l’inno nazionale e un concerto, sotto l’insegna “La legge è uguale per tutti”, ha preso la parola la Presidente della Corte di cassazione Cassano, che, dopo aver richiamato la centralità della funzione di uniformazione dell’interpretazione della legge per la Corte da lei presieduta, ne ha riconosciuto l’arduità per la differenziazione delle norme e delle relative fonti, ragione per cui è particolarmente delicato il ruolo dei giudici, i cui compiti sono quelli di “ricostruire con attenzione il quadro di riferimento normativo, individuare la disposizione pertinente, coglierne il significato precettivo, tenendo presente il complesso dei principi espressi dalla Costituzione e dal diritto comunitario”. Dopo aver ricordato l’importanza di tutti gli attori del sistema della giustizia italiana, Cassano ha richiamato la “proficua esperienza degli albi per il ricorso per Cassazione, avviata in collaborazione con il Cnf, espressione della sensibilità dell’avvocatura, che consente di migliorare la qualità della domanda e della risposta giudiziaria”. E’ seguito poi l’intervento del Procuratore Generale della Corte di cassazione Salvato, che ha sottolineato l’importanza della certezza del diritto, che deriva anche dalla sua uniforme interpretazione, per poi spiegare la funzione dell’ufficio da lui diretto, che è quella di “assicurare l’interesse pubblico, prescindendo dagli interessi specifici”. Salvato ha poi ammesso che “ci sono criticità, legate però a tecnicalità”, e che bisogna astenersi dalla tendenza all’autoreferenzialità dei giudici, che devono pervenire alla verità giudiziaria, attraverso un giusto processo. A questo punto ha parlato Pinelli, Vice Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, nonché avvocato e parlamentare della Lega, il quale, dopo aver richiamato l’origine dell’istituzione della Cassazione, concepita per la prima volta in Francia nel 1790, per superare gli errori dei tribunali, ha evidenziato l’importanza che le decisioni dei giudici siano prevedibili, in quanto “solo una decisione prevedibile è una decisione giusta”, e per questo “l’indipendenza del magistrato non è mai assoluta, ma trova i suoi limiti nei diritti dei cittadini”, oltre che nella giurisprudenza già tracciata, nell’ambito della funzione “monofilattica” della Suprema Corte. La fase introduttiva del convegno si è conclusa con l’intervento del Presidente del Cnf Greco, che nella sua lunga esposizione ha evidenziato il rapporto tra l’avvocatura e la Cassazione, che è sancito anche dalla Costituzione, in particolare dall’art. 106, il quale prevede che “possono essere chiamati all’ufficio di consiglieri di Cassazione gli avvocati che hanno acquisito meriti con la loro esperienza professionale”, possibilità concretizzatasi però solo dal 1998. Al riguardo Greco ha sottolineato che questa nomina non va interpretata come un premio ad un singolo avvocato, bensì come “un’occasione di arricchimento della Corte di Cassazione”, potendosi così avvalere quest’ultima di “professionalità diverse da quelle della magistratura”, tanto più che “il ruolo dell’avvocatura non può essere considerato residuale”. “Pena senza condanna”, focus sul processo di prevenzione di Valentina Stella Il Dubbio, 30 novembre 2023 Oggi il Governo dovrà dare alla Cedu risposte sulle misure di prevenzione dopo il ricorso della famiglia Cavallotti. Anche per questo il Coa di Agrigento ha dedicato un focus formativo alla “Confisca senza condanna”. “Abbiamo ritenuto indispensabile - ha detto la presidente Vincenza Gaziano un confronto serio e franco tra avvocati e magistrati, volto non soltanto a sviscerare i tanti vulnus del processo di prevenzione, tra cui certamente la probatio diabolica che la difesa è chiamata a fornire per scardinare il “sospetto” della provenienza illecita del patrimonio del proposto, ma soprattutto perché appare cruciale in questo momento storico che l’avvocatura dia il proprio contributo in una prospettiva di rinnovamento della disciplina. Abbiamo il dovere di interrogarci sul tema, soprattutto per rappresentare al legislatore il nostro punto di vista che dovrà certamente puntare a raggiungere un sistema della prevenzione patrimoniale che non tradisca le garanzie costituzionali e che scevro da una impostazione dogmatica ben si inserisca nel contesto giuridico europeo”. Per il professor Mario Zanchetti, “nate nel contesto della lotta contro la criminalità organizzata di stampo mafioso, le misure di prevenzione patrimoniale sono uscite dall’alveo originario e sono sempre più utilizzate anche nei confronti di criminalità “dal colletto bianco”. È indiscutibile che esse, nella forma attuale che prescinde da una condanna penale e inverte l’onere della prova rispetto alla legittimità della provenienza del patrimonio, pongano seri dubbi di legittimità costituzionale rispetto agli articoli 1, 2, 3, 24, 25, 27, 41, 42, 111 e 117. La Cedu chiede al legislatore di dire con chiarezza se debbono essere considerate sanzioni di tipo penale, nel qual caso dovranno essere rispettate tutte le garanzie previste dalla Convenzione, o se invece sono considerate una misura di ripristino della “legalità patrimoniale”, che mira a sottrarre dall’economia le risorse di provenienza illecita. Anche in questo caso devono essere rispettate le garanzie convenzionali e costituzionali in materia di tutela del patrimonio e della libertà di iniziativa economica. In primis quella del principio di legalità- tassatività, sul piano sostanziale e processuale. Interi patrimoni, comprensivi di imprese attive sul mercato, non possono essere sottratti ai proprietari sulla base del sospetto, senza il riferimento a parametri precisi di prova, che non pongano un carico eccessivo sulla difesa”. Luigi Miceli, membro di Giunta Ucpi: “I chiarimenti della Cedu sintetizzano le ragioni della contrarietà che da sempre l’Ucpi esprime verso il procedimento di prevenzione: ha del tutto abbandonato la propria vocazione inibitoria di fonti di pericolo, rappresentando ormai un sistema punitivo fondato sulla repressione di stati soggettivi di pericolosità ricostruiti su base inquisitoria e svincolato dalle garanzie. La natura sanzionatoria di tipo penale della confisca, ove riconosciuta dalla Cedu, impedirebbe l’applicazione della misura ablatoria in assenza dell’accertamento di un reato. Anche nell’ipotesi in cui l’applicazione della confisca di prevenzione rimanesse svincolata dalla sussistenza di uno fatto reato, il relativo procedimento dovrebbe essere dotato delle garanzie tipiche del giudizio penale: individuazione, in maniera tipica e determinata, dei soggetti destinatari, formulazione di una specifica “contestazione”, applicazione delle regole di acquisizione e valutazione della prova, previste per il processo di cognizione. Al fine di evitare l’irrazionale confisca del patrimonio di un soggetto assolto. Bene la proposta di legge “Pittalis”. Occorrerebbe pure prevedere il superamento del modello inquisitorio, con l’inserimento di un procedimento autonomo di formazione della prova, idoneo a garantire il diritto di difesa, individuare riscontri alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, ampliare i termini per le impugnazioni”. Per Antonio Balsamo, sostituto pg in Cassazione, “l’affermazione delle più evolute forme di “confisca senza condanna” è stata considerata l’espressione di un percorso di ripensamento delle tradizionali categorie giuridiche che prefigura un vero e proprio passaggio storico: la costruzione di un diritto penale di stampo postmoderno, capace di superare il vecchio modello individualistico fondato su un orizzonte stato- centrico e sul primato della pena detentiva, per indirizzarsi decisamente verso la diversificazione dei metodi di prevenzione e di contrasto della natura collettiva e della dimensione economica dei più gravi fenomeni criminali nel quadro di una regolamentazione non solo interna ma anche europea e internazionale. Viene così promossa una giustizia penale dal “volto umano”, aliena da ogni furore punitivo e capace di apprestare una risposta efficace alle sfide della modernità. In tale prospettiva può essere fondamentale l’impulso di magistratura, avvocatura e mondo scientifico alla costruzione di un “giusto procedimento di prevenzione”, riempiendo i vasti “spazi interstiziali” lasciati vuoti dalla scarna disciplina attualmente contenuta nel Codice antimafia, attraverso una efficace attuazione delle garanzie processuali previste dall’articolo 6- 1 Cedu: è un percorso che assume una valenza decisiva sia per assicurare il rispetto dei principi costituzionali e convenzionali, sia per internazionalizzare le strategie di contrasto alle basi economiche delle organizzazioni criminali”. Per la magistrata Luisa Bovitutti, “le misure di prevenzione sono uno strumento finalizzato a limitare nell’interesse pubblico la libertà e i diritti fondamentali del soggetto destinatario, indipendentemente dalla commissione di un reato e al fine specifico di evitarne la commissione. Questa categoria di istituti venne coniata nel 1956 per fronteggiare una situazione emergenziale per poi ampliarsi negli anni successivi. La necessità di intervenire con prontezza ha indotto il legislatore a stabilire per l’applicabilità della confisca requisiti non troppo stringenti, in particolare a ritenere sufficiente una piattaforma non costituita da solide “prove” quanto da “sufficienti indizi”, definizione la cui evanescenza non può sfuggire. Visto che la confisca viene irrogata indipendentemente dalla commissione di un reato, è indispensabile che tale nozione venga delineata con rigore e chiarezza: l’esigenza di prevenzione del crimine deve essere soddisfatta senza perdere di vista i diritti fondamentali del singolo. In assenza di parametri certi di valutazione, le misure di prevenzione si potrebbero trasformare in ingiuste e devastanti “pene per il sospetto”, impiegabili laddove le ordinarie norme di diritto penale non potrebbero trovare applicazione per mancanza dei normali presupposti probatori”. Emilia Romagna. L’allarme del Garante: “Nelle carceri lavora solo un detenuto su tre” di Marco Merlini Corriere della Sera, 30 novembre 2023 Mancano anche percorsi di inserimento per le persone disabili: bisogna aumentare i benefici. Nelle carceri dell’Emilia Romagna sono pochi i detenuti che lavorano. A lanciare l’allarme è il Garante regionale Roberto Cavalieri, che denuncia le inefficienze di un sistema che ostacola il reinserimento e la riabilitazione di chi sconta la pena. I numeri sono impietosi: su 3.500 detenuti, dei quali 2.600 condannati in via definitiva, circa 900 vengono occupati alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria in quelli che vengono chiamati lavori domestici; sono solo 150, invece, quelli che all’interno della struttura lavorano per aziende esterne in attività di falegnameria, lavanderia, sartoria e coltivazione agricola; altri 100 circa, infine, hanno la possibilità di accedere al lavoro esterno. Quanto agli impieghi al femminile, non esistono progetti di formazione o avviamento, “non sono più di dieci le donne lavoratrici”, spiega Cavalieri. Così come mancano percorsi di inserimento per le persone disabili. “Il quadro è preoccupante e i limiti sono di due ordini - prosegue il garante - il primo è legato all’architettura degli edifici che rende difficile la creazione di spazi idonei ad una attività produttiva. Il secondo riguarda il tema della sicurezza e del comportamento dei detenuti: è ancora diffuso e radicato un sentimento di diffidenza e questo nonostante nel 2022 si sia verificata una sola evasione a fronte di oltre 150 persone uscite per lavoro”. Non tutte le realtà in regione sono di segno negativo: ci sono esperienze da seguire con attenzione come quella di Fare impresa alla Dozza di Bologna nella metalmeccanica e di Libelabor impresa sociale, che nel carcere di Parma gestisce una lavanderia industriale. “Più in generale però - insiste Cavalieri - è necessario che tutti i soggetti coinvolti, le direzioni delle carceri, la magistratura e il territorio, facciano la loro parte per migliorare la situazione”. Domani i temi del lavoro nel sistema carcerario saranno oggetto di un convegno che si svolge a Rimini alla presenza di tanti esperti e portatori di interesse, come Gherardo Colombo, presidente della Cassa delle ammende, e Gloria Manzelli, provveditore dell’amministrazione penitenziaria regionale: “Vogliamo fare il punto della situazione - conclude il garante - Soluzioni? L’unica strada percorribile è quella dell’aumento del numero di benefici concessi ai detenuti: trovo assurdo che una persona condannata a 20 anni di carcere, con uno status di buona condotta, non abbia nemmeno un permesso. In questo modo il carcere non riabilita”. Sanremo (Im). Alberto Scagni ancora in coma a una settimana dall’aggressione genova24.it, 30 novembre 2023 “Grave, ma stabile”. Il 42enne è ricoverato in Rianimazione al Borea di Sanremo, e alla luce delle sue condizioni i medici hanno ritenuto necessaria la sedazione continuata. Resta ricoverato in condizioni gravi, ma stabili, all’ospedale Borea di Sanremo Alberto Scagni, il 42enne condannato a 24 anni e 6 mesi di carcere per avere ucciso la sorella Alice a Genova il primo maggio del 2022. Scagni è in coma farmacologico dalla notte tra mercoledì e giovedì scorso, quando è stato picchiato selvaggiamente da due compagni di cella che lo hanno rinchiuso all’interno e aggredito utilizzando la gamba di uno sgabello. Portato in codice rosso al Borea, era stato sottoposto a un delicato intervento di chirurgia maxillofacciale per i gravi traumi riportati al viso. Era stato quindi ricoverato in Rianimazione e avrebbe dovuto essere risvegliato lunedì, ma gli esami clinici hanno evidenziato un quadro ancora preoccupante e l’equipe medica ha preferito mantenere il coma farmacologico. I danni al volto, infatti, sono molto gravi. Non appena le condizioni lo consentiranno, Scagni verrà trasferito all’ospedale San Martino. La procura di Imperia, intanto, ha aperto un fascicolo sull’accaduto, di cui si è interessato anche il Garante per i diritti dei detenuti della Liguria, Doriano Saracino. Il 42enne era stato trasferito da meno di un mese nel carcere di Valle Armea, a Sanremo, dopo l’aggressione subita in quello di Marassi. Si indaga dunque per tentato omicidio: stando a quanto denunciato dalla Polizia Penitenziaria, Scagni è stato sequestrato all’interno della cella che condivideva con altri tre detenuti nel padiglione Z del reparto C ed è rimasto per diverse ore nelle mani di due compagni di cella, due cittadini marocchini. L’altro detenuto è stato invece chiuso in bagno. Gli avvocati di Scagni hanno presentato un esposto per chiedere che venga fatta chiarezza sull’accaduto, mentre i due detenuti responsabili dell’aggressione sono stati trasferiti. Milano. Detenuti al lavoro oltre le sbarre. Dieci anni di imprenditoria in carcere di Roberta Rampini Il Giorno, 30 novembre 2023 Compleanno di “Bee 4 altre menti”, è qui che è nata la prima cooperativa per promuovere l’occupazione. Dal call center all’officina per la riparazione dei distributori automatici di caffè, “il modo per ricostruirsi la vita”. C’è chi lavora al call center e svolge attività di customer care per alcune aziende nel settore dell’energia. Altri invece, quelli dell’officina RiGenera, si occupano della riparazione e rigenerazione di distributori automatici professionali di caffè. Infine nel reparto femminile c’è un laboratorio interamente dedicato ai settori dell’assemblaggio di componentistica e controllo qualità per conto terzi. Sono tutti detenuti e detenute del carcere di Milano Bollate. È qui che dieci anni fa è nata la prima impresa sociale per promuovere il lavoro dietro le sbarre, “Bee 4 altre menti”. L’idea era stata di Giuseppe (Pino) Cantatore e Francesco Panzeri. A distanza di dieci anni da quel momento, la cooperativa sociale, oggi, è uno dei principali partner dell’amministrazione penitenziaria a livello nazionale per numero di persone inserite al lavoro all’interno dei luoghi di pena. Dieci anni fa era un progetto di impresa per sua definizione controcorrente: portare lavoro vero, qualificante, capace di promuovere crescita umana e professionale nelle persone all’interno di un luogo di pena. Oggi sono il numero dei detenuti assunti e delle imprese esterne che hanno creduto nella cooperativa, a dire che Pino e Francesco hanno vinto la scommessa. Ieri Bee 4 ha voluto festeggiare questo traguardo raccontandosi, in un convegno. Ma non da sola. Insieme all’amministrazione penitenziaria e alle imprese, House Ambrosetti, Impact International, Eolo Spa, NeN - Gruppo A2A e Sielte Spa. Un circolo virtuoso tra imprese e detenuti. Tra dentro e fuori che contribuisce ad abbassare la recidiva e fa della Lombardia una delle regioni dove il coinvolgimento delle imprese nell’offrire occupazione ai detenuti è triplo rispetto alla media nazionale. “Oggi vogliamo celebrare e rinforzare il modello comunitario di Bollate, attento al lavoro, alle persone e alle sue potenzialità - ha dichiarato il direttore Giorgio Leggieri -. Si raccolgono i risultati dell’impegno di questi anni di operatori, imprese e territorio e si guarda all’orizzonte futuro per rispondere ai nuovi bisogni dei detenuti e della società esterna”. Nel carcere modello d’Italia, il lavoro è un tassello qualificante e opportunità di riscatto per tanti. Nell’area industriale del carcere, complessivamente sono 150 i detenuti che lavorano. A questi se ne aggiungono altri 240 che lavorano all’esterno in articolo 21 o semi libertà. E altri 350 che lavorano per l’amministrazione penitenziaria all’interno del carcere. Quando la cooperativa sociale Bee 4 ha iniziato c’era solo un piccolo laboratorio adibito a controllo qualità, nella sezione femminile. Pochi dipendenti. Oggi occupa 100 detenuti che lavorano nell’area industriale del carcere. “La cooperativa sociale è nata da un errore, che è stato fondamentalmente il mio, mi sono ritrovato nel carcere San Vittore a Milano - racconta Pino Cantatore, direttore di Bee 4 - volevo ricostruire la mia vita, la mia dignità attraverso il lavoro. E così ho iniziato, con il primo call center. Poi quando mi hanno trasferito a Bollate ho continuato sulla stessa strada. Noi promuoviamo il lavoro quale strumento per valorizzare il tempo della pena, contribuendo alla costruzione di professionalità e attitudine al lavoro, fattori fondamentali per consentire di cambiare il proprio stile di vita dopo il periodo della detenzione”. Il resto è storia recente. Come quando nel 2021 in piena pandemia da Covid la cooperativa sociale grazie alla Fondazione Vismara e al contributo di Regione Lombardia ha portato lo smart working in cella coinvolgendo novanta detenuti al lavoro da remoto con i computer dall’interno del carcere. Verona. L’ex pm Barbaglio nominata Garante dei diritti dei detenuti Corriere del Veneto, 30 novembre 2023 È Angela Barbaglio, già candidata (ma non eletta) con Possamai Sindaco alle amministrative di maggio, la nuova Garante dei diritti dei detenuti. Sulla nomina si è espresso martedì sera il Consiglio comunale con un voto di approvazione. Magistrato per 44 anni, Barbaglio, fa sapere Palazzo Trissino “è stata impegnata prevalentemente nel settore penale, assumendo come ultimi incarichi quelli di Procuratore aggiunto e poi Procuratore della Repubblica al Tribunale di Verona. Si è occupata di processi, reati e criminalità, acquisendo in questi contesti una notevole esperienza in merito alle realtà di privazione della libertà personale”. Il Consiglio, per inciso, ha approvato anche un ordine del giorno, a firma dei consiglieri Possamai Sindaco Sara Maran, Ida Grimaldi, Luisa Consolaro e Beatrice Giulia Restuccia, per l’aggiornamento del Piano della città per le persone private della libertà personale in collaborazione con il garante e con tutti i soggetti interessati. “Farò del mio meglio - dichiara l’ex magistrato” in osservanza delle norme previste e delle autorità che presiedono alle istituzioni dove le persone private delle libertà personali sono collocate”. Napoli. Nel bene confiscato alla camorra ospitate le donne detenute con minori a carico Il Mattino, 30 novembre 2023 Il Comune di Quarto, da tempo diventato un modello per la gestione dei beni confiscati, ha pubblicato un avviso per la concessione a titolo gratuito di un’altra struttura sottratta alla camorra, nello specifico ad esponenti del clan Polverino. L’avviso è diretto ad associazioni o cooperative cui affidare un bene in cui saranno ospitate donne con figli minori che stanno scontando reati nelle carceri della regione. Donne che devono scontare residui di pena, per reati minori, che godranno della possibilità di essere accolti nel centro che sorgerà da qui a qualche mese. Sarà l’autorità giudiziaria, di concerto con altri organi dello Stato, a individuare i soggetti con i necessari requisiti. Udine. Riflettori accesi sul carcere e la città. Obiettivo il reinserimento sociale e lavorativo lavitacattolica.it, 30 novembre 2023 È in programma oggi un nuovo appuntamento del ciclo di incontri sul carcere promosso dal Circolo culturale regionale Enzo Piccinini, insieme alla Caritas diocesana di Udine. Alle 18 - al Centro culturale diocesano “Paolino d’Aquileia” - si terrà infatti “Il carcere e la città”, convegno a cui interverranno il Garante dei Diritti dei Detenuti e delle Persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale del Comune di Udine, Franco Corleone, e il fondatore della Cooperativa sociale Giotto di Padova, Nicola Boscoletto, straordinaria realtà che ha fatto del reinserimento sociale dei detenuti attraverso il lavoro la propria mission. A a moderare l’incontro sarà la giornalista Anna Piuzzi. Obiettivo dell’iniziativa è sollecitare uno sguardo che intenda la casa circondariale di via Spalato come parte integrante del contesto cittadino e dunque ideare politiche mirate, volte al reinserimento sociale e lavorativo delle persone private della libertà, in special modo quelle in regime di detenzione o di semilibertà. “Da qualche tempo - spiega la presidente del Piccinini, Marina Cavedon - il mondo carcerario è sotto osservazione per la necessità di passare da logiche eminentemente custodialistiche a logiche riabilitative e reinclusive. Toppo spesso infatti vincoli normativi, formali e burocratici impediscono esperienze innovative e di sviluppo umano all’interno delle mura carcerarie. L’approfondimento culturale del tema permette non solo il confronto tra idee diverse, ma anche il paragone con esperienze già in atto, e tutto ciò apre a metodologie e prospettive nuove”. Diversi i progetti che si stanno muovendo attorno alla Casa circondariale di Udine, a partire dalla straordinaria occasione data dalla sua ristrutturazione che prevede anche spazi per la partecipazione della cittadinanza. Ecco dunque che obiettivo dell’iniziativa è “sensibilizzare i cittadini rispetto al tema del carcere legato alla questione di una giustizia vera, occasione di riabilitazione e reinserimento nella società civile - evidenzia ancora Cavedon -. La città, considerata come comunità sociale, può diventare infatti valido alleato nell’accoglienza e nel reinserimento di chi ha scontato la propria pena e conseguentemente contribuire alla reale diminuzione delle recidive”. Cremona. Detenuti e lavoro fuori dal carcere: le esperienze in un seminario cremonaoggi.it, 30 novembre 2023 Il Tavolo territoriale sul carcere, istituito dalla Presidenza del Consiglio Comunale di Cremona, promuove una iniziativa pubblica in collaborazione con la locale Camera di Commercio dal titolo “Esecuzione penale esterna, opportunità per il territorio” che si terrà martedì 5 dicembre, alle 15, in Sala Mercanti (via Baldesio, 10). Dopo i saluti del Commissario camerale Gian Domenico Auricchio, del Presidente del Consiglio Comunale Paolo Carletti, di Ornella Bellezza, Garante provinciale delle persone private della libertà personale, di Rossella Padula, Direttrice della Casa circondariale di Cremona, e di Laura Negri della locale Camera Penale, interverranno Francesca Malzani, Professore associato dell’Università degli studi di Brescia, che illustrerà gli strumenti normativi a disposizione delle imprese, Davide Longhi della cooperativa Il Solco sulle esperienze già maturate sul territorio inquadrando la figura del tutor, un imprenditore locale che porterà la propria esperienza aziendale, Lucia Monti, Capo area trattamentale della locale Casa Circondariale, Antonella Salvan, Direttore dell’Ufficio Esecuzione penale esterna di Mantova e Cremona e Loretta Manini Orientatrice del Centro per l’Impiego di Cremona. Le conclusioni sono affidate a Rosita Viola, Assessora alle Politiche Sociali e Fragilità del Comune di Cremona. “Il Tavolo sta dando seguito agli impegni assunti dall’Amministrazione comunale in ordine alla Casa circondariale di Cremona. L’incontro del 5 dicembre è un altro passo per integrare il più possibile la nostra Casa circondariale alla comunità cremonese. Ritengo molto positivo vedere che realtà come la Camera di Commercio colgano l’importanza del messaggio e lo rilancino al territorio. Di questa sensibilità ringraziamo Gian Domenico Auricchio, Commissario straordinario della Camera di Commercio e Maria Grazia Cappelli, Segretario generale della Camera di Commercio” dichiara il Presidente del Consiglio Comunale Paolo Carletti. “Il reinserimento nella società rappresenta una priorità del nostro sistema carcerario prevista dall’art.27 della nostra Costituzione. E’ un principio di civiltà. Sono convinto che il lavoro costituisca un’opportunità insostituibile che permette di modellare conoscenze e competenze spendibili nella fase post detentiva per l’attuazione di concreti percorsi rieducativi ed inclusivi. Creare occasioni di lavoro per i detenuti può, inoltre, offrire vantaggi competitivi per le imprese, che devono affrontare il problema della mancanza di personale qualificato. L’auspicio è che il seminario del 5 dicembre possa offrire spunti per la presentazione di progetti da parte di realtà imprenditoriali, con l’ausilio delle Associazioni di Categoria e degli Ordini professionali dei Consulenti del lavoro e degli Avvocati”, afferma il Commissario Straordinario della Camera di Commercio Gian Domenico Auricchio. Modena. Il carcere negli occhi delle donne temponews.it, 30 novembre 2023 Un evento per raccontare un progetto, un libro e una mostra con le opere delle detenute per riflettere sulla detenzione femminile, a partire dall’esperienza di diverse associazioni nella Casa circondariale S. Anna di Modena. L’obiettivo dell’iniziativa è di tipo culturale: accendere i riflettori su una realtà, quella della detenzione femminile che, per le sue ridotte dimensioni numeriche resta invisibile. Giovedì 30 novembre, alle 17, presso la Casa delle Donne di Modena (Strada Vaciglio Nord, 6), alla presenza delle istituzioni - Prefetta di Modena, Assessora alle Politiche Sociali, Direttore Casa Circondariale S.Anna - verranno presentati i risultati del progetto (Ri)comincio da me realizzato nella sezione femminile della Casa circondariale S. Anna di Modena e promosso da Centro documentazione donna, Casa delle donne contro la violenza, Gruppo Carcere-Città, Csv Terre Estensi, in collaborazione con il Comune di Modena e la Direzione della Casa circondariale Sant’Anna, sostenuto dai fondi dell’Otto per Mille della Chiesa Valdese. A seguire, alle 18.45 verrà inaugurata la mostra a cura di Federica Benedetti (In)Curabile bellezza. Donne che fanno comunità visitabile fino al 9 dicembre. Il percorso è raccontato nel libro No Name. Il carcere negli occhi delle donne a cura di Caterina Liotti ed edito da Mucchi. L’obiettivo dell’iniziativa è di tipo culturale: accendere i riflettori su una realtà, quella della detenzione femminile che, per le sue ridotte dimensioni numeriche resta invisibile, sconosciuta ai più e raccontata sempre attraverso gli stereotipi della fragilità, della vittimizzazione, della scarsità di risorse culturali ed economiche delle detenute piuttosto che sulle “sofferenze aggiuntive” (rispetto agli uomini), determinate dalle specificità in termini di vita quotidiana, differenti bisogni e meccanismi relazionali. Il progetto (Ri)comincio da me. Percorsi di consapevolezza e sostegno da donna a donna per il benessere psicofisico e reintegro lavorativo e sociale delle donne detenute ha dato continuità, con laboratori di vario genere, all’impegno portato avanti dal 2018 dalle sopra citate associazioni dentro alla sezione femminile della Casa circondariale S.Anna di Modena. Negli anni sono stati realizzati percorsi di incontro e scambio relazionale per offrire alle detenute occasioni di riflessione sulle proprie storie di vita, dentro la quale si è collocato anche il reato, con l’obiettivo di contribuire a ricucire le ferite aperte dalla dolorosa esperienza del carcere. Il progetto realizzato quest’anno, a partire dalla primavera 2023, ha coinvolto circa 25 detenute e una decina tra volontarie e operatrici che si sono incontrate nella biblioteca della sezione femminile raccogliendo bisogni disattesi, rabbia, voglia di libertà, paure, sofferenze, cercando di costruire momenti di consapevolezze e sostegno, incanalati nel laboratorio di educazione all’arte di cui la mostra è il risultato. La mostra a cura di Federica Benedetti con opere di Chiara Negrello, Marianna Toscani e Collettivo No Name della sezione femminile del S. Anna, è visitabile fino al 9 dicembre presso la Casa delle Donne di Modena, e sarà successivamente allestita anche all’interno della Casa circondariale di Modena, al fine di creare un ulteriore momento di incontro con le detenute autrici dei collages esposti. La mostra restituisce l’esperienza del laboratorio di educazione all’arte che ha fatto incontrare la comunità, forte e coesa, delle pescatrici del Delta del Po (nelle fotografie di Chiara Negrello, tratte dalla serie Like the Tide) con un gruppo eterogeneo di donne che vivono il carcere. Un incontro che parte dal coraggio e dalla determinazione di donne detenute, volontarie e operatrici che - pur nell’anonimato del modo in cui hanno scelto di definirsi, Collettivo No Name - si sono messe in gioco facendo nascere una comunità basata sui valori della sorellanza e della cura come emerge nei loro collages (su fotografie di Marianna Toscani). Una narrazione nuova che racconta qualcosa di apparentemente inconciliabile con la durezza del luogo in cui tutto ciò è avvenuto: la nascita di uno spazio di inaspettata bellezza. La mostra è visitabile dal lunedì al venerdì (10.00 - 13.00); lunedì e giovedì (15.00 - 18.30); sabato 2 dicembre (17.00 - 19.00) e sabato 9 dicembre (10.00 - 13.00). La pubblicazione No Name. Il carcere negli occhi delle donne funge da catalogo alla mostra e da strumento di approfondimento sulle dinamiche osservate dentro la sezione femminile del S.Anna dal gruppo di progetto: Anna Perna, Paola Cigarini e Caterina Liotti hanno scritto sui temi della sorellanza, dei bisogni disattesi e della spersonalizzazione. Significativi poi i contributi di contestualizzazione dell’operazione realizzata, forniti da Grazia Zuffa, autrice di ricerche nazionali sul tema, che inquadra nel contesto italiano le problematiche legate alla detenzione femminile, e da Claudia Löffelholz, Direttrice della Scuola di alta formazione Fondazione Modena Arti Visive, che indaga come il linguaggio dell’arte possa aiutare a costruire una società più inclusiva, empatica e solidale. Roma. I detenuti di Regina Coeli trasformano il penitenziario in museo d’arte di Valentina Muzi artribune.com, 30 novembre 2023 Un progetto espositivo nato da tre percorsi laboratoriali, coinvolgendo 15 detenuti dello storico penitenziario romano, dodici studenti e tre insegnanti IED di Roma. Un lavoro incentrato sull’identità e sulla memoria che diventa una mostra permanente fruibile a pochi. Ripensare i penitenziari come luoghi di formazione e (ri)educazione, anche attraverso l’arte e il design. Questo è uno degli obiettivi che si cela dietro i tre laboratori pensati da IED insieme all’Istituto penitenziario di Regina Coeli a Roma. Un lavoro multidisciplinare che per sei mesi ha visto studenti, docenti e detenuti impegnarsi in percorsi incentrati sull’identità, approfondendo il campo della fotografia con Simona Ghizzoni, del design con Barbara Brocchi e dell’illustrazione con Laura Federici. Nonostante le restrizioni imposte dal carcere sul reperimento e sull’uso di (alcuni) materiali, i detenuti hanno realizzato fotografie, racconti illustrati e oggetti di design, tra cui orologi da taschino, maschere e gioielli. Opere che si fanno portavoce di memorie e desideri, e che trovano una forma unitaria nella mostra Regina Stories, esposizione permanente che animerà il corridoio che separa la prima dalla seconda rotonda della Casa Circondariale del carcere romano, visibile solo agli ospiti e al personale dell’Istituto penitenziario. L’identità racchiude diverse sfumature che i docenti e gli studenti dello IED di Roma hanno cercato di indagare. Si parte dalla memoria e dal ricordo, approfonditi attraverso il laboratorio di illustrazione, dando vita a storie che affondano le radici nei luoghi e nei legami che hanno segnato positivamente il passato dei partecipanti, per poi proiettarsi nel futuro e nella libertà. Con la fotografia, invece, i detenuti hanno realizzato una serie di autoritratti, immortalando un “prima” e un “dopo” grazie all’ausilio delle doppie esposizioni. Infine, la creatività progettuale ha preso forma con il design e con la produzione di collezioni di gioielli e di maschere di carta, nati da storie ed elementi personali degli autori. “Regina Stories”: parola alla direttrice dell’Istituto penitenziario di Regina Coeli Claudia Clementi - “Due mondi apparentemente distanti, quello dello IED e quello di un istituto penitenziario. Eppure, da anni questi due mondi percorrono insieme una strada luminosa che, mi piace sottolineare, non porta bellezza dove non c’è, ma aiuta la bellezza nascosta a manifestarsi”, così parla Claudia Clementi, direttrice di Regina Coeli. “Studenti ‘locali’ e studenti esterni, docenti e artisti partecipano a un processo educativo, nel senso che e-duce dall’interiorità di ciascuno tutte le potenzialità espressive che non si pensa di avere, o che non si pensa gli altri possano avere. Scoprire di essere capaci di realizzare qualcosa, e soprattutto qualcosa di bello, che sarà esposto, mostrato, proprio laddove invece la tendenza è quella a nascondere e a nascondersi, può essere un’esperienza epifanica. Questo accade”, conclude Clementi, “quando le energie circolano, quando le differenze si incontrano”. Milano. Ristorante in carcere, ecco “InGalera”: la storia raccontata in un podcast di Chiara Amati Corriere della Sera, 30 novembre 2023 Si trova dentro al carcere di Bollate, in provincia di Milano, il solo ristorante in Italia aperto al pubblico. Vi lavorano detenuti regolarmente pagati. Con un obiettivo: permettere loro di apprendere la cultura del lavoro o riappropriarsene. E tornare, a fine pena, in società. Oggi la storia di “InGalera”, questa l’insegna del locale, è raccontata in una serie podcast completa Ristorante in carcere, ecco “InGalera”: la storia di un caso unico in Italia raccontata in un podcast Ha suscitato rinnovata curiosità il progetto del ristorante “InGalera”, nato nel 2015 da un’idea di ABC La Sapienza in tavola, cooperativa che fin dal 2003 si occupa di servizi di catering gestiti con lavoratori detenuti ammessi alle misure alternative alla carcerazione. Ha suscitato rinnovata curiosità perché su Spotify e sulle principali piattaformestreaming è ora disponibile una serie podcast scritta e prodotta da Officine del Podcast, con la voce narrante della giornalista Tiziana Ferrario - “InGalera” appunto -, che racconta la genesi, le difficoltà e il successo umano di un esperimento che non ha uguali. Quello, cioè, di un locale gourmet all’interno della IIª Casa di Reclusione di Bollate, carcere di media sicurezza alla periferia nord-ovest di Milano. Un locale raffinato in una prigione aperto, però, agli esterni. “InGalera”, storia di una insegna rivoluzionaria - “Vent’anni fa accettai la proposta “indecente” di Lucia Castellano, l’allora direttrice del carcere che mi portò a fondare ABC La Sapienza in tavola - spiega Silvia Polleri che della cooperativa è presidente. “Signora, vorrebbe aprire un catering con i detenuti a prestare servizio e portarli fuori a lavorare?”, mi chiese. Bellissimo, pensai tra me. Uscivamo dal carcere con la scorta e andavamo, come in missione, a dispensare momenti di felicità a committenti di banchetti vari e ai rispettivi ospiti. Una volta portammo un rapinatore di banche, condannato, a servire ai tavoli di un ricevimento in banca”. Nel 2015 la situazione si ribalta: “Fui io a formulare una proposta alla direzione: “Mi permettereste di aprire un vero ristorante dentro al carcere, che sia però gestito da detenuti e aperto al pubblico?”. Un azzardo. “Il più bello della mia vita perché frutto di vent’anni di appassionato lavoro - tiene a sottolineare Polleri -. Sono stata al servizio della Milano Bene per una vita. Poi, d’un tratto, mi sono trovata a gestire dei detenuti. Un salto non facilissimo. Ma la sfida era esaltante. Ho raccolto il guanto a una condizione. Anzi due: doveva a essere per un anno soltanto, il tempo necessario a portare il bon ton in prigione con tutte le attrezzature necessarie. Missione complicata considerato che per entrare in una casa circondariale ci sono regole ferree. Ma avevo chiarissimo un concetto: nel portare avanti il progetto, non volevo che il nostro catering fosse quello della misericordia. E poi desideravo che l’attività si trasformasse in un lavoro vero e proprio, quindi regolarmente retribuito, per ogni detenuto. Questione di dignità”. Detto, fatto. Dalla scuola alberghiera al ristorante - Il progetto si avvia. Nel 2012 la svolta: all’interno del carcere di Bollate si insedia una sede staccata dell’Istituto alberghiero Paolo Frisi. Obiettivo: formare i detenuti al lavoro in previsione di una nuova vita dopo la pena. Non potevo immaginare nulla di meglio”. Eppure il meglio doveva ancora arrivare. L’annus mirabilis è il 2014 quando Polleri riceve una proposta da PWC, società di consulenza e revisione legale e fiscale. “Mi chiesero di aprire insieme un ristorante, ma serviva una location: in dodici mesi non riuscirono a identificarne una. Così rilanciai: “Perché non dentro al carcere? Avevo anche già pensato al nome: InGalera, ça va sans dire. Lo ammetto, ricordo ancora oggi certi sguardi di chi, con tutta probabilità, era convinto che fossi matta. Massimo Parisi, che nel frattempo era diventato direttore, non si scompose e accettò di buon grado. Pronti, via: anche grazie al sostegno di privati, della Fondazione Cariplo e della Fondazione Peppino Vismara, la prigione di Bollate ebbe il suo ristorante gourmet. Con l’insegna che avevo pensato, ben sapendo che sarebbe stato rischioso. D’altra parte, chi poteva andare a mangiare in una prigione? Ma quello delle carceri è un mondo a sé, sconosciuto ai più e che la gente, se ne ha la facoltà, visita. Così è stato: s’è creato un interesse che dura ancora oggi”. Cosa si mangia “InGalera” - Inaugurato nel 2015 al piano terra dei dormitori delle guardie carcerarie, in uno spazio che può contenere da 50 a 70 posti, “InGalera” da allora ha servito 100mila pasti circa e dato lavoro a un centinaio di detenuti da 30 a 50 anni, a pranzo e a cena. Maître e chef sono professionisti: lo chef arriva dalla scuola di cucina Alma di Gualtiero Marchesi, mentre nella brigata ci sono persone che avevano esperienza nella lavorazione dei cibi, altre invece partite da zero. Le mansioni di sala ed esecuzione del menu affidate ai detenuti - si legge nella Guida Michelin che cita il ristorante - sono allineate, per modalità e risultati, a quelle di altri professionisti del settore. Il menu è gourmand: tra le portate più gettonate per lo più a pranzo ci sono, a titolo di esempio, risotto al nero, moscardini alla luciana e polvere di tarallo; fish and chips di ombrina in porchetta; bavareisa o bicerin all’amaretto. E poi, ravioli di zucca con burro alla nocciola, guanciale e mostarda di mele; tournados di maialino su torretta di patate, salsa al Cortefranca e pere Williams; semifreddo ai cachi. A cena si comincia con una tartara di blonde d’Aquitaine, uovo, acciuga, cappero, senape, worchester sauce. Gli amanti dei primi piatti possono scegliere tra pappardelle al ragù di capriolo o gnocchi di polenta di storo su crema di gorgonzola e gustarsi poi un filetto di manzo alla Voronoff con carote alla parigina. Il tutto da degustare con una delle tante bottiglie di vino - rossi, bianchi, rosé, bollicine - da ogni regione d’Italia. Chi si è seduto a mangiare, di InGalera ha elogiato la cucina: “Eccellente”. Il personale? “Gentile e preparato”. I clienti vengono trattati con i guanti bianchi, accolti da un cameriere in livrea, seguiti per tutto il tempo con garbo e attenzione. Silvia Polleri, una vita spesa per gli altri - Ha la voce fiera Polleri. Di chi ne ha viste tante, ma non abbastanza e per questo sa ancora stupirsi. A 73 anni, due figli e tre nipoti, ha vissuto molte vite: è stata educatrice in una scuola materna prima, ha prestato servizio civile in Uganda insieme al marito medico e ai due bambini, poi ha supportato famiglie in difficoltà nei quartieri più malfamati di Milano e, infine, si è reinventata nella ristorazione, il suo primo amore. “Cucino da che avevo 9 anni. Da quando cioè mia nonna mi pose tra le mani un chilogrammo di moscardini grossi quanto un pollice dicendomi: “Me li puliresti, nanìn?”. Una vera ossessione per me perché il cibo è creatività e fornisce gli strumenti per esaltare la vita. Questa esperienza mi ha insegnato che la ristorazione è un mezzo potentissimo: impone il rispetto delle regole, ma soprattutto insegna ad accogliere. L’accoglienza è la funzione più alta dell’essere umano”. Una rivoluzione gentile quella di Silvia Polleri, Ambrogino d’Oro 2015 “che ho sempre condiviso con tutti perché da sola non avrei fatto nulla”, tiene a puntualizzare lei. Ma anche un rovesciamento della prospettiva che dimostra come i detenuti possano tornare a essere cittadini responsabilmente proattivi all’interno della società. Con un rischio di reiterazione del reato inferiore alla media, proprio grazie a progetti come questo. “Serve consapevolezza, la stiamo generando - conclude Polleri -. Quando guardo dentro la sala da pranzo quel che più mi colpisce è la sorpresa dei commensali: la maggior parte di loro non sapeva neppure dove fosse il carcere. Ora ci torna con piacere. E con la certezza che qui si respira aria di libertà. È una rinascita doppia: dagli errori e dai pregiudizi”. Armando Punzo: “Il mio Teatro Stabile nato in carcere” di Francesco Mazzotta Corriere del Mezzogiorno, 30 novembre 2023 Armando Punzo racconta la storia della Compagnia della Fortezza, da lui creata nel 1988. Nikola Tesla, lo scienziato che dà il nome alle auto elettriche di Elon Musk, ebbe molti lampi di genio. D’altronde, fu il più grande inventore della modernità. Si fantastica fosse nato durante una notte di fulmini. E per questo venne soprannominato Figlio della tempesta, come il titolo dello spettacolo in scena sabato ai Cantieri Koreja di Lecce firmato da Armando Punzo per la Compagnia della Fortezza, da lui fondata nel 1988 nel carcere di Volterra. Ma Musk c’entra ben poco, anzi niente. Punzo, vogliamo partire da qui? “Il personaggio di cui parliamo è il figlio di una tempesta, ma una tempesta creativa. E Tesla è una passione di Andreino Salvadori, il musicista che mi accompagna sul palco”. Vale a dire l’autore di tante colonne sonore per la compagnia... “All’inizio voleva realizzare un concerto con molte di queste musiche, sulle quali poi abbiamo costruito un racconto di quello che abbiamo realizzato, maturando l’idea che dovessi esserci pure io in scena. Ci sono tanti miei monologhi, ma anche diversi dialoghi, attraverso i quali sveliamo la nostra convivenza in quel teatro nel quale lavoriamo da oltre trent’anni”. Un teatro nato in carcere: una forma di salvezza per chi lo porta, non solo per chi lo fa? “Diffido della parola “salvezza” perché mette davanti l’aspetto sociale. Non sono entrato in carcere per il carcere, come vedo fanno molti oggi. Venivo dall’esperienza con il gruppo Avventura legato al teatro di Grotowski e a Volterra avevo creato l’associazione culturale Carte Blanche, proprio davanti al penitenziario di Volterra. Un giorno ho alzato lo sguardo e sono rimasto folgorato dalla metafora della prigione nella quale tutti noi siamo rinchiusi. E ho cercato di trovare una soluzione per me, come artista”. Però è indubbio che riesca a portare i detenuti, anche solo con la mente, oltre le sbarre... “È chiaro che quest’esperienza ha degli effetti su di loro. Ma il teatro ha soprattutto un grande potere di crescita. E, sia chiaro: la mia idea di teatro va oltre il compito della rieducazione, della risocializzazione, questioni che tolgono potenza all’atto creativo. Spesso chi assiste in carcere ai nostri spettacoli, all’inizio pensa di venire a vedere gli animali in gabbia. Il nostro compito è disorientarlo”. Non ha apprezzato il film “Grazie ragazzi” di Antonio Albanese, nel quale, peraltro, recitava Nicola Rignanese, a lungo suo assistente alla regia? “Albanese racconta l’esatto opposto di ciò che ho fatto in tutti questi anni. Ma penso anche a “Cesare deve morire” dei fratelli Taviani, dove il teatrocarcere è servito a fare un film sulla mafia. L’hanno molto premiato. Ma credo ci fosse molto poco da lodare”. Dove sta la potenza del suo teatro? “Nel processo creativo, nel permettere ad ognuno di trovare il proprio posto, la propria dimensione, dopo un lungo percorso di allontanamento da se stessi”. Lavorare con attori non professionisti è un vantaggio? “È diverso. Per questo sono andato in carcere, per sviluppare un teatro che ci appartenesse. Anche se dopo un po’ di anni anche loro diventano professionisti. In scena portiamo un distillato delle loro illuminazioni ed esplosioni, del loro darsi in una dimensione altra agli spettatori, rispetto ai quali lo spettacolo deve essere più forte, se vuole far dimenticare la realtà”. La Compagnia della Fortezza riuscirà a diventare teatro stabile? “Siamo alle fasi finali. L’archistar Mario Cucinella ha vinto il bando per la realizzazione della struttura all’interno del carcere di Volterra. Ci servirà anche per fare molto meglio le attività di formazione. E per portare avanti il progetto “Per aspera ad astra” nel quale sono state coinvolte, su modello della nostra compagnia, tante esperienze nelle carceri italiane. E mi fa piacere ci sia anche il Kismet con la sua attività all’Istituto per minori Fornelli di Bari”. Odiare i poveri è una parte integrante della nostra società malata di Roberto Ciccarelli L’Espresso, 30 novembre 2023 A partire dagli anni Settanta è diventato di moda prendersela con le forme di welfare e accusare chi ne usufruisce di non avere voglia di lavorare o di essere un truffatore. Proprio come avvenuto di recente con l’abolizione del reddito di cittadinanza. Insultare i poveri, il catalogo è ricco: miserabili, debosciati, buoni a nulla, lazzaroni, residui umani, abbrutiti, feccia. Questa non è solo cronaca nazionale. È una storia globale che dura da secoli e ha riscosso un grande successo mediatico, e tra i politici, a partire dagli anni Settanta. (…) Questa è la storia delle welfare queens, le “regine del welfare”. Il nomignolo infamante emerse nel corso degli anni Sessanta negli Stati Uniti dalle colonne del Reader’s Digest e di Look, riviste scandalistiche specializzate in storie sensazionali di madri che “sfruttavano il sistema”. Fu adottato, e trasformato in un’arma politica, da Ronald Reagan nella sua prima campagna presidenziale nel 1976. Qualcosa era accaduto nel frattempo. Due anni prima Linda Taylor, processata per rapimento di bambini e sospettata di omicidi non provati, fu accusata di avere usato due pseudonimi per ottenere 23 assegni sociali.(...) Dalla sua storia criminale è stato estratto un dato secondario, ma centrale per una delle più feroci, e riuscite, battaglie contro l’idea di Stato sociale negli Stati Uniti. Il messaggio era: rubare i soldi dell’assistenza sociale ha la precedenza sui rapimenti e sugli omicidi.(...) Da allora questa forma dell’odio dei poveri ha fatto una lunga strada. Si è incarnato nel fantasma del panico morale che gioca sulle ansie razziste senza evocarle direttamente e ha colpito altri soggetti: non solo lo stereotipo di una donna nera indolente che vive della generosità dei contribuenti, ma anche di tutte le sfumature della povertà che, attraverso i generi, e le appartenenze nazionali, si riproduce nella zona grigia tra il lavoro povero e la deprivazione economica o culturale. In Italia la strategia dell’insulto è stata usata in maniera percussiva sin da quando è stato introdotto il reddito di cittadinanza. I beneficiari del sussidio che avessero rifiutato le offerte di lavoro - al tempo il governo Conte 1 ne aveva prospettate addirittura tre, oggi quello Meloni l’ha ridotta ad una - avrebbero perso il sussidio. Ma prima ancora di entrare in questo circuito infernale, mai ancora iniziato in Italia, i beneficiari del reddito sono stati sottoposti a una cura preventiva fatta di insulti. Il 16 settembre 2018 l’allora vicepremier e ministro del lavoro Luigi Di Maio (Movimento 5 Stelle) parlò del “divanista”… Più contundente è stata l’idea di definire il reddito di cittadinanza come un “metadone di Stato”. L’espressione è diventata una consuetudine lessicale diffusa in Fratelli d’Italia prima di arrivare al governo. La pronunciò la prima volta Giorgia Meloni il 5 settembre 2021 a Napoli. Lo stigma era basato su un’atroce equivalenza: chi è povero è un drogato, in quanto drogato è malato, il povero malato è una patologia sociale. Per curarla bisogna recidere le cause, cioè lo Stato equiparato a uno spacciatore di eroina. L’eroina era associata, in maniera allucinatoria, al reddito di cittadinanza. L’insulto si regge su un’equivalenza aberrante ed è il frutto dell’ignoranza. Il metadone previene i gravi problemi correlati all’assunzione di oppiacei e serve a contrastare la dipendenza. L’espressione è stata invece usata in senso opposto: non allunga la vita, ma porta alla morte. La metafora tossicologica del reddito di cittadinanza è stata una forma dell’odio di classe. Lo Stato non deve rendere dipendenti i poveri, ma disintossicarli eliminando la dose mensile del sussidio. Lo stesso sussidio va elargito alle imprese che però non sono considerate “tossicodipendenti”. Oggi l’insulto ha raggiunto il risultato: confermare il fatto che le imprese sono soggetti giuridici più reali delle persone in carne ed ossa. E che lo Stato sociale, quando non è uno spacciatore di sussidi ed è “in salute”, mette i poveri al servizio del mercato. Il loro benessere dipende dalla capacità di realizzare profitti da parte degli imprenditori. Migranti. Piantedosi: “Mai nessun minore nei Cpr, il modello Albania è ripetibile” di Federico Monga e Andrea Joly La Stampa, 30 novembre 2023 Il ministro dell’Interno: “All’Italia servono più centri di permanenza per il rimpatrio. L’accordo con Tunisi ha funzionato. Crosetto è equilibrato, ha già chiarito con l’Anm”. I migranti minori “non saranno mai trattenuti nei Centri di permanenza per il rimpatrio”. L’accordo con l’Albania “ha attirato l’attenzione degli altri Paesi e può essere replicato, in Europa e in Italia”. Quello con Tunisi “sta funzionando: hanno fermato oltre 60 mila partenze”. E sull’emergenza femminicidi “le forze dell’ordine sono preparate ma continueremo a lavorare sulla formazione degli agenti”. Il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi traccia una linea delle emergenze in corso del nostro Paese. E sulla sensazione di insicurezza dei cittadini afferma “va in controtendenza rispetto ai dati che abbiamo. Siamo tra i più sicuri ma gli italiani non lo percepiscono, questo governo ha rispetto di questa sensazione e lavora per migliorare su ogni aspetto”. Ministro, i decreti del suo governo prevedono che ci sia la possibilità di trattenere i minori nei Cpr: non si rischia di andare incontro a nuove bocciature anche alla luce della sentenza da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo? “La legge internazionale prevede che il minore debba avere un trattamento differenziato. È un principio giusto e sano, ma l’escalation di arrivi e l’assenza di strutture dedicate portano, a volte, all’impossibilità di rispettare questi paletti: noi abbiamo previsto che i minori possano essere trattenuti anche in strutture non strettamente dedicate a loro ma per un periodo limitato e che ci sia comunque un riguardo per quella che è la loro età”. Non è prevista la detenzione dei migranti minorenni nei Cpr, quindi? “Né il decreto Cutro né nessuna normativa nazionale ha previsto la possibilità di trattenimento ai fini dell’espulsione o comunque come forma di privazione della libertà personale dei minorenni”. I giudici però sono già andati contro le nuove normative, applicando le leggi internazionali. Il giudice Apostolico a Catania e il tribunale di Firenze hanno applicato questo principio insindacabile... “I giudici hanno ritenuto che non vi fossero queste condizioni di rispetto della normativa internazionale, noi sosteniamo esattamente l’inverso: abbiamo cercato di applicare in quel contesto una normativa che prevede il trattenimento in determinate condizioni dei richiedenti asilo. Ora deciderà la Cassazione e io sono molto rispettoso della funzione della Giustizia”. Non si iscrive al partito di chi ritiene che i giudici italiani facciano opposizione politica, come Guido Crosetto? “Non voglio entrare in queste polemiche. Crosetto ha chiarito, anche con il presidente dell’Associazione Nazionale dei Magistrati. È una persona molto equilibrata, avveduta, quello che ha detto avrà avuto un’ottima ragione per dirlo. Per quel che mi riguarda dico: le questioni di Giustizia si risolvono nelle aule di Giustizia tanto quanto le questioni politiche si risolvono nelle sedi politiche”. Non si corre il rischio di alimentare uno scontro tra corpi dello Stato? “Tutti si devono impegnare perché ciò non accada. I politici e i magistrati: non è che la storia non ci abbia mai presentato casi in cui da parte della magistratura ci siano stati interventi politici. Quindi l’impegno deve essere bipartisan”. Rimaniamo sui migranti. L’accordo con la Tunisia non ha funzionato: la colpa è di Saied? O dell’Europa? “Mi permetta di contraddirla: quell’accordo sta funzionando. La Polizia ha fermato più di 60 mila partenze”. Ma i migranti continuano ad arrivare... “La situazione è più complessa. L’Italia è riuscita ad affermare in Europa un approccio più olistico sui temi dell’immigrazione. Ovvero che si debba migliorare il versante economico-sociale dei Paesi di origine e di transito dei migranti per contenere i fenomeni immigratori regolari. Ora gli accordi vanno ampliati: non solo con la Tunisia, ma anche con l’Egitto, la Costa d’Avorio e altri Paesi strategici”. Veniamo all’intesa con l’Albania. Sarà un Cpr o no, quello costruito a casa di Edi Rama? “Il centro avrà molteplice funzioni. La prima di sbarco, E sarà strutturato come in Italia per i primi trattamenti forniti dal personale sanitario e per l’identificazione da parte delle forze di Polizia. E poi di trattenimento e permanenza. La normativa europea prevede fino a 18 mesi, ma ovviamente cercheremo di non arrivare a tanto” Come si gestisce un centro lontano dai confini? “Guardi, l’Albania è tre volte più vicina alle nostre coste rispetto a Lampedusa. Quell’area sarà sottoposta alla giurisdizione italiana, sarà come un’isola italiana con norme e personale nostro”. Perché allora andare all’estero? “Fa parte di un progetto complessivo, di realizzazione di Cpr in tutte le Regioni, ma sicuramente anche di deterrenza per le partenze. Oltre a concretizzare una collaborazione con l’Albania che è vicina a entrare in Europa”. Rimarrà un unicum? “C’è un grande interesse da parte di molti Paesi, come la Germania. Attenderei lo sviluppo del progetto prima di mostrare diffidenza. Non si può escludere che anche noi, se funzionerà, potremmo replicarlo”. Entro quando sarà operativo? “L’obiettivo è che ci sia prova tangibile del progetto entro il primo semestre del 2024”. La sicurezza, però, non è un tema che riguarda solo l’immigrazione. Gli omicidi sono diminuiti, i femminicidi no. Anzi... “Noi abbiamo messo in campo un intervento normativo per intercettare prima chi è violento: il femminicidio è solo l’apice tragico di maltrattamenti continui. La legge può fare tanto, ma non tutto”. Serve insegnare l’educazione affettiva a scuola? “La scuola fa già tanto, credo che in tutti gli ambiti si possa incidere su una cultura che troppo a lungo ha visto, da parte dell’uomo nei confronti delle donne l’esercitazione di un dominio. Una prevaricazione che poi si trasforma in qualcosa di peggio”. Forse deve migliorare anche la Polizia, accusata sui social da migliaia di donne di non ascoltare le loro denunce, come ha dimostrato il caso del post... “Abbiamo altrettante testimonianze positive sull’operato della Polizia in queste occasioni. Esistono almeno 300 stanze rosa tra Polizia e Carabinieri e gli agenti sono preparati da anni, ma proseguiremo con i percorsi di formazione”. Sembra non bastare, come non bastano i risultati ottenuti con i braccialetti elettronici... “Con il disegno di legge firmato insieme ai ministri Roccella e Nordio abbiamo previsto un’agevolazione del loro utilizzo”. Anche la violenza giovanile è in aumento... “È un fenomeno che probabilmente affonda le sue radici nell’attenuazione dei riferimenti culturali e identitari dei giovanissimi. Non è un caso se l’aumento di reati giovanili sia arrivato nel periodo immediatamente successivo allo scoppio della pandemia: il Covid ha creato i presupposti per l’isolamento e sono venuti meno i riferimenti esterni”. Cosa fa il governo per questa emergenza? “Portiamo il progetto Palestre della Legalità nei luoghi più sensibili, come Caivano, ma anche a Palermo, Napoli, Torino”. I dati dicono che l’Italia è tra i Paesi più sicuri al mondo, ma i cittadini non si sentono protetti... “Ho molto rispetto della percezione di insicurezza che respirano i cittadini, anche se è vero che i dati dicono il contrario. Lo Stato deve lavorare proprio su questo aspetto”. Ha incontrato il sindaco di Torino che rivendica uno scarso numero di agenti e si dice non in grado di garantire la sicurezza in città... “A Torino entro fine anni avremmo assunto 248 agenti in più. Un potenziamento garantito dalla manovra con un piano che andrà avanti fino al 2033 in tutta Italia”. Il sottosegretario Delmastro rinviato a giudizio per rivelazione del segreto d’ufficio. L’opposizione ne chiede le dimissioni... “Le opposizioni in altri casi sono state, giustamente, fedeli custodi di principi del nostro ordinamento costituzionale che prevedono la presunzione di innocenza fino a sentenza definitiva. Non vedo perché non debba essere applicata anche per il caso di Delmastro. Anche il pm e il giudice avevano punti di vista diversi”. Migranti. Strasburgo condanna l’Italia per detenzione arbitraria di minori stranieri in un hotspot di Fulvio Vassallo Paleologo Il Manifesto, 30 novembre 2023 La Corte europea dei diritti umani condanna ancora una volta l’Italia per detenzione arbitraria in un hotspot di minori stranieri non accompagnati, giunti a Taranto nel 2017. La Corte europea dei diritti dell’Uomo, con una sentenza del 23 novembre scorso, ha condannato ancora una volta l’Italia per la detenzione arbitraria senza basi legali in un centro di accoglienza/detenzione “Hotspot”. In questo caso di minori stranieri non accompagnati, giunti a Taranto nel 2017. I giudici di Strasburgo hanno sanzionato l’Italia anche per trattamenti inumani e degradanti, per il sovraffollamento della struttura, per la mancata nomina di un tutore, e per la violazione degli obblighi di informazione. Condizioni che ad ogni accesso nelle strutture di prima accoglienza, comunque denominate, si verificano ancora oggi. A tale proposito, in merito all’assenza di una base giuridica chiara e accessibile per la detenzione amministrativa, la Corte di Strasburgo non riscontra l’adempimento degli obblighi di informazione, che avrebbero potuto garantire ai ricorrenti la possibilità di contestare i motivi della loro detenzione. La Corte di Strasburgo osserva inoltre che il governo non ha indicato alcun rimedio specifico con il quale i ricorrenti avrebbero potuto presentare un reclamo relativo alle loro condizioni di accoglienza nell’hotspot di Taranto e dunque afferma che vi è stata una violazione dell’articolo 13 in combinato disposto con l’articolo 3 della Convenzione europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo. La Corte sottolinea il carattere arbitrario della detenzione amministrativa, di fatto un trattenimento informale, a fronte dell’impossibilità per i ricorrenti, minori non accompagnati, di lasciare la struttura dell’hotspot di Taranto, in violazione degli articoli 5 e 1 f) della Convenzione EDU. Quanto affermato dalla Corte, che nel diritto interno si sarebbe potuto fare valere con il richiamo all’art. 13 della Costituzione italiana, e del principio del superiore interesse del minore contenuto nella legge 47/2017, contrasta con le varie forme spurie di accoglienza/trattenimento di minori stranieri, contenuti nel recente decreto legge n.133/2023, che prevede, qualora si verifichino “arrivi consistenti e ravvicinati nel tempo”, per i minori di età non inferiore a sedici anni, la prima accoglienza in sezioni separate dei centri per adulti, ex “legge Puglia”, o nei Centri di accoglienza straordinaria (CAS) gestiti dalle Prefetture, fino a 90 giorni, prorogabili per ulteriori 60 giorni, senza alcuna previsione che in questo periodo sia garantita l’informazione, la comunicazione di provvedimenti individuali, la nomina di un tutore o una effettiva separazione dei minori rispetto agli adulti. Lo stesso decreto prevede poi altre “strutture ricettive temporanee esclusivamente dedicate ai minori non accompagnati…che abbiano compiuto quattordici anni”, nelle quali la condizione giuridica delle persone che vi saranno “ospitate” appare priva di base legale. La condanna non sorprende, colpisce piuttosto la pervicacia del governo che, con una raffica di decreti legge, per finalità propagandistiche, e con accordi con paesi terzi che prefigurano prassi di polizia in violazione dei principi affermati dalla Corte di Strasburgo, adotta politiche di “gestione dei flussi migratori” in contrasto con i principi cardine dello Stato di diritto (rule of law) affermati dalle Convenzioni internazionali e dalla Costituzione, in particolare in materia di garanzie della libertà personale, di diritti di difesa e di tutela dei minori. E ancora, se mai il Protocollo Italia-Albania troverà attuazione, chi effettuerà l’accertamento dell’età dei minori, che si dovrebbe presumere, e con quali garanzie? Il decreto legge n.133/2023 prevede un accertamento socio-sanitario dell’età affidato all’autorità di pubblica sicurezza, nell’immediatezza dello sbarco, “sulla base di rilievi antropometrici o altri accertamenti sanitari, anche radiografici”. Una procedura assai discrezionale, se si paragona con quanto prevedeva la legge Zampa n. 47 del 2017, soprattutto perché si introduce l’espulsione di “minori” che, dopo questo primo accertamento, siano condannati in base all’art. 495 del Codice Penale per avere dichiarato un età diversa da quella accertata. E la presunzione di minore età? Siamo sempre più lontani dalla tutela del “superiore interesse del minore”. La sentenza della Cedu, come le precedenti condanne dell’Italia su analoghi casi di arbitraria privazione della libertà personale, ma si potrebbe anche richiamare la Corte Costituzionale (sentenza n.105/2001), conferma la correttezza dell’impostazione fornita dai giudici del Tribunale di Catania che non hanno convalidato, proprio per la mancanza di basi legali, una serie di trattenimenti informali nel centro Hotspot di Modica-Pozzallo e costituisce un chiaro indirizzo che non potrà essere trascurato dalla Corte di Cassazione che si occuperà dei ricorsi proposti dal governo contro le decisioni dei giudici catanesi. Unhcr: “Preoccupano i Centri per migranti nei paesi terzi” “È doloroso vedere che le discussioni si intrecciano con il populismo e la demagogia. La tendenza preoccupante di esternalizzare le procedure di asilo mandando i migranti in paesi terzi non fa che alimentare i timori per i diritti dell’uomo”, ha detto l’Alto commissario per i diritti umani Volker Turk. L’Alto commissario per i diritti umani (Unhcr) Volker Turk si è detto preoccupato per la creazione di centri per i migranti nei paesi terzi. Il riferimento è al protocollo firmato tra l’Italia e l’Albania dalla premier Giorgia Meloni e il suo omologo Edi Rama. “La situazione per di migliaia di migranti rifugiati in Europa resta estremamente difficile. È doloroso vedere che le discussioni si intrecciano con il populismo e la demagogia. La tendenza preoccupante di esternalizzare le procedure di asilo mandando i migranti in paesi terzi non fa che alimentare i timori per i diritti dell’uomo”, ha detto Turk parlando all’Eurocamera. “Il patto Ue sulla migrazione è una chance di andare oltre le dichiarazioni politiche. Spero che i negoziati siano basati sempre sul rispetto dei diritti”, ha spiegato Turk. Sul protocollo si è espressa anche la commissaria europea agli Affari interni Ylva Johansson, che ha accompagnato Meloni per la firma del Mou con il presidente tunisino Kais Saied, si è limitata a dire che “l’Italia sta rispettando il diritto dell’Unione europea, quindi le regole sono le stesse, ma dal punto di vista legale non è la legge dell’Ue, bensì la legge italiana che segue la legge dell’Ue”. L’accordo con l’Albania - Secondo l’accordo, l’Italia trasporterà in Albania i migranti soccorsi in mare dalle imbarcazioni della Guardia costiera e della Guardia di finanza. Arriveranno al porto di Shengjin, dove saranno smistati e identificati, prima di essere mandati a Gjader, in una struttura simile a un centro di permanenza per il rimpatrio (cpr). Il governo italiano stima che in Albania transiteranno circa 36mila migranti l’anno, non più di tremila alla volta. Il costo dell’operazione per l’Italia è di circa 16.5 milioni di euro per il primo anno e l’accordo ha validità di cinque (prorogabili). L’Unione europea e l’Islam, i rischi da evitare di Maurizio Ferrera Corriere della Sera, 30 novembre 2023 Oggi vivono nell’Unione europea 26 milioni di musulmani (il 5% del totale), una cifra in rapida crescita sia per i più alti tassi di fertilità sia per i flussi migratori. L’integrazione non è facile. È possibile che fra qualche mese l’Olanda abbia un primo ministro apertamente “islamofobo”. Si tratta di Geert Wilders, vincitore delle ultime elezioni. Nel suo programma c’è la proposta di bandire le moschee e le scuole coraniche, vietare il velo islamico negli edifici pubblici, bloccare l’immigrazione. Domenica prossima Wilders sarà a Firenze, invitato da Salvini al convegno dei partiti appartenenti al gruppo parlamentare “Identità e Democrazia”, tutti variamente impegnati a combattere la cosiddetta invasione musulmana dell’Europa. Una strategia che in parte riflette e in parte cavalca radicati pregiudizi culturali e religiosi nei confronti di una comunità percepita come estranea ai valori occidentali. La crescente ostilità verso l’Islam potrebbe scatenare anche nel cuore dell’Europa quello “scontro di civiltà” per ora concentrato nelle aree più calde del Medio Oriente. Uno scenario allarmante. Oggi vivono nell’Unione europea 26 milioni di musulmani (il 5% del totale), una cifra in rapida crescita sia per i più alti tassi di fertilità sia per i flussi migratori. Entro i prossimi 30 anni si stima che il numero possa salire fino a 75 milioni (14%). In Germania le comunità islamiche arriverebbero a costituire il 20% della popolazione, in Francia il 18%, in Italia il 15%. Sappiamo che l’Islam non è solo una fede in senso stretto, ma una pratica di vita, ispirata da valori tradizionali e patriarcali. Ciò che più contrasta con l’ethos europeo è la difficoltà di separare la sfera religiosa-culturale da quella pubblica. Rispettare il principio di laicità e i diritti fondamentali dell’individuo richiede un delicato processo di apprendimento. Le politiche di inclusione giocano qui un ruolo fondamentale. Molti studi hanno dimostrato che, se hanno l’opportunità di integrarsi, gli immigrati musulmani sono capaci di adattarsi e assimilare i capisaldi della cultura e delle norme di convivenza europee. L’integrazione non è facile. Le manifestazioni esteriori dell’appartenenza all’Islam rendono i suoi fedeli facilmente riconoscibili e attivano categorizzazioni, pregiudizi e anche crimini d’odio da parte dei nativi. Secondo i sondaggi, almeno un terzo dei musulmani residenti hanno subito atti di discriminazione o violenza negli ultimi dodici mesi. Ci sono due gruppi minoritari all’interno del mondo islamico europeo che suscitano oggettiva preoccupazione. Innanzitutto i fondamentalisti religiosi, sostenitori di un califfato islamico globale basato sulla Sharia. In Germania i servizi segreti stimano la presenza di più di 25 mila fanatici, di cui duemila potenziali attentatori. Numeri che non possono certo essere sottovalutati. Il secondo gruppo è costituito dalle masse di giovani disoccupati di seconda o terza generazione, i quali non riescono a integrarsi e affollano le periferie di città come Parigi, Berlino, Amsterdam, Londra, Copenaghen e Stoccolma. In Francia si contano più di 750 “Zus” (zone urbane sensibili), dove vivono circa 6 milioni di giovani totalmente privi di punti di riferimento. Non si identificano con la cultura della famiglia di origine e detestano quella del Paese in cui vivono. Questa sotto-classe di esclusi diventa bacino di reclutamento per il fondamentalismo e principale bersaglio della crescente islamofobia. In Germania il movimento di estrema destra “Patrioti Europei” (Pegida) chiama questi giovani “rapefugees” (dal verbo inglese to rape, violentare e refugee rifugiato), in quanto presunti esponenti di una “jihad sessuale” contro le ragazze bianche. La quota di elettori della Ue che votano partiti con orientamenti islamofobi è oggi pari al 14%, il triplo rispetto al 5% di vent’anni fa e il doppio rispetto alla percentuale di popolazione musulmana residente in Europa. La situazione internazionale influisce su questa tendenza di crescita. Nelle nostre città abbiamo recentemente visto molte manifestazioni di protesta contro Israele e a favore dei palestinesi. Seppure meno visibili, si sono moltiplicati però anche i crimini d’odio contro i musulmani, oltre che contro gli ebrei. Il conflitto arabo-israeliano non è più soltanto un “affare estero”, ma un sempre più divisivo “affare interno”. Due anni fa un gruppo di generali francesi in pensione evocò l’opportunità di una guerra civile per difendere il modello francese dalla minaccia delle “orde islamiche” delle periferie. Macron ha avviato un foro di dialogo volto a promuovere un “Islam francese”. Una buona idea, ma subito boicottata e infiltrata da agenti della Fratellanza Musulmana. L’Europa ha perso un’occasione storica di aiutare l’islam moderato e le correnti laiche durante le cosiddette primavere arabe. Oggi la Ue deve fronteggiare una sfida più complessa e cruciale: pacificare le tensioni crescenti al proprio interno, contenendo da un lato la radicalizzazione fondamentalista e disattivando dall’altro la spirale dell’islamofobia. Il conflitto a Gaza potrebbe incendiare anche la Siria di Eugenio Occorsio L’Espresso, 30 novembre 2023 Uno Stato diviso. Oggetto degli interessi di Iran, Russia, Turchia e Stati Uniti. Se la situazione esplode nel Paese del dittatore Assad la guerra rischia di estendersi in Medio Oriente. La Siria incombe come l’ennesima minaccia che la guerra in Israele degeneri in un conflitto più ampio: in nessun Paese al mondo come in Siria esiste un coacervo di interessi così concentrato e pugnace, prova ne sia la guerra civile “tutti contro tutti” scoppiata nel 2011, che cova tuttora sotto la cenere e ha provocato 640 mila morti, seconda nel XXI secolo solo alla “Seconda guerra del Congo” (2000-06) che di vittime ne ha fatte 5 milioni. Proviamo a ricostruire il puzzle siriano, visto che il conflitto di Gaza può essere la miccia per l’escalation militare nel Paese confinante altrettanto strategico. Seconda premessa: il governo di Damasco è sostenuto storicamente da Mosca, e indirettamente da Teheran. Gli Stati Uniti da anni stanno provando a disimpegnarsi ma come in altre proxy war devono calibrare l’uscita anche se hanno in Siria ormai poche postazioni, residuo della guerra all’Isis, con 9 mila uomini (la metà di quelli che rimangono in Iraq). Ecco le parti in causa. Il presidente Bashar al-Assad è ancora al suo posto nonostante pesi su di lui la denuncia dell’Onu di aver arrestato, torturato o fatto sparire 130 mila oppositori, nonché di aver usato armi chimiche contro la sua gente ignorando le risoluzioni che gli imponevano di abolirle. I giudici francesi hanno emesso un mandato d’arresto per Assad il 14 novembre per il massacro di Douma dell’agosto 2013 quando furono gasati 1.400 civili nel più grave attacco chimico del XXI secolo, e due giorni dopo la Corte dell’Aja gli ha ingiunto di fermare le torture sugli oppositori. La seconda componente etnica dopo gli arabi in Siria sono i curdi (7,5 milioni su 25 milioni in totale), asserragliati nella regione nord-orientale del Rojava. Con loro il regime ha una fragile intesa di non antagonismo che li tiene in sospeso nell’eterna ricerca di una loro terra. Va peggio ai confinanti curdi di Turchia, che sono riusciti a esprimere un partito d’opposizione il cui capo Selahattin Demirtas langue però nelle carceri di Recep Tayyp Erdogan. Pochi giorni fa i droni turchi hanno distrutto la casa in territorio siriano di Shibi Derik, un dirigente curdo sospettato di terrorismo. Sullo scacchiere siriano si muovono poi gli oppositori tuttora attivi a Dara’a, la città al confine con la Giordania dove nacque la “primavera” nel 2011 sotto forma di richieste di riforme liberali, sfociata in guerra civile. Un nutrito manipolo jihadista di oppositori ha poi base a Idlib, nel Nord-Ovest del Paese: il contrasto ai miliziani spetterebbe ad Ankara sulla base di un’intesa russo-turca, ma nell’incertezza si sono scatenati a metà novembre i jet russi con un bombardamento che ha lasciato sul terreno cento fra morti e feriti. E ci sono infine le ultime frange dell’Isis, a cui è legata la conclusione della fase più calda della guerra civile che ha causato 7 milioni di profughi. Il gruppo terroristico, nato in sordina alla fine del secolo scorso, si attrezzò proprio per spodestare Assad, inizialmente visto con favore dagli americani. “È una falsità e una grossolana esagerazione che sia stato addirittura addestrato dalla Cia, come spesso si sente dire”, puntualizza Laura Mirachian, già ambasciatrice a Damasco e profonda conoscitrice dell’area. “Ma è vero che gli americani, come altri Paesi occidentali, visto che faceva gioco l’opposizione al regime, all’inizio sottovalutarono il potere eversivo di questo gruppo paramilitare in cui erano affluiti i reduci di al-Qaeda, contribuendo di fatto alla sua trasformazione nella minaccia per il mondo intero che tutti ricordiamo con orrore”. L’emiro Abu Bakr al-Baghdadi proclamò la nascita dello “Stato islamico” fra Iraq e Siria, il 29 giugno 2014. Seguì un’ondata di efferatezze che perse di vista l’obiettivo del controllo di Damasco, finché contro l’Isis si coalizzarono tutti: americani, russi, australiani, canadesi, israeliani, inglesi, iraniani, arabi, le stesse forze armate siriane, nonché - fattore decisivo - i curdi sostenuti dagli Usa (che poi non hanno avuto in cambio la promessa autonomia né in Siria né altrove). Mentre i peshmerga combattevano a terra, gli americani bombardavano le basi in Siria a partire dal 23 settembre 2014 e il 30 attaccarono i russi. Il 17 ottobre 2017 cadde Raqqa, la città siriana eletta capitale del califfato al pari dell’irachena Mosul, bombardata anch’essa a tappeto e caduta negli stessi mesi. La lotta contro l’Isis non è priva di conseguenze: “Delle sospirate riforme, Assad ne ha fatte ben poche; ha salvato se stesso e la sua famiglia però ha pagato con l’isolamento, pesanti sanzioni occidentali e la perdita di autonomia e potere politico”, riprende Mirachian, una delle poche donne del corpo diplomatico con il grado di ambasciatore. “Assad - conferma Stefano Silvestri, già sottosegretario alla Difesa e consulente di vari governi - è una specie di sovrano dimezzato, incapace di controllare le milizie che imperversano nel suo Paese, dagli hezbollah che risalgono dal Libano fino ai tanti gruppi sparsi, più o meno sempre vicini all’Iran, periodicamente attaccati dagli israeliani e dagli americani, che sono arrivati a bombardare gli aeroporti di Damasco e Aleppo quando arrivavano carichi sospetti da Teheran”. Proprio sul ruolo dell’Iran si stanno addensando, in questi giorni di guerra a Gaza, pesanti sospetti: si teme che Teheran voglia sfruttare il momento di generale spaesamento per creare un “corridoio” logistico-militare attraverso Iraq, Siria e Libano, che lo porti fino al Mediterraneo. È la “Mezzaluna sciita” che da decenni turba i sonni di tutti: da Washington a Gerusalemme.